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AMMOSTAMENTO A DECOZIONE Reliquia del passato o scelta di qualità?

Quante volte avete sentito o avete pronunciato questa frase? A me l’hanno detta un sacco di volte ma non sono riusciti a placare quell’irrefrenabile voglia di perdere qualche ora

(poi giorno, poi mese...) per scoprirne di più sulla decozione. Se anche voi siete un po’ curiosi o se siete tra quelli che usano il malto melanoidinico, vi invito a leggere i risultati dei test che ho effettuato.

Trattandosi di un metodo complesso e da molti ritenuto obsoleto, sono stati in molti a sconsigliarmelo ma, essendo ancora oggi utilizzato, non riuscivo a comprendere come potesse essere sostituibile da una semplice modifica nella scelta dei malti. La teoria sui libri afferma che la decozione, nonostante la maggiore complessità di esecuzione, la necessità di un impianto idoneo e le tempistiche dilatate, apporta notevoli cambiamenti al prodotto birra, spesso ricercati in stili tedeschi e cechi. Non solo favorisce la formazione di melanoidine, ma migliora anche la scomposizione dell’amido del malto aumentandone la resa in estratto e crea composti proteici che flocculano prima di arrivare in bollitura creando meno residui in caldaia e più prodotto trasferito al fermentatore. Ma facciamo un passo indietro. Di preciso come funziona questo tipo di ammostamento? La decozione prevede il raggiungimento delle pause enzimati- che tramite l’estrazione di una porzione di mosto poco dopo il mash-in che viene trasferita in una caldaia separata e portata a bollore. Alla temperatura di 100 °C viene reimmessa nell’intera miscela provocandone il riscaldamento fino alla pausa enzimatica successiva. L’ammostamento a decozione può prevedere una tripla, doppia o singola estrazione e bollitura delle porzioni di mosto. La scelta del metodo è guidata da varie ragioni: il grado di complessità che si vuole dare alla birra, le caratteristiche dello stile prodotto, le materie prime utilizzate. Le declinazioni e gli adattamenti di questa tecnica sono davvero molteplici. Alcuni birrai hanno convenuto sul fatto che è meglio portare a ebollizione solo la parte liquida per evitare l’estrazione di tannini dai grani a seguito della bollitura e la conseguente astringenza percepibile nel prodotto birra. L’utilizzo di orzo distico maltato, dato il suo contenuto amidaceo in percentuale maggiore rispetto al suo rivestimento esterno, però riduce considerevolmente l’estrazione di tannini. Il controllo del pH e il suo mantenimento sotto il valore di 5,4 durante l’ammostamento si rivela altresì indispensabile. Bisogna inoltre tenere in considerazione che gli enzimi si trovano in prevalenza in soluzione nel liquido e che con le alte temperature si denaturano, cessando la loro attività in modo permanente. È per questo motivo che a inizio ammostamento si tende a portare a bollore porzioni più dense, mentre a fine ammostamento, per aiutare la disattivazione dell’attività enzimatica e raggiungere il mash-out, si preferisce prelevare una porzione più liquida. Il vero ostacolo per molti è in realtà molto più pratico: come trasferire il mosto con i grani e come portarlo a ebollizione se la sala cotta non è pensata per farlo? Il rischio di creare ostruzioni nei tubi e nella pompa, se non progettati per trasferire mosti densi, è infatti molto alto.

Dalla teoria alla pratica

Con tante nozioni in testa mi sono messa all’opera e ho prodotto due campioni di Bohemian Pils applicando la stessa ricetta ma utilizzando due metodi di ammostamento differenti: l’infusione e la decozione. La delicatezza aromatica di questo stile ha permesso di percepire le variabili apportate dai due processi produttivi nei test sensoriali che ho in seguito condotto. Ho prodotto le due birre con un impianto da homebrewing all-inone da 30 litri e una pentola riscaldata a fiamma diretta utilizzata per la doppia decozione delle porzioni di mosto. L’intento di mantenere tutte le variabili fisse ha prodotto una ricetta adattata a entrambi i sistemi di ammostamento con un rapporto iniziale tra grani e acqua di 1:4 (4,5 kg di malto Pils e 18 litri di acqua) e le seguenti pause enzimatiche:

❱ Mash-in a 52 °C con 5 minuti di pausa proteica per permettere la miscelazione dei grani, il controllo del pH e l’acidificazione del mosto;

❱ rampa di 15 minuti per arrivare a 62 °C effettuata in entrambi gli ammostamenti per infusione;

❱ pausa a 62 °C per l’attività delle β-amilasi, mantenuta per 60 minuti nel mosto a decozione e per 40 minuti nel mosto a infusione;

❱ pausa a 71 °C per l’attività delle α-amilasi mantenuta per 20 minuti nel mosto a infusione e per 50 minuti nel mosto a decozione;

❱ mash-out a 77 °C con ricircolo di 10 minuti prima di effettuare lo sparging.

I tempi più dilatati delle pause nell’ammostamento a decozione comprendono il mantenimento dell’intera miscela alla temperatura desiderata, il tempo per l’estrazione dei grani e del liquido, il riscaldamento lento della porzione estratta con attesa di reazione negativa al test dello iodio nel caso del primo decotto e l’innalzamento della temperatura fino a raggiungere la bollitura, mantenuta per 10 minuti per la prima decozione e per 5 minuti per la seconda. La percentuale di miscela estratta per entrambe le decozioni è stata pari al 35% circa (8 litri totali) con un’unica differenza nella densità delle due: per la prima decozione si è estratta una miscela più densa, mentre per la seconda più liquida. Alla fine della filtrazione e dello sparging con 14 litri di acqua, il volume pre-boil del mosto ottenuto per decozione era di 29,5 litri con una densità di 10 °P. Il mosto ottenuto per infusione invece era di 29 litri con densità di 9 °P. La durata della bollitura è stata di 75 minuti con tre gittate di luppolo Saaz a 60, 30 e 5 minuti per un totale di apporto in amaro di 29 IBU. Per effetto della bollitura il mosto si è concentrato di 1,6°P in entrambi i casi arrivando a ottenere 20,5 L a 11,6 °P di mosto ottenuto per decozione e 20 L a 10,6 °P con l’infusione. A seguito della fermentazione con lievito secco Saflager W-34/70 e di una lunga maturazione a freddo ho ottenuto i seguenti risultati: la tabella va qui di seguito

Gli assaggi

Al fine di determinare l’esistenza di una differenza percepibile a livello sensoriale tra i due prodotti ho scelto di condurre alcuni test sensoriali su un panel di assaggiatori che consumano birra di frequente, non tutti necessariamente con esperienza pregressa in analisi degustativa o operanti nel settore birrario. Nonostante non sia stato possibile ricreare un ambiente privo di stimoli sensoriali esterni, come in una cabina di degustazione da laboratorio, ho cercato di ridurre al minimo possibili interferenze ed elementi disturbanti, scegliendo momenti e luoghi tranquilli per condurre i test.

Test triangolare

Per stabilire se esistono delle differenze percepibili tra i due prodotti i 30 assaggiatori hanno ricevuto tre campioni, di cui due identici, da 10 cl cad. e hanno dovuto identificare quale dei tre era il campione diverso. Se non percepiscono differenze devono comunque fare una scelta. I campioni non erano in alcun modo riconoscibili da chi assaggia e sono stati serviti in bicchieri non trasparenti, semplicemente codificati da numeri di 3 cifre. A livello statistico per concludere che esiste una differenza significativa tra i campioni si dovevano ottenere almeno 15 risposte esatte su 30. I risultati dei test effettuati con i campioni di Pils hanno evidenziato 14 soggetti che hanno riconosciuto il campione diverso. Trattandosi di due campioni molto simili, prodotti con le stesse materie, si può constatare che esiste una differenza tra i due campioni, anche se non sostanziale.

CATA Test

Il secondo test effettuato, il CATA Test, è mirato a ottenere informazioni su come vengono percepiti i due campioni a livello sensoriale. 50 assaggiatori hanno ricevono i due campioni identificati con codici numerici e una scheda con una lista predefinita di attributi generati a seguito di uno studio pilota. Prima di effettuare il test gli assaggiatori sono stati istruiti sul significato di alcuni termini qualora avessero dubbi in merito o non ne fossero a conoscenza. Analizzando i risultati ottenuti si evince un maggiore stimolo sensoriale dato dal campione B (decozione), con un totale di descrittori attribuitigli pari a 216 contro i 204 al campione A (infusione). Nel dettaglio, secondo quasi la metà del panel di assaggiatori il campione B è risultato maltato e, più precisamente, 21 assaggiatori percepiscono sentori di cereale mentre 18 avvertono sentore di crosta di pane. L’amaro e il dolce quasi si equivalgono, con una leggera flessione verso l’amaro che ha ricevuto due punti in più rispetto alla voce “dolce”, lasciando pensare a un bilanciamento tra loro. È risultato, a sorpresa, più luppolato rispetto al campione A con note erbacee per 13 soggetti e floreali per 10 soggetti. Nel campione A sono state invece percepite note di cereale, miele e sentori fruttati e il corpo è risultato più secco rispetto al campione B. L’amaro e il dolce in questo caso si bilanciano con 18 indicazioni su entrambe le voci. Confrontando il resto delle valutazioni, inaspettatamente il campione A è stato percepito più astringente. Interpretando i risultati ed essendo a conoscenza del più alto contenuto di destrine nel campione B, che donano dolcezza, posso ipotizzare che l’amaro percepito da 21 persone sia in realtà anche conseguenza dell’estrazione di tannini durante la decozione. È interessante notare come la presenza di tannini non sia percepita come astringenza sul palato, bensì molto probabilmente come amaro. Si può supporre anche che sia proprio il contenuto di destrine e la maggiore corposità del prodotto B a ingentilire l’amaro tannico.

Test di preferenza

Arriviamo al test più personale, quello di preferenza. Per condurre questo test mi sono rivolta a 50 soggetti accomunati da due fattori principali: sono consumatori di birra e risiedono in nord Italia. Si tratta di un panel eterogeneo di età compresa tra i 20 ai 63 anni, con una maggiore percentuale di individui tra i 25 e i 35 anni. Ho chiesto loro di esprimere una valutazione da 1 a 9 per ognuno dei due campioni somministrati, in cui 1 è “estremamente sgradevole” e 9 “estremamente gradevole”. Dal grafico sottostante, che riporta il grado di preferenza totale dei campioni, si evince un livello di gradimento maggiore per la decozione con un punteggio di 351 contro i 320 per il campione a infusione. La media dei voti per il campione a decozione è stata di 7,02, mentre per quello a infusione di 6,4, con un totale di 27 preferenze per la decozione (54%), 14 per l’infusione (28%) e 9 soggetti (18%) che hanno espresso una eguale valutazione per i due campioni.

Ne vale la pena quindi?

In presenza di malti poco disgregati, la decozione è di grande aiuto e, a pre- scindere dal potere diastatico del malto, una percentuale di amido può restare intrappolata nei chicchi di malto non solubilizzandosi completamente. Portare i grani sopra i 75 °C ne causa l’esplosione con conseguente esposizione del loro contenuto amidaceo che viene rilascia- to nell’estratto liquido. L’amido diventa così accessibile all’attività delle α- e β-amilasi, ancora attive nel mosto principale, durante la pausa diastatica. Di fatto con la decozione la resa in estratto è maggiore. La buona degradazione delle proteine durante l’ammostamento a decozione aiuta a migliorare corpo e schiuma della birra, ma è anche di aiuto nel processo successivo di bollitura. Anche se è comune il First Wort Hopping (aggiunta di luppolo al mosto prima della bollitura), quando si conduce un ammostamento a infusione bisognerebbe far bollire 15-30 minuti il mosto prima di aggiungere il luppolo. Questo per permettere che la bollitura scomponga e faccia precipitare alcune proteine. Se non si procede in questo modo i polifenoli del luppolo potrebbero legarsi ai flocculi di proteine e precipitare con essi insieme alle resine prima della loro utilizzazione completa. Dato che il luppolo non deve contrastare una grande quantità di proteine nei mosti ottenuti per decozione, per ottenere lo stesso apporto di amaro e aroma, in proporzione si può utilizzare una minor quantità di luppolo rispetto a quella utilizzata in mosti prodotti per infusione. Comparando i due campioni e le loro fasi di produzione ho appurato la veridicità di quanto studiato sui libri. Ho notato nel mosto a decozione:

❱ Una resa in estratto di 1 °P maggiore rispetto a quello prodotto in infusione;

❱ una minore quantità di residui di proteine sulle pareti dell’impianto a fine bollitura;

❱ la conseguente minore formazione di trub sul fondo del tino alla fine del raffreddamento;

❱ un’efficienza maggiore in termini di quantità di prodotto trasferito.

Degustando i due prodotti in più momenti, durante le fasi di fermentazione, maturazione e a seguito del loro confezionamento in bottiglia, ho percepito delle differenze che rendevano il prodotto a decozione più piacevole al palato. Personalmente ho trovato la birra prodotta per decozione più morbida e corposa con un bilanciamento tra i sapori, anche se leggermente spostato verso il dolce. Ho preferito l’amaro più evidente avvertibile nella birra prodotta a infusione, che risulta più secca e in cui vengono esaltati maggiormente i sentori luppolati. Per contro non ho apprezzato la sua scarsa aromaticità, che ho trovato un po’ spenta e priva di carattere e ho notato una sua mutevolezza repentina nel breve tempo che si è tradotta in una minore stabilità nel tempo.

Quindi tornando alla domanda iniziale “Decozione: sì o no?” si può comprendere facilmente il mio punto di vista, ma lascio trarre a voi le vostre conclusioni. ★

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