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Uno, nessuno, CENTOMILA TURISMI
La birra artigianale diventa destinazione (talvolta persino protagonista) delle vacanze degli italiani
Non esiste il turismo, esistono i turismi. Inizio l’articolo rendendo omaggio e parafrasando il più iconico aforisma italiano inerente la birra coniato da Lorenzo Dabove, alias Kuaska, per sottolineare come l’eterogeneità sia facilmente applicabile a tutte le possibili varianti del concetto “birra”. Anzi, oggi più che mai il plurale è obbligatorio.
Nel mio ultimo articolo (vedi BNM 3/23) ho dettagliato, prima dal punto di vista teorico e successivamente dal punto di vista dei benefici pratici, i concetti di segmentazione e posizionamento. A fine articolo ho svelato una realtà raccapricciante: queste due azioni di marketing non sono più solamente consigliate, bensì obbligatorie! Questo perché, laddove la competizione diventa galoppan- te, vige un’altra regola “differenziati o muori”, per citare Jack Trout. Tralasciando l’industria, che gioca in un campionato a parte, per il settore della birra artigianale italiana, che invece rappresenta una nicchia di mercato, bisogna considerare la convivenza di tante, tantissime imprese per le quali crearsi un’identità specifica che le faccia emergere per distacco dalla concorrenza è essenziale se vogliono sopravvivere. Per quanto possa essere paradossale il nemico da sconfiggere non è la concorrenza piuttosto… l’anonimato! Ecco quindi che diventa essenziale presentarsi al pubblico con una proposta chiara di identità. Il concetto è giustificare al mercato, e quindi agli occhi dei consumatori, la propria esistenza: io, impresa, esisto perché offro qualcosa di unico nel suo genere, o comunque sufficientemente diverso dalla concorrenza che già è presente sul mercato e che probabilmente subentrerà (il profitto attira nuovi concorrenti così come le carcasse attirano gli avvoltoi). Preciso che il problema di fondo non si rinviene sul lato dell’offerta, ovvero nel numero di imprese che compongono la famosa torta di mercato, bensì sul lato della domanda che, per quanto il mondo abbia bisogno di dolcezza, rimane numericamente ed economicamente limitata.
Turisti consumatori
Questo piccolo preambolo mi è necessario per introdurre l’argomento di oggi, ovvero quello dei turismi. Perché se i consumatori diventano sempre più informati e le loro esigenze sempre più complesse, sia per passioni sia per interessi, le motivazioni che li spingono a mettersi in viaggio diventano le più disparate. Ecco perché è limitante e fondamentalmente fallimentare affrontare il concetto come fosse unico e indivisibile. Il compito degli operatori turistici è quello di intercettare dei bisogni, analizzarli e creare una proposta in grado di soddisfarli. Vista la mole di esigenze possibili è pacifico sostenere che è impossibile soddisfarle tutte. Del resto è già stato detto più volte in queste pagine che creare una proposta che vada bene a tutti equivale a non accontentare nessuno, perlomeno in un mercato di nicchia. Questo determina l’attuale prolificazione di turismi, tra i quali entra a gamba tesa quello che ci stuzzica di più: il turismo della birra. Un tema abbastanza recente, perlomeno alle nostre latitudini, il cui futuro è ancora da scrivere. Anche stavolta in Italia siamo perfettamente in tempo per iniziare a fare bene, prendendo spunto da modelli che sono nostri dirimpettai. Ricordo con grande piacere, ai bei tempi della mia esperienza in Inghilterra, come il sabato sera facesse rima con pub crawling: sfruttare la libertà da lavoro per trotterellare di pub in pub, insieme agli amici, era il passatempo più diffuso. In Regno Unito, infatti, la birra permea lo stile di vita della popolazione locale, che con essa impara a convivere e lo fa con grande coinvolgimento. Per questo motivo è inappropriato parlare di appassionati: certamente ci saranno figure più o meno entusiaste del fenomeno birra artigianale, tuttavia tutta la popolazione indiscriminatamente ha la birra nel proprio DNA e con essa la frequentazione del suo luogo istituzionale, il pub per l’appunto.
Il pub crawling
Una forma di turismo birrario a tutti gli effetti, il pub crawling, che sia fatto per ragioni squisitamente ludiche oppure per briose sessioni di studio itineranti, in ambedue i casi indica una tipologia di turismo mossa dal desiderio di scoprire birre e birrifici locali, dalla volontà di conoscere più da vicino le culture locali in una forma non solo informativa bensì esperienziale – termine assai in voga, ultimamente. In soldoni si viaggia per bere. Ora, capirai bene che per l’Italia, Paese che ogni anno attira orde di turisti enogastronomici interessati a conoscere più da vicino e ad assaggiare le sue prelibatezze vitivinicole e le eccellenze del territorio, il turismo birrario rappresenta un tassello che va ad arricchire un puzzle già molto interessante. Oggigiorno infatti la birra artigianale può ergersi da sola a destinazione e/o tema vacanziero, semplicemente deviando da un sentiero già battuto ed esplorato del quale rappresenta una sottocategoria. L’offerta così estesa intercetta una domanda crescente a livello locale, nazionale e persino internazionale. Del resto, nonostante la poca esperienza in questo ambito, i numeri sono dalla nostra parte: secondo il report 2022 di Assobirra, in Europa siamo al quarto posto per numero di micro-birrifici (alle spalle di Regno Unito, Germania e Francia). Anche i locali birrari, qui da intendersi come birrerie specializzate e pub, così come gli eventi e i festival tematici, contribuiscono ad alimentare l’entusiasmo di questa nuova generazione di turismo, offrendo una ragione in più per visitare l’Italia o per rimanervi, in caso di turismo nazionale. Appurata la presenza di una domanda e beneficiando di un enorme potenziale di offerta, da risolvere rimane la questione assai spinosa di predisporre un’offerta tematica ad hoc. Il che, data la peculiare e straordinaria incapacità delle imprese italiane di fare rete, pronte a remare controcorrente pur di non collaborare con il “nemico”, rende l’attuazione del turismo birrario più facile a dirsi che a farsi.
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Piccolo è bello
Il Belgio ha le Fiandre (e non solo), Dublino ha la sua celebre Guinness Storehouse, mentre in Germania c’è l’Oktoberfest. Va bene, è chiaro, non sono tutte iniziative strettamente correlate alle realtà artigianali, tuttavia mi sono permesso di tirare in ballo questi mostri sacri per puntare i riflettori sul fatto che, quando si parla di questi paesi, si verifica un fenomeno assai singolare: si pensa alla birra. L’Italia non ha questo potere evocativo, storicamente attribuito al vino, ma non è un problema. Se all’estero va forte il turismo birrario legato a eventi di massa, l’Italia è il Paese in cui vige il motto “piccolo è bello”. Lo stesso motivo per il quale anche un appassionato di birra proveniente dagli Stati Uniti ha poco di cui lamentarsi in merito a quantità e qualità di birrifici artigianali e nutre sempre grande interesse nei confronti dell’Italia e dei suoi microbirrifici, di cui subisce il fascino. Ecco che in Italia occorre necessariamente pensare al turismo birrario in un’ottica ridimensionata e scommettere sul potere attrattivo delle iniziative locali, inti- me e romantiche. Oltre alle dimensioni cambia anche l’oggetto della proposta. Mentre all’estero il turista birrario è uno scapestrato, in Italia è piuttosto un curioso, interessato a vivere un’esperienza coinvolgente ed emozionante anziché a mandare giù secchiate di birra. Il che è un ottimo punto a favore del Belpaese che, pur non potendo competere numericamente, può tranquillamente compensare la quantità con la qualità della domanda, presumibilmente più matura e alto-spendente, sia nei confronti della birra sia di ciò che le fa contorno.
L’ospitalità vince
Alla luce di ciò la proposta turistica a tema dovrebbe stressare pochi ma buoni concetti: fare leva sul senso di appartenenza alle comunità locali, invitare alla scoperta e al consumo delle tipicità rinvenibili solo in un circoscritto perimetro geografico, ingolosire e irretire gli assetati con ricette birrarie che diventano sempre più espressione del territorio grazie all’estro creativo dei birrai e all’impiego di ingredienti locali. Non da ultimo, il leitmotiv dell’offerta turistica nostrana è senza ombra di dubbio il fat- tore umano, già rivelatosi fondamentale in un altro ambito dell’hospitality come il settore ristorativo. Pensaci e dimmi se sei d’accordo con me: il tuo ristorante preferito è quello dove mangi meglio oppure è quello in cui, pur non essendo un’eccellenza, ti senti maggiormente a casa? In questo secondo caso certamente la posizione, l’arredamento, il menu e altri aspetti della proposta ristorativa giocano il loro ruolo, tuttavia sarà del proprietario in cassa e dei modi del personale che ti ricorderai. Personalmente ritengo che il pub vincente sia quello in cui l’oste è certamente devoto alla causa artigianale, tuttavia a parità di dedizione continuo di gran lunga a preferire le emozioni che provo quando sono lì, piuttosto che la qualità e varietà dell’offerta gastro birraria. Poi va bè, gli orsi esistono e alcuni di essi sono mascherati da uomini che, nella loro indole assai introversa, meritano di bere in solitudine ma sono una specie rara. Certamente in ambito turistico, molto più che in altri settori, è vincente l’ospitalità. È lei a rendere memorabile l’esperienza. Il turismo birrario potrà tranquillamente fare a meno della loro fedeltà, avendo già fatto una scelta molto più dura quale rinunciare al turismo di massa.
Il turista birrario
Arriviamo così quasi in fondo all’articolo con una domanda fondamentale: chi è il turista birrario? C’è chi organizza viaggi mettendo al centro la birra nelle sue molteplici declinazioni (il sottoscritto, perlomeno prima di diventare papà e appendere il bicchiere del bevitore seriale al chiodo); poi c’è chi, invece, concepisce la birra come qualcosa che aggiunge un pizzico di sale a un viaggio già di per sé saporito (il sottoscritto, quello di oggi, con famiglia e pargola al seguito). Secondo te quale dei due profili rappresenta la “vacca grassa” per l’addetto ai lavori? Un po’ di tempo fa la mia risposta sarebbe stata il turista birro-centrico: con un’offerta su misura dei suoi interessi, chi meglio di lui è un cliente ideale? Il limite della mia risposta è stato il dilemma di molti imprenditori birrari (e non solo): considerare il proprio punto di vista come una fedele rappresentazione della realtà. Errore. Errore di calcolo, erroneo giudizio, visione distorta della realtà, lo puoi definire come preferisci. In gergo si chiama bias cognitivo e ne siamo affetti tutti. Io, tu, tutti. L’importante è esserne consapevoli per riconoscerlo come proprio limite e utilizzarlo come segnale d’allarme prima di avventarsi in valutazioni affrettate. Tornando all’esempio del cliente ideale, il bias si manifesta quando si sedimenta nel cervello la classificazione di un settore in base a criteri non oggettivi come la somiglianza. Ecco perché una volta, quando ero ancora uno sbarbatello del marketing, avrei definito me stesso come il cliente ideale per un operatore birrario. Una volta, non oggi. La lungimiranza deriva dalla capacità di ragionare seguendo un punto di vista diverso: quanto è motivato il singolo individuo che deve regalarsi una buona bevuta, rispetto a chi deve provvedere al bisogno dei suoi cari e regalare loro una bella esperienza? Ma soprattutto, quanto spenderebbe il singolo individuo rispetto a una comitiva? Ancora una volta la famiglia si pone come pubblico ideale, insieme ai gruppi organizzati, che in sede di turismo birrario pagano e ringraziano – soprattutto quelli provenienti dall’estero.
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Case study
Sebbene il singolo caso non sia sufficiente per fare statistica, guardando poco distante vedo un birrificio italiano molto vocato al marketing come Cr/ Ak che sembra aver adottato lo stesso approccio: l’attuale policy ristorativa pare darmi ragione. Vai in birrificio, accomodati nel suo beer garden mentre sorseggi una Giant Step e guardati intorno: noterai che, pur essendo Padova una città dalla forte vocazione universitaria, la maggior parte dei clienti presenti è rappresentata da professionisti.
E da famiglie. Perché? Perché questo birrificio, come anticipato, sa che il marketing è importante. E per marketing non si intende solo pubblicità, si intende soprattutto fare strategia. Per esempio il summenzionato posizionamento: la scelta delle materie prime, la selezione birraria e il menu ristorativo, sostenuti da una robusta comunicazione che lavora sulla percezione della qualità al consumatore, si riassumono nello scontrino, decisamente più alto della media a parità di offerta. Nessun cliente storce il naso: il birrificio è stato sincero fin da subito, rendendo chiaro il concetto che è possibile bere e mangiare a prezzi modici, ma non da Cr/Ak. Questo, unitamente al branding - promuovere, valorizzare e monetizzare il marchio - ha fatto sì che, in maniera assolutamente naturale, i clienti con poca pecunia si accomodassero in completa autonomia fuori dal locale, ringraziando pure. Giacché a Padova, oltre alla parte universitaria, c’è anche quella benestante, il birrificio ha scelto il suo pubblico ideale e ha volutamente tagliato fuori il resto. Improvvisamente l’idea di un’offerta così strutturata ha trovato riscontro in una domanda interessata, che è consapevole e ben felice di pagare 6 euro la pinta in tap room Bingo! Ovviamente scegliere tra nerd e consumatori spassionati non basta per determinare un corretto posizionamento, tuttavia dovrei aver reso l’ideaspero - e per ora mi ritengo più che soddisfatto. Respira, siamo ancora a metà articolo. La seconda parte ti aspetta nel prossimo numero, nel frattempo vado a fare due passi in montagna, anche se temo che sarà più facile portare a termine l’escursione che trovare un rifugio dove si beve buona birra! ★