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Birrovagare in Italia: luogo magico dove birra e turismo si incontrano (e talvolta si scontrano

BIRROVAGARE IN ITALIA:

luogo magico dove birra e turismo si incontrano (e talvolta si scontrano)

Personalmente mi piace riferirmi all’Italia come al Belpaese, sebbene a qualcuno l’espressione evochi immediatamente l’immagine dell’omonimo formaggio. Per me, invece, è un epiteto calzante, dal potere evocativo immenso, che ben si presta a sottolineare l’enorme potenziale del nostro territorio. Tuttavia, al netto di patriottismi e stereotipi, cosa rende davvero l’Italia così bella? La gastronomia, croce e delizia di noi appassionati della bevanda di Cerere, certamente gioca un ruolo centrale nel raggiungimento di un così alto titolo. La gastronomia è il fiore all’occhiello di una nazione che può vantare – a ragion veduta! – un microcosmo di prodotti tipici, un ventaglio di gozzoviglie distribuite in maniera capillare lungo tutto lo Stivale, una varietà eccezionale di prodotti da bere e da mangiare. Quali altri paesi d’Europa e anche del mondo possiedono uno spettro così ampio di

prodotti alimentari, concentrati in un fazzoletto di terra così piccolo? Pochi, pochissimi. Credi a uno che ha ancora molto da scoprire, ma qualche viaggio se lo è comunque fatto. A proposito di viaggi, se la gastronomia rappresenta uno dei punti di forza italiani, ancor di più lo è il turismo. Perché ha un potere attrattivo devastante, perché si rivolge a una platea decisamente più vasta, perché sotto l’ombrello del turismo rientrano un sacco, ma proprio un sacco di patrimoni nazionali di cui la gastronomia rappresenta solo la punta di diamante. Storia, architettura, religione, filosofia, arti in genere, mare, montagna ed eterogeneità geografica rendono l’Italia, a detta di molti, il paese più bello del mondo – anche se personalmente mi dissocio da questo superlativo, soprattutto quando di orientamento nazionalpopolare. Sulla scorta della mia piccola e finora troppo breve esperienza di viaggiatore (in un’altra vita sarò nomade, in questa mi tocca essere un impiegato qualunque), ovunque sono andato ho scoperto che l’Italia evoca una sensazione di universale simpatia, apparentemente motivata da quello che è poi anche un vecchio slogan coniato dall’esimio Ernst Friedrich Schumacher, recentemente tornato in auge per intercessione dei sacri maestri del marketing: piccolo è bello.

Piccolo è bello

Ecco, l’Italia è un paese indubbiamente piccolo, che impallidisce per dimensioni di fronte alle grandi, in tutti i sensi, nazioni mondiali; ed è bello, anzi doppiamente bello, perché nelle sue dimensioni piccine raccoglie pressoché tutto quello che un turista possa desiderare. L’ho presa larga e l’ho messa anche un peletto sotto il profilo romantico; perdona l’arzigogolata introduzione ma stiamo arrivando al nocciolo della questione. Le dimensioni delle imprese sono in scala: lo dimostra il fatto che le PMI (Piccole e Medie Imprese) rappresentano la quasi totalità del tessuto imprenditoriale del paese, con una percentuale esigua di aziende che impiegano oltre 250 dipendenti. Hai idea di quanto questo essere piccinipicciò possa risultare affascinante, se non addirittura magico, agli occhi del turista straniero? Prendi il classico turista statunitense, il quale è abituato a cose esageratamente mastodontiche e a utilizzare il proprio veicolo anche solo per andare a gettare l’immondizia casalinga e poi si trova in Italia, dove tutto è appunto piccolo e bello. Credi a me (per la seconda volta): dici Italia e gli stranieri vanno in visibilio.

Il fascino della birra artigianale italiana

Non sto qui a fare un panegirico su cosa significhi compiere un corretto posizionamento di prodotto o di mercato e diventare il punto di riferimento della propria nicchia: lasciamo questi discorsi ai tempi e ai momenti più opportuni. Limitiamoci ad aggiungere, rispetto a quanto detto poc’anzi, che pur in un contesto ampio e variegato come quello turistico, a parità di bellezza paesaggistica, l’Italia può ulteriormente brillare per l’offerta turistica nostrana. In generale siamo noti per il vino, da cui la celebre enogastronomia; tuttavia, di recente anche la birra si è fatta spazio nel cuore dei consumatori, sia italiani che esteri. Torniamo un attimo negli USA, dove tutto è il contrario di tutto: la birra è la tendenza e il vino è l’eccezione. Anche gli americani si sono lasciati ammaliare dalla grande bellezza della piccola Italia, anche e soprattutto dalla birra artigianale made in Italy. Perché se è vero che gli statunitensi di birra artigianale sono abituati a

consumarne a secchiate, è altrettanto vero che il microbirrificio italiano appare ancora più micro e quindi magico! Ma non vale solo per i turisti USA: tutti gli appassionati di birra, senza distinzione di cittadinanza, nutrono per il piccolo, appassionato e romantico fenomeno birrario italiano profonda stima ed enorme curiosità. Questo offre una scusa in più per viaggiare con destinazione Italia. Ce n’era veramente bisogno? Per il turismo in sé forse no, per il comparto birrario assolutamente sì. A questo punto però la domanda che vorrei porre ai lettori è: siamo pronti ad attirare prima e accogliere poi il turismo birrario? Secondo me no.

Potenziare il turismo birrario

Proprio pochi giorni fa stavo ascoltando un interessantissimo podcast (che

vivamente consiglio) chiamato Juice It Up. Nella puntata in questione l’argomento erano le bollicine italiane e gli ospiti intervenuti convenivano sul fatto che il marketing in generale e il lifestyle in particolare rappresentano la vera differenza tra lo champagne italiano e quello francese, considerato benchmark. E stiamo parlando di qualcosa che, alla stessa stregua del vino, è emblema nazionale. Se un settore così strutturato e rappresentativo è in ritardo rispetto ai propri competitor esteri, non tanto sul fronte qualitativo quanto sul piano comunicativo, figurarsi la birra, quella artigianale in particolare, che è sul mercato da poche decadi e che per il consumatore medio è rappresentata da Moretti non filtrata e Messina con cristalli di sale. Insomma, la comunicazione di settore è in ritardo siderale. In un precedente articolo comparso su questa rubrica ho cercato di argomentare la questione inerente all’attrattività della birra artigianale con riferimento al suo orientamento imprenditoriale un po’ demodé. Oggi vorrei chiudere il cerchio, soffermandomi su un altro aspetto che manca, a mio modesto avviso, alla generalità dei birrifici italiani: una visione d’insieme, la stessa che consentirebbe di vedere quanto sarebbe utile potenziare il turismo birrario per attrarre nuovi capitali.

Viaggiare, scoprire nuovi birrifici, birrovagare…

Viaggiare per me ha un unico obiettivo: la scoperta. Sovente, anzi piuttosto di frequente, la scoperta dei luoghi coincide con quella dei birrifici di zona, oppure quella degli stili birrari tradizionali. Insomma, quando mi metto in viaggio la birra ha sempre un modo per farsi trovare. Ed ecco il significato del termine birrovagare, neologismo in cui viaggio e birra si uniscono per raggiungere la medesima destinazione: la scoperta, appunto. Ora, capisco che a parte me e il buon Indiana Jones siamo veramente in pochi a ritenere che il viaggio sia scoperta pura; tuttavia, pur mettendomi nei panni del turista tradizionale – me ne rendo conto quando mi capita di indossare i responsabili panni del docente birrario – mi rendo conto che la curiosità attorno al tema è forte e altrettanto la voglia di viaggiare per “abbeverarsi alla fonte”. Basti pensare a quegli stili dai forti connotati locali che rimangono reperibili altrove, ma che se bevuti nel loro luogo d’origine hanno tutto un altro sapore. Mi sovvengono Gose e Kölsch, che ho bevuto anche in Italia ma di cui non ho mai assaggiato un esemplare originale sul suolo tedesco. Ecco perché, in totale umiltà, ammetto di non conoscere appieno questi stili, semplicemente perché mi manca il metro di paragone, il riferimento, quello che ho precedentemente definito benchmark. Per noi nerd della birra viaggiare è il miglior modo, anzi l’unico, per conoscere davvero una birra nel suo intimo, apprenderne i parametri sensoriali e fissarli bene a mente. Al netto di un’esperienza così trascendentale rimangono assaggi e degustazioni sparse, nessuna delle quali potrà mai compensare la scoperta in loco. Chiaramente di adeguatezza allo stile di riferimento sia il consumatore sia il birrovago se ne infischiano altamente. Però la birra piace a tutti, appassionati e non, e la possibilità di unire utile e dilettevole, ovvero viaggiare e bere insieme, ha un fascino al quale neppure il turista più astemio può resistere.

La Guinness in Irlanda ha tutto un altro sapore

Non si tratta, infatti, solo ed esclusivamente di bere. Freschezza del prodotto a parte, consumare qualcosa nel suo luogo di origine possiede un fascino innegabile e indescrivibile. Hai presente la storia secondo cui la Guinness in Irlanda ha tutto un altro sapore? A dirlo non sono gli irlandesi, che la fabbrica non la frequentano molto, bensì i turisti internazionali che qui si riversano a frotte. Hai mai assaggiato un autentico ramen giapponese, magari in una bettola nipponica, circondato da giapponesi che di risucchiare ad alto volume ne fanno una questione di orgoglio? Altro che All you can eat e fusion vari. Vale per il cibo così come per la birra e tutte le altre bevande: tutto è sorprendentemente più buono quando lo si consuma nel luogo di origine. Si chiama suggestione e, nonostante l’annebbiamento dei sensi, rende tutto più bello di quanto non lo sarebbe in condizioni normali. È così che il piccolo birrificio italiano, sconosciuto ai più, si ammanta di un’aura di mistero e magia che lo rendono straordinario agli occhi del visitatore, soprattutto se si tratta di un forestiero per il quale la novità è esponenziale. Ecco, siccome

viviamo nel Belpaese, talmente bello che potrebbe vivere di turismo e piuttosto si accontenta di essere lo zimbello d’Europa, il comparto birrario potrebbe smettere di vivere di stenti e adagiarsi sugli allori, se solo riuscisse a sfruttare il potenziale latente del turismo birrario. Peccato che la burocrazia e la guerra dei prezzi occupino tutto il tempo di chi si impegna a mandare avanti la baracca, lasciando alle generazioni posteriori, semmai ve ne saranno, il compito di prendere in mano una patata bollente che ha tutto l’aspetto di una pepita d’oro incompresa. Pensa alla coppia d’oro cacio e pepe: a chi non piace? Soprattutto quando a farle da contorno ci sono un’osteria con una sua storia da raccontare, uno chef innovativo, magari un sommelier che azzecca il giusto pairing. Questo per dire che a rendere affascinante la birra non è (solo) la birra in sé, quanto piuttosto la voglia di vedere i luoghi in cui viene prodotta, sentirne tessere le lodi dal birraio, mistica creatura che la produce nel suo laboratorio alchemico. Insomma, tutte le storie che noi super appassionati abbiamo già sperimentato abbondantemente sulla nostra pelle e che ogni qualvolta riteniamo scontate mettiamo la croce sull’ennesima occasione per fare comunicazione birraria, quella buona. Un buon marketer sa che deve stupire il suo pubblico, ma se il pubblico lo deve ancora creare bisogna innanzitutto attirarlo a sé. Come? Mettendosi nei suoi panni, osservando il mondo con occhi nuovi, gli occhi dell’esploratore: così facendo scopriremmo l’acqua calda, ovvero che a rendere la Guinness così buona non è tanto la birra in sé – pur beneficiando la freschezza della produzione e l’assenza di viaggi sulle spalle – bensì il fatto di assaggiarla al termine di una visita alla sua fabbrica di produzione.

Il grande potenziale del turismo birrario in Italia

Guinness è un eccellente esempio di marketing birrario di qualità e il successo attrattivo della sua fabbrica ne è l’ennesima conferma. Un successone, visto che c’è gente disposta a viaggiare per concedersi un’esperienza del genere. Mi vengono in mente anche l’Oktoberfest oppure, giusto per rimanere nell’ambito della birra artigianale a noi più vicina – forse ancora per poco – il successo delle tante iniziative firmate BrewDog, rispetto alle quali neppure il costo di volo e albergo frena l’entusiasmo dell’impavido sostenitore. Il turismo, mio caro, è una fabbrica di soldi e sarebbe utile a tutti farla lavorare a pieno regime, dentro e fuori la birra. Mettici che, con la sua peculiare eterogeneità gastronomica, in Italia è facile che ogni birrificio abbia al suo fianco un pub, un panificio, un caseificio, un salumificio, un qualunque altro coso-ficio, un ristorante stellato oppure la pizzeria all’ultimo grido; e se pure il cibo non fosse pane per i denti del turista in questione, ci sarà sicuramente una chiesa, un parco, un edificio storico, un castello, un museo, un’opera teatrale o qualsiasi altra cosa che possa interessargli. Un contesto così ricco e variegato avvalora l’ipotesi secondo cui un turismo birrario non è solo possibile ma è anche necessario per la sopravvivenza della specie. Giacché da una parte completa l’attuale offerta enoturistica dominante, offrendo una più che valida alternativa al turista al quale il calice di vino stia stretto; dall’altra aggiunge un

ulteriore elemento di diversificazione per il settore turistico stesso, aumentandone l’attrattività e il corrispondente indotto.

Alcuni esempi virtuosi

Qualcuno potrebbe obiettare che sono un visionario. In realtà, caro mio, purtroppo sono lontano dall’essere lo Steve Jobs di turno e mi sono lamentato a constatare un dato di fatto. Non vorrei passasse per “marchetta”, tuttavia provo a citare un paio di esperienze personali. La prima la conosco per via diretta e si chiama Birrificio Manerba, il quale vive non solo di birra ma anche della luce riflessa sulla superficie del lago di Garda. Pensaci, quale piacere maggiore che concludere la propria giornata sul lago, magari praticando sport, se non andando a bere (anche mangiare, visto il sontuoso Biergarten) un bel boccale di birra per recuperare vitamine e sali minerali? L’altra è un’esperienza indiretta, poiché non ci sono mai stato ma di cui ho raccolto buone parole. Mi riferisco a Brasseria della Fonte, che unisce le sublimi birre a uno scenario che dire bucolico è poco – e qui, assieme al ristorante, ci sono anche gli alloggi. In entrambi i casi, se ci rivolgessimo al turista tradizionale, italiano come estero, dimmi cosa ritieni sia più attraente: la qualità della birra oppure la bellezza della location, i servizi che offre e quelli circostanti? Sempre senza fare un torto a nessuno, penso ad Alder, che di birre non ne sbaglia una, ma la cui offerta è “limitata” alla birra stessa, non offrendo nulla di turistico se non il contesto urbano circostante. Ecco che il suo pubblico si circoscrive a habitué e appassionati del bere bene. Questo non necessariamente significa che Alder abbia meno clienti di Manerba o Brasseria, potrebbe benissimo essere il contrario. Sto semplicemente provando a farti ragionare sul fatto che i locali hanno una differenza sostanziale sulla tipologia di clientela cui si rivolgono, e che nei primi due casi il turismo gioca un ruolo fondamentale per attirare una consistente fetta di clientela. Che è poi quella a cui dovremmo maggiormente puntare, visto che gli appassionati sono lo zoccolo duro, inamovibili seguaci del movimento, mentre i turisti sono occasionali, vengono una volta e mai più, ma creano un flusso che può essere costante, diversificano e fanno fare cassa.

Un’opportunità di guadagno per tutti

Mentre la birra artigianale è sulla bocca degli stessi quattro gatti ormai da anni, l’industria consuma pasti decisamente più luculliani aggredendo fette di mercato crescenti, perché sa attirare il curioso. Considerare il risvolto turistico della faccenda aiuterebbe a invertire la tendenza, favorendo l’espansione del mercato di birra artigianale. E poi, come dicevo, il guadagno è per tutti: per gli hotel nei dintorni di birrifici che magari stanno ospitando eventi a tema; per tutte le attività ristorative e ricettive nei pressi dei concorsi per homebrewer, che comunque attirano un buon numero di domozimurghi; degustazioni guidate e cotte pubbliche potrebbero, nelle mani di un tour operator, trasformarsi in uno strumento di attrazione di massa. I turisti in vacanza hanno voglia di divertirsi. Mangiare e bere può essere molto divertente. I turisti sono particolarmente aperti a nuove esperienze e sono più predisposti ad aprire il portafogli per togliersi uno sfizio mentre si trovano in vacanza. Magari al turista in questione la birra artigianale neanche interessa, ma quando è correttamente inserita in un percorso enogastronomico, in uno storytelling, la voglia di assaggiarla emerge. Ed ecco il paradosso tutto italiano sotto la voce del verbo birrovagare: bere un boccale di birra per poi perdersi in un bicchiere d’acqua. Meditate, gente, meditate.★

SIMEI 2022:

UNA NUOVA CASA PER LA BIRRA ARTIGIANALE

Tecnologie all’avanguardia per un comparto in continua crescita, con qualche ombra su un impianto normativo che necessita di essere ammodernato per restare competitivi. Necessario un testo unico.

Offerta tecnologica in espansione e sempre più affinata, convegni, incontri e momenti di aggiornamento dedicati: il comparto della birra artigianale ha trovato in SIMEI, il salone internazionale delle tecnologie per enologia e imbottigliamento tenutosi lo scorso novembre a Milano, una vera e propria “casa” in cui dare risalto al settore, con tante occasioni di aggiornamento tecnico-professionale e normativo per tutti gli operatori del settore. I microbirrifici negli ultimi sette anni sono più che raddoppiati e anche la spesa media mensile degli italiani ha seguito un andamento simile, così come i consumi, più che raddoppiati tra il 2017 e il 2021. E dell’attenzione verso il comparto è stata una testimonianza palpabile la grande varietà di attrezzature e prodotti presentati dagli espositori: fermentatori, etichettatrici, imbottigliatrici, lieviti, bottiglie ecc. “È naturale – dicono gli organizzatori di SIMEI – assecondare e incentivare tanta attenzione da parte degli espositori, che stanno progressivamente ampliando l’offerta merceologica anche alla birra, creando iniziative e momenti dedicati per un settore che sta crescendo in maniera netta”. Un settore che sta correndo velocemente quindi, ma con un passo più veloce di quanto la legislazione sia in grado di sostenere, come è emerso in un convegno specificamente dedicato che ha messo in luce l’arretratezza di un impianto normativo obsoleto, che risale a 60 anni fa. Occorre quindi mettere mano all’impianto legislativo formulando un testo unico sulla birra prendendo spunto da quanto fatto nel settore enologico, come ha affermato Simone Monetti, segretario generale di Unionbirrai. Oltre a inibire l’innovazione – ha concluso – questo rappresenta un ostacolo alla commercializzazione delle birre prodotte in Italia, favorendo l’ingresso di proposte più innovative dai mercati esteri.

Secondo il focus sulle birre artigianali realizzato dall’Osservatorio Birre Artigianali ObiArt-DAGRI

dell’Università di Firenze e presentato a SIMEI dal coordinatore, Silvio Menghini, il brassicolo made in Italy conta 1.326 imprese e poco più di 9.600 addetti diretti (dati di ottobre 2022), per un comparto segmentato tra piccoli birrifici e microbirrifici (che rappresentano 8 imprese su 10 pur impiegando solo il 19% degli addetti) e aziende medio/ grandi. Nel 2018 i birrifici artigianali in Italia hanno realizzato una produzione tra i 400mila e 600mila ettolitri, con una distribuzione del prodotto fortemente localizzata e quasi interamente destinata al mercato domestico. La crisi che ha colpito l’intero settore nel 2020 ha determinato una riduzione del numero degli addetti del comparto associata alla grande industria, ma non per i birrifici agricoli che rappresentano oggi il 22% dei birrifici nazionali, il 233% in più negli ultimi sette anni. Sul fronte dei consumi, si stima che le famiglie spendano per la birra nel suo complesso circa il 30% del budget destinato alle bevande alcoliche (24 euro al mese nel 2021).

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