Birra Nostra Magazine 3_2021

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N.3| MAGGIO-GIUGNO 2021

BIRRA NOSTRA

MAGAZINE

NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

MOOR BEER INTERVISTA A JUSTIN HAWKE di Andrea Camaschella

CELEBRITY BEER-MATCH DAMA BRUNA VS MONACO DELLA TERRA di Norberto Capriata

FOCUS Hazy & Juicy Birre torbide e fruttate

a cura del MoBI Tasting Team




BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ


Editoriale

PROFUMI,

colori e sapori

I

l numero di Birra Nostra Magazine che vi apprestate a leggere profuma d’estate e di freschezza. C’è l’aroma inconfondibile delle spezie, usate per dare personalità e profondità alla birra, raccontato nell’articolo di Eleni Pisano che offre squisite ricette per cucinare con la nostra bevanda preferita. Per i più audaci, che vogliono sperimentare un nuovo modo di fermentare, ci sono gli utili consigli di Massimo Faraggi per trasformare le confetture fatte in casa in ottimi sidri o vini di frutta, da degustare in compagnia o come un originale complemento per uno spritz alternativo! Con i suoi profumi e le sfumature di gusto, la frutta è protagonista anche della degustazione fatta dal MoBI Tasting Team, che in questo numero ha recensito birre torbide e fruttate dal gusto decisamente hazy and juicy! Non poteva mancare il profumo del malto, magari tostato, tipico della Bière de Garde, stile poco conosciuto di origine francese presentato in una breve guida di Daniele Cogliati. Una novità di questo numero è il beer match, dove Norberto Capriata ha messo in competizione due birre andando ad analizzarne e a confrontarne le caratteristiche principali,

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come aroma, gusto e profumo! I profumi e i colori della Vallonia, con i suoi luppoli, le erbe e le spezie, sono invece i protagonisti dell’articolo di Davide Bertinotti dedicato allo stile Saison e ai relativi miti da sfatare, perché conoscere significa andare oltre i luoghi comuni! Si conclude in questo numero il viaggio di Vanessa Alberti e Federico Viero nei profumi della Svezia, tra musica degli ABBA, isole pittoresche e musei dedicati alle bevande alcoliche, in quella che gli autori hanno definito la “regina scandinava delle birre artigianali”. Andrea Camaschella intervista per voi Justin Hawke, il fondatore di Moor Beer: una vita avventurosa consacrata alla birra con un debito di riconoscenza verso l’Italia. Il racconto di Matteo Malacaria, al limite del distopico e del giallo cospirativo, gioca e scherza sul premio Birra dell’Anno immaginando un futuro dominato da un fantomatico gruppo chiamato “Birrai Uniti” dove la birra artigianale e quella industriale sono in lotta perenne. Uno sfondo immaginario non molto lontano da quello reale, dove noi però compriamo e beviamo solo artigianale!

MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra

Buona lettura e buona bevuta!

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BIRRA NOSTRA NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

MAGAZINE

IN QUESTO NUMERO...

EDITORIALE Profumi, colori e sapori

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MONDO BIRRARIO Boccali virtuali di Simonmattia Riva

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L’INTERVISTA Moor Beer – intervista a Justin Hawke di Andrea Camaschella

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MONDO BIRRARIO Beerfiction

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di Matteo Malacaria

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IMPRENDITORIA BIRRARIA Guida galattica per publican – 4a parte di Francesco Donato

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HOMEBREWING Fermentare la confettura di frutta! di Massimo Faraggi

BIRRA IN CUCINA

30 SEGUICI SU

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Spezie e birra di Eleni Pisano

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facebook.com/BirraNostraMagazine

BIRRA NOSTRA MAGAZINE

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54 Birra Nostra Magazine - Bimestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa

BIRRE A CONFRONTO Celebrity Beer-Match – La Dama bruna vs il Monaco della terra di Norberto Capriata

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FOCUS MoBI tasting sessions: Torbide e fruttate a cura del MoBI Tasting Team

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Direttore Responsabile Mirka Tolini

Impaginazione LIFE - LSWR Group

Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it

Produzione Paolo Ficicchia

Hanno contribuito a questo numero Vanessa Alberti e Federico Viero, Andrea Camaschella, Norberto Capriata, Paolo Celoria, Daniele Cogliati, Francesco Donato, Massimo Faraggi, Matteo Malacaria, Eleni Pisano, Simonmattia Riva Quine Srl

Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191

STILI BIRRARI

Presidente Giorgio Albonetti

Bière de Garde di Daniele Cogliati

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Miti birrari da sfatare: le Saison 50

TURISMO BIRRARIO Svezia – 2a parte di Vanessa Alberti e Federico Viero

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Coordinamento editoriale Marco Aleotti m.aleotti@lswr.it

Archivio immagini Shutterstock Foto di copertina di Sofie Delauw. Si ringrazia il Birrificio Brùton per l’ospitalità. ABBONAMENTI Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 www.quine.it Rosaria Maiocchi abbonamenti@quine.it PUBBLICITÀ commerciale@birranostra.it

Birra Nostra Magazine è frutto della collaborazione tra Birra Nostra e MoBI - Movimento Birrario Italiano www.birranostra.it - www.movimentobirra.it

CURIOSITÀ di Davide Bertinotti

Amministratore delegato Marco Zani

Stampa Grafica Veneta S.p.a.

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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DI QUALITÀ

Tutto il materiale pubblicato dalla rivista (articoli e loro traduzioni, nonché immagini e illustrazioni) non può essere riprodotto da terzi senza espressa autorizzazione dell’Editore. Manoscritti, testi, foto e altri materiali inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. Tutti i marchi sono registrati. INFORMATIVA AI SENSI DEL GDPR 2016/679 Si rende noto che i dati in nostro possesso liberamente ottenuti per poter effettuare i servizi relativi a spedizioni, abbonamenti e similari, sono utilizzati secondo quanto previsto dal GDPR 2016/679. Titolare del trattamento è Quine srl, via Spadolini, 7 - 20141 Milano (info@quine.it). Si comunica inoltre che i dati personali sono contenuti presso la nostra sede in apposita banca dati di cui è responsabile Quine srl e cui è possibile rivolgersi per l’eventuale esercizio dei diritti previsti dal D.Legs 196/2003. © Quine srl - Milano

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MONDO BIRRARIO

di Simonmattia Riva

Boccali VIRTUALI A

ll’inizio fu una necessità, profondamente radicata nella nostra natura: l’uomo, Aristotele dixit, è un animale sociale e tende a soffrire se viene sigillato in casa mentre al di là dell’uscio sono schierati droni, forze dell’ordine ed esercito pronti a coglierlo in fallo, sanzionarlo e additarlo al pubblico ludibrio se solo osa mettere il naso fuori. Il primo lockdown, piuttosto duro, ci ha fatto sperimentare una deprivazione di socialità decisamente inedita nella nostra epoca: la disponibilità di dispositivi attraverso i quali poter comunicare in modalità video e audio a distanza è stata quindi immediatamente sfruttata quale surrogato dei proibiti incontri in carne ed ossa. Nacquero così, come appuntamenti on line tra amici, gli aperivirus, neologismo

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dalla così profonda e devastante bruttezza da poter gareggiare alla pari con l’orrido, di nome e di fatto, apericena. La birra ha una sua precipua peculiarità: è una bevanda così socializzante da aver generato, come propria casa e patria d’elezione, il pub, la public house sempre pronta ad aggiungere un posto a tavola e accogliere tutti i bisognosi di una pinta e un’amichevole chiacchierata, niente di più lontano dal concetto di distanziamento interpersonale che la necessità di contenere il contagio ha fatto diventare un imperativo categorico. Con il fiorire degli e-commerce e dei servizi a domicilio messi molto reattivamente in campo da birrifici, distributori e pub, disporre di buone birre durante i lunghi periodi di chiusura dei

locali non è però mai stato un problema ma la mancanza di convivialità e condivisione non si guarisce con un six pack o con un ricco cartone misto consegnato da un corriere. Con la second life arrivata, in modo improvviso e distopico, a prendere il posto della prima in tutte le sfere dell’esistenza al di fuori di quella della famiglia nucleare, organizzare una degustazione on line o una chiacchierata in diretta con birrai, publican ed esperti è stato per molti operatori del settore un modo di dire “sono ancora vivo” e di mantenere i contatti con la clientela: della valenza spesso più sociale che economica del delivery effettuato in prima persona da birrai e publican abbiamo del resto già parlato in passato proprio per i tipi di Birra Nostra Magazine.

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Strutturare un programma organico di attività a distanza è stato poi indispensabile per le associazioni dedite alla promozione della cultura birraria, al fine di dare continuità alla propria offerta formativa, rispondere alle esigenze di chi si era già iscritto a corsi di degustazione e garantire introiti a loro stesse e anche, di rimbalzo, ai docenti e degustatori che si sono ritrovati privi di una significativa o esclusiva fonte di reddito. Intere proposte didattiche convertite online, dirette con birrai ed esperti, percorsi di degustazione incentrati sulle referenze di un singolo birrificio o dedicati all’approfondimento di uno stile, box birro-gastronomici con proposte di abbinamento... il catalogo è diventato nei mesi sempre più ampio e vario e la birra artigianale in modalità on line ha esibito, come era ovvio accadesse, sia opportunità meritevoli di essere prolungate anche dopo l’agognata fine dell’emergenza pandemica che criticità e lati oscuri su cui è opportuno riflettere con piena e totale sincerità.

L’e-commerce e gli eventi on line hanno concesso a molti appassionati l’opportunità di assaggiare birrifici di regioni diverse dalla propria o poco distribuiti a livello nazionale nonché di conoscere, sia pure virtualmente, pub e publican parimenti lontani. Oltre alla cultura personale e all’ampliamento dei propri orizzonti di bevuta (e di spesa) ciò significa anche collocare nuove destinazioni nella lista dei desideri non appena ci si potrà muovere con maggiore libertà.

per i quali distanza geografica e tempo necessario per raggiungere il luogo designato o ancora la difficoltà di entrare in possesso di titoli di ingresso fungono da implacabile deterrente: si pensi a certi festival scandinavi o alla Quintessence di Cantillon, diventata in tre lustri da evento per famiglie brussellesi condito dalla presenza di pochi sparuti italiani a raduno della créme del geekismo planetario. Una box degustazione attraverso cui poter partecipare a un laboratorio trasmesso in diretta (e rifruibile in differita, vedi sotto) via social potrebbe essere una strategia per coinvolgere un maggior numero di appassionati a livello potenzialmente planetario. A livello più microeconomico, un’offerta combinata live/on line potrebbe anche coinvolgere o ricoinvolgere persone interessate alla birra artigianale ma che per motivi di organizzazione lavorativa e familiare non riescono o non riescono più a frequentare pub e corsi.

Pro: La possibilità di unire platea reale e virtuale

Pro: La flessibilità della differita

Pro: La possibilità di entrare in contatto con realtà geograficamente lontane

In qualche modo collegato al punto precedente, con l’auspicato ritorno a una socialità senza troppe barriere si può pensare di affiancare una partecipazione on line a fianco di quella fisica per alcuni eventi particolarmente ambiti e

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Senza nulla togliere al “bello della diretta”, la possibilità di assistere in un secondo momento a una degustazione è sicuramente un’opportunità la cui importanza strategica è bene non sottovalutare in una società che vede sempre

più sgranati i tempi di lavoro e svago e, ribadendo il punto precedente, può benissimo essere l’integrazione di un evento dal vivo.

Contro: il pathos non si compra in farmacia (e nemmeno su Amazon) Inutile negare la realtà e l’evidenza: partecipare ad un evento online è un surrogato di un’esperienza in prima persona e non può né mai potrà essere nulla di più, esattamente come assistere a un evento sportivo in televisione anziché dagli spalti di uno stadio o di un palazzetto. È perfettamente comprensibile, finché si è stati in mancanza di altre possibilità e senza precise prospettive sul futuro, l’autoillusione coltivata ripetendosi ossessivamente “ma sì, in fondo è stato molto bello lo stesso” riassettando pinte, boccali e sottobicchieri nel silenzio della propria cucina dopo aver spento il portatile o aver chiuso l’applicazione sul telefonino ma... vogliamo davvero paragonarlo al bicchiere della staffa la bancone del pub mentre si chiacchiera con vecchi amici o simpaticissimi tizi appena conosciuti? Che si tratti di un’allegra bevuta tra amici o di un corso di degustazione avanzato, un’esperienza è costituita non solo dalla somma delle birre bevute o

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assaggiate o dall’elenco delle nozioni acquisite ma anche, o, per meglio dire, soprattutto, da una serie di elementi emozionali e intangibili che l’esperienza virtuale, inevitabilmente, decurta in modo drastico.

Contro: La solitudine del relatore Volete effettuare un esperimento di empatia pratica con i monaci stiliti dell’epoca protocristiana o capire fino in fondo il significato della locuzione evangelica vox clamantis in deserto? Fungere da docente in un corso on line con tutti i partecipanti a telecamera e microfoni spenti ne è una buona approssimazione: intendiamoci, l’alternativa non è certo lasciare aperta la trasmissibilità audio da parte di tutti i convenuti e creare una torre di Babele di rumori domestici della più varia natura, ma declamare le proprie competenze birrarie senza poter osservare i

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volti degli interlocutori e con le domande espresse solamente in chat fa sentire davvero soli in modo profondo, abissale, oltre a non permettere di misurare appieno l’efficacia didattica e retorica delle proprie argomentazioni o di capire il momento giusto in cui inserire una pausa alla trattazione teorica per passare alla degustazione di una birra. Anche il momento degustativo-pratico senza il contatto visivo con gli astanti né la possibilità, da parte loro, di commentare a voce in tempo reale e avviare magari una discussione che può potenzialmente coinvolgere più partecipanti risulta decisamente depotenziato.

Contro: L’oscura e torbida marea del fake (o quasi) Il mezzo è il messaggio scriveva il vecchio Mc Luhan e se internet e, in particolar modo, i social network, sono divenuti non solo una biblioteca universale dalle porte sempre aperte ma

anche la più grande fucina di bufale, leggende metropolitane e fake news mai sperimentata dall’umanità significa che qualcosa, nel meccanismo attraverso cui funziona questo mezzo, va ancora studiato per capirne appieno rischi e benefici. Se il mondo della birra artigianale in Italia già non difettava di fenomeni paranormali quali autonominatisi degustatori autodefinitisi “esperti” o addirittura “professionisti”, inventori di qualifiche inesistenti come sommelier della birra, cervoisier, zitologo, millantatori del titolo Biersommelier (si scrive così e in nessun altro modo N.B.) mai visti nelle aule della Doemens Akademie, sedicenti giudici BJCP che mai hanno superato (o nemmeno affrontato) l’esame, allievi di corsi noti e solidi che, bocciati all’esame finale, decidono di fondare la propria associazione e rilasciarsi da soli il diploma di “gran Visir di tutti i degustatori” o simili, la traslazio-

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ne sul web di tutte le attività formative in tema ha scatenato una sorta di party a bordo di una nave in acque internazionali: tutto è divenuto lecito e ogni iperbole è stata sdoganata per non dire incentivata. Una persona incuriosita dalla birra artigianale e di qualità ma non addentro al nostro mondo ha, in questo momento, serie difficoltà a separare il grano dal loglio e individuare un percorso formativo on line ben strutturato, imperniato su docenti dalle verificate competenze e che non si traduca pertanto in uno spreco di tempo e denaro. A chi mi chiede consiglio ripeto sempre di verificare nome e curriculum dei docenti, di diffidare dalle offerte irrealistiche come diventa un mastro birraio/ degustatore esperto a soli 10 euro e di porsi la domanda che mi sorge spontanea quando, facendo qualche confronto incrociato, mi trovo di fronte a presunti esempi di onniscienza: se da vent’anni mi sto dedicando, seriamente, a studiare una sola bevanda e mi

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sembra di non saperne mai abbastanza e di avere ancora molto da scoprire e imparare, come è possibile che qualcuno sia così sicuro delle proprie enciclopediche conoscenze da proporsi sul mercato come docente in corsi degustazione di birra, vino, distillati, miele, caffè, cioccolato, salumi, formaggi, marshmellow e magari anche come guida alpina, organizzatore di matrimoni e attore shakesperiano?

Pro o contro? Il futuro non è scritto Cosa resterà di questa birra online? Forse non importa a Raf ma a noi sicuramente sì. Il lento, laborioso ma, si spera, irreversibile ritorno alla fruizione in presenza sia della birra artigianale che dei percorsi formativi ad essa dedicati susciterà sicuramente un iniziale entusiasmo che probabilmente raffredderà, alme-

no in una prima fase, le richieste per gli e-commerce e le attività a distanza ma è difficile pensare che pratiche e saperi acquisiti in un oltre un anno di emergenza pandemica verranno cancellate con un colpo di spugna; l’auspicio è, ovviamente, che si coltivino le opportunità positive, soprattutto in un’ottica di estensione della platea della birra artigianale e di qualità e si ponga un argine agli aspetti negativi, in primis l’opacità e la confusione che aleggia nel mare magnum delle offerte formative. ★

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L’INTERVISTA

di Andrea Camaschella

MOOR BEER intervista a Justin Hawke Ciao Justin, prima di tutto come stai? Circa un anno fa ci hai spaventato con un grave infortunio alla colonna vertebrale, eri in ospedale e… tutto bene adesso? Grazie per avermelo chiesto! È stato sicuramente molto spaventoso, ma l’intervento ha avuto successo, impedendomi di subire danni permanenti. Ora sono solo un “normale” vecchio con il mal di schiena! E non poter venire a Rimini (2020) per questo lo scorso febbraio è stato altrettanto doloroso. Ma non temere, posso ancora sollevare molti bicchieri di birra con tutti.

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Raccontaci un po’ di te: nato in California, laurea a West Point Academy, carriera militare e poi nel 2007 ti troviamo titolare di uno storico birrificio a... Bristol?! Come ti sei avvicinato al mondo della birra artigianale e come sei arrivato a Bristol? Esatto: sono nato in California e sono andato a West Point. Il mio primo incarico dopo la laurea è stato in Germania, che ho scelto ovviamente per la birra. Ha cambiato la mia vita in modi che non mi aspettavo. Ho capito che volevo vivere in Europa, ma è stato anche un periodo strano nell’esercito con il presidente Clinton che lo ha reso molto più snello, quindi mi sono offerto volontario per andarmene. Sfortunatamente questo significava anche che dovevo lasciare la Germania, il che mi ha reso molto triste. Sono finito a San Francisco mentre esplodevano la birra artigianale e le IPA, un ottimo momento per essere lì e per imparare a fare la birra in casa. Lavoravo come consulente aziendale,

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JUSTIN HAWKE del birrificio Moor a Bristol, UK.

ma sapevo due cose: volevo tornare in Europa e produrre birra in modo professionale. Un amico mi ha offerto un lavoro nel suo birrificio a San Francisco, ma mi ha consigliato di continuare a fare il consulente, risparmiare denaro e aprire il mio birrificio. Ho avuto l’opportunità con la mia azienda di trasferirmi in Inghilterra (il mio italiano

non è molto buono!). Quindi l’ho fatto: ho risparmiato e quando Moor è stato chiuso e messo in vendita nel 2006 l’ho comprato e riavviato nel 2007. Si trovava in una fattoria nell’area Levels & Moors del Somerset, da cui il nome. Nel 2014 ci siamo trasferiti nel centro di Bristol, e nel 2017 abbiamo aggiunto il nostro Vault a Londra [nel Beer Mile].

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L’INTERVISTA

Quando apriremo in Italia, non lo chiedi? La domanda non è quando, ma dove! Se non è vicino a Reggio Emilia credo che Alle [Alessandro Belli, noto publican di Reggio E. - ndr] mi staccherà la testa, quindi vedremo, o magari sul mare perché sarebbe bello stare vicino all’acqua... Il tuo approccio è stato molto soft: hai rinnovato Moor, migliorato le birre e poi hai iniziato a esprimerti davvero. E ora Moor è un birrificio di successo, conosciuto in tutto il mondo. Sei d’accordo? Il mio approccio quando ho iniziato è stato molto stupido e testardo, ma sono fatto così! C’è più di un motivo per cui ho tatuato Arrogant sul mio braccio, vicino al cuore. L’obiettivo è sempre stato quello di creare alcune delle migliori birre di classe mondiale nel loro stile, che resistano alla prova del tempo e che siano ancora desiderabili tra 50 anni. Penso di essere sulla buona strada, il che è confermato non solo dal mio palato ma anche da valutazioni e premi (non che contino così tanto...). Come ho detto, produciamo in base al mio palato e a ciò che voglio bere. Saremmo molto più ricchi e più famosi se seguissimo la moda, ma non ci vedrai preparare birre artificiali o cose che non mi piacciono personalmente come NEIPA, Pastry o Sour artificiali. A volte aggiungeremo alla birra frutta, caffè, tè o spezie ma solo in occasioni speciali e l’aggiunta esalterà la birra, non la dominerà. Se vuoi essere dominato vai in un altro birrificio o a un concerto dei NOFX. Noi produciamo birre da bere: è importante che tu voglia bere dieci pinte di ogni nostra birra senza annoiarti o esserne sopraffatto. La qualità è molto importante, soprattutto perché tutte le nostre birre sono gassate in modo naturale, con lievito vivo: investiamo un’enorme quantità di tempo e denaro nel nostro controllo qualità e ci sforziamo di migliorare costantemente. Possono ovviamente

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esserci dei problemi ma penso che la nostra reputazione di qualità e costanza sia ai massimi livelli. Ogni birra ha uno scopo e nel complesso il birrificio ha bisogno di una filosofia, altrimenti è solo una fabbrica. La nostra filosofia si basa su tre pilastri che non cambiano mai: produrre birre naturali non rifinite artificialmente (come nella tradizione delle naturtrub tedesche); evidenziare i luppoli da aroma come in California; bevibilità e gassatura naturale delle tradizionali Real Ales britanniche. Siamo stati i primi a produrre birra vegana nel Regno Unito. Il CAMRA ci ha riconosciuti come la prima Real Ale in lattina. Aiutiamo a sviluppare nuove varietà di luppolo. Cambiare il mercato più tradizionale è una sfida incredibile, soprattutto nei primi giorni. Potremmo facilmente rendere le birre molto più veloci, più commerciabili e più redditizie tagliando questi aspetti, ma non sarebbero le nostre birre. Quando ci siamo incontrati per la prima volta, mi hai detto che la mia mano era

evidente in ogni birra Moor. Questo è molto importante. Realizzare una copia di una Pils o di una APA è facile, hanno quasi lo stesso sapore, sono intercambiabili e senza volto e sono contento che si trovino ovunque - almeno c’è qualcosa di accettabile da bere quando esci - ma non hanno carattere, si dimenticano facilmente. Dov’è la passione? Vuoi sentire la passione? Vuoi carattere, sapore, bevibilità, emozione? Bevi un Tipopils, o una Montestella! Senti Ago, Fabio, Giampa. Sono pazzi come me, ma le loro mani, il loro tocco, sono nelle loro birre. Per fortuna in Italia ora ci sono molti altri fantastici birrifici che seguono i loro esempi. Adesso ho sete e mi manca ancora di più l’Italia! Anche con la passione ci si diverte, ecco perché amo così tanto l’Italia. A parte la birra, la maggior parte del mio divertimento viene dal punk rock e da Star Wars, quindi ci piace incorporare queste cose. A volte è nel nome o nella grafica di una birra. A volte è in una collaborazione con una band o in un festival. A

Moor Beer è fra i birrifici più interessanti della Gran Bretagna.

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L’INTERVISTA

passionati. Per quanto ami vivere in UK, passo molto tempo fuori dal Paese, con persone veramente appassionate in Italia, Spagna e Germania. Già, l’Italia: ci siamo conosciuti a Bra per Cheese nel 2013: era la tua prima volta in Italia? Oggi è chiaro che ami l’Italia. Hai fatto collaborazioni con birrifici italiani, conosci molti dei nostri pub, frequenti eventi e festival. Qual è la tua idea sul movimento delle birre artigianali italiane? Cosa ne pensi delle IGA del fatto che il BJCP vuole togliere Italian? L’Italia è dove scelgo di trascorrere gran parte del mio tempo. Prima della pandemia ho avuto la fortuna di venirci anche tre volte al mese. Può essere stancante e pericoloso per il fegato e il girovita! Ero stato in Italia un po’ prima di Cheese, ma è stato lì che è avvenuta la magia, in tanti modi, e non posso ringraziare abbastanza Ales & Co e tutti quanti per aver cambiato la mia vita. La maggior parte delle esperienze migliori e di maggior impatto che ho avuto, personalmente e professionalmente, sono state grazie alle persone che ho iniziato a incontrare lì. Potevo mai immaginare che per lanciare le nostre lattine Alle avrebbe inventato l’Asino Day, sfilando con oltre 100 persone e gli asini che trasportavano lattine per Reggio Emilia, per finire con una festa di cibo, birra e punk rock?! Ho imparato così tanto e mi sono reso conto di sapere così poco. Spero di aver contribuito restituendo qualcosa a tutti. Ho già menzionato alcuni nomi ma… vi amo tutti! Le collaborazioni sono sempre una gioia. Gli eventi sono sempre sorprendenti. I publican e i bevitori sono i migliori al mondo, la passione italiana per la qualità (cibo, bevande, servizio, atmosfera) è irraggiungibile. Penso che sia per questo che Moor è così amato in Italia, e ne sono incredibilmente onorato. Si dice spesso che la birra artigianale italiana sia iniziata con niente di autoctono, quindi ha dovuto usare l’influenza

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JUSTIN HAWKE e ALESSANDRO BELLI all’Asino Day nel 2013.

volte è con i tatuaggi. Se qualcuno può portarmi su un set di Star Wars, gli prometto un sacco di birra! e Bristol: è molto tempo ? Justin che fai il birraio a Bristol, da allora la città è cambiata davvero molto. Oggi è un “Craft Beer Place”, pieno di locali dove bere birre locali, pub indipendenti, birrerie indipendenti, giovani e anziani come clienti. Mi pare che sia tanto merito tuo… Mi prenderò il merito per ciò che è giusto, come aver cambiato il settore con birre non raffinate e le Real Ale in lattina. Bristol è sempre stata una città della birra, una delle parti più suggestive della città è il vecchio sito della Courage Brewery vicino al fiume. Prima che io trasferissi il birrificio a Bristol, c’erano alcuni birrifici in città di varie dimensioni e stili, i più importanti erano Bristol Beer Factory e Arbor, entrambi fantastici e tuttora in attività. Negli anni il numero di birrifici in città è cresciuto fino a sfiorare i 30-40, la maggior parte davvero minuscoli, non so quanti sopravviveranno alla pandemia o ai prossimi 12 mesi. Dove ho trasferito il birrificio era una zona industriale piuttosto squallida, ora ci sono un sacco di birrifici a pochi passi da noi e, grazie al lavoro di ambasciatore che ho svolto, Bristol è ora una destinazione per i viaggiatori della birra

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e del cibo di cui il resto del mondo non era a conoscenza. Architettonicamente non è una città classicamente bella perché è stata pesantemente bombardata durante la guerra, ma tra l’acqua, le colline, l’arte di strada e l’atmosfera tagliente, dico che è l’equivalente inglese di San Francisco. É una città socialmente consapevole, che sostiene molto il locale, con tutto il bene e il male che ciò comporta. Puoi visitare posti più belli ma c’è una sensazione unica che rende Bristol un ottimo posto in cui trascorrere del tempo e iniziare una vacanza in luoghi vicini come Cotswolds, Galles e Cornovaglia. Noi siamo stati all’avanguardia e spesso anche troppo avanti rispetto ai tempi: aprire la prima tap-room della città sul lato sbagliato della ferrovia non ha ancora dato i suoi frutti, come avrebbe fatto in altri posti; abbiamo ospitato alcuni eventi incredibili: l’Arrogant Sour Festival UK Edition con Alle, il Franken Fest con Manuele [Colonna, del Ma che siete venuti a fa’, Roma] e Citizens of Everywhere con Giampa [Sangiorgi, Lambrate, Milano]. Mi ha reso molto triste constatare che la città e i britannici in generale non abbiano apprezzato e sostenuto queste opportunità straordinarie. Ma questa è la natura riservata degli inglesi, le emozioni sono represse, sembrano poco ap-

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L’INTERVISTA

dei paesi che bevono birra per tradizione come UK, Germania e Belgio (e ora gli USA). E di sicuro non puoi bere esempi migliori di queste birre nei loro paesi d’origine ora. Ma i migliori, quelli che si distinguono non per fare un clone IPA, per esempio, sono quelli che hanno preso la loro passione per il sapore e hanno aggiunto un tocco italiano. Ora c’è la “Pils italiana” che sta emergendo come categoria. Hai menzionato le Italian Grape Ale. Guarda anche alcune delle birre che Croce di Malto fa con il riso locale, o le Sour italiane di LoverBeer, Montegioco, Ca’ del Brado, Opperbacco: meravigliose e ce ne sono molte altre. Queste sono rivelazioni al mondo. Se questa è una rinascita globale della birra, allora sicuramente la maggior parte dei maestri sono in Italia e, purtroppo, a causa della piccola scala e della mancanza di distribuzione, la maggior parte non otterrà il riconoscimento che merita veramente. Ma continuerò a gridarlo, anche se gli inglesi non stanno ascoltando. Se il BJCP sta cercando di ampliare lo stile Italian Grape Ale a un generico Grape Ale, forse questo potrebbe essere visto come un segnale positivo che l’Italia sta iniziando a lasciare in giro per il mondo, anche se mi fa arrabbiare perché è irrispettoso! Ma questo è qualcosa che mi fa arrabbiare molto in generale con la birra e la vita moderna, i social media: tutto gira intorno alle novità e all’hype. Il nuovo non è necessariamente bene, e l’hype quasi certamente non lo è. Qualità, sapore, integrità, genuinità, passione: questo è ciò che conta. Così come il rispetto che va dato ai classici, vecchi o nuovi siano. Ricordo che ci siamo anche incontrati, bella sorpresa, in giro per Bamberg, abbiamo bevuto insieme birre locali a Hummel, Knoblach e altri birrifici. Poi pian piano hai iniziato a produrre una linea di birre ispirate a quella zona: come l’hanno presa i tuoi clienti? La vendi in tutta l’Inghilterra? Sono davvero birre a bassa fermenta-

zione (a volte ho trovato birre prodotte da piccoli birrifici inglesi indipendenti chiamati Lager solo per scoprire che si trattava di birre ad alta fermentazione con tempi di maturazione lunghi, come realmente significa Lager)? Sì, un’altra delle mie grandi passioni. Essere in Italia mi fa sentire a casa perché sono stato adottato da tante persone meravigliose che ora sono una famiglia; essere in Germania mi fa sentire a casa in un modo molto diverso - qualcosa nella mia anima che non riesco a descrivere. E questo si incarna soprattutto a Bamberg e in Franconia, sin dalla prima volta, molti anni fa (anche se allora odiavo le birre affumicate!), Ma devo ringraziare Manuele e Dino [Perin, Birra Viva] per avermi veramente aperto gli occhi. Ho ancora molto da imparare. Il mio desiderio di produrre lager vere, quelle di cui bevi 5 litri in una notte, che non stancano mai e senza i postumi di una sbornia, è iniziato quando ero di stanza in Germania nel 1993. È anche dove ho imparato che il vero segreto è lasciare il lievito nella birra - naturtrub - anche se all’epoca non ne capivo il motivo. Interessante la domanda su cosa è una “lager”. La risposta, ovviamente, è qualunque cosa si voglia fare: alcune risposte sono pratiche, altre religiose o romantiche.

Per noi vuol dire lievito a bassa fermentazione, fermentato a temperature basse, gassatura naturale e maturazione a freddo in vasche orizzontali per la durata desiderata. Non possiamo fare decozione - non abbiamo l’attrezzatura - e non sono sicuro di credere nella religione della decozione ma quando aggiorneremo la nostra attrezzatura, vorrei la flessibilità di poterlo fare. Sorprendentemente abbiamo scoperto che periodi di affinamento prolungati rendono la birra più pulita ma con meno carattere: più passa il tempo più si perdono sapori e aromi. A noi piacciono più rustiche, un po’ ruvide, con un pizzico di mistero, quindi diamo più spazio al gusto piuttosto che al tempo. Venderle è complicato, commercialmente è difficile. Per fortuna, però, la nostra reputazione per la produzione di Lager è cresciuta in un tempo relativamente breve e molti posti nel Regno Unito le scelgono come loro offerta lager permanente, il che mi rende molto orgoglioso. A volte il sapore e l’integrità vincono. Il passaggio alle lattine è stato molto ragionato, siete anche stati tra i primi e ancor oggi tra i pochi a rifermentare in lattina: perché questa scelta? Ne sei ancora soddisfatto?

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DINO PERIN, ANDREA DELL’OLMO e JUSTIN HAWKE

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Senti il problema della mancanza di alluminio in generale e lattine in particolare? Come si risolve questo problema a Moor? Siamo stati tra i primi a decidere di confezionare in lattina, ma solo dopo molte ricerche e aver studiato con attenzione cosa stava succedendo negli Stati Uniti. Come la maggior parte delle persone meno giovani, ricordavo che la birra in lattina era “economica” e sapeva di metallo. Quando negli Stati Uniti hanno iniziato con le lattine ero molto scettico e ho cercato di dimostrare a me stesso che la birra in lattina era ancora cattiva e invece ho capito che nella maggior parte dei casi è molto meglio della stessa birra in bottiglia. Le lattine non lasciano filtrare luce e questo è ottimo per il luppolo. Non lasciano entrare aria, quindi rimangono fresche più a lungo. Sono più leggere, più riciclabili e occupano meno spazio, quindi sono ecologiche. Sono più sicure. Trasferiscono la temperatura più facilmente. Hanno più spazio per decorazioni e informazioni. Inizialmente avevo programmato di tenere le nostre bottiglie accanto alle nostre lattine, ma quando ho assaggiato il nostro primo lotto di lattine, erano talmente migliori delle nostre bottiglie che ho deciso immediatamente di non imbottigliare mai più le nostre birre. L’unica eccezione è per le nostre birre acide, che imbottigliamo a mano in piccoli lotti perché le lattine non gestiscono bene la pressio-

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ne, quindi abbiamo bisogno di qualcosa di più resistente: le birre acide possono essere imprevedibili! La scelta di rifermentare in lattina è stata una mossa audace e rischiosa: richiede molto più tempo, attenzione e qualità rispetto al confezionamento isobarico. Come quasi tutto, lo concepisco nella mia testa e lo facciamo senza prima testarlo. Era totalmente folle spendere così tanti soldi per una linea di inlattinamento di fascia alta dalla Germania e aprire ciecamente una nuova pista, ma nel mio istinto sapevo che era giusto e oggi puoi assaporarne il motivo: le nostre birre hanno più profondità, complessità e longevità. Dove soffrono, a volte, è con l’aroma del luppolo un po’ attenuato a causa del lievito e della biotrasformazione, ma questo è un prezzo minore da pagare per tutti i benefici, e te ne accorgi solo se si confrontano le nostre birre luppolate con birre super luppolate con carbonazione forzata, senza un bilanciamento di malto o di altri elementi. Adoro il luppolo [basta guardare il tatuaggio sul suo braccio, ndr] ma non voglio bere solo luppolo, voglio bere una birra che abbia anche un impatto equilibrato di malto, lievito e acqua. Hai sollevato la questione della carenza di lattine, il che è un problema enorme e mi fa davvero arrabbiare. Per coloro che non lo sanno, quando è iniziata la pandemia, la quantità di bevande (lattine) consumate in casa è aumentata vertiginosamente, aggravata dall’allon-

tanamento dalla plastica monouso da parte delle grandi aziende di bibite analcoliche; poi le fabbriche hanno chiuso per un po’, quindi è stata una tempesta perfetta che ha portato a una carenza di lattine in tutto il mondo. A meno che tu non fossi un’azienda di cola con un logo rosso non potevi avere lattine, in un momento in cui era l’unico modo per vendere birra! Non sono un teorico della cospirazione, ma mi spingerei quasi a dire che la carenza di lattine è stata progettata dalle grandi aziende per distruggere i produttori artigianali. E il modo in cui i produttori di lattine hanno gestito la situazione è stato assolutamente tremendo: la peggior mancanza di professionalità che abbia mai sperimentato. Avevamo pagato il nostro fornitore di lattine a maggio, ci avevano promesso la consegna a giugno ma non abbiamo ricevuto quelle lattine fino a gennaio: 8 mesi dopo! Senza alcuna comunicazione e con atteggiamenti pessimi su tutto. Fortunatamente abbiamo molti contatti e siamo riusciti a ottenere abbastanza lattine per andare avanti, ma ci è comunque costato più di 50.000 sterline. Oltretutto avevamo appena cambiato le nostre grafiche ma abbiamo dovuto usare tutto ciò che potevamo trovare, ovvero un mix di alluminio semplice, nero o bianco, con la nostra etichetta sopra. Hanno ancora un bell’aspetto, ma avendo appena fatto un rebranding completo, è stato come mettere del sale su una ferita aperta. Le dimensioni sono un’altra questione. Le nostre bottiglie da 660 ml (dette “bomber” in nord America) erano piuttosto uniche nel Regno Unito e in Europa: questo perché mi piaceva bere quella quantità (22 oz.). Strategicamente è stata una mossa stupida che ha davvero depresso le nostre vendite: qui non stavano sugli scaffali o nei frigoriferi e benché il prezzo fosse giusto per il volume, sembravano più care delle altre. Oltretutto quelle bottiglie ci costavano parecchio e richiedevano scatole personalizzate. Quindi, quando siamo passati

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alle lattine, abbiamo optato per lo standard industriale da 330 ml. In realtà mi vanno benissimo perché con 2 hai una 660 ml e se è una birra forte non è necessario aprire un grande contenitore o essere in più persone per condividerla, se vuoi, la bevi tutto da solo. Ha funzionato bene fino a un paio di anni fa quando nel Regno Unito, per qualche strana ragione, la birra artigianale è passata a 440 ml. Odio davvero quella dimensione, troppo piccola per essere soddisfacente da sola ma spesso non ne bevi due perché sarebbe troppo. Quindi ho resistito ostinatamente, come faccio sempre, e abbiamo perso gran parte del mercato perché se non è 440 ml in molti posti non vieni nemmeno considerato. Quindi per una volta mi rimangerò, con riluttanza, le mie parole e mi piegherò al mercato, ma solo perché questo non influisce sulla qualità della birra e significa che saremo in grado di vendere in più posti. Quindi nei prossimi due mesi introdurremo le lattine da 440 ml, che potrebbero anche aiutare un po’ con la carenza di lattine. Sono fiducioso. Cosa combinate di nuovo in Moor, quali sono i prossimi progetti? In aprile prime abbiamo iniziato un nuovo progetto. Si tratta di una Session Bitter da 3.8% proprio come quelle che potresti trovare in un pub, per i beergeek sono delle “noiose, esili Bitter marroni”, fuorimoda. Poiché le nostre sono Real Ales in una lattina, l’abbiamo chiamata scherzosamente Nano Cask e ogni mese sarà caratterizzata da un differente luppolo inglese. Il lievito lascia esteri molto fruttati e c’è un sacco di malto Crystal. Per il primo lotto abbiamo usato il First Gold ed è assolutamente fantastica. Nel prossimo lotto ci sarà un luppolo sperimentale, il Faram Fuggle, quindi sarà la volta del Goldings e così via. Accanto alla Nano Cask continuerà ad esserci la Revival - che io chiamo una Bitter moderna - anch’essa da 3.8% ma

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con luppoli americani e un lievito neutro. Sono due sorelle che stanno incredibilmente bene una accanto all’altra. Non ero particolarmente soddisfatto della sorella maggiore, la Raw. Ci siamo chiesti quale Bitter vorremmo bere in un pub e naturalmente ognuno di noi ha risposto Landlord [di Timothy Taylor’s] e quindi, visto che è molto difficile trovarla fuori dallo Yorkshire, abbiamo deciso di riscrivere la Raw, una Best Bitter biscottata ancorché deliziosamente luppolata, in modo che solletichi la nostra immaginazione con le caratteristiche che più amiamo della Landlord, naturalmente in chiave Moor. Così avremo le nostre 3 bitter a catalogo. So che è impossibile ma… c’è una tua birra preferita tra quelle che produci? Molti me lo chiedono ed è impossibile rispondere, come dici tu. Per quantità probabilmente bevo più Lager e Smoked Lager. Non è mai abbastanza. Altre volte sono innamorato di Hoppiness. Per me è per sempre LA IPA. Al caldo, sotto al sole, vado avanti e indietro tra Nor’Hop (che presto si chiamerà Resonance) e Distortion, la nostra Session IPA. Per la musica, la beneficenza e il nome tengo molto alla PMA: è un’altra birra che ha continuato ad evolversi ed è quasi dove la voglio ora - molto “West Coast” per stare distintamente accanto alle nostre altre birre luppolate. Prima era un po’ confusa e facile da ignorare. Ora ha trovato il suo ritmo. Con il formaggio erborinato deve esserci una Old Freddy Walker - l’ho imparato da te Andrea! E ovviamente Stout per gli intervalli. Sono molto entusiasta di avere presto insieme le tre Bitter.

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A proposito di Brexit: prima di tutto cosa ne pensi e - forse è ancora presto e il periodo non dei migliori per fare valutazioni - avete già dei dati per capire se cambierà qualcosa rispetto all’export? Avremo più difficoltà a ottenere le tue birre in Italia?

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La Brexit fa schifo. È un male per la Gran Bretagna, un male per il mondo. Non c’è stato assolutamente niente di positivo da questo. E portarlo avanti durante la pandemia è stata una follia assoluta. Ci è costato denaro. Ci ha fatto perdere le vendite e ci farà perderà ancora di più. Rende le cose più costose, più difficili e più lunghe. Peggio ancora, non posso più ordinare la birra direttamente da Schlenkerla perché non verrà spedita nel Regno Unito ora! In realtà, è un disastro per il paese e per le persone in tutta Europa. Ho fatto una campagna contro di essa, anche andando in Parlamento a parlare con i politici. Abbiamo realizzato una campagna sulla birra chiamata Citizens of Everywhere. Alla fine non è servito. Si spera che in breve tempo le persone si rendano conto del danno e che ci uniremo nuovamente all’UE. Per fortuna Ales & Co fa un ottimo lavoro e la nostra birra arriverà ancora in Italia. In ogni caso non preoccuparti, troveremo un modo anche se dovessimo portarle in un sottomarino! Hai qualcosa in particolare che vuoi dirci? Nuovi progetti, nuove birre, eventi in Italia? Qualsiasi cosa? Mi mancate terribilmente. Per favore, non dimenticatevi di noi. E… drink Moor Beer! ★

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di Matteo Malacaria

BEERFICTION

Birra dell’Anno 20XX: un racconto distopico tra elucubrazioni e spionaggio

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a birra artigianale esiste ed è di pubblico dominio, impiegata principalmente a scopo ludico e attivamente impegnata nel suo storico e inappuntabile ruolo di lubrificante sociale. Tuttavia, dietro le luci dei riflettori, si muovono forze misteriose. La storia di oggi inizia sempre nello stesso posto: al bancone, dove un gruppo di conoscenti è riunito in un conciliabolo che cambierà per sempre il futuro della birra. «Bentornato, caro! Cosa gradisci oggi?» Il tono dell’oste è il solito: energico e cordiale, come si confà al mattatore di una birreria. Inappuntabile. È invece discutibile il modo con cui quelle

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parole sono proferite, praticamente biascicate; il tono grave tradisce un pomeriggio alticcio, trascorso a effettuare l’importantissimo controllo qualità. Per quel che mi riguarda può fare quello che preferisce; se è necessario può anche evitare di fingere di ricordarsi di me. L’importante è che svolga bene il suo mestiere, ovvero selezionare con criterio la sua offerta birraria. In tal caso, che si ubriachi pure! Il suo vistoso sbracciarsi è un eloquente invito ad accomodarmi al bancone, dove lui e i suoi migliori clienti sono alle prese con le ciarle pomeridiane. Non manca nessuno: c’è il tizio con i baffi a manubrio, quello con la barba da guerriero vichin-

go, l’oste è un omone dotato di ciccia e muscoli; e poi ci sono io, impeccabile nel mio abito completo, ma lercio dentro. E assolutamente inadatto al contesto. Eppure, una volta varcata la porta alle mie spalle, mi sono levato di dosso le scalate economiche e i pregiudizi borghesi, entrando in una zona franca, dove vige una sola regola: la democrazia sociale. Qui tutte le gole sono eguali e la birra scioglie la lingua senza discriminazioni. Nessuno mi guarda con particolare interesse, passerei inosservato anche vestito da domatore delle tigri del circo. Men che meno mi notano i gentiluomini al bancone: l’unica cosa in grado di distogliere la loro attenzio-

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ne dalla birra sarebbe una sgualdrina dal décolleté ammiccante. Buon per me, che preferisco mantenere un basso profilo. Così, senza troppe cerimonie e convenevoli, mi unisco a più pari alla combriccola e alla sua conversazione. Sono appena arrivato ma ho una buona idea dell’argomento di conversazione. «Allora, qual è il tema del giorno?» esordisco con finta curiosità. «Senti e stupisci: l’argomento è Birra dell’Anno!». Introduzione da manuale per Barbafolta, il cui tono da possente guerriero norreno si leva un baritono sopra quello dei suoi compagni, risultando maestoso, trionfale addirittura. La generosa gesticolazione è quella tipica del secchione della classe, che di fronte alla domanda della professoressa, scalpita dalla voglia di dimostrare di essere sul pezzo. Frattempo l’oste, braccia conserte e grembiule da conciatore di pelli, annuisce silenziosamente col movimento del capo. «Birra dell’Anno? Quello di Rimini?» chiedo loro, senza rivolgere la domanda a nessuno in particolare, preoccupandomi piuttosto di indossare la mia maschera prediletta, quella del finto stupore. L’effetto, praticamente cinematografico, è quello dell’eroe che sbuca nel posto giusto al momento giusto. E loro, miei nemici-amici, appostati come avvoltoi, mi stavano aspettando con impazienza. «Hai detto bene, caro» – e daje! – «è esattamente il super-concorso che si svolgeva a Rimini, lo stesso che qualche anno fa fece scalpore per essere focolaio del T-virus» riprende il mio conciatore di pelli. «Dio, i creativi della pubblicità sono dei geni, i giornalisti d’assalto non scherzano: venderebbero l’anima al diavolo pur di dare la notizia in pasto alla stampa! A ogni modo» e così dicendo si avvicina quatto alla compagnia, riducendo il tono della voce a un bisbiglio, quasi volendo evitare di farsi sentire da orecchie indiscrete «senti la novità». Piccola pausa. Il mattatore lo sa, questa è la maniera perfetta per lasciare gli astanti con il

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desiderio di conoscerne il seguito. Per lui è piuttosto un modo per riprendere fiato e rinfrescare le ugole con sorsi generosi del suo boccale da compagnia, che solleva a ritmo costante come uno stantuffo. I suoi bruschi movimenti richiedono il successivo ricorso al dorso della mano, per detergere la birra che scende a rivoli lungo i lati della bocca. Mentre lui si esibisce nello spettacolo del guerriero beone, io mi guardo intorno con circospezione, consapevole che stiamo dando spettacolo. Fortunatamente non è un bello spettacolo e nessuno ci tiene a guardarlo. Imitando l’oste, mi approvvigiono anch’io alla birra che mi ha nel frattempo servito. «’Bona ‘sta birra!» è la mia esagerata reazione. L’esclamazione, che mi denuda dell’aspetto perbene, sorprende la comitiva; e sorprende anche me, di solito bravo a mantenere un certo contegno. Evidentemente la birra, quella buona, è ancora un mio punto debole. Solo l’oste non ha mai smesso di guardarmi con orgoglio, come farebbe un padre con suo figlio, inchinandosi sgraziatamente e mimando il sollevamento di immaginarie sottane, come a voler dire “Messere, il suo oste preferito al

suo servizio”. «Quest’anno niente Rimini: i Birrai Uniti hanno deciso di unire le forze con Cibamus, spostando la sede dell’evento a Parma. A fine agosto» riprende Barbafolta, di fronte al quale devo aver acquisito qualche punto, considerandomi, al netto della barba, un suo pari. «Non vorrei essere nei panni dei giudici, che oltre alle più disparate categorie dovranno affrontare anche la canicola». Poveri loro! «Secondo voi quali sono i birrifici e le birre più gettonate quest’anno?» spunta fuori finalmente anche l’hipster. Dal mio ingresso non ha mai smesso di rigirarsi i baffetti, torcendoli in modi che neanche il più sadico dei barbieri saprebbe ordire. Entrata in scena impeccabile, che porta l’attenzione sul vero oggetto della conversazione. «Ah, guarda, quest’anno è tutto strano, un concorso normale sarebbe anomalo» gli fa eco Barbafolta, che a sua volta non ha mai smesso di impomatarsi la barba. Tra uomini pelosi ci si intende. «Per me è la cipolla… ehm è Radler». A emettere il primo verdetto è proprio l’amico baffetto, che però fa presto a seguitare nella sua previsione, sottolineando «A patto che quest’anno decida di partecipare». Gli

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risponde immediatamente l’oste, che agisce come giudice super-partes: «Hai ragione, Radler è tanta roba. È sempre un gran bel bere e in un concorso del genere avrebbe sicuramente le sue soddisfazioni, c’è poco da discutere. Tuttavia, se non ha partecipato lo scorso anno, chi glielo fa fare di partecipare quest’anno che è tutto un caos? Sarà anche follia, ma secondo me al caos dei concorsi preferisce la soddisfazione intima della propria taproom, creando anche quella sorta di interesse che costringe gli appassionati a scomodarsi per assaggiare le sue creazioni.» «C’hai ragione, certamente è così!» conviene Barbafolta «In tal caso» e qui fa una piccola pausa, mostrando di aver immediatamente appreso gli insegnamenti dell’oste; quindi riprende, occhi stretti in una fessura e sguardo indagatore rivolto agli astanti, nessuno escluso «quale birrificio farà bene sulle luppolate?» «Qu/Ak, tanto per cambiare» profetizza Baffetto. “Ecco Mr. Ovvio” dico nella mia mente, mentre annuisco di riflesso, unendomi al sentimento po-

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polare. Siamo tutti d’accordo con l’affermazione. Qualcuno, però, ha qualcosa da aggiungere e quel qualcuno è il mio preferito: l’oste. «Secondo me uno che di luppoli se ne intende e che non è ancora asceso al grande pubblico è Fiamma Ardente. Escludendo il nome, che pare quello di un supereroe Marvel, ha recentemente tirato fuori di quelle bombette davvero niente male. Su tutte la Fiocco Rosso DDH IPA. Spet-ta-cola-re! Ma anche in stili meno amari quali Tripel e Bitter ne cava le mani. Quella che stai bevendo» e a questo punto si rivolge direttamente alla mia persona, indicando con l’indice la mia pinta «è la loro, servita a pompa» conclude. «Buona, nevvero?». Gli rispondo silenziosamente con un cenno del capo, sottolineando l’apprezzo con un nuovo sorso. «C’era anche lo scorso anno, ma mi sembra abbia fatto scalpore» è il commento sarcastico e strafottente. Eccolo lì, maledetto Baffetto impenitente, fossilizzato sulle sue birre hype. «Va bene, allora chi voteresti?» gli chiedo, cercando di non far trasparire il mio disappunto con un tono di voce piccato, intimamente contento dell’assist che mi ha offerto. Non gli avrei dato due lire, eppure la sua risposta mi sorprende in positivo. Evidentemente, sotto il baffetto, nasconde un palato ancora non asfaltato del tutto. «Personalmente tifo per quelli con le lattine ganzissime di colore bianco, rosso e nero; quelle con i teschi e i nomi bislacchi. Com’è che si chiamano? Ah sì, The Cure!» «The Cure? Come la band musicale? Sei proprio sicuro?!» chiede Barbafolta, sorpreso dal peculiare caso di omonimia. Non lo ammetterebbe mai, ché si rovinerebbe una reputazione da uomo virile, ma per Baffetto ha un debole e quello che dice è per lui la verità assoluta. «Al cento per cento. The Cure ti dico» conferma Baffetto. «Ho assaggiato qualcosa e secondo me stanno facendo assai bene. Certo, ubicati alla fine del mondo, si vedono poco in giro, ma con quelle lattine non passano

inosservati. Un concorso del genere li aiuterebbe a fare il debutto nazionale.» The Cure, mmm… è vero, hanno del potenziale. Anch’io ho assaggiato diverse loro referenze. Oltre a essere tutte a un livello medio-alto, un paio sono state addirittura sorprendenti. E la vera sorpresa, di questi tempi, è rimanere sorpresi – senti qua che citazione che m’è venuta! Ah, che erano belli i tempi della caccia alle novità, oggi esercizio noioso e ridondante. A ogni modo, pur essendo un birrificio interessante, a cui auguro di fare meglio dello scorso anno, non è ancora il nome che sto cercando. Forza belli, spremetevi le meningi! «Sempre e solo luppoli» evidenzio. Sono consapevole che il mio pubblico, oste a parte, è luppolo-centrico, e farà fatica a digerire quanto sto per dire. Quello che voglio, infatti, è stuzzicarli. «Possibile che in questo locale non si parli d’altro? Dove è finita la vostra passione per gli stili tradizionali, le basse fermentazioni, il Grande Belgio?» «Vacci piano, bello!» mi risponde aggressivo Barbafolta. Prevedibile. Anche lui un campione di ovvietà. «A parte che non tutte le luppolate sono uguali, anzi: è proprio perché là fuori esistono delle ciofeche inenarrabili che apprezzo le interpretazioni moderne di qualità. Se però vuoi una previsione fuori dal coro» e qui una generosa impomatata «scommetterei su Buoncantone». Gelo tra gli astanti, ai quali il nome suona vero come una banconota da tre euro. Nome mai sentito. Ma non è proprio Birra dell’Anno il concorso dei birrifici emergenti? Ben vengano, allora, i loro cinque minuti di gloria. Sarà il tempo a dire se ci sanno fare, oppure se è stata solo questione di fortuna. «Dicono che, in quanto a fermentazioni basse, possa essere la nuova vacca da mungere» è l’epilogo del suo commento, nel vano tentativo di stemperare l’ormai diffuso scetticismo. Ho l’impressione che, di fronte al generalizzato sgomento, anche lui si sia accorto di averla spara-

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ta grossa. «Buoncantone, eh? Ci darò un’occhiata» commento, giusto per abbozzare un piccolo complimento a questa inaspettata dritta. «Un altro nome su cui scommetterei è Old Wild East» è invece la previsione di Baffetto. «Chi è?» chiedo, pur avendo l’impressione di aver capito dove vuole andare a parare. «Quello che appena fa una nuova birra improvvisamente la vedi su tutti i profili di presunti beer influencersss». Bingo! Avevo azzeccato. In quanto a te, amico mio dal baffetto elettrico, tanto di cappello: non avresti potuto descriverlo meglio. «Ah, ho capito quale dici» confesso, senza particolare entusiasmo. Era un nome che sapevo sarebbe saltato fuori a una certa. «Per una volta tutta la prosopopea del marketing è supportata da una consistente base qualitativa» è l’unica cosa di rilievo che mi sento di

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aggiungere. Ho concluso, vostro onore. Ma non sono ancora soddisfatto. «E quelli che hanno vinto il titolo di Birraio dell’Anno, dove li mettiamo?» continuo a chiedere, tanto per ravvivare una conversazione piatta e avara di veri azzardi. «Si presentano al concorso con le spalle grosse» interviene finalmente l’oste, riportando la conversazione su un livello più interessante, più maturo. «C’è da credere che, dopo la vittoria dello scorso anno, realizzeranno ottimi posizionamenti anche stavolta.» «Ti riferisci al laboratorio laziale, vero?» chiede l’oste, che da locandiere rodato qual è, pur potendo fare le scarpe ai sottoscritti, si concede il beneficio del dubbio. Che uomo! Indifferente alle mode, se non nella misura in cui influenzano i propri incassi, nonostante l’evidente stato di ebbrezza, e gli anni

sulle spalle, è ancora sufficientemente lucido per apprezzare quello che ha nel bicchiere. Un eroe dei tempi moderni, ce ne vorrebbero tanti, come lui. «Sarò eretico ma quello che ho assaggiato ultimamente non mi ha fatto impazzire, soprattutto i suoi cavalli di battaglia. Piuttosto le birre a fermentazione bassa: le ho assaggiate per pura curiosità e ne ho goduto come un mandrillo.» Siamo agli sgoccioli, ritengo che sia il momento di giocare gli assi nella manica. «Bonaventura vi dice niente?» chiedo vagamente. È da un po’ che il nome gira sul mercato, una sorta di apripista della renaissance birraria meridionale. Con l’avvento della lattina e una distribuzione ramificata lo si trova pressoché ovunque. I più maliziosi ne discutono le logiche commerciali, aggressive e di massa. Per quel che mi riguarda, e lo dico da consumatore, mi

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fa solo piacere se posso reperire le loro birre al locale sotto casa tanto quanto al supermercato. Prima o poi il concetto de “l’artigianale al supermercato non esiste” verrà superato: il passato è passato, il futuro ha bisogno di logiche diverse. Ma di questo i birrifici nostrani se ne accorgeranno troppo tardi. «Sentito e bevuto» risponde l’oste. A questo punto gli uomini pelosi sono stati tagliati dal giro. Queste chicche da mercato nero non sono ancora alla loro portata. «Pare che quest’anno si sia dato alle birre acide. Se ne percepisce subito il lavoro e l’attenzione meticolosa, tant’è che più di uno mi ha detto di aver gridato al miracolo. Chissà che non riesca, in un modo o nell’altro, a scalzare i grandi classici. Ed eccoci al culmine, finalmente. Ho lavorato abbastanza ai fianchi ed è giunto il momento di tirare le somme. «A proposito di grandi classici, qual è la vostra previsione?». La mia domanda, per la prima volta da inizio conversazione, suona come premeditata e impaziente. Effettivamente non sto più nella pelle e sono ansioso di scoprire qual

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è il sentiment nazionalpopolare. La prima risposta, assurdo che sia, arriva da Baffetto. «Direi lo Zoo Animale. Si ostina a rimanere in bottiglia, in compenso è solido come una falesia, un porto sicuro durante la bassa marea, il vecchio che ritorna vestito da nuova era. Non sono birre che fanno gridare

al miracolo, eppure non deludono mai. E al prezzo con cui si trovano, Zoo Animale tutta la vita». Così conclude Baffetto, fiero del suo sermone, che all’acme del suo intervento si era addirittura dimenticato di possedere un paio di baffi, lasciandoli felici e intoccati per qualche secondo. La seconda risposta, come previsto, arriva dall’oste. È quanto ha da dire a lasciarmi di stucco. «Be’, ti dirò. Secondo me è la volta buona che l’Opificio Italiano si prende una bella rivincita» facendo chiaramente riferimento al birrificio amichevolmente noto come Il Birri. «Sono anni che si mantiene in posizione defilata, attore non protagonista di un movimento da lui stesso creato; gli anni passano eppure è sempre lì, coriaceo, inamovibile. Cari giovani, voi vi bevete tutto, ma sappiate che, oltre a tradire di rado, quest’anno ha fatto meglio del solito e ha pure tirato fuori due robette acide… Oh, può anche essere che mi sbagli, ma per me l’Opificio Italiano quest’anno si prende una bella rivincita!» «L’Opificio Italiano, mmm…» rimugina Baffetto, che ormai ha ripreso a smanettare coi sui baffi, fissando lo sguardo da qualche parte nel vuoto; il suo volto è un dipinto di puro scetticismo. «Non so,

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certamente sarebbe una novità» si limita ad aggiungere. Lo sarebbe eccome, direi io. E aggiungerei: porterebbe una ventata di freschezza in un concorso che continua a sfornare meteore destinate a bruciare nell’atmosfera: birre sconosciute improvvisamente sulla bocca di tutti, che poi all’assaggio lasciano delusi. Troppi alti e bassi, troppa instabilità. L’Opificio Italiano, da questo punto di vista, sarebbe una garanzia, ne convengo. Staremo a vedere. «Signori, si è fatta una certa. Torno a casa prima che scatti il coprifuoco» e così dicendo mi sollevo dalla sedia, indossando la giacca. La mia recitazione è terminata. Lascio questo luogo nelle stesse condizioni in cui l’ho trovato, consapevole che la mia assenza non farà sentire la sua mancanza. Con un gesto distratto saluto la comitiva, che si limita a ricambiare senza troppe moine. “Alla prossima, semmai ci sarà” è il modo in cui la mia mente conclude l’episodio. E

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si conclude così anche la mia missione. Un lavoro miserabile, il mio, cacciatore di teste ed esecutore capitale. Domani porterò queste informazioni in ufficio e le getterò sul tavolo, in pasto a quel branco di pescecani dei piani alti. Farò nomi, eccome se ne farò. Adesso ne ho a bizzeffe. Che dio li abbia in gloria. Dall’esito della riunione dipenderà il loro destino: continuare a rimanere orgogliosamente dipendenti oppure accettare una vagonata di soldi e vendere all’industria. Tanto, alla fine, vince sempre l’industria, ed è per questo che mi sono schierato dalla sua parte. Qualsiasi cosa facciate, Birrai Uniti, siamo e saremo sempre un passo avanti, muahahaha.

Epilogo A fine serata, rientrando a casa, il protagonista si sente sporco, bisognoso di lavarsi di dosso la sozzura di tutta quella cospirazione e del suo infido doppio gioco: affabile amico ed estimatore

dell’indipendente di facciata; viscido, fedifrago, bieco individuo e detrattore dell’artigianale alle spalle. Lontani sono i tempi in cui si ergeva a paladino della birra artigianale; poi l’industria lo ha ghermito, portandolo nel suo covo. “Chi non avrebbe fatto così, al mio posto?”. Ed è con questo pensiero nella testa, un pensiero che puzza della scusa di un codardo, che questa spia riesce ancora a guardarsi allo specchio. L’indomani, durante la riunione, costretto a bere l’estratto di mais e riso della casa, il rimorso e il disgusto di quella birra gli avrebbe fatto salire su un conato di vomito, costringendolo a scappare al bagno. Come sempre, liberandosi di quel peso, si sarebbe lasciato tutto alle spalle, fiero della sua supposta integrità, ma soprattutto del suo florido conto in banca. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente reale. Tutto il resto è fantasia. ★

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IMPRENDITORIA BIRRARIA

di Francesco Donato

GUIDA GALATTICA

PER PUBLICAN

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d eccoci al quarto appuntamento che racconta di come abbiamo avuto la bellissima idea di trasformare la nostra passione birraria in un vero e proprio lavoro. Abbiamo già progettato il nostro locale, studiato il nostro menù, formato il nostro personale e siamo quasi pronti all’apertura.

Si… ma la birra? Quello del mercato birrario, in termini di scelta dei marchi da vendere, reperi-

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bilità, trasporto è da sempre argomento spinoso e fonte di innumerevoli pareri nonché di dinamiche non sempre facili da assimilare da chi è “fuori dal giro”. Sicuramente come già detto nello scorso numero, è necessario fin dalle fasi di avvio porre grande attenzione al dimensionamento e alla strutturazione dell’offerta birraria. Ergo, non sovraccaricare frigoriferi e scaffali senza alcun criterio, magari solo per smania di accontentare tutti e di cercare di apparire da subito

4a parte

“belli grossi” in quanto a numero di referenze. Questo, vi assicuro, è un passaggio molto difficile da fare “digerire” ai nuovi publican che si apprestano ad aprire, vuoi perché la sana volontà di dimostrare la propria competenza, da subito, è spesso molto forte, vuoi perché dopo anni passati a bere questo e quello non si vede l’ora di proporre e di passare all’attacco. Azioni pericolose, se esercitate senza logica, soprattutto perché nella fase iniziale il nostro locale

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sarà probabilmente nella fase più delicata della sua vita e le risorse, soprattutto quelle economiche, andrebbero gestite utilizzando al meglio la testa.

Quindi freniamo l’istinto e creiamo un vero e proprio piano d’azione. La prima mossa potrebbe essere quella di contattare vari distributori locali e a carattere nazionale e iniziare a lavorare sui listini proposti. Potremmo trovare molte birre solo da alcuni di essi e altre, soprattutto quelle concernenti alcuni mercati come quello belga, da più di un fornitore. Spaziare tra più di un fornitore, soprattutto all’inizio, può essere un buon modo per entrare a contatto con i vari modi di lavorare, le varie tipologie di condizioni proposte e, perché no, verificare la cura che viene riservata sotto tutti i punti di vista. Oltre ovviamente allo stabilire dei veri e propri rapporti personali con operatori che già navigano in questo mondo e che magari avrete modo di conoscere personalmente a fiere ed eventi. Quindi la strada potrebbe essere quella di ragionare per ordini mirati da più di un fornitore, senza caricare il magazzino di tipologie simili di birra, in modo tale da valutare con attenzione la risposta della clientela.

non avendo l’obbligo di raggiungere dei minimi di ordine per ottimizzare i costi di trasporto. Un’altra strategia che si potrebbe proporre ai birrifici locali è quella di creare sinergie e accordi per ideare birre ad hoc per il locale, in bottiglia ma anche alla spina. Si potrebbe lavorare su ricette già realizzare dal birrificio, oppure brassare birre totalmente nuove, creando una partership tra i due brand. Il birrificio potrà continuare a vendere la birra ai suoi clienti, anche quelli lontani (liberandovi dall’onere di acquistare l’intera cotta) o potrete scegliere di garantirvi un’esclusiva iniziando a brassare piccole quantità etichettate esclusivamente con il vostro brand. Di una cosa potete stare certi: non appena inizierà a circolare voce della vostra imminente apertura, o del vostro cambio di rotta di politica aziendale con lo scopo di implementare l’aspetto birrario del locale, sarete in breve tempo coccolati da agenti delle più svariate distribuzioni e riceverete moltissimi messaggi sui vari canali social con proposte di acquisto. Nulla contro gli agenti, per carità: nel campo della ristorazione ne esistono di esempi validissimi, ma molto spesso salire sul treno, fino troppo veloce, della bir-

ra artigianale fa gola a un po’ tutti, con la potenziale problematica di trovare, non di rado, dall’altra parte della scrivania, incompetenza e poca attenzione nei confronti della qualità del prodotto. Insomma, agenti che fino al giorno prima proponevano pomodoro e succhi di frutta, oggi vi proporranno birrifici artigianali, di cui non sanno spiegarvi le referenze o, ancora peggio, con i prodotti conservati nei loro magazzini come si conserva… il pomodoro. Fortunatamente quelli appena descritti sono dei casi abbastanza rari al giorno d’oggi, ma in passato, vi assicuro, il boom che ha vissuto la birra artigianale italiana aveva permesso di sviluppare anche dinamiche negative del genere. Per capire quali prodotti acquistare e come muovervi tra una marea di distributori e birrifici, cercante il confronto con altri publican, più affermati o meno, girate i luoghi di interesse birrario, cercate di capire cosa ama bere la gente e non soffermatevi solo ai marchi o alle birre di grande richiamo. Prima di tutto cercate di essere sempre voi stessi, date retta al vostro gusto e mettete in campo la vostra competenza, grande o piccola che sia, senza però dimenticare che il vostro gusto non è certo il giudice as-

Poi, ovviamente, è importante sempre guardarsi intorno! Birrifici locali possono essere una grande risorsa per svariati motivi. Supportare la scena birraria locale può essere un buon trampolino identificativo. Soprattutto se il vostro locale si trova un in luogo animato dal turismo: molto spesso potreste imbattervi in clientela curiosa di assaggiare prodotti birrari del posto, piuttosto che ordinare quello che potrebbe anche consumare sotto casa. Instaurare rapporti commerciali con i birrifici della zona, inoltre, ci consentirà di avere birre sempre a disposizione, risparmiando su costi di spedizione e

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soluto e che in un’attività commerciale vanno affrontate e soddisfatte anche le richieste del cliente. Quindi se voi non amate le stout, non mi sembra certo un buon motivo per eliminare lo stile dalla vostra offerta.

Frequentate le fiere e gli eventi birrari! In queste manifestazioni, cercate di conoscerete il maggior numero di vostri colleghi publican, anche molto lontani rispetto a quelli che lavorano nelle vostre zone, con cui vi potreste confrontare e scambiare idee e opinioni. Inoltre, cosa fondamentale, questo tipo di eventi vi daranno la possibilità di effettuare assaggi di prodotti di molti birrifici differenti in un’unica occasione. Instaurerete anche in questo caso rapporti con birrai e figure commerciali, e potrete scoprire tra le loro birre offerte anche eventuali “chicche” che non avreste avuto modo di assaggiare in altri ambiti.

Da un evento birrario si torna sempre a casa con un utile carico di esperienza, nuove conoscenze, nuovi stimoli e, perché no, con tanta birra bevuta. Avevamo già accennato nelle puntate precedenti l’aspetto dinamico di cui deve vestirsi la vostra offerta birraria per rendersi sempre attuale e stimolare la curiosità del cliente tipo. Esatto: il cliente tipo di un’attività (sia essa una birreria pura o una pizzeria) che punta ad essere riconosciuta come un punto di riferimento di zona per la birra artigianale, è un cliente abbastanza particolare. Particolare perché potrà chiedervi costantemente nuove proposte: è uno che ama bere bene e necessita di un luogo accogliente e che lo faccia sentire a casa e che non disdegna frequentare altri luoghi birrari della zona. È importante rimarcare infatti che non esiste il cliente “vostro”, come non esiste il cliente “loro”, oggetto da contendersi a vicenda a colpi di birre clamorose! Esiste il clien-

te che ama la buona birra artigianale e di qualità. Di conseguenza, cercate di instaurare e mantenere rapporti di crescita e confronto con gli altri locali birrari della vostra zona. Cercate di fare rete! Far crescere, ciascuno, il proprio locale è una battaglia intrigante, ma alimentare tutti insieme la cultura birraria e creare una crescita esponenziale del numero di nuovi appassionati birrari è la guerra commerciale da affrontare tutti insieme. Più persone bevono bene e con cognizione di causa, più ne trarrà giovamento l’intera scena birraria locale.

Quindi: avere nella propria offerta sempre le stesse birre oppure cambiare di continuo? L’ideale potrebbe essere avere in carta delle birre must, birre cosiddette immancabili che molti tra i vostri clienti sono abituati a ordinare e che, pur essendo affascinati dal cambio, non smetterebbero mai di bere. Questa leva funziona a meraviglia, soprattutto se siete un locale che opera al meglio anche con il food, ovvero con una clientela che entra nel mondo della birra artigianale dalla porta principale. Dover cambiare di continuo la birra che accompagna la solita pizza per molti clienti potrebbe trasformarsi in un deterrente. Quindi, in linea di massima, scegliere una linea di birre fisse non sarebbe una cattiva idea. Si potrà optare, come detto, per birre “a proprio marchio”, piuttosto che per birre di un singolo birrificio (in modo da ottimizzare scorte e ordini), magari di qualità ma non proprio conosciutissimo nella propria zona; oppure i grandi classici dal Belgio (io, ad esempio, quando leggo Orval in un menù, un pensierino lo faccio sempre!) o dalla Germania.

Per le altre linee, pensare a una costante rotazione, fatta con criterio e cognizione di causa. Il mercato della birra artigianale è in continua evoluzione, soprattutto in merito

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ai gusti della clientela. Cercate di stabilire inizialmente un’offerta abbastanza equilibrata, non svilendo in linea generale nessuno stile birrario e lentamente cercate di correggere il tiro, statistiche alla mano. Per farvela breve: non è detto che “dalle vostre parti” 6 etichette su 10 debbano essere necessariamente delle IPA. Conosco locali che continuano a “dettare legge” vendendo litri e litri di porter e stout; altri che sono vera e propria roccaforte di stili belgi oppure di basse fermentazioni tedesche. Cercate di capire cosa è più funzionale alla vostra offerta, senza mai disdegnare nulla.

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Che supporto usare per comunicare alla clientela la vostra (più o meno) vasta offerta birraria? Sicuramente parlarne è sempre un’ottima soluzione. Che siate voi a farlo in prima persona oppure il vostro personale, opportunamente istruito alla vendita, scambiare due parole di persona, o un consiglio, un’informazione o un parere saranno sempre ben accette dal cliente. Senza dimenticare la potenza fidelizzante del rapporto personale. Se invece lavoriamo in un locale altamente dinamico, facilitare la scelta del cliente diventa una vera necessità. Il periodo

particolare che stiamo vivendo ha trasformato questa necessità in un’opportunità. Lavorando esclusivamente con asporto o consegna a domicilio e dovendo limitare i contatti con il materiale cartaceo, molte attività hanno reinventato il loro modo di proporsi alla clientela.

Il web e i supporti online sono diventati così uno strumento per ribadire la nostra presenza e comunicare. Senza contare l’aspetto “comodità”. Gestire un foglio excel online, aggiornato con tutte le vostre birre, oggi è un processo alla portata di tutti, che consente di risparmiare tempo e di carta! I più virtuosi e fantasiosi possono creare dei veri e propri menù pubblicati sui social (Instagram pare sia diventato il nuovo luogo di culto per le recensioni birrarie!) e, perché no, potreste creare dei veri e propri tutorial su come servire la birra o come abbinarla ai vostri piatti! Nella prossima (e ultima) puntata, tireremo le conclusioni sugli argomenti sin qui trattati, fornendo utili esempi pratici e dando qualche consiglio su come affrontare le nuove sfide birrarie, implementando, ad esempio, un vostro negozio virtuale ecommerce. ★

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HOMEBREWING

di Massimo Faraggi

FERMENTARE

LA CONFETTURA DI FRUTTA!

È

forse inevitabile che l’homebrewer di lunga data prima o poi voglia provare altre fermentazioni oltre a quella strettamente birraria, almeno questo è quanto è successo a me e penso anche a molti altri. Dopo la birra un campo di grande interesse è, ad esempio, quello dell’idromele che può dare grandi soddisfazioni sia come produttore sia come bevitore! Un altro mondo da esplorare è quello dei vini di frutta. Fatta esclusione naturalmente per l’uva, i fermentati da altri tipi di frutta sono poco diffusi in Italia, ma hanno una lunga tradizione soprattutto in Inghilterra. La scarsa diffusione della vitis vinifera nelle isole britanniche (solo in tempi recenti si è cominciato a produrre vino nel sud dell’isola e in piccole quantità) unita alla sete di vino degli inglesi, ha fatto sì che soprattutto nelle zone rurali ci si rivolgesse verso

la realizzazione di fruit wines ottenuti dalla fermentazione di frutti vari, con o senza aggiunte di zuccheri, spesso aromatizzati con erbe dei propri campi. Questa tipologia di vini veniva apprezzata come prodotto a sé stante, ma spesso era anche intesa come sostituto dei più costosi vini importati dall’Europa continentale, in particolare dalla Francia, Spagna e Portogallo. L’argomento meriterebbe non un articolo ma un intero libro! Per quanto molto interessato, però, la mia esperienza pratica è stata finora limitata. Ancora incerto se cimentarmi con presse e frutta fresca, da tempo mi chiedevo se una scorciatoia possibile potesse essere quella di fermentare ... la marmellata [1]. L’occasione è arrivata nel momento in cui, con mia moglie, abbiamo realizzato di avere una scorta più ampia del solito di ottime confet-

ture artigianali. Apprezziamo molto il prodotto, ma il nostro consumo è comunque moderato, e l’idea di mettere a frutto quella frutta, permettete il gioco di parole, è stata la logica conseguenza a cui la mente di un homebrewer non poteva non arrivare. Dal punto di vista pratico la cosa ha una sua logica: un po’ come usare estratto di malto per produrre birra. Mi chiedevo però se avesse senso usare un prodotto lavorato: visto nel suo insieme, il fatto di cuocere e concentrare la frutta per ridurla a confettura, per poi diluirla per fermentarla, può apparire un processo poco logico; il dubbio soprattutto è se gli aromi fruttati possano conservarsi durante tutta la sequenza. A posteriori posso dire che il responso è positivo: il risultato è un prodotto che pur mancando (volutamente) della dolcezza, conserva nettamente il carattere del frutto originale.

La ricetta del fruit wine La scelta della base è caduta su alcuni barattoli di confettura di albicocche, con una più piccola aggiunta di confettura di pesche; sapevo già che nella birra le albicocche conferiscono un bel carattere, mentre le pesche sono un po’ più evanescenti. Si tratta ora di formulare una semplice ricetta e procedura. L’aspetto di cui tenere conto è naturalmente che nelle confetture sono presenti sia la frutta sia gli zuccheri aggiunti: questo limita le ambizioni di produrre un vino all fruit. In realtà, leggendo alcuni manuali moderni e antichi di ricette di fruit wines inglesi,

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l’aggiunta di zuccheri è una costante. Questa è una ovvia necessità nel caso di frutta a basso tenore di zuccheri (di cui ci si può render conto esaminando le tabelle della loro composizione [2]); in realtà in quasi tutte le ricette viene aggiunta acqua, diluendo quindi gli zuccheri presenti, per poi aggiungere saccarosio. Può sembrare un controsenso, ma in certi casi un mosto il cui liquido è solo proveniente dalla frutta può risultare troppo concentrato a livello gustativo. Si possono certo preparare vini a partire da solo succo (con o senza zuccheri aggiunti), come mi è capitato di fare con le arance, ma sembra essere più un’eccezione che la regola.

Il procedimento Da questo punto di vista mi sono quindi sentito rassicurato sul fatto di produrre un qualcosa di coerente con le ricette di fruit wines tradizionali. Si potrebbe provare a ricostruire, a partire da caratteristiche e ricetta della confettura, quale fosse il contenuto equivalente di frutta all’origine, ma non l’ho ritenuto indispensabile. Piuttosto, è necessario conoscere il contenuto zuccherino totale della confettura, per poter determinare la diluizione in acqua per ottenere una OG desiderata. Per questo è bastato sciogliere 10 g [3] di confettura in acqua, q.b. per raggiungere 100 ml e misurare la OG con il densimetro. Il valore ottenuto (1022, quindi 22 punti) equivale al riferimento standard di punti di OG per kg per 10 lt che uso personalmente [4]. Usando una confettura commerciale, è sufficiente controllare nella tabella dei dati nutrizionali il valore percentuale dei carboidrati, e moltiplicarlo per 0,36 [5]. A questo punto è possibile determinare quanta frutta usare (o nel mio caso, avendo una quantità disponibile di circa 1 kg, quanta acqua usare e quanto prodotto finale ottenere). Prima di tutto, a che OG puntare? Il mio obiettivo era ottenere un vino di albicocche di gradazione paragonabile a

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un vino da tavola (ad es, 12.5%), beverino e di carattere più secco che dolce: più un vino da aperitivo che da dessert o meditazione. A queste gradazioni un lievito da vino, o da birra con buona resistenza alcolica, è in grado di attenuare quasi completamente gli zuccheri. Ipotizzando una SG di poco inferiore a 1000 (indicativamente 995), per ottenere 12,5% di alcool la variazione OG-SG dev’essere 12,5x7.5=93 circa, quindi la OG deve essere 995+94=1088. Sapendo (vedi sopra) che 1 kg di confettura su 10 litri risulta in 22 punti (1022), per ottenere la gradazione desiderata (1088) sono necessari 4 kg su 10 l, ovvero 1 kg in 2,5 lt di mosto. Volendo, è possibile anche calcolare a priori l’acqua necessaria: sapendo che il peso specifico della confettura è di circa 1,3 il volume della confettura risulta di circa 770 ml e l’acqua da aggiungere 1,73 l circa. Più semplicemente, è possibile sciogliere la confettura in acqua, aggiungendone quanto basta per raggiungere i 2,5 l desiderati.

Correzione dell’acidità Un aspetto importante, forse più noto ai produttori di idromele che a quelli di birra, è quello dell’acidità. Nella birrificazione, le caratteristiche della materia prima, il processo produttivo e le caratteristiche stesse della bevanda fanno sì che in genere l’acidità opportuna venga naturalmente raggiunta (fatto salvo do-

ver controllare il corretto pH in fase di ammostamento). Nei vini di frutta, mi son reso conto (più per letture che per esperienza) come sia in genere necessario predisporre le opportune azioni e correzioni per la giusta acidità. Questa è necessaria sia per un regolare svolgimento della fermentazione, sia per le caratteristiche organolettiche del prodotto che, senza una sufficiente acidità, risulterebbe sbilanciato o addirittura stucchevole e monotono (in inglese dull, ossia noioso). Esistono due indicatori per l’acidità di una soluzione: il pH (che misura in un certo senso l’effetto dell’acidità) e l’acidità totale, che indica la quantità di acido presente (riferita all’equivalente di grammi per litro di acido tartarico). Non vi è una correlazione diretta fra i due parametri, nel senso che una variazione cospicua di uno di essi non si traduce necessariamente in altrettanta variazione dell’altro. Il pH si può facilmente misurare con le cartine o meglio con un pHmetro, l’acidità senza difficoltà con una titolazione [6]. Il range di pH consigliato solitamente è fra 3 e 3,6, mentre per l’acidità esistono valori consigliati, riferiti spesso a vini d’uva bianchi o rossi ma estendibili a quelli di frutta. In questo caso dopo aver stimato l’acidità già presente nel mosto di confettura, si deduce il grado di acidità da aggiungere e si traduce in quantità di acido (es. lattico, o succo di limone) da inserire nella ricetta.

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Io ho preferito basarmi sul pH, tenendo comunque anche conto dell’acidità: dopo aver esaminato un report [7] che suggeriva di aumentare l’acidità di ben 6 g/l aggiungendo sia acido che succo di limone, per prudenza ho ridotto notevolmente la quantità, affidandomi al succo di limone [8].

Il lievito Qui si apre un mondo: in questa sede basti dire che fatte le mie considerazioni e considerata comunque la natura sperimentale del prodotto, mi sono affidato a un lievito di vino bianco (Kitzinger Steinberg).

Come per l’idromele, anche per i vini di frutta ci sono scuole di pensiero diverse riguardo ai cosiddetti additivi (inclusi gli acidificanti di cui sopra). Mi sono attenuto alla mia consueta prassi riguardo l’aggiunta di nutrienti per lievito (Vinovit e vitamina B1), aggiungendo anche una dose di enzima pectinase (Zymex) per agire sulla pectina presente nella frutta, in modo da ottenere un prodotto limpido. È un vino, non un succo di frutta e tanto meno una Hazy Neipa! Il procedimento è stato piuttosto semplice: ho disciolto la confettura in acqua (in quantità di poco minore rispetto a quella calcolata) e ho portato a temperatura di

70 °C per 20-30 minuti per pastorizzare. Non sono sicuro della stretta necessità di questo passaggio, ma in ogni caso non è deleterio per gli aromi, se pensiamo che comunque la frutta della confettura è stata già sottoposta a cottura. Ho poi aggiunto acqua fredda, utile anche a velocizzare il raffreddamento, fino alla quantità di prodotto desiderato. Il raffreddamento, tenuto conto della quantità limitata di mosto, è avvenuto per immersione in acqua fredda. La OG misurata è stata di circa 1088-1090, e il pH con l’aggiunta del succo di limone è sceso da 3,6 a 3,3. Inseminato il lievito non reidratato a circa 30 °C, e proseguito

Ricetta per 5 litri (3 finali) INGREDIENTI ❱ Confettura di albicocche 2 kg ❱ Vinovit nutrient 1 cucchiaino ❱ Vitamina B1 2 compresse (o altri nutrienti per lievito, in dosi opportune) ❱ Zynex (pectinase) 1 cucchiaino ❱ Acido lattico e/o succo di 1 limone q.b. per portare il pH entro 3,5 ❱ Acqua q.b. per ottenere 5 l PROCEDIMENTO Scaldare l’acqua a 70 °C e sciogliere la confettura. Mantenere per 30 minuti. Raffreddare fino a 18-20 °C. Inseminare il lievito quando la temperatura è circa 30 °C. Lasciar fermentare nella pentola stessa (è sufficiente una copertura non ermetica) per una settimana, avendo cura di sommergere giornalmente la polpa di frutta presente sulla superficie. Travasare in un fermentatore (damigiana, vaso di vetro o tino di plastica) filtrando la polpa con un setaccio sanitizzato, e lasciar fermentare per altre due settimane. Travasare in altro recipiente, senza filtrare ma lasciando da parte la maggior parte del sedimento, e maturare per un mese. Imbottigliare (con priming se si vuole un vino frizzante, ad esempio 6 g per litro).

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Gli ingredienti

Preparazione

Inizio fermentazione primaria

Fine fermentazione primaria

Primo travaso

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il raffreddamento, la prima fermentazione è avvenuta direttamente nella pentola stessa a circa 18-20 °C; è consigliabile re-immergere periodicamente la parte di polpa portata in superficie dalla CO2. Dopo una settimana, la SG era scesa a 997 (pressoché il valore di quella finale) e il mosto è stato travasato in un bidoncino, filtrandolo con un setaccio. La quantità persa in questa fase è stata considerevole. Dopo tre settimane, ho effettuato un altro travaso, senza filtraggio, in un altro fermentatore (vaso di vetro), dove il vino è rimasto per un mese prima di essere imbottigliato (SG 996, alcool stimato circa 12.,3%). La quantità è risultata essere di circa 1,5 l.

L’assaggio Il risultato a mio parere è stato soddisfacente. Il vino è limpido, di un bel colore leggermente aranciato. In bocca è quasi 32viadeiBirrai 11:20 paragodel tutto 1.pdf secco, 1con1.7.21 sensazioni nabili ad un vino bianco secco. Il gusto e

aroma di albicocca è netto e piacevole, e si percepisce una certa acidità – forse un filo troppa e forse leggermente limonosa (a meno che non sia la suggestione sapendo di aver aggiunto succo di limone). Da questo punto di vista, oltre a confermare l’idea di inserire meno acido rispetto a quello suggerito dalle mie fonti, penserei a usare acido per alimenti (lattico) in quantità moderata, quanto basta per avere il pH nel range ottimale. Questo apricot wine si presta ad un consumo per varie occasioni: in particolare come aperitivo, vista la sua secchezza e il fruttato, eventualmente usato anche in un cocktail (ad esempio un apricotspritz) se si vogliono contrastare un po’ secchezza e acidità. In ogni caso si tratta di un prodotto valido e diverso da qualsiasi altra bevanda che si possa assaggiare normalmente. Esperimento riuscito... e ora non resta che frugare nella dispensa per la prossima fermentazione! ★

Note

1. Più esattamente, la confettura di frutta. Il termine marmellata andrebbe riservato alle confetture a base di agrumi. 2. Si vedano ad esempio le appendici di: Parrini, M. (2021), I colori dell’idromele, Ed. LSWR MoBI 3. Da un punto di vista pratico, conviene raccogliere un cucchiaio di confettura, pesarlo, e aumentare in proporzione l’acqua: ad esempio se il peso è di 13 g, è necessario disciogliere in acqua fino a 130 ml. 4. in USA si fa invece riferimento ai punti di OG per ogni libbra in gallone di mosto: points per pound per gallon, ppg. 5. https://www.rivistadiagraria.org/articoli/ anno-2019/determinazione-dellaciditatotale-del-mosto/ 6. http://wijnmaker.blogspot.com/2009/04/ paardenloem-aardbeien-wijn-dandelion.html 7 http://wijnmaker.blogspot.com/2009/04/ paardenloem-aardbeien-wijn-dandelion.html 8 Sperimentalmente, possiamo tener conto che circa 1/3 del peso di un limone sia dato dal succo, e che 13 gr di succo di limone corrispondano a 1 g/l di acidità aggiunta. La mia aggiunta è stata limitata (mezzo limone, meno di 1 g/l)

Festeggiamo

con voi i n n a

di genuinità e italianità!

Ringraziamo le persone che ci hanno sostenuti! L’avventura continua! 32 Via dei birrai | www.32viadeibirrai.com Phone +39 0423 681983 | info@32viadeibirrai.com


BIRRA IN CUCINA

di Eleni Pisano

SPEZIE E BIRRA

CONTAMINAZIONI POSITIVE E DI GUSTO il curry, un mix usato dai coloni inglesi in India nell’Ottocento, che può arrivare a contenere fino a 70 tipi di spezie diversi. Le spezie sono commestibili, aromatiche e secche e derivano dalle radici, dalla corteccia, dallo stelo, dal fiore, dal seme o dalla foglia di una pianta. Le spezie non si devono confondere con le erbe medicinali e aromatiche. Un esempio è la pianta del coriandolo, visivamente molto simile per colore e forma a quella del prezzemolo: mentre la pianta e le foglie sono un’erba aromatica, i suoi semi sono una spezia!

Le spezie in cucina: gusto, tradizione e innovazione

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e spezie sono tra gli alimenti più antichi di cui si abbia conoscenza e sono portatrici di storie di viaggi, di miti, di leggende e di grandissima bellezza. Storicamente la ricerca delle spezie ha portato alla scoperta e alla conquista di continenti e alla fondazione e distruzione di imperi. Un tempo le spezie erano più preziose e pregiate dell’oro, si custodivano gelosamente ed erano considerate e trattate come un tesoro di inestimabile valore, che dava a chi lo possedeva un enorme potere di contrattazione. Rappresentavano le merci per eccellenza: dopo lunghi viaggi in cui si doveva avere estrema cura perché non si rovinassero per via di sbalzi di temperatura, umidità e acqua, arrivavano dall’Oriente sino in Europa e quindi nelle Americhe. Se i mercanti veneziani, nel Cinquecento, non fossero stati tanto audaci, forse le spezie non sarebbero arrivate in Europa e non avrebbero influenzato, diffusa-

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mente e profondamente, la cucina e le tradizioni del continente. Negli ultimi anni anche in Italia l’uso delle spezie è diventato sempre più comune favorendo non solo la conoscenza dei loro benefici, ma anche un loro uso più consapevole e bilanciato nella creazione di nuove ricette, anche in ambito brassicolo. La centralità del ruolo delle spezie nella nostra vita quotidiana si è rafforzata anche grazie al riconoscimento delle loro proprietà da parte della comunità scientifica internazionale, che ha confermato come il loro uso nella dieta, soprattutto in sostituzione al sale, possa aiutare a migliorare la salute delle persone.

Quante tipologie di spezie esistono? Il numero preciso delle spezie è impossibile da definire, poiché innumerevoli sono anche le miscele che si compongono nei vari territori. Un esempio su tutti è

Secondo alcune ricerche, tra gli ingredienti utilizzati nelle ricette, in più dell’80% dei casi sono presenti da una a tre spezie diverse. In cucina sono tra le alleate migliori e più eclettiche, indispensabili per esaltare i sapori, regolare le varietà delle acidità e dei sentori e realizzare piatti che uniscano tradizione, esperienza e innovazione. Per avvicinarsi a un loro utilizzo corretto ci sono alcuni piccoli accorgimenti che si possono facilmente introdurre nella propria quotidianità. Per prima cosa, scegliere preferibilmente le spezie in forma e non già in polvere, così da poterle mantenere più a lungo. Le spezie, infatti, temono molto l’umidità, che le rovina e fa perdere loro la veemenza olfattiva e gustativa, oltre alle proprietà nutritive. Bisogna conservare le spezie in un luogo fresco e secco, meglio non esposto direttamente al sole, che ne modifica il colore (negli alimenti, un’eventuale modifica del colore indica anche il grado di deperimento).

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BIRRA IN CUCINA

È importante scaldare le spezie, perché contengono oli essenziali che sono alla base della loro forza e prestanza in cucina. In concreto, significa unirle, all’inizio della preparazione di un piatto, con il condimento scelto, solitamente olio o burro.

Spezie e birra: cenni storici L’uso di spezie ed erbe aromatiche vanta una lunga tradizione nella storia della birra. Il luppolo fu introdotto nella produzione brassicola tra il XII e XIII secolo, grazie anche agli studi della botanica e naturalista suor Hildegard von Bingen (1098-1179) dell’Abbazia di St. Rupert in Germania. Prima di allora si erano utilizzate spezie e piante che venivano aggiunte al mosto e alla birra per consentirne una migliore conservazione e dare le specificità aromatiche che connotavano i diversi luoghi di produzione. La miscela usata si chiamava gruyt ed era formata da un insieme di spezie quali rosmarino, mirto di palude, foglie di lauroceraso, artemisia, achillea, edera terreste e brugo. A queste, a seconda del luogo di produzione, si aggiungevano, solo per citare le più comuni, zenzero, cannella, coriandolo, cumino, ginepro, anice stellata. Il primo riferimento al gruyt, nella sua forma latina Materium cerevisiae, si trova in un documento risalente al 974 d.C., emanato dall’ imperatore Ottone II, secondo il quale “I diritti di gruyt di Fosses (Belgio) sono stati trasferiti alla chiesa di Liege”. L’uso del gruyt era talmente diffuso che i birrai erano obbligati ad adoperarne un certo quantitativo, per compensare l’uso dei cereali e destinarli all’alimentazione umana o animale. Dopo l’introduzione del luppolo, l’uso delle spezie fu accantonato per lungo tempo. Questo avvenne in particolare con la produzione della birra a livello industriale, che richiedeva un prodotto il più omogeneo e identificabile possibile, senza eccedere in troppe varietà e gusti diversi. Negli ultimi vent’anni le birre artigianali hanno fatto il loro ingresso nel

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mercato internazionale e il loro successo ha convinto il mondo brassicolo a incuriosirsi per ricette che contemplassero anche ingredienti diversi oltre a quelli di uso comune, incluse le spezie.

Quali sono le spezie più utilizzate e come si adoperano nella produzione della birra? Le spezie possono essere usate durante varie fasi della preparazione della birra. Solitamente si aggiungono alla fase finale della bollitura del mosto, inserendole all’interno di una garza, per un minimo di cinque minuti. Si possono anche aggiungere nella fase della fermentazione secondaria; in questo caso solitamente sono prima lasciate a riposo con una base alcolica per un periodo che va da un’ora fino ad alcuni giorni, in base al risultato che si vuole ottenere, poi la soluzione alcolica aromatizzata viene aggiunta alla birra. Nella fase della fermentazione primaria possono essere anche aggiunte tramite infusione: sono messe a freddo nell’acqua portata a ebollizione per almeno cinque minuti, poi lasciate a riposo nell’acqua per almeno un paio d’ore e infine l’infuso si aggiunge alla birra. Le spezie si possono anche aggiungere a

freddo all’interno di una garza filtrante, nella fase del raffreddamento del mosto. Per decidere quale spezia utilizzare nella propria ricetta, la prima cosa da fare è assaggiarla e odorarla molto bene, così da capirne l’intensità, dato che questa verrà poi trasmessa al carattere della birra. Tra le spezie più usate nella produzione brassicola vi sono: ❱ seme di coriandolo: ha un sentore leggermente agrumato, ma pieno e morbido come quello della frutta secca; viene utilizzato molto nelle Blanche e nelle Saison; ❱ vaniglia: ha un odore che rimanda alla dolcezza, ma il suo sapore raggiunge note interessanti di amarognolo e leggermente acido che si adattano molto bene ad alcune IPA e alle Imperial Stout; ❱ carvi: chiamato anche cumino dei prati, ha un sapore acre e deciso che rimanda a sentori terrosi. Molto adatto alla preparazione delle birre scure, conferisce ottime note di gusto anche a birre come le Weiss; ❱ pepe: conferisce un aroma intenso e appagante. Al palato risulta vivace ma piacevole a essere bevuto si adatta nelle Pale Ale e nelle Saison. Tra le qualità di pepe più adatte e innovative c’è il pepe di Sichuan, una delle spezie più aromatiche al mondo, ca-

La lunga storia delle spezie

L’uso delle spezie pare essere precedente alla storia scritta. Le scoperte archeologiche che ne testimoniano l’impiego sono innumerevoli. I cinesi usavano la cannella nel 3000 a.C. e gli antichi Egizi adoperavano diverse spezie per l’imbalsamazione. Gli schiavi e i contadini si nutrivano con aglio e cipolla e le piante aromatiche erano di uso quotidiano, per le loro capacità nutritive e antisettiche. Sia in Egitto, all’interno della tomba di Tutankhamon, sia negli scavi archeologici di Pompei sono stati ritrovati molti tipi di spezie. Mosè unse l’Arca dell’Alleanza con cannella e cassia, e il re Salomone ricevette in dono dalla regina di Saba, oltre a oro e gioielli, anche spezie preziose. I Fenici, popolo di mercanti e navigatori, ebbero il ruolo di distributori commerciali delle spezie nel Mediterraneo fino a quando Tiro, la loro capitale, fu conquistata da Alessandro Magno. L’uso così diffuso delle spezie nell’antichità era dovuto in gran parte alla loro capacità antimicotica e antiossidante, che consentiva di conservare più a lungo gli alimenti contribuendo a evitare il rapido deperimento delle derrate.

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BIRRA IN CUCINA

Spunti in cucina Frisella con ricotta, cannella e cipolle in birra.

L’estate è la stagione dei piatti veloci e freddi. Per questo propongo una frisella integrale con ricotta vaccina, montata con la forchetta insieme a un filo d’olio extravergine e a un pizzico di cannella grattugiata. Sopra, cipolle rosse di Tropea o rosa di Montoro marinate per un’ora in birra tipo Pale Ale, sale e olio. Per dare croccantezza, si possono aggiungere briciole di frutta secca, per esempio arachidi, passate prima in padella.

Sarde in frittura di birra e crema di yogurt.

Per rendere un piatto innovativo e “speciale” in cucina bastano a volte piccolissimi cambiamenti. In questo caso al composto per fare la pastella con la birra (va bene una lager) è stata aggiunta della noce moscata grattugiata. Servire con della barba di finocchio per dare freschezza al piatto, una crema di yogurt greco condito con paprika affumicata, olio e sale. Per i più audaci, alla salsa di yogurt è possibile aggiungere un po’ di aglio grattugiato.

Tartare agrodolce.

Le tartare di carne e di pesce sono un’ottima soluzione per piatti veloci, nutrienti e raffinati. Dovete solo assicurarvi che i prodotti siano stati abbattuti e che siano adatti a essere consumati a crudo. Qui vi proponiamo una tartare di manzo e agnello condita con semi di cumino, olio, sale e birra tipo Weiss, che si serve senza necessità di lasciare riposare la carne condita. La tartare sarà accompagnata da una salsa agrodolce di peperoncino rosso.

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Occhio di bue con cipolline alla Stout.

Per una colazione sostanziosa o un pranzo veloce, un uovo all’occhio di bue cotto in burro, pepe di Sichuan e salvia. Alla base mettere dei germogli e sopra alcune cipolline cotte nella Stout. Le cipolline si preparano cuocendole in padella, coperte con 1/3 di Stout e 2/3 di acqua, sale, olio e una parte dolce, preferibilmente miele millefiori o di fiori d’arancio. La cottura dovrà essere medio-bassa fino ad assorbimento del liquido e con un coperchio chiuso.

Sfoglia di pane Carasau, finocchi alla curcuma e crema tre pomodori.

Si tratta di un piatto a crudo che riprende il concetto della lasagna a strati. La crema ai tre pomodori viene fatta con due diverse qualità di pomodori crudi (ciliegino e camone) e dei pomodori secchi non conditi. I finocchi sono tagliati finemente con la mandolina e lasciati cuocere per circa un’ora con olio, sale, curcuma e birra Saison. La lasagna viene composta con il primo strato di pane, la crema ai tre pomodori, i finocchi e chiusa con pecorino, formaggio di fossa o grana a seconda dei gusti e dell’intensità che si vuole ottenere. Per chi desidera mantenere il piatto vegano, al formaggio si può sostituire una granella di frutta secca, per esempio le noci Macadamia.

ratterizzato da un forte bouquet floreale con note citriche e un’intensità pungente; ❱ cannella: molto usata, solo in stecca, nelle birre di Natale, nelle Triple e nelle Blanche. Sapore avvolgente e intenso, si ottiene dalla corteccia di un arbusto e valorizza il suo sapore in abbinamento ad altre spezie come zenzero, cardamomo e chiodi di garofano. ❱ cacao: sapore rotondo e intenso con note anche leggermente acidule che aiutano a rendere la birra più beverina. Si adatta solitamente alle Stout, alle Porter e ad alcune Belgian Ale Le spezie aiutano a viaggiare con i loro sapori, i colori e gli odori, e il viaggio è scoperta e confronto. Sono ingredienti fondamentali per chi vuole offrire sempre prodotti e piatti di qualità, che rendano la degustazione una vera esperienza sensoriale e un’avventura nel gusto! ★

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BIRRA IN CUCINA

Le guide

TECNICHE TRADIZIONALI DI BIRRIFICAZIONE di Lars Marius Garshol

La birra si fa da oltre 5.000 anni, ma ormai da secoli le tecniche produttive si sono progressivamente uniformate, in particolare nel brassaggio commerciale. In alcune zone remote dei Paesi scandinavi e dell’Europa orientale sopravvivono tuttavia pratiche rurali inusuali, tramandate nell’ambito delle locali famiglie contadine, che risultano in aromi e gusti molto lontani dalla birra che abbiamo conosciuto fino a oggi. In questo libro unico al mondo l’autore indaga le materie prime utilizzate e le sfumature tecniche, ma anche antropologiche e storiche, che caratterizzano la produzione del mosto e la fermentazione di queste antiche “birre di fattoria”.

ISBN 9788868959104 Pagine 536 | A colori Prezzo 34,90 euro

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BIRRA NOSTRA MAGAZINE 33 www.edizionilswr.it edizioniLSWR


BIRRE A CONFRONTO

di Norberto Capriata

CELEBRITY BEER-MATCH

LA DAMA BRUNA VS IL MONACO DELLA TERRA

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ettere in competizione due birre diverse, analizzandone e confrontandone le caratteristiche principali, assegnando oltretutto dei punteggi e decretando un vincitore, ha il senso che ha, ossia poco. Però l’approccio serioso alla birra artigianale non mi ha mai sedotto e, in generale, sono convinto che la degustazione debba essere godimento e divertimento e che i tabù possano risiedere altrove. L’idea mi è venuta la sera di Capodanno, durante una perlustrazione alla

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mia piccola ma relativamente fornita cantina, scegliendo una birra da accompagnare al fatidico cotechino con lenticchie. Indeciso tra Aardmonnik (o Earthmonk) di De Struise, birrificio cult belga, molto stimato sia dai vecchi appassionati sia da quelli dell’ultima ora, e Dama Bruna, una delle realizzazioni più apprezzate di Loverbeer, birrificio locale altrettanto quotato, non solo tra i bevitori italiani, ho deciso... di non decidere. E le ho portate a tavola entrambe.

Poi mi sono trovato di fronte alla scelta del bicchiere (ho optato per lo stesso calice ampio da vino), della temperatura (quella da cantina, sui 12 °C, mi è parsa appropriata) e della sequenza di bevuta: da quale iniziare? Difficile... e se le degustassimo insieme? E se ci segnassimo qualche nota gustativa, così, tanto per... e se… Insomma, niente di studiato, come vedete, tutto molto naturale, perlomeno per dei malati di mente come sappiamo essere noi appassionati di birra artigianale.

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BIRRE A CONFRONTO

Alla fine, il giochino mi è parso divertente e anche abbastanza interessante e formativo da meritare un articolo. E magari addirittura un format... Ho infatti realizzato come molte birre di fama o di interesse mondiale abbiano ormai validissimi epigoni a livello locale degni al punto di potersi permettere un confronto qualitativo di questo genere. Le IPA di Alder e Ritual Lab possono tranquillamente competere con i migliori esempi USA, le basse fermentazioni di Elvo e Birrificio Italiano non hanno nulla da invidiare ai rinomati produttori franconi, le birre di Nicola Nix Grande o di Maltus Faber se la giocano alla pari coi big belgi e così via. Queste le regole. Due birre della stessa tipologia, una internazionale, di un certo prestigio e riconoscibilità, e una italiana. Le due vanno degustate contemporaneamente, analizzando, valutando e mettendo a confronto le componenti tipiche sulle quali si basa normalmente l’analisi organolettica: aspetto visivo, aromatico, gustativo, sensazioni boccali e giudizio complessivo. Per i punteggi utilizzeremo il metodo BJCP, in cinquantesimi, che mette a disposizione un massimo di 3 punti per l’aspetto, 12 per l’aroma, 20 per il gusto, 5 per il “mouthfeel” e 10 per la valutazione globale.

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Ora entriamo nel vivo del confronto Aardmonnik è uno dei primi e maggiori capolavori di De Struise, birrificio delle Fiandre Belghe, uno degli ultimi produttori di livello mondiale espressi da una nazione da sempre cardine, da un punto di vista birrario, ma ultimamente un po’ in declino. A inizio millennio il suo carattere acidulo e vinoso, ottenuto grazie a lunghi affinamenti in botti provenienti dalla Borgogna, unito a un approccio muscolare e moderno, colpì molto sia i vecchi bevitori sia i nuovi appassionati e contribuì a imporre questo birrificio e a cementarne un ruolo di culto internazionale che tutt’ora, seppure con alti e bassi, detiene. Dama Brun-a, da notare il solito trattino, tipico dei nomi scelti da Valter Loverier e incomprensibile per chiunque non sia piemontese da almeno tre generazioni, è tra le prime e più riuscite creazioni di Loverbeer. Anche in questo caso siamo di fronte a un produttore

relativamente giovane ma immediatamente affermatosi come uno dei più interessanti e originali del settore, grazie a un uso virtuoso delle maturazioni in legno e a produzioni che perseguono il perfetto matrimonio alchemico tra il mondo brassicolo e quello vinicolo, spesso riuscendo nell’intento. È paradossale che Loverier abbia preferito affrancare le sue birre da ogni riferimento allo stile “Italian Grape Ale”, suggerendo che non ne rispecchierebbero la tipologia... per chi scrive, l’attinenza di alcune di queste è invece fuor di dubbio.

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BIRRE A CONFRONTO

Aardmonnik

Aspetto visivo

Aroma

Gusto

Sensazioni boccali

Poca schiuma evanescente con un contorno aureolato che permane nel bicchiere

Punteggio

2,5/3

Schiuma appena accennata che scompare immediatamente

Color mogano con riflessi rubino

Color ambrato virato verso l’arancio carico

Aspetto opalescente

Aspetto opalescente

Molto intenso ed estremamente complesso

11/12

Intensità media, abbastanza complesso

Predominano sentori terrosi, di sottobosco, funghi porcini, tartufo bianco, muschio bagnato

Aroma delicato di vino rosé

In seconda battuta l’aroma si indirizza verso la salsa di soia

Frutti di bosco, scorza d’arancio e mandarino

Infine frutti di bosco, mirtilli, more, ribes Il mix di aromi può ricordare un Barolo chinato

Sottostante si avverte una leggera speziatura Qualche leggero off-flavor che ricorda l’umidità da cantina

Il gusto è molto intenso e prevalentemente acidulo con un lieve amarognolo di fondo

Il gusto è di intensità media, acidula e vinosa con un pizzico di dolcezza

L’assaggio si rivela di forte impatto, tagliente, ma decisamente meno complesso del previsto Il retrogusto riporta i sentori di soia, ma molto smorzati dall’aggressività acida della bevuta Corpo medio; permane ancora un pizzico di frizzantezza residua, apprezzabile; astringenza

Giudizio Meravigliosa come profumi, complessivo davvero di grande impatto

15/20

Totale

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Punteggio

Confronto

2,5/3

La schiuma è un ricordo per entrambe

8,5/12

L’aspetto è assai diverso, soprattutto il colore (Aardmonnik decisamente più scura) Nessuna delle due prevale nettamente, da un punto di vista visivo La Dama Brun-a, forse non nella sua forma migliore, presenta comunque aromi piacevoli La birra di Struise, però, stupisce con profumi particolarissimi di grande impatto ed eleganza Sia come intensità sia, soprattutto, per complessità, Aardmonnik prevale nettamente

16/20

La Dama Brun-a, pur senza esaltare, convince di più, rispecchiando al gusto i sentori olfattivi

L’assaggio è abbastanza elegante ma non particolarmente complesso

Aardmonnik invece non mantiene le promesse e difetta di complessità

Il retrolfatto è speziato e delicatamente fruttato, il finale decisamente citrico

Come potenza si impone la birra belga, ma Dama Brun-a si fa preferire per eleganza

3,5/5

Corpo tra esile e medio, sapidità evidente; frizzantezza del tutto assente

8/10

Leggermente sottotono rispetto a precedenti esperienze

Il gusto invece lascia leggermente insoddisfatti perché decisamente meno complesso Gli amanti delle acidità importanti apprezzeranno comunque

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Dama Brun-a

4/5

Entrambe presentano una struttura adeguata, con qualche piccola differenza

7/10

Confronto serrato tra due birre comunque piuttosto diverse, entrambe con pregi e limiti

Birra di qualità ma, stavolta, non esalta né per eleganza né per carattere

Alla fine l’impatto aromatico ci fa preferire, di poco, la belga

La bevibilità è comunque apprezzabile 40/50

38/50

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BIRRE A CONFRONTO

Tornando a noi, pur nel rispetto dello spirito giocoso dell’articolo, si tratta di birre comunque diverse: ha senso una loro degustazione comparativa? A mio parere sì. Lo stile di riferimento, per entrambe, è quello delle Oud Bruin delle Fiandre.

Birre di colore ambrato-scuro e gradazione medio alta, maturano in botti di rovere acquisendo un carattere acidulo e vinoso che ne contrasta la dolcezza e che le caratterizza, donando loro un carattere ben riconoscibile.

La gradazione alcolica è intorno agli 8 gradi (leggermente più forte la Dama Brun-a: 8,4%). Anche come invecchiamento ci siamo: la birra belga è una “vintage 2013” ma, considerando chec viene lasciata maturare ben cinque anni prima di essere imbottigliata, risulta del 2018, come pure quella italiana. Valutando che un possibile apice gustativo per questa tipologia di birra si possa situare intorno ai 3-5 anni di bottiglia, entrambe le birre sono pronte per essere bevute, sebbene forse non ancora all’apice. Insomma, si prospetta un confronto serrato e apertissimo: vediamo com’è andata a finire. P.S. E l’abbinamento con cotechino e lenticchie? Alla fine mi è sembrato appropriato: l’acidità dello stile birrario ben si presta a “pulire” la succosità dell’insaccato e il carattere e l’importanza di entrambe le contendenti si sono rivelati adeguati al compito. Da questo punto di vista, direi un buon pareggio! ★

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FOCUS HAZY & JUICY

A cura del MoBI Tasting Team

MoBI TASTING SESSIONS: Torbide e fruttate Birre italiane e straniere, artigianali e (semi)industriali degustate e giudicate dal “MoBI Tasting Team”

T

orbide, torbidissime. Fruttate, fruttatissime. A un ipotetico esame per mastro birraio di una qualsiasi scuola di qualche anno fa, l’autore sarebbe stato irrimediabilmente bocciato per non avere saputo gestire malti e procedure produttive. Oggi invece i birrai che inseguono questo stile modaiolo, a metà strada tra birra e spremuta di frutta, hanno il problema opposto: man-

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tenere torbido il prodotto nel tempo e realizzare una birra equilibrata e stabile. Hazy, Juicy, New England IPA sono i termini che identificano lo stile, caratterizzato da intenso fruttato tropicale per l’uso massiccio dei luppoli di nuova generazione, ma al contempo l’amaro è limitato, il corpo pieno, il boccato morbido e setoso. Che possa essere la birra per coloro che non amano la birra?

I

membri del MoBI Tasting Team sono rinomati degustatori, giurati a concorsi BJCP, appassionati, talvolta anche birrai. Puoi trovare altre degustazioni e recensioni sul blog del sito MoBI. Inquadra il QRCode e segui il link!

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FOCUS HAZY & JUICY

City Session IPA To Øl

Dirty Things Jungle Juice Brewing

Joyce Juice Luppoleto Camuno

Stile: New England IPA

Stile: New England IPA

Stile: New England IPA

Formato: lattina 33 cl

Formato: lattina 33 cl

Formato: bottiglia 50 cl

Alc.: 4,5% vol.

Alc.: 4,3%

Alc.: 5.5% vol.

Lotto: scadenza 10/2021

Lotto: 13/2021

Lotto: L9/20

Acquistata da: importatore

Acquistata da: beershop

Acquistata da: birrificio

Aspetto: giallo paglierino lattiginoso con un’accentuata velatura. Schiuma bianco latte che monta velocemente ma che dirada con la medesima rapidità, lasciando sul bordo del bicchiere eleganti merletti di Bruxelles. Olfatto: il pompelmo caratterizza in modo importante il naso, completato da un bouquet di frutta tropicale e fiori bianchi. Qualche nota di cereale dal malto e dal frumento si fa strada, ma rimane in secondo piano. Gusto: corpo sfuggente, carbonazione media con una lieve morbidezza, derivata senza dubbio dall’avena. La lieve astringenza che ricorda l’albedo del pompelmo pulisce l’intero cavo orale in modo forse poco elegante ma efficace. Il finale è secco ma la frutta tropicale e i fiori bianchi permangono a lungo nel retronasale, come la nota amarognola in bocca. Conclusioni: la connotazione “session” la rappresenta pienamente, il bicchiere è svuotato con rapidità senza secondi pensieri. Birra con qualche spigolo che non fa dell’eleganza la principale qualità, ma comunque gradevole, senza strizzare l’occhio al “succo di frutta” come molti altri esempi di stile.

Aspetto: giallo scarico, decisamente torbido. Schiuma ben presente, bianco avorio, pannosa. Olfatto: intensità media e focus su elementi tropicali – frutto della passione, litchi e papaia, qualche sfumatura di frutto del drago e melone giallo. La nota citrica correda il tutto, con note di lime che interagiscono molto bene con il coriandolo, creando una combo decisamente fresca ed esotica. Leggero, quasi impercettibile sottofondo di acqua di cocco. Gusto: corpo medio, carbonazione medio/alta. La sensazione tattile è relativamente morbida, sufficiente a calmierare e circoscrivere il luppolo. L’amaro è però dominante e, con la nota resinosa (dank), aggredisce il palato con buffetti che non fanno male. Il risultato è buffo, come la zuffa tra un bambino col fratello maggiore. Eppure… Sulla lunga la frutta tropicale, la generosa e più aspra dose di agrumi (curaçao e pompelmo), la nota resinosa regalano un finale e un retrogusto incisivamente amari. Astringenza non pervenuta, ma c’è mancato davvero poco. Conclusioni: NEIPA “cattivella”, che non si limita a rimanere nei ranghi dei profumi più suggestivi e alza i toni quando si tratta di gusto, tirando fuori il pugno dalla carezza. Piacerà molto alle teste di luppolo.

Aspetto: dorato carico con sfumature arancioni, appena velata. Schiuma copiosa, aderente alle pareti del bicchiere, pannosa e di colore bianco albume. Olfatto: copiosi profumi fruttati, d’intensità discreta ma di ampio spettro aromatico: agrumi (pompelmo e curaçao), generosa macedonia tropicale (melone giallo, mango, una punta di frutto della passione, ananas sciroppata e lasciti di cocco). Frutta a pasta gialla (pesca) per chiudere in bellezza. Floreale di zagara e biancospino, suggestioni di gelsomino. Gusto: corpo e carbonazione medi. L’ingresso sembra propendere verso l’amaro, poi ci ripensa e torna sui suoi passi. La morbidezza, lascito dei fiocchi di cereale utilizzati – tra i quali l’avena – arrotondano e smussano gli spigoli, riducendo l’amaro a un mansueto rumore di sottofondo. Finale e retrogusto piacevolmente aspri. Anche in bocca l’intensità è evanescente, limitata a sapori di mango, papaia e melone, con finale di litchi e curaçao. Delicatissimo tappeto maltato, di farine e mollica di pane bianco. Conclusioni: una buona interpretazione del genere, che meriterebbe maggiori fasti in virtù di un’età di consumo ancora più giovane. Gradevole e piaciona, senza scomodare i tropici..

80/100 DB

74/100 MM

76/100 MM

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FOCUS HAZY & JUICY

Neverending Haze IPA Stone

Nayatt Birrificio Porta Bruciata

Nebula The Wild Beer Co.

Stile: New England IPA

Stile: New England IPA

Stile: Hazy IPA

Alc.: 4% vol.

Formato: lattina 40 cl

Alc.: 5% vol.

Formato: lattina 35,5 cl

Alc.: 7.2% vol.

Formato: lattina 33 cl

Lotto: scadenza 14/09/21

Lotto: 21014

Lotto: scadenza 29/04/21

Acquistata da: importatore

Acquistata da: beershop

Acquistata da: importatore

Aspetto: aranciato carico, velatura presente ma non eccessiva. Schiuma candida con bolle di grosse dimensioni che svanisce rapidamente, lasciando tuttavia sulle pareti del bicchiere qualche merletto. Olfatto: agrumi, arancia innanzitutto, con qualche nota di frutta tropicale – ananas principalmente – poi limone/lime. Gusto: in entrata sembra esile, ma il corpo, nel corso del sorso, appare ed è comunque evidente per una birra di soli 4 gradi; la carbonazione è rilevante ma non eccessiva. Finale secco ma per nulla amaro, anzi: l’avena è ben presente ad arrotondare il boccato. Il retronasale riporta di prepotenza un’arancia che ora ricorda l’aroma delle sanguinelle siciliane, unitamente ad altri fruttati e all’erbaceo del luppolo. Conclusioni: una birra equilibrata, meno banale rispetto a quanto la bassa gradazione alcolica potrebbe far supporre. Forse l’aroma di arancia è un elemento che sovrasta eccessivamente il resto del bouquet aromatico e nel giudizio complessivo qualche punto è perduto per questo.

Aspetto: giallo pallido, con un velo di opalescenza il quale, seducente, invoglia a scoprirne di più. Schiuma alta due dita, di colore avorio e persistente. Olfatto: frutta tropicale, senza grida sguaiate a favore di una maggiore eleganza. Frutto della passione, kiwi, delicato mango e litchi; in un secondo momento la buccia di pompelmo. Il cocco c’è, a intensità contenuta. Un accenno di malti chiari (farina), ma a galvanizzare il naso prima l’uvaspina, poi aghi di pino con un’intrigante verve balsamica. Gusto: corpo medio/leggero, carbonazione medio/alta. Una birra dall’ingresso dolce e infingardo, ma subito subentra l’amaro, egemonizzando il sorso. Meno tropicale rispetto al naso, la partita si sposta sul fronte degli agrumi, più aspri che amari. Rompe la magia la componente alcolica: impaziente, salta fuori subito, rovinando l’idillio. Il suo carattere è profumato (miele, floreale) ma anche fenolico (pepe); questa esuberanza non giova al luppolo, che ne rimane intimorito e sottomesso. Non giova la conseguente secchezza, che conduce a un principio di astringenza. Conclusioni: NEIPA dalla doppia faccia. Il naso non brilla per intensità ma riesce comunque a farsi piacere; al gusto, però, alcol e amaro risvegliano il bevitore dalla bella suggestione.

Aspetto: colore paglierino carico con una velatura presente ma non opaca come altri esempi di stile, con schiuma che monta pannosa ma svanisce rapidamente. Aroma: al naso l’agrumato è potente, con il pompelmo che assume il comando delle operazioni, seguito da una pletora di frutti tropicali (mango, papaya, ananas) e frutta a pasta bianca (pesca). Gusto: ingresso estremamente secco che scivola quasi nell’allappante. Sulla lingua scorre in modo abbastanza ruvido, aiutata da una carbonazione non eccessiva ma che va ad assommarsi alla leggera astringenza. Il corpo è di medio calibro con il retrolfatto che ripresenta i differenti aromi agrumati e di frutti tropicali, ma anche un evidente erbaceo e resinoso. Conclusioni: rude ma equilibrata; a differenza di altri esempi dello stile, non strizza l’occhio verso gli amanti dei blandi succhi di frutta ed esprime un carattere deciso ma gradevole.

72/100 DB

70/100 MM

80/100 DB

40

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FOCUS HAZY & JUICY

Dirty Love Lucky Brews

Big Double Hop Skin

Enigma & Moutere Burnt Mill Brewery

Stile: Hazy Hoppy Lager

Stile: Double New England IPA

Stile: New England IPA

Formato: lattina 33 cl

Formato: lattina 33 cl

Formato: lattina 44 cl

Alc.: 5,9% vol.

Alc.: 8,4% vol.

Alc.: 6,2% vol.

Acquistata da: produttore

Acquistata da: produttore

Lotto: scadenza 04/2021 Acquistata da: importatore

Dal colore giallo paglierino e dalla decisa opalescenza, ha una formazione di candida schiuma discreta per quantità e molto buona per persistenza e finezza. Il bouquet è dominato dalle fragranze dei luppoli, con un iniziale deciso impatto resinoso e “dank” cui segue, a breve distanza, una componente tropicale all’insegna del guava e della maracuja, che va poi a sfumare verso sensazioni agrumate che ricordano il kumquat o mandarino cinese. In bocca la carbonazione è moderata e fine, come previsto dai parametri tipologici, e accompagnata da un corpo scorrevole ma dotato di una certa spalla, che lavora in sinergia con le mouthfeel morbide generate da frumento e avena. Dopo un breve abbrivio dolce venato di maracuja, emerge una vena agrumata più decisa di quanto il naso avrebbe fatto presagire, con evidenti ricordi di pompelmo rosa che conducono per mano verso un finale agrumato decisamente amaro e increspato da una leggera punta harshy, che non pregiudica la gradevolezza del sorso rilanciata dal lungo retrolfatto in cui tornano il pompelmo ed echi resinosi piacevolmente rinfrescanti.

Nel bicchiere si mostra di colore dorato carico con riflessi aranciati; l’opalescenza è ovviamente spinta, mentre la schiuma mostra una buona presenza, persistenza e compattezza. All’olfatto è immediatamente evidente la componente “dank” (resinoso) seguita da una chiarissima impronta di frutti a bacca, ribes nero, sambuco e mirtillo in primo luogo, che gioca a rimpiattino con più calde note di melone bianco e guava. In bocca la carbonazione è molto lieve ma adeguata a movimentare un corpo di media struttura e le sensazioni boccali setose donate dall’avena. Sul piano gustativo vi è un ben percepibile attacco dolce e fruttato con ricordi di ananas, pesca sciroppata e fragola, che viene presto bilanciato da un amaro resinoso e agrumato con ricordi di scorza di limone. Da medio palato, questo va a dominare il finale, bilanciando con la sua freschezza la componente calda data dall’elevato tenore alcolico. Nel lungo retrolfatto sensazioni di frutta a polpa gialla e agrumi fanno proseguire il combattuto match dolce vs amaro, che si risolve con una vittoria ai punti di quest’ultimo. L’etichetta è un omaggio alla pubblicità degli anni Ottanta e a Daniela Goggi.

Aspetto: di colore paglierino chiaro e con una velatura accentuata, offre una schiuma pannosa e compatta, che lascia eleganti merletti sul bordo del bicchiere. Olfatto: al naso agrumi (mandarino), uvaspina e balsamico resinoso. Lievi note di vaniglia. Lo spettro aromatico si mantiene comunque nell’area dolce. Gusto: in bocca entra dolce, in piena armonia con l’esperienza olfattiva, ma questo abboccato lascia presto spazio a una leggera astringenza (che ricorda la parte bianca della buccia degli agrumi) la quale ben ripulisce il cavo orale anche se non con il massimo dell’eleganza. La carbonazione è equilibrata e mantiene il sorso rotondo e vellutato. Nel retronasale si riconfermano gli aromi primari, con l’uvaspina forse a emergere sul resto, a seguire l’agrumato. Conclusioni: la birra è sufficientemente beverina e i 6,2 gradi alcolici non sono assolutamente pervenuti; tuttavia, la presenza molto limitata di luppolo da ama­ ro rende presto l’esperienza di bevuta un po’ noiosa e troppo vicina al succo di frutta. Un più deciso taglio amaro finale avrebbe fatto desiderare l’apertura della seconda lattina.

75/100 SR

73/100 SR

65/100 (DB)

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STILI BIRRARI

di Daniele Cogliati

Una veduta delle campagne nella regione del Nord - Pas de Calais, luogo di produzione della Bière de Garde.

BIÈRE DE GARDE

UNA PICCOLA INTRODUZIONE ALLO STILE

S

e dico Pils, l’immagine che si delinea nella mia mente è chiara: una birra paglierina, limpida, con un bel cappello di schiuma bianca, sentori delicati di malti chiari, aroma elegante di luppoli erbacei e un bel taglio amaro e dissetante. E se invece vi dico Bière de Garde? Sono abbastanza sicuro che – eccettuata la frase “Mah… è come una Saison, ma fatta in Francia” – per molti questo stile di birra sarà probabilmente poco conosciuto. Alle nostre latitudini lo stile Bière de Garde non è infatti molto diffu-

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so: si faticano a trovare le etichette commerciali più note nella patria d’origine e gli esempi nostrani si contano sulle dita di due mani. Eppure dovrebbe trattarsi di un prodotto abbastanza identitario, tanto che Phil Markowski lo definisce “the only widely acknowledged French contribution to specialty brewing”.1 E allora, complice la situazione contingente che ha cambiato i modi e i luoghi del bere di tutti noi, smanettando un po’ sul web ho messo insieme qualche bottiglia e qualche libro per provare a capirci qualcosa.

Lo stemma del Nord - Pas de Calais.

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STILI BIRRARI La Bière de Garde secondo la Brewers Association e il BJCP Premetto che questa vuole essere soltanto una breve introduzione allo stile e non è un saggio storico o una dissertazione tecnica per birrai e homebrewer: per quanto affascinante, l’argomento avrebbe richiesto ben altri sforzi e ben altre competenze (potrete approfondire un po’ spulciando le note). Il mio approccio è più orientato al consumatore… anzi, direi al consumo! Partirò quindi da due fonti che dovrebbero darci un’idea di cosa ci possiamo aspettare nel bicchiere se scegliamo di acquistare una Bière de Garde. Le linee guida della Brewers Association (versione 2021 – traduzione dell’autore)2 definiscono il “French-Style Bière de Garde” come mostrato nella tabella a fianco. L’ultima versione delle linee guida BJCP tradotte da MoBI (2015)3 presenta lo stile “24.C – Bière de Garde” come mostrato nella tabella alla pagina seguente. A parte alcune piccole differenze – non inorridiscano i birrai e gli homebrewer – sui parametri numerici (IBU, FG, SRM) e altre discrepanze un po’ meno secondarie, come l’intensità degli esteri (“da medi ad alti” per la BA; “da bassi a moderati” per il BJCP) e il contenuto alcolico (“ABV 4,4-8%” per la BA; “ABV 6,0-8,5%” per il BJCP), l’immagine che se ne ricava è di una birra dal profilo aromatico e gustativo arrotondato e spostato più sui malti che sul lievito. Una Bière de Garde può essere chiara, ambrata o bruna (i descrittori afferenti all’ambito delle tostature, come biscottato, toffee, caramello, ma anche frutta secca ed essiccata varieranno di conseguenza), con debole apporto del luppolo (qualora presente, esso potrà essere speziato/erbaceo) e un amaro contenuto. Degli esteri abbiamo già scritto; componente speziata/fenolica da lievito mai menzionata. Sul grado alcolico ci sono discrepanze non indifferenti e se la BA ammette birre tra 4,4 e 8% ABV, il BJCP restringe il range tra 6-8,5% ABV. Nella

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COLORE

DA AMBRATO CHIARO A MARRONE CASTAGNA/ ROSSASTRO

Limpidezza

Chill haze accettabile. Queste birre sono spesso rifermentate in bottiglia, quindi è accettabile una leggera velatura da lievito

Malto: Aroma & Flavor

Queste birre sono caratterizzate da un aroma di malto tostato insieme a una leggera dolcezza di malto e/o sapore di malto tostato

Luppolo: Aroma & Flavor

Da basso a medio dato da luppoli nobili

Amaro percepito

Da basso a medio

Profilo fermentativo

Esteri fruttati da medi ad alti in aroma, da bassi a medi nel retrolfatto. Il diacetile non dovrebbe essere presente. Una Bière de Garde può avere bassi livelli di sapori derivati dal lievito Brettanomyces, i quali sono leggermente acidi, fruttati, con note rustiche di coperta di cavallo, di capra e/o simili al cuoio. Le birre che mostrano livelli più pronunciati di attributi derivati da Brettanomyces sono classificate come Brett Beers. L’alcol può essere evidente nelle birre ad alta gradazione

Corpo

Da basso a medio

Note aggiuntive

Sono accettabili aromi terrosi e/o di cantina

Original Gravity (°Plato)

1.060-1.080 (14,7-19,3 °Plato)

Apparent Extract/Final Gravity (°Plato) 1.012-1.024 (3,1-6,1 °Plato) Alcohol by Weight (Volume)

3,5%-6,3% (4,4%-8,0%)

Bitterness (IBU)

20-30

Color SRM (EBC)

7-16 (14-32 EBC)

sostanza, cercando un po’ tra gli esempi commerciali francesi disponibili, mi pare di poter affermare che il centro di gravità si attesti tra 6-8% ABV. Ci sono poi un paio di punti che meritano una riflessione. Secondo la BA possono essere presenti bassi livelli di descrittori associati al Brettanomyces (esteri, lieve acidità e note rustiche: la celeberrima coperta del cavallo, la capretta, il cuoio). Il BJCP si sofferma invece su un descrittore che ritorna spesso nella letteratura (non francese) dedicata alle Bière de Garde: il “cellar character”, come anche il “musty/cork” (cioè il sapore di cantina/ muffa/tappo), che per esempio viene citato da Jackson e da altri dopo di lui.2 Gli estensori delle linee guida specificano che tale caratteristica non è propria dello stile e dei prodotti consumati freschi, ma va attribuita a una cattiva con-

Sella del Diavolo di Barley: la prima Bière de Garde italiana.

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STILI BIRRARI

IMPRESSIONI GENERALI

Birra artigianale lagerizzata, alquanto forte con accento sul malto che presenta i gusti del malto appropriati al colore. Tutte sono maltose ma secche, con gusti puliti e un carattere delicato

AROMA

Evidente dolcezza di malto unita spesso a un maltato complesso, con un’intensità da leggera a moderata di note tostate e di pane. Esteri da bassi a moderati. Poco o nullo l’aroma di luppolo che può essere speziato, pepato o erbaceo. Le versioni più chiare sono ancora maltate, ma mancano degli aromi più ricchi e intensi e possono essere lievemente più luppolate. Aroma in genere pulito, anche se le versioni più forti possono avere una leggera nota alcolica speziata

ASPETTO

Esistono tre principali varianti (bionda, ambrata e scura), quindi il colore varia da biondo-dorato a bronzeo-rossiccio a castano. Buona la limpidezza, anche se può essere lievemente torbida essendo non filtrata. Schiuma ben sviluppata, generalmente da bianca a color crema (varia a seconda del colore della birra) e con persistenza media

FLAVOR

Malto da medio a elevato, spesso di carattere tostato, biscottato, toffee o caramello chiaro. I gusti del malto e la complessità tendono ad aumentare col colore della birra. Gusti degli esteri e dell’alcol da bassi a moderati. L’amaro di luppolo medio-basso fa un po’ da supporto ma l’equilibrio è sempre spostato sul malto. Le versioni più scure danno una maggiore impronta di maltato-dolce rispetto alle versioni più chiare, ma tutte devono essere maltate al palato e nel finale. Il gusto di malto continua nel finale, che varia da medio-secco a secco, mai stucchevole. Gusto di luppolo da basso a nullo (speziato, pepato o erbaceo) anche se le versioni più chiare possono avere maggiori livelli di luppolo erbaceo o speziato (che può anche derivare dal lievito). Carattere delicato da birra ben lagerizzata, anche se è fatta con lievito ad alta fermentazione. Retrogusto di malto (di carattere appropriato a seconda del colore) con parziale secchezza e leggera alcolicità

MOUTHFEEL

Corpo da medio a medio-leggero (snello) spesso con un carattere delicato e cremoso-setoso. Carbonazione da moderata ad alta. Calore alcolico moderato che deve essere delicato e mai bruciante

COMMENTI

In questo stile ci sono tre principali varianti: la Brune, la Blonde e la Ambrée. Le versioni più scure hanno maggiori caratteristiche di malto, mentre le versioni più chiare possono avere più elevata luppolatura, ma sono ancora birre centrate sul malto. Uno stile collegato è la Bière de Mars, che è prodotta in marzo per consumo immediato e non invecchia bene. Il livello di attenuazione è sull’80-85%. Esistono 86 esempi con corpo pieno ma sono più rari. L’età e l’ossidazione delle birre importate aumentano spesso il fruttato e i gusti di caramello e aggiungono anche note di sughero e di ammuffito: sono tutti segnali di pessima conservazione e non elementi caratteristici dello stile

STORIA

Il nome significa letteralmente “birra che è stata tenuta in cantina o lagerizzata”. Una ale artigianale e tradizionale proveniente dalla Francia settentrionale, prodotta all’inizio della primavera e tenuta in cantine fredde per poi essere bevuta nella stagione più calda. Ora è prodotta tutto l’anno

INGREDIENTI CARATTERISTICI

Il carattere “da cantina” comunemente descritto nella letteratura birraria è più una caratteristica di birre commerciali esportate e malamente conservate che di un prodotto fresco e autentico. Quell’ammuffito deriva dai tappi di sughero e/o dall’ossidazione dei prodotti commerciali e viene erroneamente identificato come “stantio” o “da cantina”. I malti base variano in relazione al colore della birra, ma di solito sono presenti i malti Pale, Vienna e Munich. Le versioni più scure hanno una complessità di malto più ricca e una dolcezza proveniente dai malti Crystal. Si possono aggiungere zuccheri per arricchire il gusto e contribuire al finale secco. Lievito lager o ale fermentato alle temperature minime per le ale a cui segue un lungo condizionamento a freddo. Acqua dolce con pochi sali e luppoli europei floreali, erbacei o speziati

CONFRONTI DI STILE

Imparentata con lo stile belga Saison, con la differenza che la Bière de Garde è più rotonda, più ricca, più dolce, centrata sul malto e senza il carattere amaro e speziato della Saison

OG

1.060 – 1.080

IBUS

18 – 28

FG

1.008 – 1.016

SRM

6 – 19

ABV

6,0 – 8,5%

ESEMPI COMMERCIALI

Ch’Ti (bruna e chiara), Jenlain (ambrata e chiara), La Choulette (tutte e tre le versioni), St. Amand (bruna), Saint Sylvestre 3 Monts (chiara), Russian River Perdition

servazione e all’ossidazione. In effetti nessuno dei libri francesi consultati cita mai questo particolare; anzi, in una monografia dedicata alla Brasserie Duyck,

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viene esplicitamente scritto che Bière de Garde significa birra che è già stata maturata in birrificio e quindi è pronta da consumare, non che deve essere

ancora maturata dal cliente finale.3Ci sono poi un paio di punti che meritano una riflessione. Secondo la BA possono essere presenti bassi livelli di descrittori

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associati al Brettanomyces (esteri, lieve acidità e note rustiche: la celeberrima coperta del cavallo, la capretta, il cuoio). Il BJCP si sofferma invece su un descrittore che ritorna spesso nella letteratura (non francese) dedicata alle Bière de Garde: il “cellar character”, come anche il “musty/cork” (cioè il sapore di cantina/ muffa/tappo), che per esempio viene citato da Jackson e da altri dopo di lui.4 Gli estensori delle linee guida specificano che tale caratteristica non è propria dello stile e dei prodotti consumati freschi, ma va attribuita a una cattiva conservazione e all’ossidazione. In effetti nessuno dei libri francesi consultati cita mai questo particolare; anzi, in una monografia dedicata alla Brasserie Duyck, viene esplicitamente scritto che Bière de Garde significa birra che è già stata maturata in birrificio e quindi è pronta da consumare, non che deve essere ancora maturata dal cliente finale.5

Che cosa unisce veramente queste birre? Fin qui tutto abbastanza confuso, spero. Proseguiamo. Che cosa unisce birre che, leggendo queste linee guida, sembrerebbero avere caratteristiche abbastanza diverse? La risposta è: la garde. Secondo la legge francese una Bière de Garde è una birra che, terminata la fermentazione primaria, subisce un periodo di maturazione (“periode de garde”) di minimo 21 giorni.6 Questa fase del processo produttivo si svolge generalmente a temperature molto basse e serve a smussare le spigolature della birra, da cui il basso livello di esteri (dovuto anche al fatto che alcuni produttori commerciali utilizzano lieviti a bassa fermentazione). Un appunto: basta una rapida ricerca online per notare che diversi lieviti commerciali, variamente etichettati come Belgian/French/ Farmhouse Yeast, includono sempre Saccharomyces cerevisiae var. diastaticus. Ma non addentriamoci troppo nell’insidioso mondo delle fermentazioni e passiamo oltre. Sembrerebbe quindi che sotto al cappello delle Bière de Gar-

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La Blonde du Nord della Brasserie Duyck.

de si possano trovare birre abbastanza differenziate tra loro. Se guardiamo nella World Guide to Beer di Michael Jackson, notiamo che lo stile Bière de Garde non è espressamente citato. L’autore, nel capitolo dedicato alla Francia, si limita a dire che nel Nord esistono birre “in the haute tradition” e cita il termine garde solo ri-

ferendosi alla Jenlain Bière de Lux (Brasserie Duyck), etichettata come “Garde Fermentation Haute”.7 Abbastanza inquietante è invece il riferimento fatto da un altro pioniere della classificazione stilistica, Fred Eckhardt, il quale in The Essentials of Beer Style afferma: “II-3 Amber beer: Bière de Garde, Bière de Paris. This is the French version of Vienna lager, strong beer: over 15-Plato/1060, and 5/6% alcohol. These beers are all-malt and quite delicious, strongly hopped, more so than the Vienna style. They are laying-down beers with cork finish, and improve with age in the bottle (up to about a year)”.8 Per concludere, una descrizione sintetica e riassuntiva di quanto detto finora viene fornita di nuovo da Jackson in un articolo del 1997: “The hinterland of Lille has nine or ten small breweries making beers in this style, with a fruitiness closer to that of a British ale than a continental lager.

La Bière de Garde nel passato

Nel XIX secolo quasi tutti i villaggi, anche i più isolati, avevano un birrificio (ma spesso più di uno), con importanti ricadute socioeconomiche per quello che oggi chiameremmo l’indotto: si creava lavoro per produttori e riparatori di botti, agricoltori, somministrazione. Nel 1890 si contavano 1386 produttori nei due dipartimenti e nel 1910 essi raggiunsero la strabiliante cifra di 1929, ben oltre la metà di quelli attivi in tutta la Francia.10 Ancora all’inizio del Novecento la quasi totalità della birra era ad alta fermentazione e terminava la fermentazione direttamente nei barili che venivano venduti a privati e locali di mescita. Nel periodo tra le due guerre mondiali, la bassa fermentazione e l’imbottigliamento in vetro iniziarono a prendere piede nei birrifici più grandi, gli unici che potevano permettersi ammodernamenti tecnologici e investimenti finanziari per ingrandirsi e migliorarsi. Nel 1905 si incontra una menzione della Bière de Garde, individuata come birra di gradazione media (4% circa) che veniva lasciata maturare in legno per oltre sei mesi e inacidiva acquisendo sentori vinosi, venendo talvolta tagliata con birra più giovane al momento del consumo. Si noti che la fonte dice: “The taste for this is to be found in a few large towns, but it is decreasing”.11 Cosa si intendesse con la locuzione Bière de Garde nei secoli passati è ancora oggetto di approfondimenti, anche se sembra che almeno per buona parte del XIX sec. si trattasse di birre ambrate prodotte con ammostamento torbido, fermentate con colture miste e poi, appunto, maturate per mesi (in legno, ovviamente).12 Qualcosa, quindi, di abbastanza diverso da ciò che possiamo incontrare oggi.

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Some are, indeed, made with ale yeasts. In rural areas, they were originally produced with enough strength and living yeast to be laid down as a provision, and they are still known as bières de garde (beers to keep). These days, most are matured in the brewery, typically for a few weeks, but sometimes for months. […] Barley grown in the Champagne region, and hops from French Flanders, are often used. Many bières de garde are put into Champagne bottles with wired corks. Some have a yeast sediment and a Champagne-like toastiness”.9 In sostanza, quindi, il criterio unificante più forte è quello storico-geografico (nei primi anni 2000 si provò, senza successo, a far approvare una denominazione IGP e poi STG).10 Le Bière de Garde sono originarie e tipiche esclusivamente dei dipartimenti Nord e Pas de Calais, nella regione Hauts de France. Si tratta di un territorio di confine, storicamente influenzato dalla vicinanza col Belgio, con una spiccata identità culturale locale (in alcune zone è diffusa, per esempio, una variante della lingua piccarda, localmente detta ch’ti o ch’timi). La tradizione brassicola è molto forte e radicata e se ne trova traccia fin dai tempi del Capitulare de villis di Carlo Magno. La regione ha sempre beneficiato di abbondanti riserve sotterranee d’acqua pura, di terreni adatti alla coltivazione dell’orzo e del luppolo (molti produttori locali utilizzano a tutt’oggi le

varietà Strisselspalt e Alsatian Brewers Gold), ha ospitato produzioni monastiche, birrifici cittadini e una ricca storia di fattorie-birrifici, con peculiari forme di gestione cooperativa dell’impresa e, soprattutto nelle aree rurali, un’organizzazione che a volte comprendeva una produzione da “farmhouse brewery” – per dirla con Lars Marius Garshol11 – cioè una fattoria che coltivava i cereali, li maltava e produceva birra in proprio per autoconsumo e residualmente per la vendita.

La Brasserie Duyck L’incarnazione contemporanea delle Bière de Garde la dobbiamo alla Brasserie Duyck. Nel 1922 Felix Duyck acquistò una vecchia fattoria-birrificio costruita nel 1840 nel centro del villaggio di Jenlain. Dopo aver rimesso in sesto e ampliato l’edificio originario, egli si mise a produrre birra e a distribuire altre bevande. Inizialmente l’offerta era minima: una birra a bassissima gradazione chiamata “La 2” e una scura, “La Stout”, ma fin da subito il birraio elaborò la ricetta per un’ambrata speciale, rifacendosi alla tradizione delle birre stagionali (Bière de Noël e Bière de Mars, più alcoliche e conservate per lungo tempo nei freschi depositi dei birrifici). Essa venne inizialmente commercializzata senza un nome proprio: era la “vieille bière” e in seguito divenne “bière de garde”.

La Brasserie Duyck.

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La Choulette Ambrée.

Dalla metà degli anni Trenta il birrificio adottò le bottiglie in vetro con tappo meccanico, mentre nel 1949 Felix e Robert Duyck introdussero le bottiglie da Champagne con tappo in sughero e gabbietta metallica. Nel 1968, grazie al successo riscosso dalla loro Bière de Garde tra gli studenti dell’Università cattolica di Lille, che la potevano bere grazie a un rivenditore attivo nei pressi dell’ateneo cittadino, Robert Duyck decise di dare il nome Jenlain alla birra e nel 1970 depositò il marchio.13 Il resto è storia. Sulla scia del successo della Jenlain Ambrée altri birrifici artigianali si sono dedicati alla produzione di Bières de specialités e Bière de Garde, ciascuno dando un twist personale ai propri prodotti. Oggi i tempi sono cambiati e la Jenlain, oltre che nella tradizionale bottiglia da spumante, è venduta anche in comode lattine, mentre la rifermentazione in bottiglia è ormai divenuta l’eccezione alla regola della filtrazione e riempimento in contropressione. Non è invece venuta meno la vocazione brassicola del territorio, tanto che il Nord - Pas de Calais conta oltre 120 birrifici attivi su un totale di oltre 2000 in tutta la Francia.14 Il panorama è vario e accanto a produttori ormai da considerare storici (solo per citare i più noti: Duyck, Castelain, Saint Sylvestre, La Choulette, Brasserie d’Annœullin, Les Brasseurs

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de Gayant…) esistono moltissimi birrifici e micro-birrifici nati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, alcuni ormai affermati (uno su tutti la Brasserie Thiriez, con le sue creazioni innovative, a cavallo tra le Bière de Garde tradizionali e le Saison belghe)15 e altri tutti da scoprire, per lo meno in Italia.

Conclusioni Concludendo, mi sento di sottoscrivere quanto affermato dall’ottimo Phil Markowski nel suo libro Framhouse Ales: probabilmente le versioni moderne di Bière deG si sono evolute da una sintesi tra le preferenze dei consumatori, gli sforzi di marketing dei produttori, l’influenza delle tecniche di produzione di birra a bassa fermentazione e l’interpretazione individuale di come avrebbero potuto essere le tradizionali birre contadine del passato. Nessuno, però, può sapere con certezza come effettivamente fosse la Bière de Garde originaria. Ciò che è chiaro è che probabilmente essa era abbastanza diversa dalle versioni contemporanee.16

Il test del bicchiere Brasserie La Choulette Brasserie La Chou lette ha sede nel villaggio di Hordain. L’azienda si trova nell’edificio che una volta ospitava l’ex fattoria-birrificio Bourgeois-Lecerf, fondato nel 1885, e prende il nome dalla pallina di legno utilizzata nel jeu de crosse, uno sport tradizionale locale. Nel 1977 Alphonse Dhaussy acquisì il birrificio Bourgeois-Lecerf; nel 1981 fu creata una Bière de Garde ambrata che prese il nome “La Choulette”. Essa contribuì alla fortuna della società, al punto che nel 1986 Alain Dhaussy, figlio di Alphonse e attuale proprietario, ribattezzò l’azienda proprio con il nome della sua birra di punta. La brasserie oggi produce una vasta gamma di birre e ha contribuito al revival delle birre speciali in tutta la re-

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gione. Phil Markowski, scrivendone nel 2004, afferma che tutti i prodotti sono rifermentati in bottiglia. Non ho trovato riferimenti in tal senso sulle etichette delle due birre che ho assaggiato.17 Una birra per rassicurarvi: La Choulette Ambrée. Sull’etichetta, subito sotto la marca, compare in bella vista la scritta “Bière de Garde Artisanale”. Birra ad alta fermentazione con un tenore alcolico di 8%, è contrassegnata esplicitamente come Bière de Garde. Inoltre sulla bottiglia è presente anche il marchio collettivo “Saveurs en’Or”, che da più di 15 anni promuove i prodotti realizzati nella regione di Hauts de France. Nel bicchiere si presenta ovviamente ambrata, limpida (è filtrata), con un abbondante cappello di schiuma eburnea a grana media e dalla lunga persistenza. L’aroma è rotondo e maltato, biscottato, con leggere tostature e note secondarie di frutta secca/essiccata/cotta (nutty, prugna secca, mela cotta con lo zucchero di canna). In bocca dominano di nuovo i malti, con caramello e un accenno di liquirizia sul finale, medio-secco, che ben si sposa con un corpo medio e con una bolla fine e non invasiva. L’alcol è ben nascosto e si manifesta solamente come una lieve sensazione riscaldante, piacevole. Insomma, una Biére de Garde ambrata rassicurante, canonica. Una birra per confondervi: La Choulette Blonde viene dichiarata “Bière artisanale des Hauts de France”. Anch’essa, come la sorella ambrata, si fregia del marchio collettivo “Saveurs en’Or”. 7,5% ABV. Nel bicchiere la Blonde si mostra dorata, limpida (è filtrata), con abbondante schiuma candida, soffice, molto persistente. L’aroma questa volta ci regala esteri mediamente intensi (mela gialla, frutta a pasta gialla) e una spolveratina di spezie (pepe), con intensità mediobassa. Seguono lievi sfumature erbacee/floreali e un miele leggero sullo

sfondo. L’imbocco è dolce, ma la chiusura è discretamente amara, accentuata da una bollicina effervescente, con corpo e secchezza medi. Insomma, tanto per confonderci sul finale di lettura, in questo caso verrebbe davvero da fare un paragone con le geograficamen-

Ch’ti Blonde.

te vicine Saison: alcuni tratti comuni sono evidenti, anche se questa Bière de Garde in incognito mette la sordina all’esuberanza dei lieviti e dei sottoprodotti aromatici della fermentazione, riempiendo un po’ di più il corpo della birra e accentuando le sensazioni maltate rispetto alle cugine belghe. Siamo però nel campo delle sfumature stilistiche, tra l’altro piacevolissime.

Brasserie Castelain18 Birrificio a conduzione familiare fondato nel 1926 dai fratelli Delomels a Bènifontaine. Roland Castelain rilevò l’azienda nel 1966 e la denominò col proprio cognome. Suo figlio, Yves negli anni Settanta si lanciò nel segmento di mercato delle birre speciali, con la gamma di Bières de Garde “Ch’ti”, ottenendo grandi riscontri in patria e all’estero. Per questa linea di prodotti, il birrificio utilizza lieviti a bassa fermentazione fatti lavorare attorno ai 14° C e matura poi le birre a 0° C per 4-6 settimane. Non è l’unico produttore commerciale

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a utilizzare lieviti Lager e certamente questo particolare ha un forte riflesso nella birra finita, come vedremo. Nel 2018 la produzione complessiva si è attestata attorno ai 90.000 hl. Una birra per scombinarvi: Ch’ti Blonde. Sul finale non potevamo farci mancare una Bière de Garde a bassa fermentazione, giusto per provare a sparigliare un po’ le carte del nostro gioco. Etichettata come “Bière de Garde”, l’ammiraglia della linea “Ch’ti” nasce nel 1979, preceduta solamente dalla Ch’ti de Noël (quest’ultima, però, ad alta fermentazione). Birra dorata, limpida (è filtrata), nel bicchiere si presenta sormontata da un denso strato di schiuma bianca, a grana fine, compatta e molto persistente. Che dire… in effetti ha un profilo che in qualche modo rimanda a una specie di strong lager, con note di malto e miele in bella evidenza; è però la presenza di esteri fruttati a riportarci subito nel campo delle ales (intensità comunque bassa/medio-bassa, mela gialla, una lontana reminiscenza d’arancia candita). L’equilibrio in boc-

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ca è spostato sul dolce, con sfumature maltate e di cereale a farla da padrone e una chiusura solo leggermente amara. 6,4% ABV ben nascosti per una birra che, pur rimanendo all’interno dei canoni dello stile, fa riflettere sull’impiego della denominazione “Bière de

Garde”, qui impiegata in modo letterale (diremmo a norma di legge) riferendosi al processo di maturazione a freddo e non al tipo di lievito o ad altre caratteristiche, come forse verrebbe da pensare a un primo approccio con lo stile. ★

Note

Cfr. anche Nord – Pas-de-Calais terre des brasseries (op. cit.). 11 The Beers and Brewing Systems of Northern France, di R.E. Evans (in: Journal of the Institute of Brewing, May–June 1905, https://doi. org/10.1002/j.2050-0416.1905.tb04668.x). 12 Per approfondire: http://www. horscategoriebrewing.com/2017/10/ introductory-thoughts-on-bierede-garde.html?m=1 e http://www. horscategoriebrewing.com/2017/11/ brewing-bieres-de-gade-1850-1910. html?m=1. 13 Les Duycks, ou 90 ans de brasserie familiale à Jenlain (op. cit.). 14 http://projet.amertume.free.fr/ 15 http://www.horscategoriebrewing. com/2014/05/brasserie-thiriez-visit. html?m=1. Non ho inserito assaggi della Brasserie Thiriez perché, per quanto birre come La Blonde d’Esquelbecq, L’Ambréè d’Esquelbecq o La Rouge Flamande vengano spesso classificate come Bières de garde sul web – classificazione appropriata, a mio parere, anche dal punto di vista organolettico – il produttore non le dichiara tali né sul proprio sito, né in etichetta e nemmeno in interviste e interventi (https://www. youtube.com/watch?v=oh0kPj3QDRo, https://www.youtube.com/ watch?v=RtN8xc09Rfk&feature=share). 16 Le birre del Belgio II. Degustare e produrre Bière de Garde e Saison, di Phil Markowski (Edizioni LSWR, 2015), p. 29. 17 Le birre del Belgio II. Degustare e produrre bière de Garde e saison, di Phil Markowski (op. cit.); Bières et brasseurs du Nord et du Pas-de-Calais. La voix du Nord, Hors-série (sept. 2018); http://projet. amertume.free.fr/documents/eBookLa_biere_en_France-Edition_2021Emmanuel_Gillard.pdf. 18 Le birre del Belgio II. Degustare e produrre bière de Garde e saison, di Phil Markowski (op. cit.); Bières et brasseurs du Nord et du Pas-de-Calais (op. cit.); http://projet.amertume.free.fr/ documents/eBook-La_biere_en_FranceEdition_2021-Emmanuel_Gillard.pdf.

1 Bière de garde, di Phil Markowski, in The Oxford Companion to Beer, a cura di Garrett Oliver (Oxford University Press, 2011), p. 126. 2 “Several have a cellar character (almost a musty earthiness), along with a distinctively spicy maltiness”, in Let Them Drink Beer, di Michael Jackson (pubblicato il 12 luglio 1997 in: The Independent, http://www.beerhunter. com/documents/19133-000051.html). Si veda anche Bière de garde, di Phil Markowski, in The Oxford Companion to Beer, a cura di Garrett Oliver (Oxford University Press, 2011), p. 127: “Some examples exhibit a “cork” note (not to be confused with the less pleasant character of “corked” wine) that adds a decidedly rustic nuance”. 3 Les Duycks, ou 90 ans de brasserie familiale à Jenlain, di Elodie De Vreyer (Brasserie Duyck, 2012), p. 35: “La bière de garde (signifiant ‘qui a été gardée’, et non ‘à garder’)”. 4. Décret n° 92-307 du 31 mars 1992 portant application de l’article L. 412-1 du code de la consommation en ce qui concerne les bières, art. 2, modifié par Décret n°2016-1531 du 15 novembre 2016 - art. 4, https:// www.legifrance.gouv.fr/loda/id/ JORFTEXT000000357138. 5 World Guide to Beer, di Michael Jackson (Quarto, 1977), p. 179-183. 6 The Essentials of Beer Style, di Fred Eckhardt (Fred Eckhardt Communications, 1989), p. 80. 7 Let Them Drink Beer (op. cit.) 8 Les Duycks, ou 90 ans de brasserie familiale à Jenlain (op. cit.), p. 83. 9 https://www.garshol.priv.no/blog/414. html. L’ultima malteria interna a un birrificio pare abbia cessato l’attività negli anni Cinquanta del XX secolo: cfr. Nord – Pas-de-Calais terre des brasseries, di Pierre-André Dubois, Nathalie Duronsoy e Nathalie Van Bost (Musée d’ethnologie régionale du Nord – Pasde-Calais, 1998), p. 157. 10 Brasseurs et bières en Nord, di Grégoire Szczesniak (Laura Editions, 1996), p. 21.

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Le guide

IL MANUALE DEL BIRRAIO Il testo più completo e autorevole a livello mondiale sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti i birrai e per gli studiosi della materia. Illustra nel dettaglio i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento e le diverse influenze sul gusto finale della birra. Particolare attenzione è dedicata anche agli aspetti ingegneristici e tecnologici, per offrire soluzioni teoriche e pratiche all’azienda birraria di grandi e piccole dimensioni.

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edizioniLSWR


CURIOSITÀ

di Davide Bertinotti

Il birrificio Dupont.

Miti birrari da sfatare

LE SAISON

M

i permetto di “rubare” lo stesso incipit che Massimo Faraggi ha usato nel suo articolo sui miti da sfatare riguardanti le IPA, pubblicato sul numero 1/21 di Birra Nostra Magazine, dato che si applica perfettamente anche qui, nella descrizione di uno stile birrario belga oggi molto conosciuto e anche frequentemente riprodotto fuori dai luoghi d’origine: Saison. “Il quadro è suggestivo e non mancano gli elementi per farne una bella storia”:

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i contadini della Vallonia, area belga di lingua francese, sono soliti produrre birra in maniera autarchica, utilizzando i cereali coltivati sui propri appezzamenti con l’aggiunta di luppoli, erbe o spezie presenti nella zona. Bere liquidi fermentati è certamente più salutare che acqua stagnante o potenzialmente contaminata da batteri di ogni tipo. Tutti i produttori di birra sanno poi che se le temperature ambientali sono più elevate, crescono le probabilità che la

birra inacidisca. Quindi, in assenza di metodi di refrigerazione, sarebbe meglio evitare di produrre nei mesi estivi, limitandosi a fare birra da settembre ad aprile. Ma a fine estate c’è il periodo del raccolto delle messi e il grande sforzo fisico dei lavoratori nei campi deve essere sostenuto da abbondanti e nutrienti “liquidi”; come fare, quindi? Ecco la soluzione: a fine primavera produrre una birra con caratteristiche tali da poterle consentire di superare i caldi mesi esti-

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CURIOSITÀ

vi senza danni ed essere poi consumata quando necessario. Nella zona a sud dell’attuale confine franco-belga la birra necessaria allo scopo ha un grado alcolico abbastanza elevato, sopra i 7° alc. (e viene chiamata Bière de Garde - birra “da conservazione”). In Vallonia, invece, la soluzione è una combinazione di grado alcolico superiore alla media e abbondante uso del luppolo, noto conservante naturale. La Saison (“birra di stagione”) avrebbe questa origine: una storia logica, corroborata da testimonianze locali e riferita da numerosi e importanti divulgatori birrari.

Le origini dello stile secondo Michael Jackson e Phil Markowski In effetti, al di fuori del Belgio lo stile non era così noto sino a tempi recenti. Ne parla Michael Jackson nel 1991 in un articolo sulla rivista All About Beer (1) dal titolo “A seasonal search for the phantom of brewing” e lo descrive come qualcosa sull’orlo della scomparsa definitiva, forse lo stile più a rischio del Belgio (“The integrity of several Belgian beer styles is in danger and some could vanish. Perhaps the most endangered is the Saison”). Il racconto di Jackson è coerente con quanto dettagliato più sopra: lo stile è opera di birrifici-aziende agricole dell’area vallona che producono la birra in primavera, per i mesi estivi, con un grado alcolico elevato ma

Contadini durante il raccolto dell’orzo.

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non eccessivo “per non stordire” chi necessita ristoro dal caldo e abbisogna sostentamento durante il faticoso periodo del raccolto. La birra è maturata in bottiglia “come lo champagne” e presenta un’elevata carbonazione con secchezza finale sufficiente a essere apprezzato come piacevole ammazza-sete. La fonte di queste informazioni è evidente dal testo dell’articolo e si può identificare in Marc Rosier, al tempo titolare del Birrificio Dupont e discendente del fondatore Louis Dupont, che nel 1920 aveva acquisito la “ferme-brasserie Rimaux-Derrider”, in attività sin dal 1844, facendo arrivare sino ai giorni nostri la ricetta della loro Saison. Lo stile Saison è descritto nel medesimo anno (1991), pur con altro approccio e scopo, anche nella seconda edizione del The New Complete Joy of Home Brewing di Charlie Papazian: “tradizionalmente prodotto in primavera per la stagione estiva” con elevata luppolatura. É possibile però che la fonte di Papazian fosse proprio Michael Jackson, che viene citato nella bibliografia del volume. Oltreoceano la Saison non sembra riscontrare grande interesse, tant’è che non appare nell’elenco degli stili birrari dei concorsi per produttori commerciali (Great American Beer Festival GABF e World Beer Cup WBC) sino al 2002, mentre la Bière de Garde era listata sin dal 1998. Il BJCP la include nel proprio elenco di stili nel 1997 e il documento del 1999 riprende la descrizione storica fatta da Jackson. Nel 2004 viene dato alle stampe un libro che sembra colmare il vuoto di conoscenza sull’argomento e che ottiene lo scopo di mettere definitivamente in luce lo stile, sia dal punto di vista tecnico e divulgativo, sia come analisi storica delle sue origini: Farmhouse Ales (Le birre del Belgio II - Edizioni LSWR) di Phil Markowski analizza dettagliatamente storia, ricette, birrifici che producono Saison e Biére de Garde; l’analisi storica dello stile Saison è scritta da Yvan de Baets, noto birraio belga che dopo aver

Una Saison del birrificio Dupont (fonte: Wikipedia).

lavorato al birrificio De Ranke fonda nel 2003 la rinomata Brasserie de la Senne. Lo scritto è preciso, corredato di numerosi riferimenti e annotazioni e le conclusioni ricalcano esattamente quanto riportato da Michael Jackson nel suo articolo di qualche anno prima. Non sorprendentemente, dal momento che la fonte primaria delle informazioni riportate da Yvan è sempre Marc Rosier della Brasserie Dupont.

La “bomba” di Roel Mulder Riassumendo: lo stile Saison è originario dell’Hainault (provincia belga della Vallonia), creato da birrifici rurali durante i mesi freddi per il consumo estivo degli assetati lavoratori nei campi, in particolare per la stagione della raccolta dei cereali; le materie prime sono autoprodotte oppure originarie della zona e all’orzo si aggiungono nel grain bill frequentemente altri cereali, nell’ottica dell’utilizzo di quanto al momento disponibile. Un quadro coerente e quasi idilliaco! Un quadro che non convince, però, lo scrittore e storico birrario olandese Roel Mulder, che a fine 2018 “lancia la

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CURIOSITÀ

bomba” dal suo blog Lostbeers.com (2): i fatti raccontati nel volume Le birre del Belgio II, soprattutto nella parte curata da Yvan de Baets, sono sostanzialmente, sostiene, baggianate senza fondamento e nessun documento storico a oggi consultabile avvalora quelle tesi. Tutto il racconto di cosa è lo stile Saison si fonda sul quanto riportato da Marc Rosier di Dupont (scomparso proprio nel febbraio del 2018) che ha interpretato la realtà evidenziando alcuni fatti e omettendone altri (come molti birrai belgi fanno spesso, NdR) volendo, consciamente o inconsciamente, mettere in luce lo straordinario percorso secolare del suo birrificio. Mettendo in dubbio l’unica fonte, nulla sembra più così sicuro, sostiene Mulder. Secondo le sue ricerche, aggiunge, non vi sono evidenze storiche dell’esistenza di uno stile birrario chiamato Saison tipico delle fattorie dell’Hainault. Innanzitutto, l’inquadramento generale del libro Le birre del Belgio II sarebbe fuorviante: la Vallonia del XIX secolo è una delle regioni maggiormente urbanizzate e industrializzate, grazie soprattutto alle grandi riserve di carbone, e la produzione birraria era soprattutto localizzata nelle grandi città, a opera di birrifici commerciali, non nel “rurale” Hainault. Gli unici riferimenti al termine Saison apparirebbero riferiti a queste produzioni, in particolare di Liegi (che non è nemmeno nell’Hainault). Inoltre,

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queste birre erano prodotte per tutto l’anno e non solo nei periodi freddi: in effetti, nei testi di descrizione dei metodi di birrificazione del XIX secolo, come il famoso volume di Georges Lacambre, Saison era un sinonimo di Bière de Garde, de provision, vieille ecc., ossia un termine che stava a indicare una birra destinata a una lunga maturazione, per di più spesso descritta come scura. Altri testi che descrivono le pratiche birrarie della Vallonia, come il CartuyvelsStammer del 1879, citano l’Hainault riportando che il malto è generalmente prodotto in birrifici (non in fattorie) e che l’orzo giunge sia da produttori locali, ma anche dalle Fiandre, dalla Francia centrale e dalla Vandea, dal Danubio. Parimenti, per il luppolo, i fornitori sono individuati nelle zone di Poperinge e Aalst, nelle Fiandre. Non propriamente una produzione a km zero… Mulder, in un altro articolo (3), descrive le pratiche di autoproduzione birraria rurale in Belgio, di cui ovviamente non nega l’esistenza: si tratta di una birra a base di cereali non maltati, luppo-

lo, cicoria, zucchero e lievito chiamata “bière de ménage”, prodotta tutto l’anno e da bere in tempi rapidi (prima che inacidisca). Si tratta di qualcosa di molto lontano dalle Saison che, dal suo punto di vista, rimangono esclusività dei produttori commerciali. Yvan de Baets, chiamato in causa, interviene sul blog di Mulder ribadendo il suo punto di vista ed evidenziando che le fonti storiche non debbano essere limitate ai soli documenti scritti e che i racconti di Marc Rosier sulle pratiche dei propri antenati devono assumere necessariamente pari dignità e valore.

Chi ha ragione? Il contributo di Garshol, l’esperto sulle birre contadine Insomma, i due rimangono sulle proprie posizioni: chi ha ragione? La Saison è un vero stile tradizionale derivato da pratiche rurali della Vallonia oppure è un’invenzione del XX secolo a opera di un singolo birrificio (Dupont) che ha ammantato il proprio marchio con una storia avvincente?

LA BIRRA DI LIEGI* Nella città e nei dintorni di Liegi si preparano due tipi di birre forti conosciute con i nomi di birra giovane e di stagione. Sono due birre ambrate, soprattutto la seconda, che è una birra da conservazione che si consuma da 4 a 6 mesi dalla produzione, e che si produce nella giusta stagione [col fresco NdT], prendendone il nome. La birra giovane, come dice il suo nome, si consuma molto fresca, spesso entro i dieci-quindici giorni. I cereali che generalmente si impiegano per queste due birre sono il farro, l’orzo, il frumento e l’avena; ma la maggior parte dei birrai non usa in inverno orzo o avena: è soprattutto il farro a costituire la base di questa fabbricazione. * Dal volume di Georges Lacambre Traité complet de la fabrication des bières.

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CURIOSITÀ

Un interessante contributo alla discussione arriva da Lars Marius Garshol (4), studioso delle pratiche di farmhouse ale tradizionali di Norvegia ed Europa settentrionale e orientale, nonché autore del libro Tecniche tradizionali di birrificazione (Edizioni LSWR). Garshol analizza stili e modalità produttive delle birre brassate ancora oggi nelle aree rurali di molti paesi, pratiche risalenti a secoli or sono in cui la fattoria, intesa anche come organizzazione sociale, era autosufficiente in molte attività, compresa la coltivazione di cereali e la brassazione. Tali pratiche sono state descritte, parzialmente, in passato solo dal punto di vista etnografico e solamente negli ultimi anni sono state portate all’attenzione del mondo birrario internazionale, che ha riscoperto, in fondo, che cos’era la birra prima dell’evoluzione moderna dei processi agricoli. Se questi aspetti sono rimasti sconosciuti ai più e confinati nelle zone rurali sino ai giorni nostri, non sarebbe stato impossibile, immagina Garshol, che le pratiche contadine delle fattorie dell’Hainault non avessero trovato riscontro in scritti dedicati alla birra del XIX secolo e che la tra-

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dizione fosse stata tramandata semplicemente in maniera orale. In effetti, rimarca, la birra di fattoria prodotta per autoconsumo e, in particolare, la birra maggiormente alcolica realizzata tra gennaio e aprile per i lavoratori dei campi nel periodo del raccolto dei cereali di fine estate è pratica riscontrata e pienamente accertata in Norvegia, ma anche in Danimarca (con la “gammeltøl”, letteralmente “birra invecchiata”) e nella Westfalia, Germania, con la locale “birra di marzo” consumata anch’essa in occasione del raccolto. Non sarebbe così sbagliato ipotizzare che questa tradizione sia stata presente anche nella zona belga dell’Hainault. Un altro indizio comune alle scoperte norvegesi, continua Garshol, è la modalità di utilizzo del lievito: la selezione dei ceppi a opera delle singole fattorie tramite conservazione e riutilizzo, pitching e fermentazione a temperature normalmente eccessive per le pratiche birrarie moderne è riscontrabile proprio nel birrificio Dupont, noto per lasciare salire anche fino a 35-38 °C la temperatura di fermentazione delle proprie produzioni. La logica di utilizzo di lieviti kveik da parte delle farmhouse norvegesi mira proprio a selezionare ceppi che resistano a condizioni ambientali in cui batteri e lieviti selvaggi sono sfavoriti, assicurando fermentazioni rapide e una birra adatta a un positivo invecchiamento. Il parallelo con il famoso lievito Dupont non appare campato in aria. L’unico punto che non convince Garshol rispetto all’aderenza a un’ipotetica tradizione produttiva della Saison è la fase finale, ossia imbottigliamento e rifermentazione con un’elevata carbonazione: il costo delle robuste bottiglie “champagnotte” non sembra coerente con una pratica contadina tesa all’ottimizzazione delle risorse, ma più vicina invece a un prodotto d’élite. Secondo lui, la vera birra di fattoria probabilmente assomigliava più a un lambic, con una carbonazione molto bassa o quasi nulla, più che alle moderne e altamente carbonate Saison.

La Saison de Pipaix.

Dove sta la verità? Probabilmente nel mezzo: la produzione birraria delle fattorie vallone nel corso dei secoli è un dato di fatto; l’evoluzione di tali produzioni verso una birra più consistente e moderna anche tramite l’acquisizione di materie prime non locali è un elemento quasi certo. La quasi scomparsa dello stile e la “riscoperta” da parte di Michael Jackson è un fatto indubbio. Approfittare della vetrina offerta dallo scrittore birrario inglese da parte del birrificio Dupont per proporre una storiografia coerente con il proprio brand è probabile. Raccontare a tutto il mondo lo stile facendo in modo che quasi ogni birrificio artigianale abbia in referenza una Saison: obiettivo raggiunto! ★

Note

1. http://www.beerhunter.com/ documents/19133-000017.html 2. https://lostbeers.com/fact-check-yvande-baets-on-saison-and-the-resultsmay-shock-you/ 3. https://lostbeers.com/the-real-belgianfarmhouse-ales/ 4. ihttps://www.garshol.priv.no/blog/414. html

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TURISMO BIRRARIO

SVEZIA

di Vanessa Alberti e Federico Viero

2a parte

LA REGINA SCANDINAVA DELLA BIRRA ARTIGIANALE

P

artiamo da Örebro con destinazione Fjällbacka, nella contea di Bohuslän, e lungo la strada ci fermiamo in un grande Systembolaget dove facciamo una bella scorta di birra. Gli amanti del genere giallo conosceranno la cittadina di Fjällbacka come l’ambientazione delle vicende narrate nei libri di Camilla Lackberg, famosa scrittrice che abita proprio qui.

Fjällbacka, la dimora estiva di Ingrid Bergman Questo pittoresco villaggio è tra le località costiere preferite degli svedesi e anche l’attrice Ingrid Bergman si innamorò del posto, che divenne la sua dimora per le vacanze estive per ben vent’anni. Quando morì, nel 1982, le venne dedicata la piazza principale del villaggio, dove si trovano un suo busto e alcuni pan-

nelli fotografici. Girovagare a Fjällbacka è davvero piacevole: la vista dal molo sulle case rosse di legno e le barche dei pescatori ormeggiate è davvero bella, ma la visuale che si gode dal monte Vetteberget lo è ancora di più. Per raggiungerlo passiamo dalla Gola del Re, Kungsklyftan, una fenditura con enormi blocchi di pietra incastrati come a formare un tetto, e saliamo una serie

Fjällbacka vista dal monte Vetterberget.

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TURISMO BIRRARIO

di scalini per raggiungere la sommità del monte, da cui si gode una fantastica vista che spazia dalle isole al largo alla terraferma. Prendere una barca e girare tra le molte isole e gli isolotti dell’arcipelago è d’obbligo per poter ammirare i sassi di granito caratteristici di questo tratto di costa. Passiamo il resto del tempo girovagando nel villaggio e mangiando ottimo pesce. Infine ci accomodiamo nella terrazza del nostro alloggio a goderci il bellissimo tramonto alle dieci di sera e le birre che tenevamo al fresco. La Golden Ale è stata la prima birra prodotta da Oppigårds ed è stata ispirata da un viaggio nel Regno Unito: una buona birra da 5,2% dalle note agrumate ed erbacee. Proseguiamo con alcune birre di O/O, birrificio situato a nord di Göteborg, nato nel 2001 e con diversi premi all’attivo, tanto da essere considerato uno dei migliori della Scandinavia. Iniziamo gli assaggi dalla Nova IPA da 6,5%, con sentori di agrumi, un tocco di resina di pino e un piacevole amaro erbaceo finale. Continuiamo con un’altra IPA della serie 50/50, che il birrificio produce con lo stesso malto ma con combinazioni di luppolo differenti; a nostra disposizione abbiamo la 50/50 Citra/Chinook da 6,5%, una birra molto buona con i suoi aromi floreali e di frutta tropicale. Terminiamo con la 100 Idaho 7, una piacevole NEIPA con un carattere erbaceo che si fonde perfettamente con le note di scorza d’arancia e di frutti a pasta gialla.

Le casette colorate di Smögen Il nostro tempo a Fjällbacka è terminato e siamo di nuovo in viaggio lungo l’autostrada E6, che corre parallela alla costa ovest ed è disseminata di paesini molto belli: dovrete solo decidere dove fermarvi. Noi scegliamo il villaggio di pescatori di Smögen, luogo vivace dove passare qualche giorno e dove potremo trovare pesce fresco e crostacei a volontà. Anche in questo piccolo paese non poteva mancare un microbirrificio: lo Smögenbryggarn ha una manciata

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Le casette colorate di Smögen.

di birre all’attivo che devono essere sistemate sotto molti aspetti. Il molo di Smögen è un susseguirsi di vecchie case di pescatori riconvertite in ristoranti e negozi e le casette multicolori lungo la parte finale sono davvero particolari. Pranziamo con degli squisiti gamberetti di tutte le dimensioni e tipi di cottura e decidiamo di passare un pomeriggio di completo relax sugli enormi scogli in granito che ci offrono spazio dove stendere l’asciugamano e godere del caldo sole estivo. Facciamo i temerari e ci tuffiamo nell’acqua, che pensavamo più fredda, e dopo esserci crogiolati ancora un po’ al sole torniamo in stanza. Cena veloce in uno degli ottimi ristoranti del villaggio e torniamo sugli scogli a vedere uno spettacolare tramonto dove il caratteristico granito Bohus si illumina di rosa e arancione sotto un cielo multicolore. Chiaramente assistiamo a questo spettacolo con delle birre nelle nostre mani. Ten Hands Brewing è un birrificio si-

tuato nella Svezia centrale fondato da cinque amici, da qui il nome Ten Hands, che dal 2018 hanno fatto della loro passione un vero e proprio lavoro. La loro Violetta è una Hazy IPA da 6,8% con solo luppolo Citra, che prende il suo nome dalla art director del birrificio, Violetta, sostenitrice dei diritti della comunità LGBTQ+ in Ucraina. Una birra dai risvolti sociali e ben bilanciata con i suoi sentori di agrume e di frutta esotica. Aromi che ritroviamo nella OLLIO, una buona West Coast IPA da 6,5% del birrificio Akia Brygghus, situato a sud di Göteborg, prodotta con luppoli Columbus, Tomahawk, Cascade e Mosaic. Terminiamo le bevute con alcune birre di Stigbergets, tra cui la Killer Pale, una NEIPA da 5,5% dai sapori fruttati e con un amaro ben bilanciato, e la Trouble Sleep, un’ottima Coffee Imperial Stout da 12% da bere lentamente per assaporare al meglio le piacevoli note di caffè e cioccolato fondente, la birra perfetta per concludere la serata.

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TURISMO BIRRARIO

La mattina seguente ci svegliamo di buon’ora e facciamo un giro lungo i sentieri sugli scogli prima di prendere il traghetto per l’isola di Hållö, una riserva naturale famosa per il birdwatching e per le aree balneabili. L’isola ospita il più antico faro di Bohuslän e se volete passare una notte in mezzo al nulla c’è anche un ostello. Trascorriamo tutto il giorno sull’isola, pranzo al sacco a base di pesce e gamberetti comprati in una delle pescherie del paese, poi torniamo in albergo a rilassarci sulla terrazza con vista sulle tipiche casette rosse. Abbiamo ancora altre birre a disposizione nel frigo: la prima è la Single Hop Ale di Oppigårds, una Pale Ale con luppolo Celeia dall’amaro moderato e davvero easy drinking, mentre le altre sono del birrifico O/O. La Pacific Pils W/Mosaic & Simcoe è una piacevole pils da 4,6%, mentre l’ultima birra della serata è una collaborazione tra O/O e Stigbergets. La Katten DIPA è una Double Imperial IPA da 8%, birra complessa che gioca sull’equilibrio degli aromi di luppolo e frutta con l’aggiunta di un tocco dank e con un bel finale amaro.

Cultura e vita notturna a Göteborg La costa occidentale della Svezia è molto intrigante e ci dispiace lasciarla ma dobbiamo partire per Göteborg, dove non

Un indimenticabile tramonto a Smögen.

mancano occasioni per dissetarsi con buone birre artigianali. Göteborg non avrà il fascino di Stoccolma ma è una città giovanile e ricca di vita, un importante centro culturale e vanta una storia commerciale rilevante. Inoltre la città è circondata da un arcipelago formato da una miriade di isolette facilmente raggiungibili in traghetto, dove potrete passare una piacevole giornata tra i pittoreschi villaggi dalle casette rosse.

Il quartiere Haga è la nostra prima destinazione. Saliamo sulla collinetta dove si trova lo Skansen Kronan, una piccola fortezza inaugurata nel 1689 come protezione dai possibili attacchi danesi (che non ci furono mai); da lì ammiriamo tutta la città per poi ridiscendere e immergerci nell’atmosfera del quartiere più antico di Göteborg, con le strade acciottolate e le case di legno a tre piani. A partire dal XIX se-

Una città dall’antica tradizione birraria

La produzione di birra era già attiva a Göteborg all’inizio del XVII secolo. Nel 1649 un tedesco di nome Joahn Casparson Poppelman aprì un birrificio che passò di mano in mano tra le diverse generazioni della famiglia fino al 1835, anno in cui chiuse. Nel 2012 un lontano discendente fondò il birrificio Poppels, molto famoso sia in Svezia sia nel resto d’Europa. Nel XVIII secolo l’attività mercantile della Compagnia svedese delle Indie fece crescere anche il commercio di birra, ma quando nel 1813 la Compagnia fu chiusa e vennero emanate leggi a livello nazionale che regolavano il consumo e la vendita di alcol, il mercato della birra si trovò in difficoltà. La ripresa del settore birraio di Göteborg è avvenuta nei primi anni 2000, quando fu fondato il birrificio Dugges, seguito da molti altri; la città è da allora diventata il punto di riferimento nel mondo della birra artigianale svedese.

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La Violetta di Ten Hands Brewing.

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colo Haga divenne un distretto operaio e molti lavoratori si trasferirono qui, ma negli anni a seguire il quartiere fu parzialmente demolito e fu rinnovato solo intorno al 1980, diventando uno dei luoghi più visitati della città. Haga Nygata è la via principale ed è un susseguirsi di gallerie d’arte e negozi di antiquariato e di caffetterie dove fare una “fika”, parola intraducibile che significa fare una pausa, una chiacchierata davanti a un caffè e a una fetta di torta. Haga è anche il quartiere della vita notturna e dei locali in cui passare del tempo con una buona birra in mano. Iniziamo dal Kino, un pub che propone principalmente birre di Stigbergets Bryggeri ma anche di altri birrifici svedesi. Ci accomodiamo nei tavoli dell’ampia terrazza, l’atmosfera è rilassata e sotto un perfetto sole estivo ci dissetiamo con la Studio Session IPA di Stigbergets e la Narangi di O/O. Due ottime birre: la prima è molto tropicale e fruttata sia all’olfatto sia al gusto, mentre la seconda è una delle birre più conosciute di O/O. Narangi significa arancia in svedese; viene prodotta con luppoli Mosaic, Citra e Columbus, che

L’isola e il faro di Hållo.

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donano sfumature agrumate e tropicali dall’amaro ben bilanciato. Con una breve camminata raggiungiamo il The Rover dove beviamo la Simcoe Smash del birrificio Hawelkas Brewing, un’American Pale Ale da 5,5% molto easy drinking. All’angolo opposto della strada si trova l’Ölstugan Tullen, che ha aperto i battenti nel 2010 e oggi possiede diverse sedi in città. Tipico pub dall’atmosfera giovanile e piacevole, serve esclusivamente birre di birrifici svedesi e cibo tradizionale. Ci sbizzarriamo e proviamo diversi birrifici tra cui AKiA Brygghus, che con la sua American IPA, We All Have Names, apre le nostre bevute. A seguire la Cherry Bubble Gum di Duckpond Brewing, un microbirrificio nato dalla passione per la birra artigianale del cantante della band punk rock svedese dei Millencolin. Questa Berliner Weisse da 4,5% è stata una piacevole scoperta, ciliege e bubblegum che fanno tornare un po’ all’infanzia ma con quel tocco citrico tipico di questo stile. È ora di pranzo e proviamo uno dei piatti tipici, chiamato S.O.S., acronimo di Sill, Ost, Smör, letteralmente “aringa, formag-

La Studio Session IPA di Stigbergets.

gio e burro”, con aringhe servite in tre modi diversi. Continuiamo le nostre bevute con il birrificio Electric Nurse, nato nel 2012 dall’idea di un ingegnere elettrico e di un’infermiera, Ida Engström, figlia di Mikal Dugge Engström proprietario del birrificio Dugges. La loro Orange Skull è un’Imperial Stout da 10,7% dal corpo pieno ma un po’ sbilanciata, dove l’alcol prominente e il forte gusto di caffè e cioccolato coprono i sentori di arancia che si riducono a un lieve accenno. Completiamo la selezione dei birrifici svedesi con Beerbliotek, fondata da sei amici provenienti da cinque Paesi differenti, Australia, Nuova Zelanda, Svezia, Sudafrica e Regno Unito. Il nome mostra l’ambizione di essere una sorta di “collezionatori di birre”, con una produzione variegata che spazia tra tutti gli stili. Noi proviamo la Eternal Darkness, Imperial Stout da 11,5% molto buona con aromi di frutta secca, uva sultanina e un tocco di liquerizia, che si fanno sentire tra il cioccolato e il caffè. Torniamo in albergo e il giorno seguente facciamo un giro costeggiando il canale fino ad arrivare a Feskekörka, la “Chiesa del pesce”, risalente al 1873 e dalla forma caratteristica che sembra effettivamente una chiesa. Edificio insolito che ospita il principale mercato

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Feskekörka, la “Chiesa del pesce”.

ittico della città con possibilità di mangiare nei ristorantini al primo piano. Ci dirigiamo poi verso il Maritiman, il museo navale dove si possono visitare 19 tipi di navi inclusi un sommergibile e un cacciatorpediniere, ma a causa del Covid possiamo ammirare le imbarcazioni solo dall’esterno. Facciamo un giro lungo il molo e dopo pochi minuti di cammino arriviamo all’Ölrepubliken dove proviamo la Brännskär Brown Ale di Nynäshamns, dalle note maltate con un tocco di caramello, e la Syrlig Tranbär 2020 di Wild&Sour Brewing, letteralmente “mirtillo rosso acido”, un nome che rappresenta appieno il carattere di questa birra acida di due anni di età alla quale vengono aggiunti per il 90% mirtilli rossi e per il 10% ciliegie, prima di un passaggio in botte che dura minimo un mese. Torniamo verso il centro dove facciamo una sosta al Kungstorgets Brygghus, dove tra l’offerta di birrifici scandinavi, inglesi e americani scegliamo la Passion Pale Ale di Poppels, prodotta con

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aggiunta di frutto della passione, dal carattere deciso ma equilibrato con i suoi aromi di pompelmo e frutti tropicali, e la Porter Porter di O/O, dal chiaro aroma di caffè e malto e dalle lievi note luppolate. Passiamo la nostra ultima serata nel quartiere di Haga dove ceniamo in un ottimo ristorante asiatico per poi recarci all’Ostindiska Ölkompaniet, con interni in legno abbelliti da lampade di design. Beviamo diverse birre di Spike Brewery, che ha aperto in città nel 2017 grazie alla passione di tre homebrewer. Proviamo la Lace, Franconian Lager da 5,3%, e la Burger Beer, una classica American Pale Ale da 5,6% prodotta con luppoli Simcoe e Citra che donano sapori di pompelmo e di resina. Continuiamo con la Startime, Hazy Pale Ale da 5,6% dry hopped con Citra, Mosaic e Simcoe, dal gusto di frutta a pasta a gialla tra cui spiccano albicocca e pesca, e terminiamo con Aurora, una Imperial Stout fermentata con aggiunta di mirtilli e con note di caffè, tabacco e cioccolato.

A breve distanza si trova l’Haket, con una buona offerta di altri birrifici di Göteborg non ancora provati tra cui Vega Bryggeri, che con la Shoreline, un’American Pale da 5,6%, ci sorprende piacevolmente. Birra dal profumo iniziale timido, che cambia totalmente in bocca dove arriva un’esplosione di gusto di frutto della passione, pompelmo e albicocche. La Seba di O/O è la nostra ultima bevuta della serata, ottima NEIPA da 4,5% molto pulita, dal gusto floreale e agrumato con note di frutta esotica. Siamo quasi arrivati alla fine della vacanza, ci alziamo di buon’ora e torniamo a Stoccolma dove passeremo l’ultimo giorno a nostra disposizione. Alloggiamo nuovamente a Södermalm e ci rechiamo all’imbarco del traghetto che ci porterà sull’isola di Djurgården, un tempo riserva di caccia del re e oggi parco della città. Su questa isola si trova il particolare e suggestivo Museo Vasa, dove è conservato il vascello voluto dai reali svedesi e che affondò durante il viaggio inaugurale nel 1600 a poche miglia dalla costa, poi recuperato solo negli anni ‘60. L’isola di Djurgården ospita anche un parco divertimenti e altri musei curiosi come quello degli ABBA, storica band svedese degli anni

#126 Eternal Darkness 11,0% Imperial Stout

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‘70, e lo Spritmuseum il museo dedicato alle bevande alcoliche con mostre permanenti e temporanee relative alla cultura del bere in Svezia. Annesso allo Spritmuseum si trova il Bryggan, una piccola terrazza all’aperto dove si possono degustare alcolici vari e birre artigianali. Ci godiamo la piacevole vista sulle barche ormeggiate e sull’isola di Skeppsholmen e ci rinfreschiamo con una Bangatan di O/O, una Hazy Pale Ale da 7,5% che prende il nome di una strada della città di Göteborg ed è prodotta con luppoli Mosaic, Citra e Nelson Sauvin. Una birra dal carattere forte, un’esplosione di frutta tropicale dove mango, papaya e pesca si fanno ampiamente sentire lasciando solo un accenno di amaro. Superiamo il ponte che collega l’isola di Djurgården con quella di Östermalm per recarci all’Omnipollo Flora, altro

locale di Omnipollo. La location all’interno del parco di Humlegården è perfetta per i pomeriggi estivi e tra le sette birre proposte scegliamo la Åskar, una Kellerbier da 4,2% ben fatta, e la Pleroma Mango Orange Passion Fruit, una Fruit Sour da 6% con soft serve. I frutti tropicali e l’effetto granita sono stati apprezzati e ciò conferma Omnipollo come un birrificio fuori dagli schemi, capace di produrre semplici lager ma anche birre più elaborate e fantasiose. Ceniamo con le köttbullar, le tipiche polpette di carne servite con purè e confettura di mirtilli rossi e concludiamo la nostra serata girovagando tra i vari pub dell’isola. Il viaggio in Svezia è stato una combinazione perfetta di tutte le cose che più apprezziamo: luoghi meravigliosi, atmosfera rilassata e buon cibo in compagnia di ottime birre dalle sfumatu-

re intriganti. Per quanto ci riguarda la Svezia è davvero la regina scandinava delle birre artigianali e vi conquisterà al primo sorso. Skål! ★

Un canale nel centro storico di Göteborg.

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Le guide

LA TUA BIRRA FATTA IN CASA - 5a ED. In questo manuale bestseller, giunto alla 5a edizione, due esperti birrificatori casalinghi spiegano finalmente per filo e per segno i cosa, i quando e i come di una birra buona e genuina: per sapere veramente che cosa si beve! Vengono approfonditi argomenti come: • Le materie prime e l’attrezzatura • Il processo di produzione • Tecniche particolari (bazooka, metodo BIAB, malti speciali nel forno di casa) • Pregi e difetti della birra. Come valutare una birra. Progettare la propria birra • Ricette per realizzare svariati stili birrari

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Le guide

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L’idromele è la bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione del miele ed è considerato il più antico fermentato al mondo. Questo volume vuole fornire alla sempre più ampia platea degli appassionati una guida pratica e completa per realizzare un ottimo idromele fatto in casa. Il libro ripercorre la storia dell’idromele, dalle origini fino al rinnovato interesse degli ultimi anni, ne descrive le varie tipologie e mostra come prepararlo con chiare indicazioni passo passo, corredate da trucchi, segreti e approfondimenti per ottenere sempre un prodotto di qualità. Completano il libro numerose ricette tratte dall’esperienza pluriennale dell’autore.

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