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Il cilindro di Ciro

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Rosanna Virgili

Tra le antiche rovine di Babilonia nel 1879 venne scoperto un oggetto cilindrico d’argilla risalente al sesto secolo avanti Cristo, di appena ventidue centimetri di lunghezza e otto di diametro ma preziosissimo per il contenuto della scrittura che appare incisa a caratteri cuneiformi sulla sua superficie. Il tono è certo propagandistico e commemorativo delle opere di Ciro che vengono esaltate come quelle di un liberatore pacifico che rimpatriò i deportati babilonesi, ricostruì le mura della città e ne restaurò i templi.

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Il testo del cilindro è stato tradizionalmente visto dagli esegeti come una prova che avvalora la politica messianica di Ciro citata nel libro di Isaia (cf. Is 44,28) e in altri luoghi biblici, del rimpatrio del popolo ebraico dall’esilio in Babilonia, ancorché non vi si faccia alcuna menzione né dei giudei né di Gerusalemme. Ma ciò che conta è quanto sembrano ispirare le parole impresse sul cilindro cioè il rispetto dei diritti umani e civili di coloro che venivano inglobati nell’Impero di Persia:

Il mio grande esercito marciò in pace attraverso Babilonia. Ho cercato il benessere della città di Babilonia e di tutti i suoi centri cultuali. I cittadini di Babilonia, … … … anziché assegnare loro un giogo non appropriato contro il volere del Dio, ho dato sollievo alla loro stanchezza, ho fatto sciogliere i loro legacci. (24-26).

La libertà dei sottoposti babilonesi di adorare il proprio Dio si lascia interpretare come la prima affermazione dei diritti umani universali che avrebbe anticipato di almeno un millennio la Magna Charta. Leggiamo ancora:

Akkad, la regione di Eshnunna, la città di Zamban, la città di Meturnu, Der, fino al limite del paese dei Gutei, (ovvero (?) nei) centri cultuali sull’altra riva del Tigri le cui dimore erano state abbandonate da tempo: ho restituito alle loro sedi gli dèi dimoranti al loro interno e (li) ho insediati nelle (loro) dimore eterne (…) Tutti gli dèi che ho fatto (ri)entrare all’interno dei loro centri cultuali (31-34).

Per il diritto di cittadinanza di tutte le divinità e la conseguente autorizzazione a rivolger loro atti di culto, il cilindro viene considerato il primo documento esplicito di tolleranza religiosa e perciò venne adottato come simbolo dell’Iran e della sua antichissima monarchia nel vicino 1971 dalla dinastia Pahlavi. Un vero peccato che oggi in Iran per i princìpi tratti da una religione, non si permetta né la libertà di religione né il rispetto dei più elementari diritti umani. Quanto vede vittime privilegiate le donne figlie dell’antica e “illuminata” Persia e discendenti di Ciro.

Pur con uno sviluppo significativamente differente un fenomeno di regressione storica e culturale è avvenuto anche in Europa e nella Chiesa specialmente a proposito delle donne. Se andiamo a leggere i passi del Nuovo Testamento troviamo, ad esempio, che le donne avevano diritto di parola vale a dire: “pregavano e profetizzavano” nelle assemblee cristiane, proprio come gli uomini. Quanto ancor oggi le donne non sono ammesse a fare: pronunciare un’omelia dal pulpito all’interno della celebrazione eucaristica. E sì che a stabilire la stessa dignità dell’uomo e della donna rispetto alla parola ispirata dallo Spirito (= la profezia) è proprio quel Paolo che intenzionalmente è stato “costruito” come un misogino! È lui che dice: “ogni donna che prega o profetizza…” (1Cor 11,5) e ancora: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,8). Fin dai primi secoli si impose un’interpretazione del messaggio paolino e si fece una scelta tra il materiale delle sue lettere autentiche e quelle oggi considerate pseudo-epigrafiche per togliere alle donne la pari dignità con i colleghi maschi, e persino ab-usando di un testo che oggi quasi tutti gli autori considerano un’aggiunta redazionale: “le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse”(1Cor 14,34). L’esegesi posteriore ha voluto interpretare il rapporto cui, nella Lettera agli Efesini – peraltro deuteropaolina – vengono esortate le mogli verso i loro mariti, vale a dire di essere loro “sottomesse”, come una sottomissione giuridica, etica, fisica, sociale, antropologica e psicologica delle donne sposate nei confronti dei mariti. Assurdo è lo stravolgimento di quel testo nel quale il verbo upotàssomai (che viene tradotto con “sottomettersi”) indica la postura di chi è legato all’altro in modo circolare e non verticale. La frase inizia, infatti, così: “Siate sottomessi gli uni agli altri dinanzi al Signore” (Ef 5,21): l’azione indicata dal verbo è quella di un abbraccio reciproco e non di una sottomissione gerarchica! Nei versetti seguenti l’autore utilizza la coppia unita in matrimonio come metafora della relazione del Cristo-sposo con la Chiesa-sposa. La “sottomissione” di quest’ultima consiste, in realtà, nell’accogliere l’atto d’amore totale del Suo Sposo il quale si consegna a lei per darle salvezza e vita eterna e: “per renderla tutta bella, senza macchia né ruga” (Ef 5,27). Ma la morale matrimoniale ecclesiastica ha voluto rendere la moglie “sottomessa”, inferiore al marito, facendo torto all’autore della Lettera agli Efesini.

Oltre al dono e al compito della predicazione le donne avevano, nei primi decenni della vita della Chiesa, anche quello del governo: basti pensare a Febe chiamata “diacono” che equivaleva al titolo delle autorità romane che si occupavano del governo (cf. Rm 13,4); e ancora più a Giunia la quale era addirittura un’apostola “insigne” divenuta cristiana prima di Paolo! (cf. Rm 16,7) Il regresso storico e culturale e la scomparsa del ministero apostolico di Giunia iniziò secoli dopo quando di lei fecero addirittura un maschio e fu chiamata: Giunio. Un mutamento di sesso che andò a supportare la dogmatica dei ministeri in seguito elaborata, dove una donna non poteva essere apostolo (peraltro questa dignità era riserva dei Vescovi “successori degli Apostoli” intesi come i Dodici).

Ma c’è un ultimo caso di regresso della dignità e dei diritti delle donne anche nelle nostre democrazie (laiche) occidentali e mi riferisco proprio alle donne che oggi sono al potere in Europa. In realtà esse non mostrano alcuna differenza dal modo di governare usato dai maschi ad esempio a proposito della guerra. Si mostrano incapaci di aprire un’altra via alla pace che non sia quella della vittoria di una parte, a mano armata. Quanto hanno fatto da sempre i governanti uomini ma quanto non fecero, invece, due donne bibliche i cui nomi sono Rut e Noemi. A una politica di esclusione e di violenza che Israele aveva sempre condotto per difendere o espandere il suo territorio, sterminando i cananei e gli altri popoli, la straniera e la betlemmita strinsero un patto di alleanza, collaborarono col loro lavoro ed il loro buonsenso al superamento di una grave crisi economica unendo e non disperdendo le forze per acquistare e vendere armi. Se Israele ebbe un futuro fu per l’intelligenza, il coraggio e la saggezza di queste due donne e non certo per le guerre continue e sciagurate condotte dai governanti maschi che portò, invece, secoli dopo, alla rovina di Gerusalemme. Da esse uscì quel virgulto di Iesse i cui tratti somatici e messianici ritroveremo nello stesso Gesù, figlio di David!

La prima ministra della Repubblica Italiana, poi, ha cancellato, addirittura, la grande conquista di Giunia, quella di avere acquisito, finalmente, l’identità di una donna nelle versioni delle Bibbie di oggi, compresa quella della CEI. Ella, infatti, si vuole far chiamare: “Il presidente”, un maschile che fa arretrare a prima del cilindro di Ciro i diritti umani e civili che la grammatica – orale e scritta – riconosce da sempre alle donne.

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