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La componente aerotattica dell’Aviazione Navale
Il primo velivolo F-35B dell’Aviazione Navale in volo sull’Atlantico. In basso: l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, qui ripreso a Parigi nel 1919 nell’ambito della delegazione italiana che partecipò alla Conferenza di pace successiva alla Prima guerra mondiale. All’epoca ispettore generale della Forza armata e presidente del Comitato degli ammiragli, Thaon di Revel fu un forte propugnatore dell’Aviazione Navale italiana, divenendone l’artefice indiscusso.
La storia
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Nel 1923 avvenne la costituzione della Regia Aeronautica, che assorbì i mezzi e l’organizzazione delle forze aeree delle altre due Forze armate. L’ammiraglio Thaon di Revel, cercò da subito di ottenere un’aliquota di velivoli da porre sotto il controllo della Regia Marina per l’impiego sul mare. Da quel momento nacque un dibattito, talvolta molto acceso, sulla necessità di sviluppo delle forze aeronavali e della necessità di acquisire la capacità di condurre operazioni aeree sul mare, secondo un percorso logico che altre forze navali avevano nel frattempo iniziato. Tale mancanza, come noto, significò per la Regia Marina la partecipazione alla Seconda guerra mondiale in condizioni di palese inferiorità rispetto agli avversari. Il risultato di tutto ciò si materializzò con perdite dolorose anche fra gli equipaggi e le unità. A ben poco valsero gli sforzi e il lavoro degli organi tecnici per la progettazione, soprattutto negli anni Trenta, di navi portaerei di vario tipo, la cui realizzazione non fu possibile per tanti motivi. Gli eventi, talvolta tragici manifestatisi sin dalle prime battute della Seconda guerra mondiale convinsero, nella primavera del 1941, le autorità politiche e militari della necessità di costruire una o più portaerei. Tuttavia, pur non mancando l’ingegno progettuale per un’impresa intrinsecamente complessa qual è la realizzazione di una portaerei si coniugò con le inadeguate risorse industriali aeronautiche nazionali, ottenendo come risultato una portaerei — l’Aquila — che al momento dell’armistizio non era stata ancora completata e che fu demolita nei primi anni Cinquanta.
La mancanza di un’Aviazione Navale — intesa come un’entità organica alla Marina e comprendente assetti aerei imbarcati e basati a terra, infrastrutture e personale — e l’assenza di portaerei nella flotta italiana costituì una gravissima lacuna le cui conseguenze andarono ben oltre i risultati diretti potenzialmente ottenibili. Infatti, una o più portaerei italiane eventualmente realizzate prima del conflitto sarebbero state certamente l’obiettivo prioritario da distruggere per gli avversari, ma la loro possibile perdita non avrebbe certamente distrutto assieme alle navi la preziosissima esperienza e la mentalità dell’«aeronavale» che il possesso e utilizzo di questa tipologia di unità naturalmente comporta.
La concretezza dei risultati
Come noto, l’acceso dibattito in merito alla necessità di una Aviazione Navale italiana si manifestò anche nell’immediato secondo dopoguerra e proseguì nei decenni successivi, portando alla promulgazione della legislazione sull’aviazione antisommergibili del 1957 che, nella sostanza, non era molto dissimile dall’aviazione ausiliaria per la Regia Marina risalente agli anni Venti. Da parte sua, la Marina Militare rimediò alla carenza dell’aviazione imbarcata attraverso la creazione di una componente ad ala rotante, evolutasi nel tempo in accordo con i mutamenti geostrategici e con i progressi dottrinari e materiali. La legge n. 36, promulgata nel febbraio 1989, chiuse finalmente settant’anni di litigi e incomprensioni, alimentati da non poche polemiche, anche sulla stampa nazionale, sulla necessità della Marina Militare di dotarsi di una sua Aviazione Navale e sulla costruzione di unità navali con capacità aeree. Assai nota è la polemica sorta con la costruzione del Giuseppe Garibaldi, equipaggiato con le sistemazioni aeronautiche necessarie a far operare velivoli ad ala fissa; ma forse poco noti sono diversi episodi occorsi in altrettanti momenti della storia militare italiana in cui, da una parte, sono emerse carenze e lacune altrimenti evitabili, e dall’altra è stata dimostrata le flessibilità d’impiego dell’aviazione imbarcata. Possiamo citare per esempio come nella fase più critica della prima vera operazione militare all’estero in cui le Forze armate italiane furono protagoniste — il dispiegamento di reparti terrestri in Libano e di unità navali al largo di Beirut — si pensò di impiegare i velivoli F-104S dell’Aeronautica Militare per fornire la copertura aerea necessaria a evitare possibili sgradevoli sorprese. Tuttavia, quest’opzione non poteva avere un seguito concreto perché il tempo di permanenza degli F-104S nei cieli libanesi sarebbe stato alquanto limitato anche nell’eventualità di un loro rischieramento a Cipro, prospettiva certamente non scontata e per la quale era comunque necessaria una sosta in Grecia: in sostanza, si riproponevano con chiarezza — e per di più sul campo — le difficoltà per i velivoli basati a terra ad assicurare la tempestività d’intervento, viceversa garantita da un’aviazione imbarcata.
Il battesimo operativo dell’Aviazione Navale italiana si è avuto nel 1995, al largo della Somalia, con il Garibaldi inquadrato nel 26° Gruppo navale della Marina Militare ed equipaggiato, fra l’altro, con tre velivoli AV-8B Harrier II Plus monoposto da poco giunti dagli Stati Uniti e con i due biposto TAV-8B; entrambi i modelli di velivoli facevano parte del Gruppo aerei imbarcati (GRUPAER). In quel contesto operativo, i velivoli dell’Aviazione Navale assicurarono il supporto aereo ravvicinato e la ricognizione ai reparti italiani impegnati sul terreno. Il battesimo del fuoco del GRUPAER e degli Harrier II Plus italiani avvenne invece nel maggio 1998, da parte di sei velivoli presenti sul Garibaldi per partecipare all’operazione NATO Allied Force condotta in Kosovo. I compiti principali del dispositivo aeronavale costituito per lo scopo erano la sorveglianza delle coste del basso Adriatico, il controllo e l’identificazione dei natanti e il supporto alle forze terrestri
La portaerei AQUILA ormeggiata alla Calata Oli Minerali del porto di Genova
(1946) e rimasta incompiuta nonostante gli sforzi progettuali susseguitisi per lungo tempo nella Regia Marina negli anni Venti e Trenta (US Navy).
NATO operanti sul terreno. In quella circostanza, i velivoli del Garibaldi furono inseriti nei reparti aerei costituiti dalla NATO ed eseguirono missioni comprendenti anche rifornimenti in volo a cura di velivoli dell’Aeronautica Militare e di altre forze aeree alleate e utilizzarono missili aria-aria e munizionamento di precisione.
Nell’ambito di operazioni militari contro il terrorismo avviate dopo il tragico 11 settembre 2001, di assoluto rilievo è stata la partecipazione del Garibaldi alle prime fasi dell’operazione Enduring Freedom, inquadrato in un gruppo navale di cui facevano anche parte la fregata Zeffiro, il pattugliatore di squadra Aviere e il rifornitore di squadra Etna: in azione sotto il controllo operativo dell’US Central Command, il reparto aereo imbarcato sul Garibaldi comprendeva, fra l’altro, otto velivoli Harrier II Plus a cui furono affidate missioni di interdizione aerea, ricognizione, supporto aerotattico alle forze terrestri: le notevoli distanze in gioco — circa 600 miglia di distanza dal Garibaldi — imponevano una media di 3-4 rifornimenti in volo per ciascun velivolo, anche nelle ore notturne, con obiettivi in varie aree del territorio afgano, senza peraltro impedire che gli assetti aeronavali italiani dimostrassero le necessarie qualità di tempestività e immediatezza d’intervento. In quelle circostanze, il rendimento del reparto aereo del Garibaldi fu assai elevato e ha rappresentato una tappa molto importante nell’evoluzione dell’Aviazione Navale e delle capacità aerotattiche sviluppabili dalla Marina Militare.
L’esplosione delle turbolenze mediterranee — degenerate nella primavera 2011 nella guerra civile fra le forze militari fedeli all’ex dittatore di Tripoli e quelle ribelli — culminò con l’operazione militare Unified Protector, comprendente anche missioni aeree contro obiettivi terrestri, condotte a cavallo di una porzione di costa libica lunga circa 800 km e soggetta a una continua variazione legata all’andamento delle operazioni sul terreno. L’impegno principale della Marina Militare nel corso di quell’operazione, protrattasi fino a maggio 2011, si è tradotto nell’inserimento nella coalizione internazionale di un gruppo navale ancora incentrato sul Garibaldi, i cui otto Harrier II Plus imbarcati per quella circostanza hanno operato sul territorio libico in missioni di CAP (Combat Air Patrol), ricognizione offensiva e interdizione aerea. Giova qui ricordare come quel conflitto fu peraltro oggetto di una polemica fra la Royal Air Force (RAF) e la Royal Navy, soprattutto perché l’assenza di una portaerei britannica rese consapevole il ministero della Difesa britannico dell’utilità di una sia pur piccola portaerei negli scenari moderni, come già recepito nei circoli militari di Londra dopo aver analizzato l’efficace impiego degli Harrier II Plus del Garibaldi. Nonostante il cospicuo ma inaspettatamente costoso sforzo compiuto dalla RAF (1), essa non poté completamente rimediare all’assenza di una portaerei tanto da indurre gli ambienti ufficiali britannici a sentirsi obbligati nel giustificare continuamente l’entità del contributo di Londra a una campagna aerea fortemente sollecitata da Downing Street.
Infine, un ulteriore valore aggiunto dell’impiego dell’aviazione imbarcata in quell’occasione venne dimostrato anche dall’operato della portaerei francese Charles de Gaulle, i cui «Rafale M» potevano ingaggiare bersagli non pianificati in territorio libico dopo non oltre 20 minuti dal sorgere dell’esigenza, e quindi ben più rapidamente delle 6 (sei) ore richieste ai «Tornado» britannici basati nel Regno Unito per colpire un bersaglio e dei 90 minuti richiesti ai medesimi velivoli in seguito rischierati in Italia. La tempestività e la continuità d’azione si confermavano dunque come due ineludibili peculiarità dell’aviazione imbarcata. Questi due concetti sono stati applicati dall’Aviazione Navale italiana anche in occasioni diverse da vere e proprie operazioni di combattimento. È questo il caso dell’operazione messa in atto il
L’incrociatore portaeromobili GARIBALDI durante l’operazione «Unified
Protector» in cui è stata nuovamente dimostrata la maggior efficacia dell’impiego dell’aviazione imbarcata rispetto a un reparto basato a terra.
29 dicembre 2014 per portare in salvo 427 fra passeggeri e membri dell’equipaggio del traghetto Norman Atlantic, in preda a un furioso incendio e in avaria in mezzo al Canale d’Otranto. Il successo dell’operazione è dipeso in gran parte dall’azione di assetti aerei e navali della Marina Militare — tre AB-212, altrettanti MH-101 e un SH90 —, in azione sinergica con i mezzi dell’Aeronautica Militare.
Le capacità, la politica e le criticità
Negli ultimi tempi, la stampa e l’opinione pubblica nazionale si sono occupate del velivolo «F-35 Lightning II», protagonista principale del programma meglio noto come «Joint Strike Fighter, JSF» e a cui l’Italia partecipa sin dal suo avvio, risalente al 2001. La risoluzione dei problemi riscontrati durante lo sviluppo del velivolo e le valutazioni sul campo ormai in corso da diversi anni consentono di affermare che il «Lightning II» possiede rivoluzionarie capacità operative, un vero e proprio salto di qualità nella 5a generazione dei velivoli da combattimento, con capacità all’avanguardia nelle funzioni di supremazia aerea, attacco, intelligence, sorveglianza e ricognizione. L’aspetto principale della tecnologia di 5a generazione applicata al «Lightning II» si sintetizza nella sensor fusion, vale a dire nella trasformazione in tempo reale delle informazioni grezze raccolte dai vari sensori che lo equipaggiano in informazioni rilevanti per il pilota in un preciso istante della missione, tenendo conto dei suoi aspetti specifici e della realtà circostante (2). Il «Lightning II» è inoltre continuamente collegato alle complesse architetture C4ISTAR esistenti a livello nazionale e multinazionale, diventandone uno dei nodi in un ambiente network-centrico che permette al pilota di ricorrere anche all’impiego di sensori e sistemi «esterni».
Nel corso degli anni il numero di velivoli pianificati in origine dalle nazioni coinvolte nel programma JSF ha subito mutamenti legati all’evoluzione delle singole condizioni economiche. Per quanto riguarda l’Italia, la pianificazione originaria prevedeva l’acquisizione di 131 velivoli, suddivisi fra i 69 della variante «A» (impiegabili da basi terrestri convenzionali) e i 62 della variante «B», a decollo corto e appontaggio/atterraggio verticale; di questi ultimi, 40 erano destinati all’Aeronautica Militare e 22 alla Marina Militare per l’imbarco sulla portaerei Cavour, il cui progetto era stato peraltro calibrato proprio per soddisfare quest’esigenza. Nell’ambito del ridimensionamento dell’intero strumento militare nazionale, nel febbraio 2012, il ministro della Difesa annunciò al Parlamento che il numero complessivo di F-35 italiani si sarebbe ridotto a 90 esemplari, destinati alla sostituzione dei Tornado e degli AMX dell’Aeronautica Militare e degli Harrier II Plus della Marina Militare — con l’assegnazione di 15 F-35B e 60 F-35A all’Aeronautica e 15 F-35B alla Marina.
Il «sistema portaerei»: in volo sul mare e dal mare
Gli interventi cui è stato recentemente sottoposto il Cavour, nel quadro delle periodiche attività di manutenzione e revisione di altri impianti, sono propedeutici all’imbarco degli F-35B della Marina Militare e al conseguimento della Initial Operational Capability, IOC, del «sistema portaerei». Il concetto fondamentale da comprendere è che l’IOC non è meramente attribuibile ai velivoli imbarcati, ma al connubio fra quest’ultimi, gli elicotteri (anch’essi imbarcati), la piattaforma e tutti i suoi sensori e sistemi d’arma di varia natura, il suo equipaggio e un insieme di TTP (Tactics, Techniques & Procedures) ormai consolidate e radicate, appunto racchiusi in un «sistema portaerei» che ne garantisce la massima flessibilità d’impiego in diversi contesti e scenari operativi e che
Le prime operazioni di volo della portaerei CAVOUR con gli F-35B, condotte
al largo della costa atlantica degli Stati Uniti.
fanno della componente aerotattica dell’Aviazione Navale una risorsa preziosa essenziale per la Marina e il Paese. A giugno 2020, il Cavour ha ripreso l’attività propedeutica alla traversata atlantica che lo porterà lungo la costa orientale degli Stati Uniti per ricevere a bordo i primi esemplari di F-35B con le insegne della Marina Militare e iniziare il percorso verso il conseguimento dell’IOC del già citato «sistema portaerei».
Nella programmazione definita a metà dello scorso decennio, i 22 F-35B destinati alla Marina Militare sarebbero stati consegnati secondo un calendario che avrebbe permesso di conseguire due obiettivi: il conseguimento della IOC del «sistema portaerei» nel 2021 e la graduale dismissione dei velivoli Harrier II Plus. La rimodulazione maturata dopo la decisione di ridurre a 90 il numero di esemplari complessivi di F-35 italiani ha spostato in avanti l’acquisizione delle 15 macchine e ha fatto slittare al 2024 l’ottenimento dell’IOC per il «sistema portaerei», obiettivo questo raggiungibile avendo in linea un congruo numero di velivoli imbarcati. In tal modo, il completamento delle consegne dei 15 F-35B assegnati alla Marina Militare garantirà il raggiungimento della FOC (Full Operational Capability) entro il 2030, sia la conclusione del ritiro dalla linea degli Harrier II Plus.
Sinergie e possibili soluzioni
Il concetto strategico divulgato di recente dallo Stato Maggiore della Difesa contiene alcuni importanti passaggi, fra cui il raggiungimento dell’obiettivo dell’efficienza sistemica, un miglioramento dell’architettura organizzativa delle Forze armate attraverso l’eliminazione di ridondanze e duplicazioni, e i requisiti di proiettabilità e rischierabilità di reparti terrestri, navali e aerei, integrabili e scalabili secondo logiche joint by design ed expeditionary, attivabili in tempi ristretti e con un adeguato livello di autonomia operativa e logistica. In sostanza e applicando queste considerazioni agli F-35B italiani, s’invoca un più marcato ricorso alla sinergia. Un esempio di possibile applicazione della sinergia potrebbe essere il seguente: assumendo di dover intervenire — nell’ambito di una coalizione — in Africa o nel Golfo Persico, i velivoli dell’Aeronautica Militare (per esempio gli F-35A e un paio di aerocisterne) potrebbero essere rischierate in un aeroporto con una pista sufficientemente lunga, assieme a tutte le strutture necessarie a ospitare velivoli e personale di supporto operativo, tecnico e logistico: da parte sua, un gruppo navale incentrato sulla portaerei Cavour (con un gruppo di 12-15 F-35B imbarcati) e comprendente un paio di unità di scorta e un rifornitore, opererebbe al largo della costa più vicina all’area d’intervento. Grazie al propedeutico addestramento congiunto fra i «Lightning II» delle due Forze armate, in un siffatto scenario, i velivoli opererebbero insieme, sotto l’egida di un air component commander, supportati ove necessario dalle aerocisterne, mentre il gruppo «Cavour» si sposterebbe lungo la costa in funzione delle esigenze tattiche del momento, oltreché essere rapidamente riconfigurabile per altre esigenze operative e/o umanitarie. Questa sinergia verrebbe ampliata qualora della coalizione facessero parte altre risorse di natura combat e di combat support, analogamente a quanto avvenuto durante l’operazione Enduring Freedom, ma con gli opportuni miglioramenti qualitativi nel frattempo intervenuti grazie alle tecnologie disponibili. 8
Le capacità expeditionary della componente aerotattica della Marina
Militare sono evidenziate dalla panoplia di armi e sensori in dotazione a
questo Harrier II Plus, call sign «Wolf», del Gruppo aerei imbarcati.
NOTE
(1) La partecipazione della RAF all’operazione ebbe un costo di 4 milioni di sterline al giorno, comprese 40.000 sterline giornaliere per le camere d’albergo di piloti e specialisti rischierati a Gioia del Colle. (2) Usando le proprie capacità di Sensor Fusion, il «Lightning II» può localizzare, ingaggiare e neutralizzare bersagli multipli ben prima di essere scoperto a sua volta dai sensori avversari.