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Portaerei e aviazione imbarcata: un asset
Portaerei e aviazione imbarcata
Un asset strategico irrinunciabile
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Gino Lanzara (*) Francesco Zampieri (**)
(*) Capitano di fregata (CM); laureato in Management e Comunicazione d’impresa ed anche in Scienze Diplomatiche e Strategiche. Analista e studioso di geopolitica e di sicurezza, collabora in materia con diverse testate. Ha pubblicato il saggio Guerra economica: quando l’economia diventa un’arma. (**) Docente aggiunto di Fondamenti di Strategia e di Strategia Marittima presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, collabora altresì con l’Università Ca’ Foscari, con il corso di Laurea in Geopolitica del Mare dell’Università La Sapienza e con il Corso di Laurea in Marine Sciences dell’Università di Milano-Bicocca. È autore di numerosi articoli editi su riviste scientifiche e parimenti di monografie, tra cui: Elementi di Strategia Marittima, Roma 2014; 1975 la Marina rinasce. La Legge Navale del 1975, Vicenza 2014; Marinai con le stellette. Storia sociale della Regia Marina nell’Italia liberale (1861-1914), Roma 2008; Navalismo e pensiero marittimo nell’Europa di fine ’800, Roma 2004. Il suo campo di ricerca scientifica è quello della storia e della strategia navale.
L’ingresso a Norfolk
(Virginia) di nave CAVOUR
impegnata nella campagna «Ready for operations» (RFO). A sinistra: la portaerei italiana in banchina.
Il Potere Marittimo non è facilmente declinabile; in una quotidianità caratterizzata da semplificazioni oggetto di fraintendimenti, le capacità marittime nazionali vengono spesso confuse con colpevole approssimazione, avallando magari teorie ormai sorpassate, come quella che designò l’Italia quale naturale portaerei, salvo poi rimpiangerne amaramente l’assenza di vere. Si tratta di una Blue Chain, dove evoluzione e progresso forgiano ogni singolo anello. Il Potere Navale, capacità militare di interdire all’avversario attività marittime e libero dominio del mare, si è fondato a lungo solo su mezzi operanti nell’acqua; la comparsa del mezzo aereo ha dunque introdotto un elemento di novità capace di influenzare la condotta delle operazioni navali, uno strumento bellico capace di operare sia contro ciò che si muove nell’acqua, sia di proiettarsi dal mare oltre i limiti segnati dalle artiglierie. L’Aviazione navale ha dunque incarnato un nuovo potere strategico integrato in quello navale: una proiezione di potenza dinamica e peculiare che deve tenere conto delle minacce asimmetriche non contrastabili con mezzi tradizionali, che divengono particolarmente critiche quando interessano i Chokepoint lungo le vie di comunicazione marittima. Il Potere Navale, anello pregiato della Maritime Chain, non può dunque che essere parte integrante della strategia politica di qualsiasi nazione protesa verso una condotta coerente, scevra da deficienze politico strutturali interne e capace di affrontare aggressivi multipolarismi internazionali, in contesti privi di punti politici di riferimento. Il quadro globale è da tempo in rapida evoluzione, da un lato con un accentuato sviluppo tecnologico e dall’altro con un processo di globalizzazione mercantile, con forme politico-economiche ancora in evoluzione, condizionate da forti antagonismi e da un decrescente senso di coesione atlantica (1), peraltro sovente oggetto di discussione anche per effetto della pervasiva Weapon Diplomacy (2). L’egemonia statunitense, poggiata sul dominio militare di aerospazio e mare, che si basa sul pensiero neorealista di John Mearsheimer (3) e che trova ancora oggi i suoi fondamenti nel navalismo dei presidenti James Madison, Theodore Roosevelt e nelle concettualizzazioni dell’ammiraglio Mahan, si richiama costantemente alla centralità valutaria, secondo un paradigma che vede spesso il primato militare garante della solvibilità obbligazionaria.
Se è vero che ormai il Mediterraneo non può essere considerato di esclusivo appannaggio europeo, è però altrettanto innegabile che, per il nostro paese, esso continua a rivestire un’importanza capitale, dati l’incremento della penetrazione economica internazionale e la necessità di fattive liaison con i soggetti politici dell’Africa Subsahariana, in un quadro complessivo che richiede la valutazione di diversi modelli di riferimento di politica estera. Tali schemi trovano diversi fondamenti su alleanze asimmetriche con potenze egemoni, su autonomie bilaterali di tipo economico commerciale, su multilateralismi attivi e propositivi capaci di mobilitare interessi, sull’adozione di modelli comportamentali coerenti e costanti in ambito internazionale, tali da rendere meno vulnerabile la posizione nazionale, insidiata peraltro da una collocazione geopolitica che vede il paese insistere sul confine tra la zona stabile e quella ubi sunt leones, in un contesto condizionato da limiti oggettivi che gravano sulle capacità d’iniziativa in aree distanti dai propri confini, con una progressiva riduzione delle opzioni d’intervento. Come è possibile constatare, politica e Potere Navale procedono secondo proiezioni parallele di interessi e di potenza, un aspetto questo che interessa direttamente anche l’elemento logistico nella sua accezione politica. La centralità del Mediterraneo, il suo peso determinante, impongono l’Italia quale hub fondamentale, tuttavia in discussione dalle concrete possibilità proiettive di influenza e di potere verso l’esterno; il tutto tenendo conto sia della delocalizzazione dei centri produttivi verso l’Estremo Oriente, sia della direttrice di flusso che solca il bacino da Suez a Gibilterra, permettendo al Mare nostrum di assurgere a un ruolo basilare per il trasporto intermodale di lungo raggio, a discapito delle rotte del Mare del Nord. Da un punto di vista neo liberale, Parag Khanna (4) ha affermato che la capacità di connessione determina la potenza di uno Stato, anche se richiede un’integrazione nella dinamica realista del controllo delle arterie commerciali a scopi politico economici; è un fatto: il potenziamento della logistica equivale a un rafforzamento della potenza nazionale in termini di perseguimento di interessi collettivi. Estremizzando i concetti, potremmo trovarci di fronte a una sorta di conflitto economico e di Information Dominance cognitiva in tempo di pace per cui, secondo Christian Harbulot (5), non ricorrendo a stilemi classici, si rappresenterebbero rapporti di forza non militari, ma con obiettivi identici: l’accrescimento della ricchezza e della potenza di un paese secondo paradigmi geoeconomici che richiamano E. Luttwak (6).
Geopoliticamente, per quanto ci riguarda, il Mediterraneo Allargato, concetto visto in chiave neo ottomana e secondo la profondità strategica di Ahmet Davutoglu dall’ammiraglio turco Gurdeniz con il Mavi Vatan (7) e approfondito in ambiti accademici cinesi che privilegiano il neorealismo difensivo (8), rappresenta un’area instabile tale da poter innescare fenomeni capaci di sconvolgere i correnti assetti politico strategici globali; del resto si tratta di un quadrante che racchiude anche i bacini del Mar Nero e del Mar Rosso, dove permangono realtà economiche, militari e religiose incompatibili tra loro e potenzialmente generatrici di apolarità strategiche e che può essere suddiviso in due macro regioni: la settentrionale con Europa e zona russo caucasica ex sovietica soggetta a multipolarismo, e la meridionale, con le sponde mediterranee dell’Africa e il Grande Medio Oriente. In sintesi, le nazioni a nord ed est del Mediterraneo, insieme ai paesi ex sovietici formano l’assetto geopolitico eurasiatico che si dilata dalle coste atlantiche europee fino all’Asia orientale, dove la Russia, in cerca di un’estensione del proprio confine meridionale sul Mar Nero, di un consolidamento in Siria con un occhio alla Libia e l’Iran, costituiscono delle variabili capaci di variare gli assetti; uno scenario non rispondente alla strategia NATO, che punta al controllo del territorio che si estende dalla penisola iberica fino al Golfo Persico, secondo la concezione di N. Spykman (9), il quale sosteneva che chi controlla il Rimland (10) controlla l’Eurasia e dunque le sorti di tutto il mondo.
Secondo Samuel Huntington, il Mediterraneo Allargato va interpretato come un insieme geografico, non come un unico sistema politico culturale, dove le dinamiche sono regolate dal fattore umano; valgano come esempi i conflitti arabo-israeliani, i recenti Accordi di Abramo, le guerre del Golfo, e gli scontri che hanno visto protagonisti Iran, Iraq e Pakistan. Vale la
Formazione di AV-8 sorvola nave CAVOUR e nave ETNA.
pena rammentare che le risorse energetiche racchiuse tra Golfo Persico, Asia centrale e mar Caspio, valgono il 70% delle riserve mondiali, incidendo per il 35% sulla produzione del gas, con una crescente domanda mondiale che determina sia un’oggettiva difficoltà nel trasporto, sia una marcata vulnerabilità delle nazioni industrializzate. L’instabilità dell’area si è poi manifestata nello sviluppo di politiche di potenza indirizzate a programmi militari e alleanze per il controllo di territori e risorse naturali, cosa che ha determinato il ruolo chiave delle rotte marittime nelle dinamiche economiche, poiché esiziali per il mantenimento dei flussi per l’intero sistema globale.
La mobilità marittima e la libertà di esercitarla, divengono fatalmente strategiche e acuiscono la fragilità politica degli accessi al Mediterraneo, soggetti a sovranità talvolta molto instabili, fatta eccezione per Gibilterra. L’indispensabile controllo militare d’area ha dunque sviluppato un concetto di potenza fluido e imprevedibile, dovuto al cambiamento delle nazioni dominanti e dove l’equilibrio tra gli attori è condizione imprescindibile per la stabilità. Sarebbe dunque un grave errore pensare di confinare l’area d’interesse nazionale italiano al solo Mediterraneo centrale: basti pensare alle attività estrattive dell’ENI in Mozambico e al fatto che, per l’Italia, Suez, Bab el-Mandeb e Hormuz assumono una palmare rilevanza primaria, insieme a Egitto, Somalia, Yemen, Oman e Gibuti. È dunque palese come l’Italia non possa disinteressarsi dell’oceano Indiano, teatro di azioni sia di Soft Power che di Hard Power, anche da parte iraniana per il contenimento di Israele, comunque impegnato nel potenziamento dei suoi assetti navali. Se è vero che il Mediterraneo, nella sua accezione geopolitica allargata, continua ad attrarre attenzioni e interessi da parte dei maggiori egemoni globali — o aspiranti tali, come il Dragone cinese — diventa inevitabile auspicare il mantenimento di un Potere Navale nazionale in grado di proiettarsi adeguatamente. Del resto, secondo una prossima pubblicazione a cura dell’US Naval Institute, «una grande responsabilità richiede una grande Marina» (11): come dar loro torto?
L’estensione del tradizionale concetto di Mediterraneo o, meglio, di spazio marittimo d’interesse nazionale — così come espressa nelle pagine precedenti
—rende necessario anche per un paese come l’Italia e per la sua Marina ragionare in termini di Sea Control da esercitarsi in ambito blue water e su spazi marittimi sempre più dilatati. Da almeno cento anni, il Sea Control va interpretato come controllo del mare non solo sulla superficie o sotto le acque, ma anche nello spazio aereo sovrastante; questo ha comportato che il Potere Navale si sia trasformato sempre più in Potere Aeronavale e il mezzo aereo e missilistico va concepito come connaturato alla nave, nello stesso modo in cui lo è il cannone o il siluro (12). Una Marina da blue water è in grado di proiettare la propria potenza e capacità attraverso gli oceani, di proteggere le linee di comunicazione marittima lungo tutta la loro estensione e non solo in prossimità dei loro sorgitori, ma è altresì insostituibile per operare in prossimità delle aree costiere. La combinazione di Littoral Combat Groups (LCG), Carrier Strike Groups (CSG), Expeditionary Strike Groups (ESG) e Surface Action Groups (SAG) rappresenta l’ingrediente primario per il successo nelle moderne operazioni marittime (13). Ancora una volta, è il bilanciamento capacitivo l’elemento chiave delle Forze navali: una Marina bilanciata può operare con efficacia dall’alto mare alle zone litoranee o costiere, fino alle acque interne. A mano a mano che le operazioni marittime si avvicinano alle aree costiere, l’intensità della minaccia e la multidimensionalità della stessa aumentano, rendendo ancora più arduo l’impiego delle Forze navali e degli assetti più imponenti. Nelle aree costiere, il numero di aeroporti e aviosuperfici sui quali possano essere schierati velivoli rappresenta un elemento critico per la capacità di attaccare o difendere sia le Forze navali, sia le truppe sul terreno. E così, il valore strategico di una determinata area marittima o oceanica aumenta se si dispone del controllo fisico dei locali aeroporti o delle posizioni in cui è possibile realizzare strutture per l’operatività e il supporto degli assetti aerei che vi dovranno operare.
Laddove questi apprestamenti non esistano o non siano realizzabili, solo una capacità aerea imbarcata può annullare lo svantaggio iniziale e alterare il valore strategico dell’area stessa e questo è ancora più vero quando si opera in alto mare lontano dalle basi terrestri. Ciò spiega e chiarisce per quale ragione una delle tendenze che maggiormente caratterizza lo scenario strategico marittimo odierno sia rappresentata dall’attenzione che le principali Marine manifestano verso l’acquisizione di organiche capacità aeree, un «lusso» che drena enormi risorse, ma che appare irrinunciabile. La «flat top fixation», come è stata argutamente definita, rimane la più evidente prova della preferenza per molte Marine di «prima classe» verso gli investimenti tesi a realizzare un numero certamente limitato di piattaforme navali ma, al contempo, caratterizzate da elevata qualità e polivalenza (14). Ciò, per l’appunto, è in parte effetto dell’enfasi che viene posta sulle cosiddette «blue water operations», destinate ad aumentare a mano a mano che gli interessi marittimi globali si consolidano e si rafforzano. L’ultimo decennio, per esempio, ha visto la People’s Liberation Army Navy guadagnare l’ambito status di «aircraft carrier navy» — sebbene l’efficacia della soluzione tecnica fino a oggi adottata sia tutta da dimostrare — ma ha altresì visto rinascere la capacità portaerei della Royal Navy. Al contempo, l’Indian Navy ha proseguito i propri sforzi per aggiornare la propria forza di portaerei e velivoli imbarcati — mediante lo sviluppo dell’ambizioso programma per la Indigenous Aircraft Carrier e per il velivolo a essa destinato — mentre altre Marine paiono destinate, a breve, a entrare nel club delle Marine dotate di portaerei. Non è più un mistero che l’Agenzia di autodifesa marittima giap-
Il Giappone sta curando l’adeguamento dei cacciatorpediniere portaelicotteri classe «Izumo» per l’imbarco degli F-35B (Fonte immagine: thedrive.com).
ponese — la fogliolina di fico dietro la quale si cela la Marina Imperiale del Sol Levante — stia curando l’adeguamento dei propri cacciatorpediniere tuttoponte della classe «Izumo» all’imbarco dell’F-35B, esattamente come sta pensando di fare la ROK (Republic of Korea) Navy con uno Spin-Off della classe «Dokdo» — il riferimento è a quella che, oggi, è indicata come LPX-II (15) — senza dimenticare le aspirazioni dell’Armada spagnola e quella della Marinha do Brazil, piuttosto che quelle della Marina della Repubblica di Turchia e, in prospettiva, della Royal Australian Navy (16).
Del resto, lo sviluppo della variante B dell’F-35 rappresenta un’occasione imperdibile, il cui valore va ben oltre quello rappresentato, fino a oggi, dalla coppia «trough deck cruiser» e «Harrier». L’F-35, come noto, non è solo un formidabile assetto aereo, ma è una piattaforma per la guerra aerea di 5ª generazione, quella nella quale a fare la differenza tra il successo e l’insuccesso sarà la capacità di assicurare il «data gathering and collecting» e quella di impiegare, in maniera congiunta e coordinata, assetti Manned e Unmanned, di interfacciarsi con una pluralità e diversificazione impressionanti di sorgenti di fuoco e di assicurare un’air dominance pronunciata rispetto alle più diffuse capacità aeree dei prevedibili avversari. Inoltre, anche sul piano politico-strategico, la diffusione del velivolo della Lokeed Martin assicura una capacità Combined che non ha precedenti simili, almeno a livello dimensionale. Non è un caso che la «Lightening» community sia destinata a essere qualcosa di più di una semplice condivisione del medesimo assetto aereo, ma possa assumere piuttosto le dimensioni di una vera e propria Forza aerea integrabile ed espandibile a seconda della convenienza politica (17).
Oggi, dunque, le portaerei rappresentano una delle più tangibili manifestazioni del rango di una Marina, avendo ereditato questa funzione dalle navi da battaglia ed essendo così diventate le Capital Ship delle flotte. Come ha pubblicamente scritto la US Navy, la combinazione tra super portaerei — meglio se a propulsione nucleare — e il loro stormo aereo rappresenta l’equilibrio tra le capacità di presenza avanzata e quella di condurre operazioni di combattimento o di
Lo sviluppo dell’F-35B assicura, tra l’altro, un’air dominance pronunciata
rispetto alle più diffuse capacità aeree avversarie.
assistenza (Humanitarian Assistance/Disaster Relief, HA/DR) in qualsiasi parte del globo: «Sailing the world’s oceans, each carrier strike group is a versatile, lethal, and independent striking force capable of engaging targets at sea or hundreds of miles inland. The unique mobility and independence of aircraft carriers provide unmatched global access that requires no host-nation support» (18).
Tuttavia, anche in seno alla Marina statunitense è assai attivo il dibattito sull’utilità o meno di continuare a investire miliardi di dollari nella costruzione e nel mantenimento delle super-portaerei a propulsione nucleare, piuttosto che scegliere soluzioni più economiche: basti pensare che una singola unità navale della classe «Ford» ha un costo non inferiore ai 13 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti altri 5-6 miliardi per il gruppo aereo imbarcato (19). Infatti, la particolarità della minaccia odierna e i mutamenti intervenuti nello scenario marittimo di riferimento potrebbero congiurare contro le super portaerei. Da un lato la proliferazione di missili da crociera da Deep Strike — in grado di proiettare potenza in profondità sulla terraferma, senza ricorrere alla costosa Aviazione navale, evitando altresì i rischi di perdere i piloti — e, dall’altro lato, la diffusione di solide capacità di Anti Access/Area Denial (A2/AD) allontanano sempre più le portaerei dalle coste nemiche ed espongono i loro gruppi imbarcati a operare sempre più lontano dalla propria base.
Un F/A-18F Super Hornet dell'US Navy durante una missione nel Golfo Persico (wikipedia.it).
Il Boeing MQ-25 Stingray sarà il primo velivolo senza pilota a bordo delle portaerei americane, progettato per il rifornimento in volo (Boeing).
Il problema si è già posto, dal momento che l’US Navy deve trovare il modo di fronteggiare le crescenti capacità dei missili Killer Carrier (i cinesi DF-21D, per esempio) e, dall’altro, deve aumentare la portata operativa dei propri stormi aerei, non più dotati di autonome capacità di aerorifornimento e costruiti attorno ad aerei con un’autonomia più limitata di quella dei velivoli delle generazioni precedenti (20). Dunque, siamo giunti alla fine della carriera delle portaerei e delle aviazioni navali? Certamente no e, per ovviare al rischio che le portaerei diventino costosi «giocattoli», c’è chi ha proposto di agire lungo tre direttrici. Per prima cosa, andrebbero rafforzate le capacità di difesa delle stesse Flat Top, irrobustendone le capacità Soft-Kill e quelle delle navi che ne costituiscono la scorta: ciò significa investire su armi laser ed elettromagnetiche per colpire missili e aerei nemici e potenziare le capacità di disturbo dello spettro elettromagnetico; a ciò andrebbero aggiunti ulteriori schermi protettivi, magari rappresentati da sciami di aerei Unmanned che agirebbero come «scudo» delle portaerei. In secondo luogo, si suggerisce di rilanciare l’idea della «flotta bimodale» dell’ammiraglio Hughes, ovvero di ridurre l’esposizione delle portaerei come strumento di presenza avanzata, delegando ad altro navigio di superficie — dotato di adeguato armamento missilistico per l’attacco in profondità e per degradare le bolle A2/AD — il compito di assicurare una prima risposta alle crisi, in attesa dell’arrivo in teatro delle portaerei: ciò permetterebbe anche di ridurre i costi dei lunghi pattugliamenti assegnati alle portaerei e alla loro scorta (21).
Infine, si suggerisce di studiare la possibilità di sostituire le grandi portaerei a propulsione nucleare con un mix di piattaforme più piccole — in grado di far operare velivoli a pilotaggio remoto — e di naviglio di superficie e subacqueo dotato di grandi scorte di missili da crociera; al contempo, le portaerei potrebbero essere mantenute «in naftalina» per essere reimmesse in servizio qualora fosse necessario condurre operazioni più complesse e più prolungate (22).
L’ipotesi che le super portaerei scompaiano dagli annuari navali appare francamente poco credibile, mentre è un dato ormai certo che anche la Marina statunitense sta valutando, con sempre maggiore convinzione, la possibilità di aumentare la finestra di impiego delle proprie LHA — le unità navali d’assalto anfibio, dotate di adeguate capacità aeree — come portaerei leggere, sfruttando le enormi potenzialità offerte dal velivolo F-35B.
Non è un caso, dunque, che l’US Navy stia accelerando l’introduzione in servizio di questa variante del caccia di 5ª generazione e, invece, stia «rallentando» quella della versione destinata a operare da portaerei convenzionale: un gruppo aereo di 15-20 F-35B im-
La nuova HMS PRINCE OF WALES è stata designata per ospitare assetti Unmanned (Royal Navy).
La portaerei USS GEORGE H. W. BUSH, ultima arrivata della classe
«Nimitz», entrata in servizio nel 2009 (wikipedia.it).
barcati su una «Lightening carrier» non solo fornirebbe un adeguato supporto alle operazioni di assalto anfibio, ma permetterebbe altresì di supplire a molti di quei compiti che, oggi, vengono assegnati alle più costose e operativamente complesse super portaerei (23). Accanto alla componente Manned, le future aviazioni navali vedranno sempre più diffusi gli assetti Unmanned — più o meno autonomi — sebbene oggi essi fatichino ancora a farsi largo sui ponti delle Flat Top (24). Ancora, la Marina turca sembra intenzionata a studiare e realizzare la conversione della propria portaeromobili TCG Anadolu in una vera e propria drone carrier, soprattutto se dovesse essere confermato il rifiuto americano a vendere ad Ankara i velivoli F-35B.
I mezzi Unmanned — al momento introdotti in servizio soprattutto per l’effettuazione di compiti di sorveglianza, ricerca, controllo e sostegno a favore degli assetti Combat, quindi, in compiti come aerorifornimento, picchetto radar, picchetto comunicativo, ecc. — sono inevitabilmente destinati a trasformarsi in veri e propri strumenti per l’attacco, assumendo sempre più la forma e la natura di UCAV (25). È richiesta una rivoluzione culturale più che tecnologica: il controllo umano dei mezzi aerei da combattimento del futuro sarà, nella migliore delle ipotesi, un controllo da remoto, ma l’intelligenza artificiale e la robotica aprono degli scenari di autonomia dei sistemi d’arma — in primis quelli aeroportati — che li renderanno sempre più autonomi, non solo nei processi di condotta, ma anche di discriminazione dei bersagli e financo nei processi decisionali circa l’azione da attuare (26). Ciò costituirà un’evoluzione e non la fine dell’Aviazione navale e della capacità portaerei delle grandi Marine, lasciando ancora alle Flat Top — indipendentemente dalle loro dimensioni e dalla tipologia di assetti aerei di cui saranno dotate — un posto speciale nelle flotte, a patto che i decisori politicostrategici sappiano come impiegarle efficacemente, sfruttandone tutte le enormi, diversificate e irrinunciabili potenzialità. 8
NOTE
(1) Valga come esempio la querelle intercorsa tra il presidente Francese Macron e il presidente Turco Erdogan. (2) Per esempio la vendita del sistema S-400 da parte della Federazione Russa alla Turchia e di armamenti all’Algeria, alla quale è stata concessa la cancellazione del debito nel 2006. (3) Americano, politologo e studioso delle relazioni internazionali, appartiene alla scuola realista; ha sviluppato la teoria del realismo offensivo, con l’interazione tra grandi potenze guidata dal desiderio razionale di conquistare l’egemonia regionale in un sistema internazionale anarchico; secondo la sua teoria, il dispiegamento di forze militari in una certa regione è essenziale per una grande potenza che voglia segnalare in maniera inequivoca l’impegno nel difendere la propria posizione e/o negare la supremazia in quello spazio a una potenza rivale. (4) Politologo indiano naturalizzato statunitense, specialista in relazioni internazionali, autore di Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, 2016.
(5) Economista e politologo francese, direttore e fondatore della Scuola di Guerra Economica (EGE), cui si associano Pichot-Duclos, Philippe Baumard, Eric Delbeque, Nicolas Moinet e Pascal Lorot. (6) In The Endagered American Dream del 1993, Luttwak afferma, in termini simili a quelli di Esambert, che i capitali investiti dallo Stato sono l’equivalente della potenza di fuoco, le sovvenzioni allo sviluppo di prodotti corrispondono ai progressi dell’Esercito, la penetrazione dei mercati con l’aiuto statale sostituisce l’influenza diplomatica o le basi e le guarnigioni militari dispiegate all’estero. (7) «Patria Blu»; dottrina che definisce le modalità di difesa, protezione e allargamento dei diritti e degli interessi marittimi della Turchia. (8) Vedasi Kenneth Waltz e, successivamente, Jack Snyder che lo ha definito per la prima volta nel suo Myths of Empire. (9) The Geography of Peace, 1944. (10) Fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia, essa si divide in 3 zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica. (11) James Holmes – U.S. Naval Institute. (12) La Marina americana, postulando che le missioni più importanti che sarà chiamata a svolgere continueranno a essere il Sea Control degli spazi oceanici globali attraverso i quali transitano e si sviluppano i commerci mondiali, il Sea Denial delle acque ristrette (Baltico, Mediterraneo orientale, Mar Cinese) e la proiezione di potenza, ritiene di dover disporre di più distribuite e diffuse capacità aeree, la maggior parte delle quali dovranno essere basate in mare. Da ciò discende l’idea di integrare ancor più tra loro i reparti aerei della Marina e quelli dei Marines e, se necessario, di inserire nella flotta piattaforme navali di origine commerciale (le portacontainer) da trasformare in portaerei di scorta, in grado di far operare velivoli STO/VL (decollo corto e atterraggio verticale), UAV (Unmanned Aerial Vehicle) e UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle). Tra portaerei (CV), portaelicotteri d’assalto anfibio (LHA) e portacontainer riadattate al ruolo di portaerei di scorta, sarà più semplice esercitare il Sea Control su aree oceaniche sempre più vaste e perigliose (comprese quelle artiche) e il Sea Denial degli spazi marittimi su cui si affacciano i Competitor da contenere. W. Hughes, Restore a Distributable Naval Air Force, Proceedings, April 2019, vol. 145/4/1.394. (13) M. Vego, Maritime Strategy and Sea Control. Theory and practice, London-New York 2016, Routledge, p. 61. (14) C. Waters, Seaforth World Naval Review 2019, Barnsley, Seaforth Publishing, p. 9. (15) La futura portaeromobili della Corea del Sud dovrebbe avere un dislocamento intorno alle 30-35.000 tonnellate ed è concepita per imbarcare aerei F-35B nazionali o alleati. G. Dominguez, South Korean Military Aiming To Speed Up Acquisition Of Light Aircraft Carrier, Janes.com, 08 October 2020, https://www.janes.com. (16) Naturalmente, non sono paragonabili le capacità offerte dalle portaerei convenzionali (CTOL, Conventional Take-off and Landing) — di cui dispongono solamente la Marina degli Stati Uniti e quella francese — dalle potenzialità di una portaerei STOBAR (Short Take Off But Arrested Recovery) in servizio con la Marina russa, con quella indiana e con la cinese. Allo stesso modo, le portaerei per velivoli a decollo corto e atterraggio verticale (Short Take Off/Vertical Landing, STO/VL) delle Marine di Regno Unito, Italia, Spagna, Thailandia (anche se per quest’ultima ci sono numerosi dubbi circa l’operatività dei velivoli in dotazione) o le portaelicotteri di Giappone, Corea del Sud, Turchia, Australia e Brasile hanno capacità ancora diverse. Solamente l’introduzione in servizio di un velivolo altamente performante quale l’F-35B permetterà a Regno Unito, Italia, Giappone e Corea del Sud di operare con portaerei «leggere» dotate di velivoli ad altissime prestazioni, in grado di soverchiare gli aerei di molte aeronautiche. (17) Al riguardo, si veda la prima e ormai prossima crociera operativa del Carrier Group della portaerei HMS Queen Elizabeth — crociera prevista nel 2021 nelle turbolente acque dell’Indo-Pacifico — che imbarcherà uno stormo multinazionale, costituito da F-35B dei Marines e da analoghi aerei della Lightening Force britannica. La possibilità che lo stesso velivolo venga acquistato dalla Marina giapponese, da quella della Repubblica di Corea e financo da Singapore — tutti interessati alla versione B dell’aviogetto — ha già spinto alcuni analisti a ritenere che, in un futuro non molto lontano, detti assetti aerei potranno operare in maniera interscambiabile o congiunta su diverse piattaforme navali tuttoponte, indipendentemente dalle coccarde dipinte sulle ali degli aviogetti e dalla bandiera alzata a riva dalle suddette unità. N. Childs, Naval F-35s all at sea?, www.iiss.org/blogs/military-balance/2020/11/f-35-navy-us-uk. (18) Department of the Navy, US Navy Programme Guide, 2017, p. 2. (19) J. Vandenengel, 100,000 Tons of Inertia, Proceedings, vol. 146/5/1,4007, May 2020. D. Axe, What Could Replace U.S. Aircraft Carriers?, The National Interest, https://nationalinterest.org. (20) Il raggio d’azione degli F/A-18E/F «Hornet» — che costituiscono la spina dorsale degli stormi aerei della Marina statunitense — non eccede le 390-450 miglia nautiche mentre il futuro F-35C «Lithening II» sarà in grado di raggiungere le 730 miglia nautiche. Per contro, un missile balistico DF-21D, il carrier killer cinese — ha un raggio operativo di 1.500-1750 miglia nautiche e un costo largamente inferiore: secondo calcoli approssimativi, il costo di una portaerei statunitense equivarrebbe a quello di 1.227 DF-21D. Proprio per aumentare la letalità della propria Naval Aviation, la Marina degli Stati Uniti ha deciso di estendere il raggio operativo dei propri F-18 «Hornet», aumentandone la dotazione di carburante e armandoli con un nuovo missile a guida semi-autonoma, quale il Long Range Anti-Ship Missile (LRSAM), avente una portata di 200 miglia nautiche. D.W. Wise, The Navy Must Accept That the Aircraft Carrier Age Is Ending, The National Interest, February 26, 2020. K. Osborn, The U.S. Navy’s Big 2021 Weapons Wishlist», The National Interest, January 17, 2021. (21) W.P. Hughes, A Bimodal Force for National Maritime Strategy, Naval War College Review, Spring 2007, vol. 60, no. 2, pp. 29-47. (22) R.C. Rubel, Connecting the Dots. Capital Ships, the Littoral, Command of the Sea, and the World Order, Naval War College Review, autumn 2015, vol. 68, no 4, pp. 46-62. (23) Per quanto riguarda gli stormi aerei delle grandi portaerei convenzionali, i progetti di ammodernamento della componente CTOL sono sempre più proiettati verso l’accelerazione nello sviluppo dei velivoli di 6ª generazione — al momento, il modello che affiancherà F-35C e sostituirà le varianti dell’«Hornet» e del «Growler» si chiama F/A-XX e dovrà assicurare la Next Generation Air Dominance (NGAD) — rappresentati da un aereo pilotato, con una capacità di data fusion ancora più spinta di quella del «Lightening», la possibilità di dialogare e operare in modo ancora più efficace con gli assetti unmanned e, soprattutto, con un raggio operativo di almeno 1.000 miglia nautiche, dati gli spazi in gioco nel prevedibile futuro campo di battaglia, rappresentato dall’Indo-Pacifico. M. Shelbourne, Navy Quietly Starts Development of Next Generation Carrier Fighter; Plans Call for Manned, Long-Range Aircraft, USNI News, August 18, 2020. (24) F. Zampieri, Elementi di Strategia Marittima, Roma 2019, Nuova Cultura, pp. 299-300. (25) Nonostante la «pilot-mafia», — un neologismo mutuato dal concetto di «fighter mafia» per indicare la resistenza dei piloti a vedersi sostituiti da mezzi autonomi — la Marina americana sembra credere moltissimo nei velivoli da combattimento Unmanned, soprattutto per le missioni di attacco in profondità. Nel 2013, il Grumman X-47B fu sperimentato con successo a bordo della U.S.S. George H.W. Bush, dimostrando l’integrabilità tra assetti aerei Manned e Unmanned. Sebbene lo stato di necessità suggerisse di premere sull’acceleratore della trasformazione di quel prototipo in un velivolo per il bombardamento in profondità — così da compensare i vuoti che si erano aperti negli stormi aerei imbarcati con la rinuncia all’A-6 «Intruder» — la «pilot-mafia» spinse perché il primo impiego di un UAV a bordo delle portaerei fosse quello di aerocisterna. Fu così che, nel 2016, nacque il velivolo MQ-25A «Stingray», destinato a liberare gli F/A-18E/F «Hornet» dal secondario compito di aerorifornitori, allo scopo di recuperare a compiti Combat quei velivoli (circa il 25-30% dell’intera flotta). Anche se, per il momento, l’MQ25A è stato destinato a fungere da cisterna volante, nulla vieta di pensare che, presto, possa essere destinato a compiti di Intelligence, Surveillance, Reconnaissance o di vero e proprio attacco. La macchina, caratterizzata da notevoli doti Stealth, è già stata progettata per trasportare anche missili a lungo raggio e carburante aggiuntivo e, dunque, la conversione non sarebbe né lunga né insostenibile sul piano economico. K. Mizokami, The Long Road to Long-Range Strike, Proceedings, September 2020, vol. 146/9/1,411. (26) I velivoli Unmanned possono essere più piccoli, più leggeri, più veloci e più manovrabili dei mezzi con equipaggio umano e non subiscono i limiti dell’autonomia fisica e psicologica del pilota. Per contro, i mezzi robotizzati sono privi della più complessa macchina cognitiva che la natura abbia creato: il cervello umano. Vero è che i robot di oggi presentano un livello di autonomia ancora «limitato»: infatti, sono Human Operated, Human Delegated o Human Supervised, non essendo ancora approdati a quelli Fully Autonomous. Il futuro, però, va nella direzione di una completa autonomia, caratterizzata da una progressiva espulsione dell’elemento umano dal processo decisionale della macchina: l’uomo non sarà più parte del processo OODA (Observe, Orient, Decide, Act), ma avrà solo funzioni di monitoraggio dell’esecuzione di certe decisioni, da prendere in nanosecondi. Sul tema della robotica e strumenti militari, cfr. D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma 2018, pp. 73 s.
Mediterraneo orientale: una disputa geoeconomica e geopolitica
Giuseppe Gagliano
Come ampiamente noto, il 10 settembre del 2020, il presidente Macron ha twittato parlando di «Pax Mediterranea». Pochi giorni dopo, la Francia avrebbe al contrario assunto una postura reattiva nei confronti della Turchia volta a limitarne la proiezione di potenza regionale. D’altronde proprio a luglio Erdogan aveva firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger, un paese nella zona di influenza francese, rafforzando la sua presenza economica nel settore minerario e delle infrastrutture. Tuttavia, in un’ottica che a nostro avviso deve essere di realismo politico, l’attuale confronto conflittuale tra Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale deve essere letto anche come la conseguenza di dinamiche conflittuali geoeconomiche di più ampio respiro.
La Turchia è uno dei principali attori nel Mediterraneo orientale (Fonte immagine: cnnturk.com).
Ha conseguito la laurea in Filosofia nel marzo del 1994 presso l’Università statale di Milano. Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, iscritto all’Anagrafe della Ricerca dal 2015. La finalità del centro è quella di studiare, in una ottica realistica, le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l’enfasi sulla dimensione dell’intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot, fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege) di Parigi. È esponente in Italia della Scuola di guerra economica francese ed è membro della Società italiana di Storia militare, collabora con il Centre Français de Recherche sur le Renseignement di Parigi, con la École de guerre économique francese, con il Centro de Estudos em Geopolítica e Relações Intenacionais brasiliano. Inoltre ha collaborato — e collabora — con diverse riviste scientifiche (italiane e straniere).
Si tratta di analizzare politica di deterrenza a livello le cause di questa escala- militare. tion, che uniscono inte- L’attrito tra Francia e Turressi economici, rivalità chia nel Mediterraneo geopolitiche e questioni le- orientale, si svolge in modo gate all’agenda politica in- più ampio in un contesto terna di questi due leader. È regionale dove le potenze anche necessario riflettere locali si scontrano, sfosulle strategie messe in atto da ciando in conflitti interquesti due Stati che richiedono nazionalizzati in Siria e Libia. tutta una serie di strumenti: E la suddetta guerra del1) classica dimostrazione l’informazione si riferidi potere basata sulla capa- sce più in generale alla cità militare; strategia francese in Libia 2) l’uso della disinforma- a sostegno del maresciallo zione sui social network Haftar contro il governo proveniente in particolare (GNA, Government of Nadalla Turchia che imita il tional Accord) di ispirazione know-how russo in questo settore; 3) l’esercizio dell’inEmmanuel Macron (aseantoday.com). islamista sostenuto dalla Turchia. È quindi necessario avere sullo sfondo le rivalità fluenza all’interno della NATO e dell’UE per tra le potenze della regione per dividere o costruire il consenso e 4) la conquista di comprendere la posta in gioco nuovi mercati da parte della Turchia nella sfera d’in- di questo confronto nel Mediterraneo orientale. fluenza francese mobilitando risorse ideologiche.
Questa analisi è tanto più necessaria in quanto que- La conflittualità internazionale della Turchia e sto confronto dà luogo a numerosi dibattiti e contro- della Francia versie sui social network, in particolare tra giornalisti, Queste tensioni non sono nuove e l’offensiva turca ricercatori e diplomatici, che possono essere qualificati in Siria ha già portato a un aumento del nervosismo tra come una vera e propria guerra dell’informazione. i due paesi. Per la cronaca, Emmanuel Macron ha criti-
In modo sintetico, si sono formate due scuole di pen- cato l’operazione turca contro i curdi del PYD (Partito siero attorno a questa controversia: la prima fatta dai dell’Unione Democratica) nel nord della Siria, alleati sostenitori di una politica di conciliazione con la Tur- della Francia nella lotta contro Daesh che hanno svolto chia. Si oppongono all’escalation unilaterale della un ruolo di primo piano contro questo gruppo terroriFrancia, sia verbale sia militare, con un alleato strate- stico. La Turchia considera terrorista questo gruppo gico nella NATO e lodano la politica di mediazione del curdo, a causa della sua affiliazione al Partito dei lavocancelliere tedesco; la secondo scuola di pensiero, che ratori del Kurdistan (PKK). In risposta alle critiche del è a favore di una posizione di opposizione nei confronti presidente francese, i media hanno riportato che il midella Turchia da parte della Francia, a causa della pre- nistro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha definito sunta violazione del diritto internazionale a opera della Macron uno «sponsor del terrorismo». Turchia, dei suoi ripetuti attacchi contro la Francia e In questa nuova escalation di tensioni nel Mediterradella sua «politica imperialista» seppure in un contesto neo orientale, Francia e Turchia fanno appello alla loro regionale. Secondo questa scuola di pensiero, i nego- capacità militare e di influenza. Questa rivalità è accomziati con la Turchia devono essere accompagnati da una pagnata anche da un’escalation verbale molto virulenta
Recep Tayyip Erdogan (bloomberg.com).
sia da parte turca che da parte francese. Il presidente turco giudica il presidente francese Macron «incompetente», «arrogante» e che «sviluppa una politica neocoloniale»; quest’ultimo definisce a sua volta «inammissibile». La politica della Turchia senza arrivare ad attaccare personalmente il presidente Erdogan. Tuttavia, la Francia, pur lanciandosi in un’escalation verbale e minacciando la Turchia di sanzioni, continua a ribadire nei suoi comunicati stampa la necessità di un dialogo con Ankara.
Il mar Mediterraneo orientale è teatro di scontri su questioni geoeconomiche e geostrategiche: tensioni attorno alla delimitazione dei confini e alla condivisione delle riserve di gas, alla gestione dei flussi migratori e alla sicurezza dello Stato di Israele. Inoltre, la Libia affronta un conflitto internazionalizzato che contrappone il campo della controrivoluzione autoritaria nel mondo arabo che comprende Emirati, Arabia Saudita, Egitto e Russia, contro il campo a sostegno dell’Islam politico e, nel caso specifico, della Libia, al governo di unità nazionale (GNA), in cui si trovano Turchia e Qatar. Come accennato in precedenza, la Francia ha svolto un ruolo da molti definito ambiguo in questo contesto, sostenendo il generale Haftar sulla base del fatto che sarebbe stato in grado di combattere il terrorismo meglio di quanto avrebbe fatto il GNA di tendenza islamista, riconosciuto dall’ONU e al fine di prevenire un’ondata di rifugiati libici che si sarebbe potuta riversare in Europa. Questa strategia è accompagnata da un allineamento della diplomazia francese all’agenda politica degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita nella regione. Infine, anche la condivisione del petrolio libico costituisce motivo di conflitto.
Ebbene, allo scopo di comprendere in maniera più chiara le effettive dinamiche conflittuali tra Turchia e Francia, riteniamo opportuno servirci di una griglia di lettura geoeconomica che ponga l’enfasi sul concetto di guerra economica.
La conflittualità tra Francia e Turchia in un’ottica geoeconomica
La dimensione di «guerra economica» è relativa alle tensioni intorno al gas del Mediterraneo orientale. Tale bacino marittimo, infatti, è diventato un importante hub energetico dopo la scoperta nel 2009-10 di giacimenti di gas, facendo rivivere le numerose controversie di confine in questo mare stretto dove le Zone Economiche Esclusive (ZEE) si sovrappongono.
La posta in gioco di queste tensioni riguarda sia lo sfruttamento del gas, sia il suo trasporto.
Per quanto riguarda la componente trasporti, Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo sul gas che prevede la realizzazione di un gasdotto East Med finalizzato al trasporto di gas naturale — tra 9 miliardi e 11 miliardi di metri cubi — dalle riserve offshore di Cipro e Israele alla Grecia. La Turchia è stata emarginata da questo progetto quando, dal suo punto di vista, la sua posizione geografica tra Est e Ovest le potrebbe consentire di diventare un hub del gas e proprio per questo ha sviluppato ambizioni in questa direzione. È in questo contesto che Turchia e Russia hanno formato un progetto concorrente, il Turkstream, volto a portare il gas russo in Turchia e in Europa.
Inoltre, è stato creato un Forum sul gas del Mediterraneo orientale che riunisce Egitto, Cipro, Grecia, Italia, Israele e Giordania con l’obiettivo di formare progetti comuni e sviluppare infrastrutture. Anche la Turchia non è
«La questione energetica è uno degli assi principali del confronto franco-turco»
(Fonte immagine: pixabay.com/Morrison).
stata inclusa in questo Forum. Per quanto riguarda lo sfruttamento del gas naturale, alla fine del 2019 la Turchia ha firmato un accordo con la Libia per acquisire un’ampia quota di gas nel Mediterraneo orientale con lo scopo di ridurre la sua dipendenza dal gas, in particolare nei confronti della Russia. La Grecia ha risposto firmando un accordo simile con l’Egitto nell’agosto 2020 e proprio per questo la Turchia ha inviato una nave di prospezione nelle acque territoriali greche che ha provocato l’attuale escalation militare.
Infine, il conflitto in Libia, dove Francia e Turchia sostengono parti diverse, presenta un aspetto energetico riguardante la condivisione delle riserve petrolifere libiche. Di conseguenza, la questione energetica è uno degli assi principali del confronto franco-turco.
Al di là delle questioni energetiche, l’intervento della Turchia in Libia mira anche a rafforzare i legami commerciali tra i due paesi e la presenza di società turche in Libia. Questa ambizione è stata formalizzata da un accordo commerciale tra i due paesi. La Turchia è diventata il secondo maggiore esportatore in Libia dopo la Cina e, inoltre, sta discutendo con il GNA per stabilire una base turca a Misurata, per diventare una grande potenza nel Nord Africa. La posta in gioco è quindi anche geopolitica. Ma questo status di potere perseguito in Nord Africa mira anche a dare alla Turchia accesso ai mercati nell’Africa subsahariana, in particolare nel Sahel dove sta avanzando le sue pedine. Penetra anche nel Corno d’Africa, determinando tensioni con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, in particolare sul territorio etiope dove il governo ha un grosso contenzioso con l’Egitto intorno alla costruzione della diga sulle acque del Nilo. Secondo alcuni analisti, questa guerra economica in Africa, tra queste potenze, ha contribuito a consolidare l’allineamento della politica estera di Francia, Emirati ed Egitto.
La conquista da parte della Turchia di nuovi mercati nel suo ambiente regionale, in particolare in Africa (Maghreb e Africa subsahariana), si è intensificata da diversi anni. Il suo isolamento, derivante dal congelamento degli accordi di adesione all’Unione europea, è chiaramente il motore principale di questa strategia di postura offensiva che include nel suo perimetro la sfera di influenza della Francia, che costituisce un fattore di tensione tra questi due paesi.
La Turchia ha avuto successo nel Maghreb, in particolare in Algeria, dove si dice che il potere politico abbia sviluppato «un tropismo turco». Alludiamo sia al mercato delle infrastrutture — e cioè alle 800 aziende in vari settori (edilizia, tessile, acciaio, agroalimentare, energia) — sia al fatto che la Turchia sia il maggior investitore del paese se escludiamo il settore degli idrocarburi. Tuttavia, la Francia rimane il primo paese esportatore in Algeria mentre la Turchia è molto indietro. Se le relazioni tra i due paesi si sono indebolite durante il periodo di transizione del generale Gaid Sallah, vicino all’asse autoritario dei paesi del Golfo, esse hanno ripreso vigore dopo l’elezione del presidente Tebboune, che ha fatto un viaggio in Turchia e che cerca di prendere le distanze dalle scelte dei paesi del Golfo in Libia. Inoltre, il presidente Tébboune, in qualità di ministro si è a lungo occupato di aziende turche. Inoltre, avvicinarsi alla Turchia è un modo per legittimarsi in una società dove il sentimento antifrancese è ancora forte e dove il potere è contestato da un movimento popolare, gli «hirak». Infine, come in Libia, l’Algeria, come ha detto il presidente Erdogan, è «uno dei princi-
pali punti di accesso al Maghreb e all’Africa» e le sue ambizioni non si limitano quindi a questo paese.
In Tunisia, la Turchia ha un’influenza reale dal punto di vista culturale. Il modello politico della Turchia è attraente anche per una parte della popolazione tunisina e per il governo stesso, sia che si tratti del kemalismo al quale Bourguiba si è ispirato, sia del modello politico del partito turco AKP, che ha permesso una forte crescita economica negli anni Duemila. Tuttavia, economicamente, la Tunisia soffre di una mancanza di attrattiva per gli investitori turchi che preferiscono il Marocco.
Di fronte all’ascesa dell’influenza turca nella sfera d’influenza della Francia nel Maghreb, la diplomazia francese non raccoglie la sfida attuale. L’Unione per il Mediterraneo, creata nel 2008 su iniziativa del presidente Sarkozy, è un guscio vuoto. Secondo alcuni analisti la mancanza di consultazione della Francia con i paesi europei a monte della sua creazione sarebbe la causa principale di questo fallimento (la Germania avrebbe imposto per ritorsione che questa unione includesse tutti i paesi dell’UE e non esclusivamente i paesi del Mediterraneo). Allo stesso modo, l’iniziativa del presidente Emmanuel Macron a Marsiglia il 23 e 24 giugno 2019, riunendo i paesi della sponda sud e di quella nord del Mediterraneo, non ha avuto l’eco prevista ed è passata quasi inosservata.
La Francia ha forze operative nel sud del Maghreb, in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, nonché basi militari in Senegal, Costa d’Avorio e Gabon. Ciò non ha impedito a Turchia e Niger di firmare, lo scorso luglio, un accordo di cooperazione in materia di economia e difesa in base al quale la Turchia partecipa all’industria mineraria, un settore altamente strategico per la Francia. Erdogan è stato anche in tournée in Senegal e in Gambia nel gennaio 2020.
Allo scopo di consolidare la sua sfera di influenza, secondo diversi analisti, la Turchia sta ponendo in essere una vera e propria campagna di mobilitazione anticoloniale in funzione antifrancese. Nell’Africa subsahariana, la Turchia sta mobilitando risorse ideologiche e il tema del neocolonialismo è un elemento di questa strategia. Infatti, in occasione del vertice d’affari Turchia-Africa del 2016, Erdogan ha evidenziato la formazione di un nuovo modello di colonizzazione messo in atto dall’Occidente e dalle istituzioni internazionali e ha dichiarato che «noi altri, africani e turchi incarniamo la resistenza a questo modello». Questa narrazione e spesso interpretata come indice di come la Turchia veda il sistema internazionale «oligarchico» e dominato dalle vecchie potenze che impongono i propri standard «ai deboli», e che «l’umiliazione» dei deboli permette di mobilitarsi contro il loro dominio. Inoltre, viene vista come una strumentalizzazione da parte della Turchia, in vista della conquista di nuovi mercati. Infatti, sfruttando il sentimento antifrancese, la Turchia sta espandendo la sua influenza in Africa. È certamente in questo contesto che vengono visti gli attuali attacchi della Turchia alla Francia intorno al suo passato coloniale e allo sfruttamento finanziario del continente africano. Il premier turco sta insomma dimostrando un’indubbia abilità sfruttando sia l’ascesa di un sentimento antifrancese nel Sahel, dove la Francia è impantanata in una guerra che per molti versi somiglia alla guerra in Afghanistan contro Al-Qaeda e il regime talebano, sia l’opposizione diretta in Senegal contro i suoi interessi economici dove deve affrontare mobilitazioni politiche contro la moneta CFA (Comunità Finanziaria Africana).
Infine, la Turchia, per molti, sta mobilitando anche l’Islam nella sua strategia di conquista. È il caso del Senegal. La Turchia è, infatti, diventata un partner economico leader del Senegal, in particolare nel settore delle
Mezzi militari turchi nel nord dell’Iraq, area di rivalità tra Francia e Turchia (Fonte immagine: thedefensepost.com). La strategia di conquista turca si va estendendo anche nel Maghreb, area d’interesse della Francia. A sinistra: le forze francesi impegnate nell’operazione Barkhane (Fonte immagine: uk.reuters.com).
infrastrutture (partecipazione alla creazione del TER (Train Express Regional), gestione dell’aeroporto internazionale Blaise Diagne per 25 anni, costruzione del centro congressi internazionale Abou Diouf, ecc.). Inoltre, le relazioni commerciali tra questi due paesi si stanno intensificando. Ebbene, il fatto che questi due paesi condividano lo stesso islam di matrice sunnita ha contribuito a consolidare le relazioni economiche e commerciali tra i due paesi. Sono, infatti, entrambi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica che costituisce un Forum privilegiato di discussione. Il finanziamento nel 2018 da parte della Turkish Diyanet Foundation di una delle più grandi moschee dell’Africa occidentale in Ghana è un altro esempio di questa diplomazia a favore dell’Islam. Oltre all’Islam, la Turchia mobilitando altri registri come lo sport che è molto popolare in Africa. Il gruppo turco Yenigun è incaricato della costruzione del complesso sportivo di Japoma in Camerun che ospiterà la Coppa d’Africa nel 2021. La Turchia ha stabilito oggi una rete di 41 ambasciate in Africa e ha intensificato i suoi collegamenti aerei attraverso la sua compagnia Turkish Airlines.
In altri termini la sfera di influenza economica che la Turchia sta ponendo in essere nell’Africa subsahariana, attraverso il Maghreb e il Mediterraneo orientale, costituisce un motivo di estrema rilevanza per comprendere l’attuale conflittualità tra la Turchia e la Francia. Tuttavia, una lettura esclusivamente geoeconomica non è sufficiente per identificare tutte le questioni in gioco in questo confronto. È necessario sovrapporvi una griglia di lettura geopolitica.
In primo luogo, la Turchia, come altre potenze in Medio Oriente (Iran, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita), sta dispiegando una politica nazionalista che alcuni qualificano addirittura come imperialista o «neo-ottomana» in quanto è accompagnata dall’espansionismo in Siria e Libia ma anche in altre aree quali quelle che abbiamo indicato poc’anzi. In secondo luogo, dal punto di vista strettamente geopolitico, un’altra importante controversia è quella legata alla delimitazione dei confini nel contesto del Mediterraneo orientale. La scoperta di giacimenti di gas ravviva poi queste tensioni. La Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare è complessa per quanto riguarda la delimitazione dei confini intorno alle isole. Pertanto, questa delimitazione richiede negoziati bilaterali tra gli Stati della regione, che non possono essere presi in considerazione date le tensioni tra questi Stati: Israele/Libano, Grecia/Turchia, divisione di Cipro. Inoltre, la Turchia non ha ratificato questa convenzione.
In terzo luogo, il sostegno militare unilaterale della Francia alla Grecia rientra nel contesto regionale di rivalità tra potenze, in particolare in Libia. Infatti, per numerosi analisti francesi, il fallimento della strategia francese in Libia a seguito della sconfitta del maresciallo Haftar da parte del GNA appoggiato dalla Turchia, è una delle forze trainanti del coinvolgimento militare della Francia nel Mediterraneo orientale. Più in generale, è il paradigma del sostegno della Francia ai partner «appartenenti alla scuola autoritaria» — come Haftar — a essere messo in discussione. Secondo loro, le numerose problematiche della Francia in Libia attestano l’inutilità di questa strategia. L’allineamento della posizione francese con quella degli Emirati è ritenuto mascherato dalla Francia, a causa della politica autoritaria e della scarsa preoccupazione per i diritti umani degli Emirati, di cui l’intervento in Yemen costituisce una evidente dimostrazione. E questo fallimento della diplomazia francese in Libia sta alimentando la postura offensiva della Francia contro la Turchia, che si colloca nel campo opposto.
Infine, l’Iraq, dove la Turchia ha lanciato un’offen-
siva su larga scala nota come «Tiger Claw» nel nord e dove è presente in 35 basi irachene, è un’altra area di rivalità tra i due paesi. Questa offensiva turca sarebbe al centro del desiderio della Francia di essere coinvolta nel paese, come evidenziato dalla visita di Macron il 2 settembre scorso e dalla sua insistenza sul sostegno alla «sovranità dell’Iraq». La Francia ha anche interessi economici in questo paese, in particolare nel settore petrolifero e lo vede come un modo per riguadagnare l’influenza in Medio Oriente dopo il ritiro americano dalla regione.
La politica estera di un paese è molto spesso collegata alla sua politica interna. Quest’ultimo aspetto è da tenere in considerazione nell’analisi dello scontro tra Francia e Turchia. Infatti, in passato la Francia ha strumentalizzato l’adesione della Turchia all’UE a fini elettorali. Per esempio il presidente Sarkozy ha fatto del rifiuto di questa adesione un tema della sua campagna elettorale al fine di mobilitare l’elettorato di estrema destra. È possibile che la virulenza delle osservazioni del presidente Macron miri anche a mobilitare l’opinione pubblica.
Inoltre, alcuni analisti francesi, hanno visto in esso il desiderio di Macron di ripristinare la sovranità dell’Unione europea e di affermarsi come leader di questo progetto. Rilevano tuttavia che questa strategia ha dei limiti, in quanto il conflitto nel Mediterraneo orientale può concludersi solo con un negoziato tra i turchi e i greci e che probabilmente rafforza la validità della posizione di mediazione della Germania preservandone e consolidandone gli interessi. Da parte turca, questa strumentalizzazione appare chiara. In effetti, il potere dell’AKP sta cercando legittimità mentre la Turchia vive una crisi economica e ha perso la città di Istanbul nelle ultime elezioni. Il sentimento nazionalista turco, particolarmente ancorato nella società turca, significa che anche l’opposizione in Turchia sostiene il potere di Erdogan nella sua escalation con la Francia. La sua strategia si sta quindi rivelando vincente in questa fase, in termini di politica interna.
Un’altra variante della conflittualità tra la Francia e la Turchia è individuabile sotto il profilo strettamente militare. La Francia ha risposto all’invio da parte di Istanbul di navi esploratrici scortate schierando anche le sue navi militari e gli aerei Rafale. La Turchia è il secondo più grande Esercito della NATO e quindi riconosce l’importanza del sistema di difesa. Inoltre, gli Stati Uniti, a partire dall’amministrazione Obama, stanno cercando di ritirarsi dal Medio Oriente. Ciò è stato accentuato durante la presidenza del presidente Trump. Pertanto, gli Stati Uniti ritengono che la Turchia potrebbe svolgere il ruolo di stabilizzatore del potere nella regione. In quanto tale, la Turchia gode influenza all’interno della NATO.
Quanto alla Francia, offre alla Grecia un’alleanza militare che include una componente industriale. L’acquisizione da parte della Grecia di aerei Rafale darà all’Esercito greco un vantaggio rispetto all’Esercito turco.
Più in generale, la regione del Mediterraneo orientale sta vivendo una vera corsa agli armamenti che include tutti i paesi tranne, per il momento, Cipro e il Libano.
Accanto a questo aspetto militare, la strategia di questi due Stati si basa sull’esercizio dell’influenza e sulla strumentalizzazione degli equilibri di potere all’interno della NATO e dell’UE, giocando sulle divisioni interne.
La Turchia può permettersi di fare un ulteriore passo avanti nel Mediterraneo orientale in quanto essa svolge un ruolo centrale nel sistema di difesa della NATO nel Mediterraneo. Alcuni ritengono che «goda di una forma di impunità all’interno della NATO». Di conseguenza, la Turchia sta perseguendo una strategia di tensione sapendo che gli Stati Uniti, che non vedono favorevolmente l’ascesa della Russia nel Mediterraneo orientale, non sembra incline a intervenire. Gli Stati Uniti, infatti, attraverso la mediazione di Mike Pompeo, chiedono una risoluzione pacifica del conflitto. Tuttavia, l’accordo di cooperazione in materia di difesa firmato tra Stati Uniti e Grecia, lo scorso gennaio, ha collocato la Turchia a distanza dal suo alleato privilegiato nella regione.
Gli stessi europei sono divisi. Infatti, la vicenda della fregata francese Courbet presa di mira dai radar di una fregata turca sospettata di violare l’embargo sulle armi in Libia è indicativa del debole sostegno dato alla Francia dai suoi alleati nell’ambito della NATO, ma anche dagli Stati membri dell’Unione europea, di cui solo otto l’hanno sostenuta. Infatti, la posizione della Francia è lungi dall’essere la maggioranza, sia sui sintomi della «morte cerebrale» della NATO da essa evidenziata, sia sui rimedi proposti.
Questa mancanza di un franco sostegno alla Francia, in particolare da parte dei paesi dell’Unione europea, ha
varie cause. La prima causa è legata al suo sostegno al generale Haftar in Libia contro il GNA riconosciuto dall’ONU. Inoltre, secondo diversi analisti, i paesi del sud del Mediterraneo, in particolare l’Italia, vedono la Turchia come un partner importante nella gestione dei flussi migratori. Anche l’Italia è in Libia nel campo di supporto del GNA. I paesi dell’Europa orientale considerano anche la Turchia un partner centrale della NATO, per il suo ruolo di contenimento nei confronti della Russia. Anche la Germania considera la questione della migrazione come una questione importante e ha inoltre una grande diaspora turca favorevole all’AKP e agli interessi economici in Turchia. Se è allineato con la Francia per quanto riguarda le preoccupazioni sollevate dall’espansionismo turco, differisce nel metodo e favorisce negoziazioni e sanzioni. Infine, la virulenza della retorica di Macron potrebbe aver suscitato diffidenza tra i suoi partner.
La mobilitazione delle risorse ideologiche da parte della Turchia nel contesto della conflittualità con la Francia
La recente tendenza «espansionistica» turca si basa, da un lato su di una «nostalgia» imperiale e dall’altro su un modello economico che, tuttavia, è attrattivo verso l’Africa settentrionale, poiché sembra possedere la giusta miscela tra Islam — fino a ora moderato — e tratti di progresso capitalistico.
In particolare si utilizzano i dati storici, e quindi culturali, per fornire una cornice di contesto e di base allo stesso tempo. Per esempio la celebrazione dell’anniversario della vittoria selgiuchide di Manzikert contro l’Impero Romano d’Oriente nel 1071, è stata accompagnata da discorsi nazionalisti con sfumature pan-turche. Questa strategia fa parte del desiderio di migliorare l’immagine dell’AKP. Ma questo pan-turkismo è diretto anche ai turchi fuori dalla Turchia. Come tale, la diplomazia etno-nazionalista ha ottenuto un certo successo in Libano, che concede la cittadinanza alle poche migliaia di turkmeni nel paese.
Il Libano potrebbe costituire un nuovo campo di impegno e manovre diplomatiche per Francia e Turchia. In effetti, in un momento in cui Parigi cerca di essere presente al fianco dei libanesi, Istanbul sta cercando di prendere piede in Libano approfittando dell’emarginazione della comunità sunnita a seguito del disimpegno dell’Arabia Saudita a causa del suo legame con il primo ministro sunnita, Saad Hariri, ritenuto non sufficientemente fermo contro Hezbollah. La Francia ritiene che, a causa delle peculiarità che la legano al Libano (storia, diaspora, lingua francese), sia nella posizione migliore per influenzare la politica di questo paese incoraggiando una migliore governance. Anche la possibilità di una nuova ondata migratoria legata alla crisi economica e istituzionale in Libano è un fattore di questo rinnovato impegno francese.
Infine, la normalizzazione delle relazioni tra Emirati, Bahrein e Israele serve alla politica di influenza della Turchia, che si presenta come protettrice dell’Islam sunnita e garante della causa palestinese accanto all’Iran.
In definitiva, secondo molti analisti, la Francia, in Africa e in Medio Oriente, manca di una strategia a lungo termine e di una linea chiara. Inoltre, in termini di «guerra economica» in Africa, la Turchia non è l’unica potenza a conquistare i mercati e la Cina è un forte concorrente. Infine, dovremmo chiederci se la Francia ha i mezzi per questa diplomazia offensiva nei confronti della Turchia. In quanto tale, la vendita dei Rafale alla Grecia pone difficoltà all’Aeronautica militare francese, che deve far fronte alla mancanza di aerei per garantire tutte le missioni esterne della nazione. Per quanto riguarda la Turchia, nonostante una diplomazia attiva che mobilita tutti i registri, non è certo che ne uscirà vincente in quanto isolata nel suo ambiente regionale. 8
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