11 minute read

Che cosa scrivono gli altri

Next Article
Marine militari

Marine militari

«Così l’Italia torni a contare nel Mediterraneo»

ISPIONLINE, 31 DICEMBRE 2020 LA REPUBBLICA, 24 NOVEMBRE 2020

Advertisement

«L’Italia nel Mediterraneo. Si dice che un tempo contasse molto e ora per nulla. Un’esagerazione probabilmente, nell’uno e nell’altro caso — esordisce con toni a effetto l’ambasciatore Giampiero Massolo, sul sito istituzionale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di cui è presidente, in un intervento da leggere in parallelo con un altro suo articolo su temi analoghi, apparso qualche settimana prima sul quotidiano romano in epigrafe citato. Perché sino a trent’anni fa, continua il Nostro, «svolgere un ruolo, incidere sugli eventi era un po’ meno arduo, quando il mondo aveva un ordine bipolare e si apparteneva all’alleanza giusta». E poi ancora, sia pure già in misura minore, negli anni successivi, quando il vincolo energetico compattava gli interessi occidentali nella regione. Ma oggi che gli scenari geopolitici mediterranei sono cambiati radicalmente: «“Contare” è diventato oggettivamente complicato». Scenari caratterizzati — spiega l’Autore — dal lento, ma inesorabile disimpegno degli Stati Uniti, la conseguente maggiore libertà di movimento della Russia, le pretese egemoniche ed energetiche della Turchia, gli interessi securitari dell’Egitto e delle monarchie sunnite, il «cre-

Scorcio satellitare del Mediterraneo Allargato e del Grande Medio Oriente.

scente sciita» vagheggiato dall’Iran fino a lambire le coste libanesi. Un nuovo quadro del Mediterraneo si è andato configurando, senza leadership riconosciute, né logiche di schieramento. Un Mediterraneo in cui i conflitti sono divenuti «multidimensionali». «Sorgono localmente, subiscono l’influenza di soggetti statali e non, interessati a soffiare sul fuoco anche dall’esterno, coinvolgono le potenze globali. Riguardano il futuro dell’Islam politico tra opposte fazioni sunnite, la gestione di flussi d’ogni genere, il riassetto del terrorismo jihadista mai sconfitto». Senza illuderci troppo sull’approccio della nuova amministrazione Biden alla «regione mediterranea allargata». Sarà certamente più inclusivo e plurilaterale verso gli alleati rispetto a quello adottato dall’amministrazione Trump, più esigente sul piano dei diritti nei confronti degli autocrati, meno cinico verso la causa palestinese e più articolato nel contrapporsi alle ambizioni iraniane. «Ma non per questo più disposto a coinvolgersi direttamente e meno desideroso di definire un assetto strategico regionale, affidato soprattutto agli attori locali, chiamando caso mai gli europei, specie quelli geograficamente più prossimi, a puntellarlo. Sarà, insomma, una ricerca di partners affidabili, in grado di rendere sostenibile il distacco americano», contando ovviamente anche sull’Italia! Un’Italia che invero non può esimersi — secondo il giudizio dell’Autore, facilmente condivisibile — da una linea di politica estera realistica a difesa degli interessi nazionali, che vengono individuati nell’evitare frammentazioni e vuoti di potere ai nostri confini, nella gestione dei flussi migratori, nella salvaguardia delle rotte energetiche e degli scambi, nella prevenzione e repressione di integralismi e possibili azioni terroristiche. Interessi che presentano una connotazione geopolitica precisa, riguardando innanzitutto «la Libia, dove per troppo tempo abbiamo appal-

tato ogni iniziativa alle Nazioni unite senza accompagnarla con una coerente azione nazionale [che, precisava il Nostro nel citato articolo, “eviti la partizione del paese, ci tuteli in Tripolitania e ci salvaguardi in Cirenaica”]; il Maghreb forse prossimo a nuovi sommovimenti sociali; il sud sahariano origine dei flussi migratori e degli insediamenti jihadisti; l’Adriatico che ci separa dai Balcani sempre più inquieti e instabili; il Mediterraneo orientale che ci vede in secondo piano rispetto a francesi e turchi; le aree di turbolenza presidiate dai nostri contingenti militari, dal Libano all’Iraq [“nella consapevolezza che si tratti di strumenti preziosi di stabilizzazione e di influenza”]». Quindi dall’analisi si passa alla fase propositiva, indicando come gli interessi italiani nel Mediterraneo possano essere, all’attualità, promossi e tutelati «con un’assidua attività di governo in politica estera, visibile quanto basta, ma affidata nel quotidiano a un forte coordinamento dei vari corpi dello Stato a ciò preposti. Possono fare leva sui nostri punti di forza, dalla nostra residua credibilità frutto di anni di diplomazia mediatrice e non assertiva, all’efficacia dei nostri militari, al dinamismo delle nostre imprese, fino alla potenza evocatrice di cui ancora dispone il nostro modello culturale. In definitiva —conclude l’ambasciatore Massolo— lo spazio per un ruolo “possibile”, a esercitarlo con coerenza, ce l’abbiamo tutto. E la coerenza, si sa, suscita rispetto». E all’uopo — aveva già precisato l’Autore nel suo articolo su La Repubblica — «avremo bisogno di un Parlamento e di un’opinione pubblica consapevoli dell’entità della posta in gioco e dovremo poter contare sui media attenti a giudicare la politica estera dalle iniziative (o dall’assenza di esse) più che dagli aspetti di colore. Insomma avremo una “chance” da cogliere. Certo nel mezzo di una crisi sanitaria ed economico-sociale gravissima, lo sguardo si volge altrove. Vale per noi come per i nostri partner, che però sulla scena internazionale continuano a starci. È nostro interesse farlo anche noi. Potremmo fare un salto di qualità».

«Sfide e Opportunità nel 2021»

IAI AFFARINTERNAZIONALI, 1O GENNAIO 2021

Il 2020 è stato un anno drammatico, partito con il rischio di una guerra regionale nel Medio Oriente dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani

«Il 2020 è stato un anno drammatico, partito con il rischio di una guerra regionale nel Medio Oriente… per poi essere travolto dalla pandemia di Covid-19» (Fonte immagine: ilmeteo.it).

per poi essere travolto dalla pandemia di Covid-19, con le sue quasi due milioni di vittime a oggi. È stato un anno in cui l’esistenza stessa dell’Unione europea era a rischio, qualora non fosse emerso un comune denominatore di solidarietà tra gli Stati membri. Un anno in cui si è delineata una nuova bipolarità conflittuale tra Stati Uniti e Cina («che non ha connotati esclusivamente settoriali, ma ha assunto una più ampia dimensione politico-ideologica che riecheggia la Guerra Fredda») e in cui la cooperazione internazionale non è mai stata così «necessaria» ma anche così «carente», scrivono nell’articolo in questione l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci e Nathalie Tocci, rispettivamente presidente e direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Dopo aver ripercorso criticamente gli scenari che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso, in particolare quello l’Unione europea, che non è crollata sotto il peso della pandemia e che, finalmente dopo cinque anni di defatiganti trattative, ha posto fine alla tormentata Brexit con la stipula dell’accordo commerciale di cooperazione con Londra, con le coraggiose scelte fatte in politica economica e che quindi sembra oggi guardare al futuro con maggiore fiducia. Certo, con la pandemia ancora galoppante, le sfide che ci attendono sono ardue e le risposte che saremo chiamati a dare tutt’altro che scontate. Eppure il 2021 — sottolineano gli Autori

— si apre con una triplice opportunità. Per dirla in estrema sintesi, dal «rilancio del progetto europeo», visto in chiave ottimistica («attraverso una ritrovata solidarietà politica, un passo avanti nell’integrazione economica e una nuova narrazione che parla di un’Europa verde, digitale e strategicamente autonoma»), al fiducioso «rilancio del multilateralismo» («attraverso una ritrovata amicizia con gli Stati Uniti di Joe Biden, intento a rinsaldare le vecchie alleanze così come a impegnarsi di nuovo nella governance globale»). E infine, in una prospettiva di più vasto respiro — concludono gli Autori — la terza opportunità consiste nel prestare ascolto alle voci di quella «mobilitazione dal basso» dei vari movimenti d’opinione, che ci spingono ad affrontare con convinzione le diseguaglianze e le ingiustizie d’ogni genere per garantire una società migliore e più giusta.

«Il primo cavo telegrafico sottomarino» e «Vita di bordo nei secoli XVI e XVII»

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC, N.142, DICEMBRE 2020

Il mensile in parola, sempre riccamente illustrato, ci presenta un palinsesto particolarmente variegato, che spazia dalla posa del primo cavo telegrafico sottomarino per mettere in comunicazione Europa e Stati Uniti alle traversate dell’Atlantico nei secoli XVI e XVII, sempre durissime e dall’esito spesso incerto, dalla storia del leggendario Faro di Alessandria d’Egitto, considerato una delle «Sette meraviglie dell’antichità», alto più di cento metri, la cui luce di notte brillava «con una forza tale da farlo sembrare una stella» alla sintesi ragionata di quelle «venti date» che hanno cambiato la storia del mondo, in un elenco invero in cui l’Italia compare soltanto una volta per la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. con la deposizione dell’imperatore giovinetto Romolo Augustolo da parte del generale barbaro Odoacre. Soffermiamoci in particolare sui primi due contributi che ci vengono offerti. Nei primi anni quaranta dell’Ottocento le comunicazioni telegrafiche terrestri erano già ampiamente diffuse sia in Europa, sia negli Stati Uniti e il primo cavo telegrafico sottomarino aveva collegato Francia e Inghilterra già nel 1850 attraverso lo stretto di Dover e nel 1858 una trentina di linee sommerse erano già attive in Inghilterra, Irlanda, Mediterraneo e Mar Nero.

Il progetto di un cavo sottomarino tra l’Europa e gli Stati Uniti, «vera e propria sfida» alle risorse dell’epoca, con i suoi 4.000 km di lunghezza a profondità variabili che raggiungevano pure i 4.000 m, ci viene illustrato da Isaac López César dell’Università de La Coruňa, che ci parla dei promotori del progetto (tra cui l’inventore stesso del telegrafo Samuel Morse), del finanziamento dell’impresa attraverso la vendita di azioni, unitamente al sostegno del governo britannico e statunitense che mise a disposizione le navi necessarie, cioè due navi da guerra appositamente modificate, l’USS Niagara e l’HMS Agamennon, ciascuna delle quali trasportava la metà del lungo filo metallico necessario per congiungerlo in mezzo all’oceano Atlantico e srotolarlo poi, procedendo l’una sino a Trinity Bay a Terranova, l’altra in direzione di Valentia Island in Irlanda. Ma non si trattava di un’impresa facile come dimostra il primo tentativo effettuato nella primavera del 1857. Pur dopo una serie di incidenti, la saldatura delle estremità dei due cavi venne effettuata il 29 luglio 1858 e le due navi riuscirono la raggiungere le mete loro assegnate, col successivo collegamento del cavo transatlantico ai sistemi telegrafici terrestri.

Il primo messaggio telegrafico venne inviato via cavo sottomarino dall’Irlanda agli Stati Uniti il 16 agosto 1858. Il testo recitava: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli, pace in terra agli uomini di buona volontà», seguito da uno scambio di telegrammi tra la Regina Vittoria e il presidente degli Stati Uniti James Buchanan. Il progresso scientifico aveva conseguito così un altro successo, che però fu di brevissima durata! Per cercare di evitare l’estrema lentezza del servizio (il messaggio della Regina Vittoria per giungere a destinazione richiese ben diciassette ore e quaranta minuti!) venne aumentata la tensione elettrica, che però provocò un

Pala d’altare di Siviglia dipinta da Alejo Fernàndez nel 1537, primo

dipinto sacro correlato alla scoperta del Nuovo Mondo (Storica National Geographic).

rapido deterioramento del cavo stesso sicché, a tre settimane dal suo inizio, il servizio cessò. E fu solo nel 1866 che venne riposizionato attraverso l’Atlantico un cavo più spesso, meglio isolato e maggiormente rinforzato, che assicurava una velocità di trasmissione ottanta volte superiore di quello posizionato in maniera pioneristica nel 1858! A sua volta poi Esteban Mira Caballos, storico delle Americhe, in un interessante e meticoloso spaccato di storia materiale della navigazione, ci parla dei pericoli e del tormento della vita di bordo che, nel Cinquecento e Seicento, dovevano affrontare i passeggeri delle navi a vela, galeoni e navi a vela ben più piccole denominate più genericamente «nao» che, dalla Spagna, intraprendevano la travagliata traversata per i possedimenti spagnoli delle Americhe in cerca di una vita migliore, lungo le due rotte battute dalla Carrera de Indias, ogni anno percorsa da due flotte, quella di Nuova Espaňa (diretta a Veracruz) e quella di Tierra Firme (per Nombre de Dios prima, Portobelo e Cartagena poi).

Un tormento infinito, dalle lunghe e noiose procedure burocratiche preliminari (bisognava tra l’altro dimostrare di non aver avuto ebrei o musulmani tra gli antenati!) al costo del biglietto, che all’epoca non tutti si potevano permettere (7.500 maravedí, circa 2.600 euro). Poi una volta a bordo, bisognava sopportare la convivenza con animali domestici (e non), mentre l’alimentazione serviva solo per tirare avanti, con una sistematica carenza di acqua (un bene talmente prezioso che non poteva essere sprecato per la pulizia di bordo e personale) e sempre con l’incubo di un naufragio, «causa mare o per mano dei corsari» (tanto che, tra il 1504 e il 1650, si registrarono, rispettivamente, 412 e 107 naufragi). Il tutto semmai attutito (bisognava pur sopravvivere!) dalla pesca, giochi d’azzardo, seppur formalmente vietati, letture ad alta voce di un buon libro, canti e musica. Una traversata tanto travagliata che il frate spagnolo Tomás de la Torre arrivò a paragonare la nave a un carcere da cui, pur non avendo catene, nessuno poteva fuggire mentre, a sua volta, Antonio de Guevara, autore del manuale Arte de Marear (1539), testo di arte della navigazione all’epoca famoso, non esitava ad affermare che «i normali e comuni patimenti per terra, quali fame, freddo, tristezza, sete o sventura, in mare raddoppiavano»! Un contesto dunque nel quale, chi tra marinai e viaggiatori godeva del privilegio della fede, non poteva non appellarsi all’aiuto celeste, donde il culto della Madonna dei Naviganti, che nasce e si diffonde in Spagna proprio agli inizi del Cinquecento, come possiamo ammirare nella stupenda pala d’altare di Siviglia, centro del traffico marittimo atlantico, dipinta da Alejo Fernàndez nel 1537, tratta dalla rivista in parola, primo dipinto sacro correlato alla scoperta stessa del Nuovo Mondo.

Ezio Ferrante

This article is from: