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Due secoli di armi velici
La nave scuola PALINURO
della Marina Militare, uno dei più begli esempi esistenti di nave goletta oggi in attività (collezione autore).
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Evoluzione dell’attrezzatura e dell’alberatura delle navi a vela dalla seconda metà del Settecento ai primi anni del secolo XX. Una guida iconografica
Maurizio Brescia
Nato a Savona nel 1959 e residente a Genova. Laureato in Scienze Politiche (indirizzo internazionale). Opera da tempo nell’ambito della pubblicistica navale e, dal 2007, ha fatto parte del Comitato di redazione della rivista mensile STORIA Militare, fondata nel 1993 dal comandante Erminio Bagnasco. Ad agosto del 2014 ha iniziato a operare a tempo pieno come pubblicista e ha assunto la direzione di STORIA militare e del bimestrale STORIA militare Dossier, subentrando alla direzione del comandante Bagnasco. Dal 1° febbraio 2017 dirige il nuovo bimestrale della Casa Editrice, STORIA militare Briefing. Su STORIA Militare, sin dalla fondazione, ha pubblicato un centinaio di articoli dedicati soprattutto, a tematiche tecniche, storiche e operative degli aspetti navali di entrambi i conflitti mondiali, in aggiunta a circa 150 articoli per ulteriori riviste specializzate italiane ed estere. Per la casa editrice Albertelli ha realizzato tre volumi della collana «Orizzonte Mare – Nuova Serie» nella seconda metà degli anni Novanta. A settembre del 2012 è stata pubblicata in Gran Bretagna (Seaforth Publishing) e Stati Uniti (U.S. Naval Institute) una sua monografia illustrata — circa 500 immagini — sulla Regia Marina durante la Seconda guerra mondiale dal titolo Mussolini’s Navy. È collaboratore della Rivista Marittima, per la quale ha realizzato diversi articoli e — nel dicembre 2008 — il supplemento I fotografi navali, assieme all’ammiraglio Giovanni Vignati. Ha prestato servizio militare nella Marina Militare ed è socio del gruppo ANMI di Savona. Collabora con la Presidenza Nazionale dell’ANMI e con il mensile Marinai d’Italia. Ha inoltre collaborato con il ministero dei Beni culturali, nell’ambito dell’organizzazione di mostre a Genova e Venezia, e collabora con il DAFIST dell’Università di Genova, tenendo lezioni nell’ambito dei corsi di laurea in Storia per le specializzazioni in Storia Navale e in Storia Militare. È vicepresidente dell’Associazione Venus - Archivio Fotografico Navale Italiano, con sede alla Spezia, avente come finalità la conservazione e la diffusione del patrimonio storico legato alle fotografie storiche di ambito navale.
La propulsione velica è antica quanto la storia e fenicie) e, nella maggioranza dei casi, era affidata a vele della navigazione e, dall’antichità classica sino quadre inferite a un pennone orizzontale su uno o talvolta all’introduzione di apparati motore a vapore, in- due alberi, anche in abbinamento all’uso del remo sopratsieme ai remi ha costituito l’unica «forza motrice» dispo- tutto per le unità militari. In particolare, assai comune era nibile per la propulsione di navi mercantili, militari, da l’uso di vele quadre meglio impiegate nelle andature porpesca, da diporto e per qualsiasi altro impiego in un lungo tanti e coadiuvate — talvolta — da supparæ, ossia una percorso temporale che copre non meno di tre millenni «forza di vele» di forma triangolare inferite tra il pennone sino, praticamente, ai nostri giorni. L’impostazione di e la sommità dell’albero. In questo periodo si affermò questo saggio deve quindi essere circostanziata e, anche anche la vela «tarchia» (che si evolverà in seguito nella per motivi di spazio, è stata effettuata la scelta di orientare tipologia detta «aurica»), dalla forma trapezoidale e sorla trattazione verso gli ultimi due secoli di storia della na- retta da un’antenna collocata diagonalmente; è questo il vigazione, un lungo periodo in cui la propulsione velica primo passo verso la realizzazione di vele di taglio, atte a ha vissuto la sua splendida conclusione portando alla de- consentire di stringere maggiormente il vento (1) e di cui finitiva affermazione di tipologie di alberatura e di vele taluni esempi sono già presenti in costruzioni navali roben precise e codificate. Nel panorama editoriale attuale, mane di età imperiale. Sebbene la comune «vulgata» atpur in presenza di fonti documentali archivistiche, primarie e bibliografiche disponibili in grande quantità e qualità, mancava tuttavia un companion che consentisse di descrivere e codificare — anche con il consistente ricorso a fonti iconografiche — le varie tipologie di bastimento a vela che hanno costituito la spina dorsale delle marinerie militari e mercantili dalla seconda metà del Sette- A sinistra, vele e manovre delle navi onerarie romane: A) Vela quadra di età imperiale; B) Vela di gabbia (supparum) di età imperiale; C) Vela «tarchia», ancora in uso ai giorni nostri; D) da evidenze cento alle prime due decadi del secolo documentali risulta anche l’uso di vele triangolari, poi utilizzate in ambiente arabo e successivamente in tutto il Mediterraneo (da M. Bonino, Navi mercantili e barche di età romana, op. cit., g.c. Gianfranco XX. In pratica, nell’arco temporale appena delineato, quali erano per esempio Tanzilli). A destra, verosimile aspetto di una nave oneraria romana di età imperiale e della sua attrezzatura velica (M. Bonino, Navi mercantili e barche di età romana, op. cit., g.c. Massimo Palandri). le differenze tra un brigantino a palo, una nave goletta, un tre alberi a vele quadre e una «goletta a clipper»? Scopo di questo studio è proprio quello di fornire al lettore, che spesso è anche un professionista del settore della navigazione, una guida che consenta di fare luce in un ambito nel quale, in non pochi casi, confusioni, errori e scarsa chiarezza non sono mancati e non mancano.
Un cenno al passato
In età classica — sia greca sia romana — la propulsione velica era affermata ormai da tempo (anche sulla scorta di precedenti, analoghe esperienze puniche
A sinistra: l’evoluzione degli armi velici portò, soprattutto in ambito portoghese, all’introduzione della caravella, bastimento a tre alberi ciascuno con una vela latina sorretta da un’antenna; nell’im-
magine, una ricostruzione della colombiana NIÑA (collezione autore). A destra; la «Nao» portoghese
configura la struttura delle «navi tonde» medievali e successive, con tre alberi dei quali la mezzana è attrezzata con vela latina e antenna, mentre maestra e trinchetto recano vele quadre. Questo modello, esposto al «Museu de Marinha» di Lisbona, raffigura nella fattispecie un «usciere», ossia un’unità appositamente attrezzata per lo sbarco di uomini, artiglierie e cavalcature in occasione di
operazioni anfibie ante litteram (autore).
tempi dell’età moderna, di uno degli armi velici più diffusi: tipico esempio è quello della caravella, un bastimento a tre alberi per l’appunto dotati di una vela latina ciascuno e particolarmente sviluppato e diffuso in Portogallo (3). Peraltro, con uno, due e talvolta tre alberi — tutti attrezzati con vela latina — anche le galere mediterranee dei secoli XIII-XVII, tanto di parte cristiana quanto turco-barbaresca, presentavano un armo velico del tutto analogo. Pressoché contemporaneamente, sempre nella penisola iberica ma con applicazioni subito fatte proprie anche dalle marinerie britannica e olandese (e nordiche più generalmente intese) nonché da quelle mediterranee, andava sviluppandosi il concetto di navis («nao» in portoghese) che trovò i primi esempi nelle navi commerciali dette «navi tonde» ossia bastimenti di grandi dimensioni, talvolta a più ponti, dotate di casseri sopraelevati e attrezzate con tre alberi dei quali, solitamente, trinchetto e maestra recavano vele quadre e la mezzana una grossa vela latina inferita su una lunga antenna. Dall’impiego commerciale — per il quale le grosse dimensioni e le forme tonTavola sinottica dei principali tipi di armo velico per il periodo considerato nell’articolo (autore). deggiati favorivano sia la navigazione d’altura, sia forti incrementi nella capacità di tribuisca l’introduzione della vela di taglio dalla forma carico — il passaggio alle costruzioni navali militari fu triangolare alla marineria araba nei secoli immediata- piuttosto rapido (4) e già nella prima metà del Seicento il mente successivi, anche in questo caso evidenze dell’uso «tre alberi» (5) a vele quadre e a più ponti si era ormai afdi questa particolare vela sono presenti in reperti fittili, fermato in tutta l’Europa occidentale e nella sfera di inmusivi e pittorici di età tardo-romana. Con ogni probabi- fluenza dell’Impero ottomano diventando, attorno alla lità, su una non propriamente precisa datazione dell’intro- metà del secolo XVIII, non soltanto, un patrimonio coduzione della vela triangolare ha influito la sua successiva mune delle marinerie del Vecchio Continente ma un armo definizione di «vela latina», un aggettivo non già riferito velico largamente diffuso e apprezzato in ogni dove. A para una specifica origine geografica o culturale, ma deri- tire dalla metà del Settecento si può quindi individuare la vante da due possibili etimologie: dall’arabo «La Trina» conclusione di un lungo percorso in cui, da un lato, si con(ossia «tre angoli») e dalla sua traslitterazione occidentale solidano anche tipologie di bastimenti a uno, due e tre al«alla trina» (vale a dire di forma triangolare) (2). Indipen- beri non tutti attrezzati con vele quadre (come si vedrà, dentemente da queste considerazioni, la «vela latina», brigantini, golette, navi goletta ecc.) e, dall’altro, tra la fine ormai generalmente definita e come tale largamente im- dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, gli piegata, andò a essere parte, in età medievale e nei primi anni finali dell’era della navigazione velica si concludono
con la costruzione di velieri sempre più grandi, a quattro, cinque e talvolta sei o sette alberi. Ed eccoci quindi giunti all’ambito temporale, peraltro riferito a oltre un secolo e mezzo di storia degli armi velici, oggetto di questo studio. Ai fini di meglio codificare la trattazione, i principali armi velici sono descritti abbastanza concisamente, suddivisi ove necessario per singole tipologie o per gruppi di unità riconducibili ad attrezzature, numero degli alberi e armi velici comuni ai bastimenti componenti ciascun gruppo. Per ulteriori dettagli tecnici si rimandano i lettori alle didascalie degli schemi e delle immagini in cui dettagli e differenze sono ulteriormente descritti. Per i principali armi velici è riportata anche la traduzione in inglese, lingua di uso comune nel mondo navale e marittimo; per le denominazioni in altre lingue il lettore potrà fare riferimento alle opere riportate nella bibliografia, in particolare AA.VV., Guide des voiliers e H. Paasch, Marine Vörterbuch per il francese, il tedesco e lo spagnolo.
Bastimenti a un albero
Tipico esempio di imbarcazione medio-piccola a un solo albero, lo sloop (per il quale non esiste un corrispondente termine in italiano) va ricondotto a costruzioni britanniche già in uso nel secolo XVII (6). In pratica, si tratta di un piccolo bastimento per uso costiero che, nel Settecento, già trovava largo impiego su entrambe le coste dell’oceano Atlantico, impiegato in una molteplicità di ruoli sia mercantili, sia militari. Il singolo albero, collocato piuttosto verso prora, sorreggeva una o due vele di fiocco e una randa aurica dotata di boma e picco, talvolta sormontata da una controranda. Taluni sloop britannici costruiti nelle Indie occidentali, a fronte di dimensioni maggiorate, erano talvolta attrezzati con un paio di vele quadre di gabbia, ma casi di questo genere non sono molto comuni. Nel processo evolutivo dello sloop vanno inserite anche le attuali barche a vela monoalbero per navigazione diportistica e sportiva, per le quali — soprattutto nel caso di andature al traverso e portanti — da lungo tempo è invalso l’uso di utilizzare, in abbinamento o più spesso in sostituzione del fiocco, una grande vela triangolare detta «Genoa» di superficie maggiore rispetto a quella della randa (7).
Analogo allo sloop (e talvolta confuso con quest’ultimo) è il cutter, che si differenzia per le maggiori dimensioni, per lo scafo contraddistinto da un rapporto lunghezza/larghezza in taluni casi più accentuato e da un’altezza di costruzione maggiore con un conseguente, accresciuto pescaggio. Le differenze nell’armo velico sono riconducibili alla diversa posizione dell’albero (collocato più a poppavia) e dal piano velico estremamente sviluppato con numerose vele che, in un primo momento, comprendevano anche vele quadre (trevo e gabbie). Inoltre, mentre il bompresso dello sloop era in posizione fissa, il più lungo bompresso del cutter (in particolare tra Settecento e Ottocento) poteva essere ritirato in coperta per motivi di praticità e posizionato solo quando era necessario alzare a riva fiocchi e controfiocchi per accrescere la superficie velica. L’armo velico «a cutter» visse il suo periodo d’oro tra la fine dell’Ottocento egli anni Dieci del secolo XX, quando l’adozione del «Genoa» e la scomparsa di piccoli fiocchi e controrande rese meno diffusa questa tipologia di armo velico (8).
Imbarcazione a vela classe
«Star», tipico esempio di sloop
attuale, con randa triangolare e fiocco (starclass.org). Bastimenti a due alberi di piccole dimensioni,
Ketch e Yawl
A un livello dimensionale immediatamente superiore a quello delle tipologie monoalbero si pongono il ketch e lo yawl i quali non costituiscono due declinazioni analoghe del medesimo armo ve- Analoga al ketch (imbarcazione a due alberi con la mezzana a proravia dell’asse del lico, ma sono contraddistinti ciascuno da caratteristiche che timone) la mezzana dello yawl trova sistemazione a poppavia dell’asse del timone, come evidenziato in questo olio su tela di James Haughton risalente al 1880 (Royal Exchange Art Gallery, Londra). li identificano e differenziano specificatamente. Nei trattati navali dei secoli XVII-XVIII il ketch è spesso definito come «un bastimento a vele quadre privo di albero di trinchetto»; tut-
Quando un bastimento a un solo albero è munito di vela a tarchia (ossia randa non triangolare ma trapezoidale, con eventuale controranda) ci troviamo di
fronte a un cutter (termine di probabile origine olandese ma che, in inglese, sta
a indicare le caratteristiche dello scafo (stretto e dalla consistente altezza di
costruzione), per l’appunto adatto a «tagliare» (to cut in inglese) le onde anziché superarle. A sinistra un cutter della Royal Navy del periodo 1750-60, munito di
fiocco, controfiocco, trevo e gabbie; si noti la forza di vele con cui sono attrezzate le varee dei pennoni e la caduta poppiera della randa, che comprende anche una vela aggiuntiva sotto al boma per incrementare la velocità e le qualità boliniere del bastimento; le numerose mani di terzaroli fanno comprendere che l’impiego di un’unità di questo tipo era previsto anche in condimeteo avverse.
A destra, il piano velico del piccolo cutter francese JOLIE BRISE del 1913: esclu-
dendo l’assenza di vele quadre l’armo velico è del tutto analogo a quello
dell’unità britannica precedente di 150 anni (J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).
tavia, questa definizione fu presto superata da una realtà dei fatti che portò alla realizzazione di unità dotate di alberi di bompresso, maestra e mezzana (più basso, quest’ultimo, dell’albero di maestra e posizionato anteriormente all’asse del timone) attrezzati con fiocchi, rande «a tarchia» (ossia trapezoidali) e controrande, talvolta con una vela di strallo inferita tra i due alberi. Sebbene non pochi esempi siano riconducibili al periodo a cavallo tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, l’armo velico a ketch trovò vasta applicazione negli anni successivi tanto nel cabotaggio costiero quanto nella navigazione diportistica (9) e oggi la configurazione delle vele prevede rande triangolari e «Genoa».
Lo yawl è talvolta confuso con il ketch ma le differenze sono evidenti e fondamentali. Nelle prime accezioni sei-settecentesche il termine stava a indicare non un armo velico ma un particolare, piccolo scafo propulso da remi (da cui l’italiano «iole» o «jole»); nel corso dell’Ottocento, soprattutto nel settore del diportismo, lo yawl si trasformò in un’unità a vela, anch’essa priva di trinchetto al pari del ketch ma con l’albero di mezzana di dimensioni molto ridotte collocato a poppavia dell’asse del timone. L’armo velico, tutto composto da vele di taglio, si è evoluto nel tempo passando da vele auriche a rande triangolari e fiocchi (la ridotta altezza dell’albero di mezzana non consente l’uso di vele di strallo) a un armo più moderno nel quale la randa di mezzana ha più che altro funzioni di bilanciamento del centro velico e miglioramento della manovrabilità in acque ristrette. Lo Spray di Joshua Slocum, con cui il navigatore canadese circumnavigò il globo in solitario tra il 1895 e il 1898, era inizialmente attrezzato a sloop ma, per l’occasione, venne convertito in yawl e in questa configurazione è passato alla storia (10).
La goletta nei suoi molteplici aspetti
È questa una delle tipologie di armo velico maggiormente conosciute e diffuse: il termine goletta deriva dal francese goëlette (che identifica la rondine di mare), a sua volta verosimilmente collegato a goéland (gabbiano) (11) ed è diffuso particolarmente nel Mediterraneo; in inglese il lemma identificativo è schooner, probabilmente dal verbo «to scoon» («scivolare», «saltare sull’acqua») che ben identifica le qualità velocistiche e manovriere di questo particolare bastimento.
La goletta è un’unità di medie dimensioni, di norma attrezzata con due alberi (trinchetto e maestra) solitamente della medesima altezza anche se, talvolta, la maestra può essere più alta del trinchetto. I primi esempi risalgono alla marineria olandese di fine Seicento, ma — cercando di individuare una linea di sviluppo comune su entrambe le sponde dell’Atlantico — le golette realizzate negli Stati Uniti nel corso del secolo XIX presentavano un piano velico basato pressoché esclusivamente di vele di taglio, mentre quelle europee iniziarono
Negli ultimi decenni del secolo XVIII i cantieri di Baltimora (Maryland)
avviarono la costruzione di numerose «Golette a clipper» il cui piano velico
di grandi dimensioni e gli alberi inclinati verso poppa ne esaltavano le doti di velocità: difatti, vennero impiegate dalla neocostituita US Navy, da corsari
(«privateers»), negrieri e contrabbandieri. L’insieme di queste caratteristi-
che e il basso bordo libero rendevano però molto pericolosa la navigazione
in condimeteo appena non ottimali, e molte «golette a clipper» andarono
perdute in tempeste e in altri sinistri marittimi (collezione autore).
Denominazione delle vele quadre e di taglio di una nave goletta: 1) Controfiocco; 2) Primo fiocco; 3) Secondo fiocco; 4) Trinchettina – Albero di trinchetto: 5) Randa di trinchetto; 6) Basso parrocchetto; 7) Parrocchetto volante; 8) Velaccino; – Albero di maestra: 9) Randa di maestra; 10) Controranda di maestra; – Albero di mezzana: 11) Randa di mezzana; 12) Controranda di mezzana (elaborazione informatica autore
da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).
ben presto a portare anche vele quadre nella parte alta del trinchetto, andando a configurare la goletta a gabbiole che rendeva in tal modo più efficiente lo sfruttamento del vento con andature portanti. Nell’ambito di un incremento dimensionale che vedeva la goletta ormai utilizzata non soltanto nel cabotaggio costiero, il passo verso la goletta a tre alberi (o goletta a palo, in inglese tern schooner) fu abbastanza rapido e, nel caso della presenza di vele quadre nella parte alta del trinchetto, ci si trova di fronte a una goletta a tre alberi a gabbiole. Di norma, con fiocchi e vele di strallo triangolari, le rande erano auriche con boma e picco, spesso sormontate da controrande anch’esse trapezoidali oppure triangolari. I numerosi sviluppi locali della goletta costituiscono varianti di questi tipi-base e nel breve spazio di questo studio non sarebbe possibile descriverli tutti, anche solo concisamente. Tra i molti va ricordata la «goletta a clipper di Baltimora», bastimento per l’appunto originario di questa città del Maryland che dei «clipper» (di cui si dirà più avanti) riprendeva la propensione a una considerevole superficie velica (in realtà anche eccessiva se confrontata con le dimensioni e la configurazione dello scafo) nel contesto dell’armo velico della goletta a gabbiole. In auge sul finire della prima metà dell’Ottocento era utilizzata per la guerra di corsa, come bastimento negriero e dalla US Coast Guard. Notissima e giustamente celebre la goletta America, che ad agosto del 1851 sbaragliò nelle acque dell’Isola di Wight agguerriti, analoghi scafi britannici vincendo la «Coppa delle 100 ghinee» che divenne poi la ben nota «Coppa America», sempre difesa con successo dal New York Yacht Club sino al 1983 (12).
Il brigantino
Un’altra tipologia di armo velico ampiamente diffusa, il brigantino (in inglese brig) è un bastimento a due alberi (trinchetto e maestra) a vele quadre che, nella sua configurazione generale, riprende quella della nave a tre alberi a vele quadre ma senza l’albero di mezzana. Le denominazioni delle vele sono quindi le medesime dei «tre alberi» e, alla maestra, è solitamente inferita una randa aurica con boma e picco (quasi sempre priva di controranda). Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento il brigantino fu largamente impiegato dalle principali Marine e, ancora poco dopo il 1840, l’US Navy avviò la costruzione di cinque brigantini (13) lunghi una trentina di metri e armati con dieci carronate da 32 libbre.
Tuttavia, l’area ove il brigantino ebbe maggior diffusione dalla seconda metà dell’Ottocento sino alla fine del secolo XIX fu il Mediterraneo, ove questo armo velico fu ampiamente utilizzato per il cabotaggio commerciale costiero e brevi navigazioni, ma anche per impieghi più alturieri che spesso portarono i brigantini (in particolare italiani) ad affrontare l’oceano Atlantico in lunghe navigazioni dirette in America meridionale e settentrionale. Come in tutti gli armi velici con randa (sia alla mezzana, sia alla maestra, come per l’appunto nel caso del brigantino) l’albero che sorreggeva il boma e il picco della randa era talvolta privo del trevo per evitare che la manovra della randa potesse danneggiare la vela quadra inferita sul pennone più basso. A questo scopo — e al fine
Il brigantino ANTONIETTA, di 233 tonnellate di registro e costruito a Savona nel 1853, in uno ship portarit del noto pittore di Marina genovese Domenico
Gavarrone raffigurante l’unità nel 1862, quando navigava per l’armatore camoglino Gaetano Lavarello ed era al comando del fratello di quest’ultimo, Fortunato. L’armo velico è tipico dei brigantini a palo dell’epoca, con fiocchi, vele di strallo e rande alla tarchia a entrambi gli alberi che risultano così attrezzati: trinchetto con trevo, parrocchetti e velaccino; maestra con trevo, gabbie e gran velaccio (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).
Il brigantino a palo PASS OF KILLECRANKIE nei primi anni del Novecento.
Si noti l’albero di mezzana che, pur essendo dotato di boma e picco, porta una randa triangolare; la controranda sta per essere inferita per accrescere la manovrabilità e le doti boliniere del bastimento (collezione autore).
di incrementare la superficie velica con le andature portanti — soprattutto in Gran Bretagna trovò larga applicazione il concetto di snow, per il quale non esiste un corrispondente termine in italiano. Sullo snow, immediatamente a poppavia della maestra, trovava sistemazione un albero basso e tozzo su cui erano incernierati il boma e il picco della randa: ciò consentiva di poter inferire un trevo anche al pennone basso della maestra, con un certo qual miglioramento della spinta velica e quindi della velocità.
Derivati a due e a tre alberi della goletta e del brigantino
Relativamente alle golette è già stato brevemente introdotto il concetto di «palo» in riferimento, per l’appunto, alla goletta a tre alberi. In effetti per «palo» si intende un albero aggiuntivo — armato con sole vele di taglio — che si aggiunge a poppavia dell’alberatura già «codificata» in un particolare armo velico. Su golette e brigantini il «palo» corrisponde quindi all’albero di mezzana e, in questi due specifici casi, questa denominazione è più lessicale che funzionale: il «palo» sarà effettivamente tale come quarto albero aggiunto a un armo velico a tre alberi su vele quadre, come si vedrà più avanti. Necessità pratiche e commerciali portarono ben presto a un incremento nelle misure dei brigantini che rese necessaria l’installazione di un terzo albero (mezzana/palo) che, dotato di randa aurica e spesso anche di controranda, ne migliorava le doti boliniere. Si tratta del ben noto brigantino a palo (barque oppure bark in inglese), i cui primi esempi sono documentati in Olanda nella seconda metà del Settecento e che ebbe grande diffusione nelle marinerie mediterranee, in quella britannica e in quella statunitense.
Una variante del brigantino in termini dimensionali maggiormente contenuti è costituita dal brigantino goletta (brigantine in inglese) un bastimento anch’esso a due alberi, con il trinchetto a vele quadre e la maestra a vele auriche le cui origini possono essere fatte risalire al periodo a cavallo tra la fine del secolo XVII e l’inizio del secolo XVIII (14). Sin verso la fine del secolo XIX questo particolare armo velico non ebbe larga diffusione, anche se il numero di uomini di equipaggio ridotto rispetto a un bastimento a vele quadre ne rendeva appetibile l’impiego nel cabotaggio costiero. Nel tempo sono state costruite varie repliche di brigantino goletta del passato e — recentemente (2002) — il Los Angeles Maritime Institute ha immesso in servizio due unità di questo tipo (15) che costituiscono la componente «navigante» del progetto «TopSail Youth», il cui scopo è avvicinare i giovani, soprattutto quelli maggiormente disadattati o con difficoltà familiari, al mondo della vela.
Infine, tra gli armi velici maggiormente diffusi, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, va eviden-
La nave goletta SCOPO in un quadro del pittore Domenico Gavarrone.
L’armo velico è quello classico dei velieri di questa tipologia, con vele quadre al trinchetto e auriche alla maestra e alla mezzana (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).
ziato quello della nave goletta(in inglese barkentine oppure barquentine): un bastimento che, nel Mediterraneo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, conobbe un’ampia e fattiva diffusione e che era attrezzato con vele quadre al trinchetto e vele di taglio alla maestra e alla mezzana. Gli accresciuti costi per la manutenzione e, soprattutto, per un numero elevato di uomini di equipaggio dei tre alberi a vele quadre resero necessaria una semplificazione dell’armo velico, concretizzatasi per l’appunto in una nave i cui alberi di maestra e di mezzana — con sole vele auriche ed eventuali vele di strallo — richiedevano meno personale per la loro manovra senza, tra l’altro, la necessità di salire a riva. Inoltre, la nave goletta stringeva bene il vento grazie alle vele di taglio pur mantenendo stabilità e una certa qual velocità nelle andature portanti grazie alle vele quadre del trinchetto. Nell’ambiente marittimo anglosassone queste caratteristiche portarono a definire la nave goletta come «the best bark», ossia «il miglior bastimento»; in Italia, le marinerie livornese e ligure fecero propria questa definizione che, però fu resa (piuttosto impropriamente) come «barco bestia», termine ancora in uso nei primi decenni del secolo XX.
Il tre alberi a vele quadre
Ed eccoci giunti all’armo velico più noto e conosciuto, anche dal grande pubblico, entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie a innumerevoli quadri, romanzi e film: si tratta del tre alberi a vele quadre,
11 gennaio 1900: il «tre alberi a vele quadre» britannico DERWENT ormeggiato
alla boa fuori Gravesend. Classica «evoluzione finale» di questa tipologia di unità e di armo velico, era stato realizzato con una costruzione composita in legno e in ferro (collezione autore). Attorno alla metà del Settecento gli armi velici dei «tre alberi a vele quadre» erano ormai standardizzati verso concetti generali che — seppure con miglioramenti e variazioni — sarebbero rimasti sostanzialmente analoghi sino alla conclusione dell’età velica. Nell’immagine, un preciso e dettagliato modello d’epoca conservato al National Maritime Museum di Greenwich (SLR0476) riferito a una fregata da 24 cannoni presente nel programma navale del 1741. La principale differenza rispetto ai successivi «tre alberi» è data dalla vela latina inferita su un’antenna inclinata alla mezzana: nelle costruzioni dei decenni successivi si affermerà, in Gran Bretagna e all’estero, la tipologia della randa con boma e picco, con ovvi vantaggi nella manovrabilità della vela di taglio soprattutto nel caso di un
cambio di mura (R. Gardiner, The Sailing Frigate – a History in Ship Models, op. cit.).
tecnicamente descritto dal termine nave attrezzata a nave (in inglese full rigged ship), attrezzato con bompresso, alberi di trinchetto, maestra e mezzana a vele quadre, con randa alla mezzana, fiocchi e vele di strallo. L’origine di questo armo velico è più antica di quella dei bastimenti precedentemente descritti: già nel Cinquecento, unità di questo tipo sono documentate con precisione sia nei trattati di costruzione navale, sia in opere pittoriche e grafiche di vaglia: per lungo tempo l’armo convisse con altri analoghi che, in taluni casi, prevedevano ben quattro alberi, con trinchetto e maestra a vele quadre e i due poppieri attrezzati con un’unica, grande vela latina inferita su un’antenna di considerevole lunghezza (16). Di diretta derivazione dalla «nao» portoghese, questi bastimenti a quattro alberi erano detti «caracche» e trovarono ampia diffusione non solo nell’Europa settentrionale, nella penisola iberica e in Gran Bretagna (17) ma anche nell’ambito mediterraneo, con molte di esse poste in servizio dalle principali potenze navali dell’epoca (Genova, Venezia e Impero ottomano in primis).
A sinistra: l’armo velico della grossa fregata USS CONSTITUTION del 1797 mostra l’evoluzione della velatura di una tipica unità dell’era napoleonica: l’unità
presenta quattro vele per albero (trevo, basso parrocchetto, parrocchetto volante e velaccino al trinchetto; trevo bassa gabbia, gabbia volante e gran velaccio alla maestra; trevo [assente], bassa contromezzana, contromezzana volante e belvedere alla mezzana) con la randa inferita su un boma e un picco, a loro volta fissati alla parte bassa dell’albero di mezzana con una gola arcuata che ne consentiva l’agevole manovra al cambio di mura (disegno
dell’autore, 1986). A destra: Il «clipper» CUTTY SARK del 1869-70, pur con un piano velico maggiorato rispetto a quello della fregata CONSTITUTION, ne
riprende tutti gli elementi principali in un’ottica progettuale che per queste unità — destinate al trasporto del tè dalla Cina alla Gran Bretagna con una vera
e propria circumnavigazione del globo e il passaggio da Capo Horn — privilegiava la velocità rispetto alla portata che, nel caso specifico del CUTTY SARK,
era di sole 963 tonnellate di registro (collezione autore).
A partire dalla metà del Seicento la tipologia del tre alberi a vela quadre era ormai consolidata e, senza sostanziali variazioni, trovò ampia applicazione sino a tutto il secolo XVIII. Un’innovazione fu costituita dall’adozione della randa con boma e picco alla mezzana che, sostituendo la grande vela latina inferita sull’antenna, rendeva molto più agevoli e sicure le virate e, soprattutto, le strambate richiedendo un minor numero di uomini di equipaggio per questo specifico compito, con positivi riscontri sulla generale sicurezza di queste manovre. Dapprima ciascun albero era attrezzato con un massimo di quattro vele (trevi di trinchetto e maestra e le sovrastanti tre vele in posizione più sopraelevata) e fu sostanzialmente questa l’attrezzatura delle unità sia militari, sia mercantili dalla seconda metà del Settecento all’era napoleonica. In seguito (1860-70), mentre la propulsione meccanica iniziava a essere impiegata sulle unità soprattutto militari, nel settore delle navi mercantili si passò ad armi sempre più invelati il cui classico esempio è costituito dai clipper di costruzione sia britannica, sia statunitense, impiegati per navigazioni oceaniche e il trasporto veloce di carichi dall’elevato valore economico (18). La comparazione della superficie velica tra un tre alberi di fine Settecento e un analogo bastimento della seconda metà del secolo successivo può essere visualizzata al meglio dai due disegni al tratto della fregata statunitense USS Constitution del 1797 e del clipper britannico Cutty Sark del 1869-70 che corredano questo articolo.
Bastimenti a quattro e più alberi
Nel solo settore della Marina mercantile, gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del secolo XX furono testimoni di una «corsa al gigantismo» nella costruzione di navi a vela. Da un lato, gli sviluppi del commercio e dei traffici marittimi mondiali richiedevano navi di dimensioni sempre più grandi e, dall’altro, la concorrenza delle navi a vapore (che potevano garantire notevoli capacità di carico e regolarità nei tempi di percorrenza delle lunghe rotte oceaniche, non essendo legate al regime dei venti) rendeva i classici tre alberi ormai non più competitivi. In un primo momento venne sviluppato il concetto di nave a palo (con un quarto albero attrezzato con una randa aurica), e — in breve tempo — seguirono bastimenti a quattro e cinque alberi, tutti attrezzati con vele quadre: tra i più noti va ricordato l’elegantissimo Preussen (della Marina mercantile tedesca), entrato in servizio nel 1902 e andato perduto nei pressi di Dover per sinistro marittimo (19). In questi casi le denominazioni degli alberi aggiuntivi e delle relative vele sono variabili e spesso non ben codificate: molti autori parlano di «quarto» e «quinto» albero, con la denominazione delle vele che replica quella delle vele dell’albero di mezzana.
Della goletta e delle sue varianti già si è detto, rimarcando il fatto che l’armo velico di questi bastimenti richiedeva un equipaggio numericamente ridotto con conseguenti, sensibili riduzioni nella gestione dei
Lawson (1902) — bastimento costruito in acciaio a sette alberi, da oltre 5.200 tonnellate di registro e dall’incredibile dislocamento (ovviamente per una nave a vela), di 11.000 t a pieno carico — le cui grandi dimensioni ne rendevano tuttavia ben poco pratico l’esercizio, anche in considerazione del numero degli uoDenominazione delle vele quadre e di taglio di una nave a palo: Albero di trinchetto: 1) Trevo di mini di equipaggio previsti dalla tatrinchetto; 2) Basso parrocchetto; 3) Parrocchetto volante; 4) Velaccino; 5) Controvelaccino; 6) Contra di controvelaccino; – Albero di maestra: 7) Trevo di maestra; 8) Bassa gabbia; 9) Gabbia bella di armamento: non più di venti volante; 10) Gran velaccio; 11) Controvelaccio; 12) Suppara; – Albero di mezzana: 13) Trevo di mezzana; 14) Bassa contromezzana; 15) Contromezzana volante; 16) Belvedere; 17) Controbelvedere; 18) Contra di controbelvedere; – «Palo»: L) Randa (qui con due picchi); M) Controranda; – Vele di taglio: A) Controfiocco; B) Primo fiocco; C) Secondo fiocco; D) Trinchettina; E-K) Vele di strallo (elaborazione informatica autore da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.). persone compreso il comandante e gli ufficiali (20). La grande epopea della vela si concluse negli anni Venti dello scorso secosti del personale. Furono quindi varate golette a colo e, per quanto solamente a livello locale, navi a vela quattro, cinque e talvolta sei alberi (in molti casi con di dimensioni più piccole continuarono a essere impietrinchetto e maestra armati anche con vele quadre di gate nel decennio successivo e, in taluni casi, anche nel gabbia) per giungere, infine, alla più grande nave a corso del Secondo conflitto mondiale, il «periodo vela di quell’epoca: la goletta statunitense Thomas W. d’oro» della propulsione velica e dei relativi diversifi-
Pola, marzo 1943: le navi scuola a vela della Regia Marina AMERIGO VESPUCCI (in primo piano) e CRISTOFORO COLOMBO all’ormeggio, con gli al-
beretti parzialmente sghindati per manutenzione e conservazione. Entrambe le unità configurano la tipologia della nave a «tre alberi a vele quadre»
(«nave attrezzata a nave»); una delle differenze che contraddistingueva il COLOMBO dal VESPUCCI era la presenza — sul COLOMBO — di una randa e del relativo picco all’albero di maestra, per contro assenti dal VESPUCCI (collezione A. de Toro).
L’unica goletta a sette alberi fu la statunitense THOMAS B. LAWSON, costruita interamente in acciaio, lunga 145 m e da oltre 10.000 tonnellate di portata. Entrò
in servizio nel 1902 ed ebbe vita breve, andando perduta il 14 dicembre 1907 in una tempesta al largo delle Isole Scilly (Canale della Manica). Risultò troppo
grande e complessa e l’accesso in taluni porti le era impedito dal pescaggio massimo superiore ai 10 m in condizioni di pieno carico. Inoltre, la superficie velica totale (3.715 m2) era poco più di un terzo di quella di molti clipper (a tre alberi) dei decenni precedenti, con dislocamenti di appena un quarto rispetto a quello del LAWSON che, a oggi, resta la più grande nave mercantile a vela mai costruita. L’immagine a destra è una delle foto più note del THOMAS B. LAWSON,
scattata in occasione della partenza per il suo viaggio inaugurale da Quincy (Massachusetts, ove era stata costruita) a Newport News (Virginia). I commenti
della stampa specializzata dell’epoca non furono generosi, e il LAWSON fu più volte definito «vasca da bagno» e «balena spiaggiata» (collezione autore).
Le accresciute dimensioni delle navi mercantili dell’ultimo periodo velico portarono alla realizzazione di golette a cinque e più alberi. Nell’immagine
in bianco e nero qui a destra: la goletta tedesca CARL VINNEN in rotta
verso La Plata, verosimilmente nel 1901-02; si noti che l’armo velico riprende quello della goletta a gabbiole, ma — abbastanza curiosamente — le vele quadre di gabbia sono portate al trinchetto e alla mezzana, non
alla maestra (collezione autore). Sopra, a sinistra: la nave scuola ARA LIBERTAD della Marina argentina, con armo velico su tre alberi a vele qua-
dre (collezione autore); a destra: tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo XX la corsa al gigantismo nelle costruzioni navali mercantili a vela portò alla realizzazione di navi a vele quadre di grandi dimensioni. Il
veliero tedesco PREUSSEN aveva cinque alberi per un totale di 47 vele
(non tutte presenti nello schema): entrato in servizio nel 1902 andò perduto per sinistro marittimo (collisione con il traghetto a vapore britannico
BRIGHTON) sulla costa di Crab Bay, a nord-ovest di Dover (elaborazione informatica autore da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).
cati armi descritti in questo studio può essere riferito proprio al lasso temporale 1750-1920 che abbiamo cercato di descrivere e approfondire. Resta sempre valida l’importanza della vela come palestra di marineria e di vita e, infatti, le principali Marine militari e molte istituzioni civili mantengono in servizio navi scuola che costituiscono di per sé uno degli elementi più qualificanti della loro componente addestrativa. La stessa Marina Militare, con il tre alberi Vespucci e la nave goletta Palinuro, è da sempre attiva in questo specifico settore, nella consapevolezza che anche nell’era dell’elettronica, dei missili e delle portaerei, la pratica velica e la passione che devono animare ogni buon marinaio possono trarre insegnamenti fondamentali e linfa vitale solo dall’imbarco su una di queste unità, a garanzia di un futuro tecnologico che però trova le radici del suo passato nei molteplici bastimenti di un tempo che abbiamo cercato di descrivere in questo studio. 8
NOTE
(1) Si tratta, quindi, della navigazione «di bolina». (2) www.compagniadellevelelatine.it/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=165. (3) Si veda, per esempio, la ricostruzione della colombiana Niña (a pag. 83). (4) Va tenuto presente che, all’epoca, la distinzione tra navi mercantili e militari era molto meno netta che oggigiorno e molti mercantili erano anch’essi armati per autodifesa, soprattutto nel caso di navigazioni non in convoglio o comunque non scortate da bastimenti da guerra.
(5) Il «tre alberi» a vele quadre può anche essere inteso con la locuzione di «nave attrezzata a nave», corrispondente all’inglese Full Rigged Ship. (6) Nel medesimo periodo, in Olanda, per sloop si intendeva invece un’imbarcazione delle dimensioni analoghe, ma propulsa esclusivamente da remi. (7) Nel corso di due secoli le tipologie di sloop sono state numerose e hanno dato vita a particolari varianti. Tra tutte va ricordato il cosiddetto «sandbagger», di origine statunitense, estremamente invelato e adatto a sviluppare elevate velocità. A fronte di una lunghezza dello scafo nell’ordine degli otto/dieci metri, il bompresso e il boma si estendevano ben oltre la prora e la poppa per quasi il doppio delle dimensioni dello scafo, rendendo queste imbarcazioni assai sensibili in termini di stabilità laterale in relazione alla potenza sviluppata dalle vele. Per meglio controbilanciare lo sbandamento l’equipaggio utilizzava sacchi di sabbia (ed ecco il perché del termine «sandbagger», poiché i sacchi erano spostati a ogni cambio di mure sul lato sopravento dello scafo per migliorare la stabilità). Va infine osservato che nel corso dei due conflitti mondiali la Royal Navy, sempre legata alla tradizione navale, lessicalmente definiva «sloop» unità medio piccole a propulsione esclusivamente meccanica impiegate per compiti di scorta e caccia antisom: un completo stravolgimento del termine, impiegato esclusivamente in relazione a una sua valenza tradizionale e del tutto svincolato dalle reali caratteristiche delle unità che identificava tra il 1914-18 e il 1939-45. (8) Come nel caso dello sloop, anche il cutter trovò un largo impiego militare, con imbarcazioni di questo tipo utilizzate in Europa e negli Stati Uniti dalle dogane e dalle Marine da guerra in funzione anticontrabbando e per operazioni navali costiere già tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. E, in analogia all’uso britannico ormai solo tradizionale del termine «sloop» (si veda la nota 7), ancora oggi la Guardia costiera statunitense fa precedere il nome delle proprie unità dall’acronimo «USCGC» (US Coast Guard Cutter) anche nel caso di moderne, grosse unità che nulla hanno a che spartire con il «cutter» delle origini. Nella Royal Navy dell’era contemporanea, nel solco della tradizione velica del passato, è denominata «Admiral’s cutter» la motobarca (dapprima a vapore e ora a propulsione Diesel) imbarcata su unità di grandi dimensioni per le necessità logistiche dello Stato Maggiore e dell’ammiraglio presente a bordo. (9) Inoltre, l’armo a «ketch» identificava anche nell’Ottocento e nei primi anni del secolo XX la cosiddetta «Thames Barge» (locuzione talvolta erroneamente tradotta in «Chiatta del Tamigi»), ossia un bastimento commerciale per cabotaggio costiero e navigazione fluviale di ambito britannico, per nulla riconducibile alla tipologia della «chiatta». (10) Cfr. G. Goldsmith-Carter, op cit. in bibliografia, pag. 89. Il dibattito tra i velisti sulla validità — o meno — dell’armo velico a yawl è tuttora in essere ed esistono posizioni abbastanza contrapposte nei principali circoli velici d’Europa e di oltreoceano. Si veda, per esempio, https://asa.com/news/2015/09/08/whats-in-a-rigthe-yawl/. (11) www.treccani.it/vocabolario/goletta2/. Il termine non va confuso con il porto tunisino di La Goulette (Halq el-Wadi) la cui etimologia va invece fatta risalire al «gullet», ossia al canale che collega Tunisi al suo porto. (12) L’armo velico della goletta America, con l’albero di maestra leggermente più alto del trinchetto e un elegante bompresso, era composto da rande auriche con boma e picco, controrande, fiocchi e vele di strallo. Armata con tre cannoni Dahlgren prese parte con la Marina dell’Unione alle operazioni navali nel corso della Guerra civile americana e sopravvisse sino al marzo 1942, quando una forte nevicata causò il crollo della struttura al cui interno era collocata, distruggendola completamente. (13) Somers, Bainbridge, Truxtun, Perry e Lawrence, eponimi ricorrenti ancora oggi nell’onomastica navale statunitense. (14) Si veda H.I. Chapelle, History of American Sailing Ships, Bonanza Books, New York 1988. (15) Exy Johnson e Irving Johnson. (16) Il terzo albero (mezzana) era seguito dal quarto, detto «bonaventura». (17) Classico esempio di questa tipologia è costituito dalla caracca Mary Rose del 1510-12, andata perduta in combattimento nei pressi dell’Isola di Wight nel 1545 e il cui relitto è oggi conservato all’interno di un’apposita struttura climatizzata dell’arsenale di Portsmouth. (18) Il termine «clipper» deriva dal verbo inglese «to clip», ossia «tagliare velocemente [le onde]», che ben definisce le qualità velocistiche di queste navi. I clipper britannici raggiungevano la Cina via Capo di Buona Speranza per caricare tè e l’Australia per imbarcare lana e, circumnavigando il globo, doppiavano Capo Horn risalendo l’Atlantico sino all’arcipelago britannico; molti clipper americani erano impiegati per il trasporto dell’oro dalla California alla costa orientale degli Stati Uniti, doppiando anch’essi — nelle navigazioni di andata e ritorno — Capo Horn. (19) Il Preussen fu investito dal piroscafo britannico Brighton il cui comandante, come fu appurato nel corso dell’inchiesta condotta dalle competenti autorità, aveva sottostimato l’elevata velocità della nave germanica. (20) Il Thomas W. Lawson non disponeva di propulsione meccanica ausiliaria e alcune piccole macchine a vapore erano utilizzate solo dai verricelli per la manovra delle vele. Costruito in acciaio, il Lawson era difficilmente manovrabile in acque ristrette e andò perduto a dicembre del 1907, nei pressi delle Isole Scilly (Canale della Manica), in seguito ai danni riportati nella sua ultima traversata atlantica che, con partenza da Filadelfia, avrebbe dovuto concludersi a Londra.
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Idrovolante RO 43 pronto per essere catapultato da una corazzata della classe «Littorio» (USMM).
La nascita e lo sviluppo dell’aviazione hanno dato luogo a una serie di infinite controversie nell’ambito delle istituzioni militari, dovute all’introduzione di un elemento nuovo, il potere aereo, che rompeva completamente la precedente ripartizione del mondo militare tra terra e mare. La capacità di sviluppare un’efficace integrazione del potere aereo da parte delle Marine è dipesa anzitutto dall’avere una visione strategica coerente in cui inserire questo elemento, oltre che da un contesto istituzionale favorevole in cui al dibattito facesse da contraltare una effettiva capacità di cooperazione interforze o il mantenimento di una stretta autonomia, le cui fondamenta stavano nella strutturazione politica delle Forze armate. In questo articolo presenteremo brevemente tre casi (giapponese, italiano tra le due guerre e statunitense del secondo dopoguerra) circa l’elaborazione della «risposta» aeronavale alla luce dei problemi strategici fronteggiati dai tre paesi e dei contesti istituzionali in cui le tre Marine operavano, per illustrare come la complessità del problema non possa ridursi, come viene spesso fatto nella pubblicistica, a una diatriba tra Aeronautica e Marina.
Il primo caso che esamineremo è quello nipponico. L’Aviazione Navale giapponese e le task force di portaerei che operarono nella prima fase della guerra del Pacifico sono passate alla storia come uno degli esempi meglio riusciti di innovazione dottrinaria e tecnica aeronavale, sviluppati da un paese con risorse inferiori a quelle degli avversari, soprattutto per la loro capacità di spostare, anche se temporaneamente, l’ago della bilancia nei rapporti di forza tra le parti (1).
La costruzione dell’arma aeronavale nipponica tra le due guerre risentì di alcune particolarità connesse alla situazione strategica giapponese, alle quali lo sviluppo dell’Aviazione Navale dovette conformarsi. Nel contesto immediatamente successivo alla Grande guerra, infatti, le capacità dell’Aviazione navale e soprattutto di quella imbarcata non erano ancora chiare e crearono forti discussioni in tutte le maggiori potenze navali sul futuro della guerra sul mare.
Il caso giapponese nelle sue fasi iniziali non fu molto differente da quello italiano, statunitense o britannico. Avendo osservato le innovazioni tecnologiche durante la Grande guerra, nei primi anni Venti la leadership politico-militare nipponica si convinse dell’enorme potenziale distruttivo che l’aviazione poteva avere, specie nel caso di un attacco contro le esposte isole metropolitane e del ruolo che le portaerei potevano eventualmente avere in un’azione di questo tipo. Da questo derivarono i tentativi nipponici di limitare il dislocamento e il numero delle portaerei durante la Conferenza navale di Washington (1922). Nel frattempo, complice la crescente rivalità con Stati Uniti e Gran Bretagna nel Pacifico orientale e il timore di rimanere al terzo posto nella competizione tecnologica con le altre due Marine, i giapponesi continuarono l’importazione di tecnologia straniera per potenziare la loro componente aeronavale. L’arrivo nella missione britannica del barone Sempill nel 1920 e le missioni inviate in Europa per studiare i ritrovati tecnici delle altre maggiori potenze furono la conseguenza di questa scelta (2).
L’Ammiraglio della Marina imperiale giapponese Isoroku Yamamoto con lo staff a bordo della YAMATO, costruita prima della Seconda guerra mondiale.
Già a metà degli anni Trenta, l’ammiraglio Yamamoto invocava «l’onnipotenza» del potere aereo anche sul mare (fonte immagine: en.wikipedia.org).
L’indipendenza della Marina giapponese le consentì di destinare risorse al comparto aeronavale nonostante le incertezze, in particolare circa la costruzione di portaerei, fossero notevoli, costringendo anche a un approccio sperimentale, riflessosi nella varietà di design che caratterizzò le costruzioni di portaerei nipponiche nella prima fase del loro sviluppo. Tuttavia, dal 1928, con la costituzione della prima divisione di portaerei, un intenso dibattito cominciò nell’ambito della Marina circa il ruolo che la nuova nave doveva occupare (3). Almeno fino a metà degli anni Trenta, i velivoli imbarcati non davano garanzia di affidabilità, capacità di carico e autonomia sufficiente per poter essere considerati in un ruolo indipendente e quindi le portaerei erano confinate a un ruolo ancillare alle navi da battaglia, dovendo provvedere alla difesa aerea e alla ricognizione per la flotta. Tuttavia, ritenendo che, in qualunque scontro aeronavale, il primo bersaglio dei velivoli imbarcati avrebbe dovuto essere la componente imbarcata nemica, gli aviatori navali cominciarono a valutare le portaerei nemiche come primo bersaglio da colpire nel corso di un’azione della flotta, segnando l’inizio di una rivoluzione tattica che ebbe anche implicazioni strategiche (4). Se agli inizi degli anni Trenta la Marina giapponese non aveva ancora una dottrina coerente, il miglioramento delle prestazioni dei velivoli, in particolare dei bombardieri in picchiata, permise di rafforzare ulteriormente l’indirizzo anti-portaerei nemiche presente nell’aviazione imbarcata, inserendola nella dottrina navale del periodo, secondo cui data l’inferiorità numerica giapponese occorreva colpire il nemico per primi da una distanza maggiore.
Nonostante questo, la preminenza degli ammiragli sostenitori della centralità della nave da battaglia continuò a dominare il pensiero operazionale giapponese, anche se alcuni leader più visionari, tra cui l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, già a metà degli anni Trenta invocavano «l’onnipotenza» del potere aereo anche sul mare. Tale espressione era più una valutazione prospettica e visionaria, ma non per questo meno giusta, di ciò che sarebbe accaduto e agiva da propulsore perché una parte della leadership navale giapponese si convincesse della centralità del potere aereo in ambito marittimo, nonostante il conservatorismo radicato nei vertici navali, os-
sessionati dalla costruzione delle «super» navi da battaglia che avrebbe dissipato risorse nella costruzione della classe «Yamato». Il dibattito interno negli anni Trenta fu condotto con toni aspri: al comandante della Flotta combinata, ammiraglio Sankichi Takahashi che chiedeva maggiori investimenti sulla componente aeronavale fu suggerito, dal ministro della Marina e dallo Stato Maggiore, di «farsi i fatti suoi» (5). Ciononostante, la ferma posizione da parte dei sostenitori dello sviluppo aeronavale fu fondamentale perché l’Aviazione Navale guadagnasse spazio e credibilità, progressivamente confermati dall’esperienza nell’addestramento.
Persisteva comunque anche un imperativo strategico a spingere lo sviluppo aeronavale nipponico. Infatti, fu la potenziale minaccia dal mare contro il territorio metropolitano giapponese che spinse, ai primi degli anni Trenta, a una rapida espansione dell’Aviazione Navale basata a terra, per renderla capace di difendere le esposte città costiere giapponesi e di utilizzare le basi della Micronesia per infliggere il massimo danno possibile a una eventuale forza statunitense in rotta verso il Pacifico occidentale per minacciare il Giappone. Capacità di percepire l’innovazione e sostenerla, pure in un contesto in parte ostile, data la presenza di molti «battleship admirals», crearono i presupposti perché il Potere Aeronavale giapponese crescesse alla vigilia della Seconda guerra mondiale. La Guerra in Cina, cominciata nel 1937, in cui l’Aviazione Navale fu largamente impiegata, servì da terreno sperimentale sia per il miglioramento dell’addestramento, sia per allargare le opzioni tattiche a disposizione. L’esperienza portò all’espansione dei compiti dell’aviazione imbarcata alla distruzione delle basi aeree nemiche e di altri bersagli a terra, oppure alla scorta dei bombardieri per missioni su lunghe distanze, motivo dal quale scaturì il design del caccia A6M Zero. Tale esperienza fu fondamentale per i successi dei primi sei mesi nella Guerra del Pacifico, in cui le forze aeronavali nipponiche si dimostrarono decisive sotto tutti i profili per il successo giapponese mostrandosi più preparate e tecnologicamente comparabili a quelle statunitensi (6).
Il caso della Marina giapponese è interessante, perché la mancanza di esperienza diretta e risorse inferiori a quelle dei potenziali rivali non limitarono lo sviluppo dell’arma aerea, sebbene lo subordinassero almeno fino alla fine degli anni Trenta al ruolo centrale che le navi da battaglia continuavano ad avere nelle teorie operazionali e tattiche nipponiche. È evidente che la mancanza di una aviazione indipendente incise favorevolmente su queste possibilità di sviluppo, ma alle spalle c’era un imperativo strategico, quello della difesa del territorio metropolitano dal mare, che servì da input costante lungo tutto il periodo considerato, accompagnati da leader navali innovativi, capaci di sostenere le loro posizioni nel dibattito interno con coerenza lungo tutto il periodo considerato e percepire il potenziale offensivo della componente aeronavale come superamento della tradizionale linea da battaglia.
Le vicende italiane degli stessi anni presentano sia forti differenze, sia alcuni spunti comparativi con il caso giapponese. Contrariamente alla Marina nipponica, l’esperienza aeronavale italiana della Grande guerra era ampia ed era anche stata una storia di successo, avendo costruito un’aviazione di Marina efficiente e numerosa (7). La coscienza dell’importanza che l’arma aerea poteva avere, sin dalla fine della guerra e nei primi anni Venti, fece emergere nella Regia Marina un gruppo di personalità a favore della costruzione di un’Aviazione navale adeguata e di navi portaerei, dando inizio anche a un importante dibattito interno che proseguì nel decennio successivo. Anche qui, la supposta importanza delle portaerei rifletteva una precisa necessità strategica, ovvero che, considerando l’ampiezza del Mediterraneo, in particolare della parte occidentale del bacino, dove le forze italiane avrebbero potuto confrontarsi con quelle francesi, i velivoli basati a terra non sarebbero stati abbastanza efficienti per la copertura della Squadra (8).
I tentativi di ottenere un’ampia Aviazione Navale e navi portaerei furono però bloccati dalla costituzione della Regia Aeronautica voluta dal governo fascista (1923) e dalle restrizioni di bilancio presenti nel periodo del ministero di Thaon di Revel (1922-25). Va detto che in parte questo fu dovuto all’opposizione del ministro alla Cooperazione con il vicecommissario all’Aeronautica Aldo Finzi (1923-25), il quale a sua volta lottava con un contesto di scarse risorse che rendevano la nuova Forza armata incapace di un effettivo supporto aeronavale per il momento (9).
L’esistenza di posizioni contrapposte all’interno della stessa Marina contribuì ulteriormente a indebolire la visione strategica in cui la componente imbarcata potesse avere un ruolo. Infatti, al termine di questa fase, nell’agosto 1925 fu lo stesso Comitato degli ammiragli, in particolare nella persona del Capo di Stato Maggiore Alfredo Acton, a rigettare l’ipotesi di costruire una portaerei date le specifiche condizioni geografiche in cui la marina doveva operare: «L’impiego di navi portaerei è indispensabile quando le azioni costiere degli idrovolanti sono situati su coste tanto lontane da non avere la sicurezza ch’essi possano concorrere con l’impiego della flotta. Ora le coste tirreniche sono tali che, tenuto anche conto di quella maggiore autonomia che è pur prevedibile che abbiano ad acquistare gli aerei, il mare che le bagna può essere tutto vigilato da apparecchi costieri. Lo stesso succede per le coste adriatiche e lo stesso per quelle sicule che fiancheggiano la zona tunisina ed il canale di Malta. Nei mari ora indicati abbiamo dunque la sicurezza che l’idrovolante costiere ci dà completa garanzia di supplire in tempo, non solo al servizio di vigilanza ma anche quello del bombardamento; e lo stesso succede per la zona di circa 200 miglia che dalla Sardegna si estende sino alle Baleari» (10).
Nel periodo seguente, in cui Giuseppe Sirianni fu prima sottosegretario e poi ministro (1925-33), questa posizione fu nuovamente invertita. Ernesto Burzagli, Capo Di Stato Maggiore dal 1927 al 1930, assieme al suo vice Romeo Bernotti, tornò a premere perché una nave di questo tipo fosse realizzata, ritenendo troppo esposta la Squadra all’azione aerea nemica e progetti furono studiati in tal senso. Questa volta a ostacolare gli intenti della Marina fu la Regia Aeronautica, ora controllata da Italo Balbo. Nella seconda metà degli anni Venti, la nuova Forza armata stava, infatti, ancora costruendo la sua identità, centrandola attorno alla dottrina del bombardamento strategico di matrice douhettiana e perciò, date anche le scarse risorse italiane, aveva come necessità politica oltre che militare, il mantenimento del controllo di tutti i reparti di volo. In un sistema policratico, come quello dell’Italia fascista, dove le Forze armate competevano per le risorse senza una cooperazione e ripartizione basata su presupposti strategici comuni, questo permise a Balbo, figura carismatica ed esponente di rilievo del regime, di marginalizzare le richieste della Marina (e dell’Esercito) di una aviazione maggiormente orientata al supporto interforze e quindi anche di respingere le richieste di portaerei (11). Tale atteggiamento si riflesse ugualmente nel numero relativamente contenuto di esercitazioni congiunte che rallentarono lo sviluppo della dottrina aeronavale italiana.
Con l’accelerazione del processo di riarmo nei primi anni Trenta, il Capo di Stato Maggiore Gino Ducci (1930-34), ritenendo fondamentale disporre di una componente aeronavale efficace per attaccare le basi navali nemiche, premette attivamente per ottenere un rafforzamento dei reparti della Regia Aeronautica destinati alla cooperazione con la Marina, proponendo anche che l’istituzione si facesse carico dell’acquisto dei velivoli aerosiluranti per conto dell’aviazione, perorando anche la costruzione di portaerei. Il nuovo sottosegretario (1933-40) e Capo di Stato Maggiore (dal 1934) della Marina, Domenico Cavagnari, nonostante il suo personale scetticismo sull’utilità della nave, inizialmente si dimostrò possibilista, mettendo allo studio i progetti per la nave che furono affidati a Umberto Pugliese (12). Parte di questo scetticismo, condiviso da altri ammiragli, era dovuto al ritenere che l’Aviazione Navale non avesse ancora raggiunto la capacità di infliggere danni decisivi alle navi da battaglia, le quali nelle loro versioni più moderne avrebbero potuto resistere agli attacchi aerei orizzontali, lasciando il cannone come arma più efficace in uno scontro navale (13). Posizioni che comunque trovavano riscontro anche in buona parte della leadership navale di altre potenze, dove però, come abbiamo visto nel caso giapponese, esistevano leader innovativi in posizioni di potere capaci di promuovere comunque l’innovazione.
L’urgenza di rafforzare la componente aeronavale si manifestò con forza nel corso della crisi mediterranea del 1935-36, seguita all’invasione italiana dell’Etiopia, che vide parzialmente mobilitate la Regia Marina e la Royal Navy nel Mediterraneo. In quella concitata fase, i vertici navali chiesero che la Regia Aeronautica ponesse gran parte del suo potenziale sforzo al servizio della cooperazione aeronavale, ma le forze disponibili, dato anche l’impegno africano, erano ridotte. Lo Stato
L’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, ministro della Regia Marina (al centro). Durante il suo incarico ministeriale (1922-25), l’obiettivo di ottenere un’ampia Aviazione Navale ha dovuto fare i conti con le restrizioni di bilancio e la costituzione della Regia Aeronautica (USMM).
Maggiore, conscio che in un futuro confronto con i britannici le possibili operazioni avrebbero dovuto estendersi ben oltre il Mediterraneo centrale, inserì nei suoi piani per l’espansione della flotta l’ipotesi di almeno 2 navi portaerei. Tali intenti, che esprimevano il parere tecnico dello Stato Maggiore, furono però bloccati dalla scelta politica, operata da Mussolini e Cavagnari, di rinunciare alla costruzione delle navi, ritenendo che il risultato nel confronto nel Mediterraneo, terminato con l’inazione britannica, avesse dimostrato il timore di subire perdite da parte della Royal Navy dovute alla superiorità italiana in sommergibili e velivoli basati a terra. Da quel momento, la visione strategica adottata dalla Marina, ovvero centrare tutte le sue energie sulla difesa del Mediterraneo centrale da un’eventuale offensiva navale anglo-francese, pensando a uno scontro decisivo, portò a scartare la necessità di questo tipo di nave, nonostante nella pianificazione per le future costruzioni dello Stato Maggiore comparisse, ancora nel 1938, l’ipotesi di costruire più esemplari (14). Piani che comunque rimasero sulla carta, mentre il dibattito interno censurava le opinioni «dissidenti» in tema aeronavale (15). La Regia Aeronautica nel frattempo, nonostante attraversasse una fase di fortissima crisi dottrinaria, dovuta al fatto che le esperienze in Etiopia e in Spagna mostravano la sua maggiore utilità nell’impiego interforze, continuò a preservare gelosamente la sua autonomia, temendo i rischi di una subordinazione alle esigenze dell’Esercito e della Marina.
Se, per quanto riguarda la mancanza di cooperazione con l’aviazione basata a terra fu decisivo il caos istituzionale creato dal regime fascista e la mancanza di uno Stato Maggiore generale efficace, alla cui creazione la Marina pure si era opposta, nel caso della portaerei alcune responsabilità interne all’istituzione ci furono, frutto appunto di visioni strategiche e dottrinarie contrapposte. Come è noto, nella seconda metà degli anni Trenta, la posizione di abbandono dell’utilità della portaerei fu sposata dallo stesso Sottosegretario Cavagnari (16). Si trattava di posizioni che abbiamo visto avere riscontro sin dagli anni Venti e condivise anche da alcuni pensatori di primo piano come Giuseppe Fioravanzo, che pure sosteneva in generale l’utilità di questo tipo di nave, ma la negava per le specifiche condizioni
geografiche dell’Italia (17). Posizioni analoghe le espressero anche comandanti di rilievo come Iachino che nell’almanacco navale del 1938 scriveva la portaerei poteva essere necessaria per marine destinate a una proiezione oceanica (18). Analogamente l’Ammiraglio Sansonetti in un suo articolo pubblicato sul Brassey Naval Annual, dello stesso anno giudicava la portaerei non indispensabile per l’Italia sempre a causa della peculiarità geografica del paese e del rapido sviluppo dei velivoli (19). Possiamo osservare come queste opinioni si basavano sull’ipotesi che una aviazione navale basata a terra fosse sufficiente per la copertura delle operazioni nel Mediterraneo centrale, ovvero in uno spazio di proiezione limitato che aveva i suoi confini occidentali nelle acque prospicenti il Mar Ligure, la barriera delle isole Sardegna e Corsica e la Tunisia e quelli orientali nelle acque a ovest di Creta. Tale spazio era coperto dalle basi aeree italiane, ma nonostante questo già molto prima della guerra la rivalità interforze con l’Aeronautica avesse già dato ampi segni di malfunzionamento, tanto che nel 1931 il capo di stato maggiore Ducci affermava che: «La difesa della flotta nelle azioni prevedibili resta così nulla» (20). In sostanza, i
L’idrovolante RO 43 in ammaraggio (USMM).
sostenitori della non necessità della portaerei risentivano del clima politico del tempo.
Era una impostazione opposta rispetto a quella dei pensatori navali più innovativi, come Ducci, Bernotti e Burzagli, che invece nel decennio precedente avevano rivendicato la necessità della portaerei come strumento preliminare per il funzionamento a livello operazionale della flotta e per proiettare la Squadra fuori dalle «acque di casa», rispondendo a un maggiore spirito offensivo, ritenuto necessario data l’inferiorità numerica italiana e la ricerca di una proiezione di potenza mediterranea invocata dal fascismo. La rivendicazione esterna da parte dell’Aeronautica e il silenzio del sottosegretario Cavagnari contribuirono a questa situazione, come ricordato da Romeo Bernotti nelle sue memorie, quando l’ammiraglio Ducci nel 1935 provò a porre la questione a Mussolini, rappresentando in realtà quelle frange del pensiero navale italiano che aveva continuato a rivendicare dall’interno dell’istituzione la necessità della nave portaerei, ostacolate dal clima politico del tempo (21).
In realtà, questo creò i presupposti perché la cooperazione aeronavale non funzionasse, specie per la mancanza di un’aviazione imbarcata che anche nelle acque del Mediterraneo centrale era necessaria per operare. Gli effetti di questa mancanza si fecero sentire precocemente nel corso dello scontro di Punta Stilo (9 luglio 1940), come metteva in luce la relazione di Supermarina sullo scontro: «I velivoli da ricognizione inglesi hanno potuto seguire indisturbati la nostra flotta, fornendo preziose e continue informazioni al loro comandante in capo, perché è a noi mancata la possibilità di obbligarli ad allontanarsi mediante l’invio di apparecchi da caccia, apparecchi che per la loro limitata autonomia non possono trovare impiego in mare largo se non partendo da navi
portaerei al seguito della flotta. La presenza della nave portaerei al seguito della flotta inglese, oltre a permettere di contrastare l’attività dei nostri aerei da ricognizione e da bombardamento, ha consentito al nemico di effettuare attacchi con idrosiluranti che, per quanto sventati con la manovra, hanno tuttavia scompaginato le formazioni attaccate ritardando la riunione col resto delle nostre forze» (22).
Come è noto l’aviazione imbarcata britannica poi mostrò tutto il suo potenziale offensivo a Taranto (11 novembre 1940) (23). Un ultimo elemento, infine, da considerare è che il ritardo accumulato non poté essere recupe- Elicottero Sikorsky R4B della U.S. Coast Guard in fase di decollo dalla piattaforma poppiera della NORTHWIND il 2 gennaio 1947 (history.navy.mil). USS rato «in corsa» durante la guerra, rendendo la componente aeronavale italiana la meno una presenza globale flessibile che poteva essere gaefficace tra le maggiori potenze navali dell’epoca. La rantita solo dalla Marina. Al tempo stesso però gli ammancanza di una portaerei come strumento integrato miragli affrontavano uno scenario in cui l’aviazione nella flotta ebbe un peso notevole a riguardo e in ge- statunitense, istituita come branca indipendente nel nerale la Regia aeronautica data la sua scarsa attenzione 1947, poteva offrire, attraverso la «air-atomic straal problema aeronavale si dimostrò la forza meno effi- tegy», la possibilità di attacchi rapidi e decisivi in prociente tra quelle dell’Asse nel Mediterraneo, affon- fondità contro il territorio nemico. Il tutto mentre da dando tra il 1940 e il 1943 il 15,3% del tonnellaggio parte del mondo politico, alla luce dell’esperienza della da guerra e mercantile alleato in questo scenario contro guerra appena terminata, cresceva la pressione per una il 27,9% della Marina (24). Se la necessità di adatta- maggiore integrazione interforze, espressa dal National mento a nuovi scenari strategici e a nuove tecnologie security act del 1947 e dalla creazione dell’ufficio del accomunava la sfida posta davanti alle Marine giappo- Segretario alla Difesa nel 1949. Il rischio effettivo era nese e italiana, il discorso è analogo per quella statuni- che la Marina fosse privata della sua componente aetense nel secondo dopoguerra, chiamata a rispondere ronavale per conferirla alla neonata US Air Force alla domanda che il segretario alla Marina James V. (1947), nell’ambito di una razionalizzazione che semForrestal provocatoriamente propose al comitato della brava orientarsi verso un controllo totale di ciascuna camera statunitense per la Marina nel settembre 1945: delle tre Forze armate sui mezzi destinati a operare nel«perché dovremmo mantenere una Marina dopo questa l’elemento (aria, acqua, terra) di riferimento. In questo guerra?» (25). La risposta doveva trovare origine nei nuovo scenario, l’US Navy dovette trovare una risposta cambiamenti strategici e tecnologici fronteggiati dagli dottrinaria che si confacesse allo scenario internazioStati Uniti in quella fase. nale e politico, permettendole di conservare la struttura
Chiamate al contenimento dell’influenza sovietica, di forza multiruolo aeronavale che le aveva permesso le Forze armate di Washington avevano la necessità di di vincere la guerra nel Pacifico.
La risposta arrivò con il rifiuto da parte dei leader navali statunitensi di un ruolo difensivo per la Marina, centrato sulla scorta a eventuali trasporti diretti verso l’Europa. In parte, questo si riflesse nell’emergere di una fazione di entusiasti riguardo le potenzialità dell’arma atomica. Approfittando del fatto che l’aviazione statunitense non aveva ancora abbastanza bombardieri e basi avanzate per poter preparare una strategia di risposta atomica rapida in caso di conflitto, lo scopo della Marina avrebbe dovuto essere battere l’aviazione al suo stesso gioco, costruendo una propria forza aerea strategica capace di lanciare un’offensiva aerea atomica rapida e decisiva. Tale approcciò però appariva riduttivo a gran parte dei vertici navali, soprattutto per la sottovalutazione della complessità dei problemi strategici che una guerra contro l’Unione Sovietica avrebbe comportato, traducendosi plausibilmente in un conflitto piuttosto lungo (26).
Già dal 1945-46, Ernest J. King e Chester V. Nimitz, quest’ultimo diventato capo delle operazioni navali nel dopoguerra, avevano sottolineato che lo scopo della Marina non doveva essere solo combattere altre flotte, perché il controllo marittimo era solo uno dei mezzi a disposizione in una guerra integrale e il Potere Navale un elemento per acquisire, conquistare e coprire posizioni strategiche. Partendo da questi presupposti, tra il 1946 e il 1947, il vicecapo delle operazioni navali, viceammiraglio Forrest Sherman, codificò una nuova dottrina prevedendo il mantenimento delle capacità multiruolo della Marina con al centro la componente aeronavale, dotata della capacità di attuare attacchi sia convenzionali, sia atomici, inserendola nel contesto della prima fase della Guerra Fredda (27).
In quegli anni, lo scenario plausibile di un conflitto avrebbe visto una rapida avanzata sovietica nell’Europa continentale. Nel corso di questa fase lo scopo della Marina avrebbe dovuto essere evacuare le forze statunitensi dal continente e poi guadagnare e mantenere basi avanzate intorno allo stesso (Spagna, parte dell’Italia e Regno Unito). Sarebbe seguita una controffensiva, per riconquistare l’Europa occidentale, dopo la mobilitazione dell’economia statunitense. In questa fase il controllo del mare era fondamentale per trasportare e rifornire le forze occidentali destinate a riprendere il controllo dei territori persi, mentre alle spalle del fronte il superiore potenziale aereo e atomico statunitense avrebbe attaccato il territorio nemico e le sue reti logistiche.
La sicurezza delle comunicazioni marittime occidentali però non era minacciata da una grossa forza di superficie, in quanto la Marina sovietica non aveva portaerei e solo poche navi da battaglia, per la maggior parte obsolete, per di più isolate in differenti flotte separate geograficamente, sparse nei vari mari che bagnavano il territorio sovietico. La vera minaccia semmai era costituita dalla flotta subacquea sovietica, forte di circa 250 battelli nel 1948 e dall’impiego di mine, lanciabili dai 2.400-3.000 aerei stimati a disposizione dell’Aviazione navale sovietica. A questo si aggiungeva il fatto che nell’arco di pochi anni, i sovietici plausibilmente avrebbero migliorato le qualità tecniche dei loro battelli, avendo avuto accesso alle nuove tecnologie del sottomarino tedesco «Tipo XXI», che rendevano in parte inefficaci le tecnologie e le tattiche antisommergibile ereditate dalla Seconda guerra mondiale (28).
Data la centralità del problema antisommergibile, come strumento di protezione delle comunicazioni e la difficoltà di un approccio difensivo pienamente efficace, la soluzione escogitata fu l’adozione di una postura offensiva, centrata sulla possibilità di impiegare attacchi aerei contro le basi nemiche di sommergibili. Tuttavia, questo implicava portare le forze aeronavali a distanza ravvicinata delle basi aeree nemiche, esponendo le vulnerabili portaerei agli attacchi dei bombardieri nemici. Tuttavia, in quel particolare frangente, data la debolezza tattica dell’aviazione nel provvedere ad attacchi di precisione, le portaerei potevano offrire anche la possibilità di attacchi di sorpresa condotti con accuratezza proprio contro le basi che costituivano una potenziale minaccia ai loro danni. Sherman, in questo modo, elaborò una dottrina che conferiva nuova centralità alla componente aeronavale imbarcata, inserendola sia nell’ambito del tradizionale ruolo di controllo delle rotte marittime, al servizio della controffensiva in Europa, sia nell’ambito della strategia aerea volta a colpire il territorio sovietico supportata dall’aviazione. Infine,
spingendo queste capacità al limite, Sherman ipotizzò anche di impiegare le portaerei per sostenere le forze di terra impiegate in Europa continentale e in Medio Oriente, in attesa che l’aviazione si mobilitasse appieno, motivo per il quale voleva una forza offensiva di grandi dimensioni da dislocare nel Mediterraneo (29). La Marina statunitense entrò così nell’era atomica offrendo una visione che coniugava l’integrazione interforze complessiva del proprio strumento aeronavale nell’ambito dei nuovi problemi strategici emersi in seguito all’invenzione delle armi nucleari e alla maturazione del confronto bipolare con l’Unione Sovietica. Il tutto era il riflesso di una nuova capacità di cooperazione istituzionale, inserita nell’ambito della risposta al problema strategico fronteggiato dagli Stati Uniti nel loro complesso. Sfortunatamente questa strategia sarebbe stata messa immediatamente in crisi dal problema del controllo delle armi nucleari, che dominò le rivalità interforze statunitensi negli anni Cinquanta, iniziata con la «rivolta degli ammiragli» del 1949, complice la pretesa del monopolio atomico da parte del SAC (Strategic Air Command) che avrebbe portato a una decisa preminenza dell’Aeronautica nei programmi militari degli anni avvenire. A «salvare» la Marina statunitense avrebbe provveduto la Guerra di Corea (195053), evidenziando l’imprescindibilità del Potere Aeronavale come strumento di proiezione e disponibilità immediata in mancanza di basi dato che furono le portaerei a provvedere al supporto immediato nella prima fase della guerra (30).
Le tre esperienze che abbiamo presentato sono molto diverse, ma presentano alcuni punti in comune. Lo sviluppo delle forze aeronavali in questi casi avvenne come risposta a un problema strategico ben definito, da ciò la necessità di un dibattito interno ed esterno all’istituzione capace di identificare come lo sviluppo aeronavale si inserisce nell’ambito delle sfide strategiche del paese. Nel caso in cui la risposta strategica era affidata a una sola Forza armata, quello giapponese, gli ostacoli principali
La USS FORT MARION,
impiegata durante la Guerra di Corea (history.navy.mil).
potevano venire solo dall’interno dell’istituzione e fondamentale da questo punto di vista fu l’esistenza di un gruppo di ufficiali capaci di promuovere l’innovazione. In Italia, dove questo gruppo esisteva, ma doveva fronteggiare una doppia opposizione interna ed esterna, l’innovazione aeronavale finì coll’essere rallentata, nonostante la cognizione del problema strategico. Il caso statunitense costituisce una risposta a questo problema, l’istituzione reagì alla messa in discussione della sua autonomia aeronavale con un’idea innovativa capace di integrarsi sia in un contesto interforze, sia nell’ambito della air-atomic strategy promossa dall’aviazione, sia della maggior integrazione richiesta a livello politico per fronteggiare i problemi strategici della Guerra Fredda. L’ipotesi fallì non tanto per la bontà dell’idea quando per l’intervento politico, salvo essere in parte salvata dal conflitto coreano. Un ultimo elemento infine va considerato; l’efficienza di nuove strategie, piani di operazione, tattiche e mezzi si basa sull’esperienza, quindi l’adozione di nuovi mezzi e delle possibilità di sviluppo prodotto di una certa capacità di innovazione, messa in discussione e sperimentazione da parte della leadership navale, per essere efficace nel medio e lungo periodo. Perché ciò sia possibile è necessario un processo di continua di identificazione dei problemi, esplorazione delle soluzioni e infine implementazione, garantendo flessibilità, iniziativa e libertà di dibattito tanto quanto una dottrina unificata (31). 8
NOTE
(1) Craig S. Symmonds, World War II at Sea: A global history, Oxford University Press, Oxford 2018, p. 196. (2) John Ferris, A British “Unofficial” aviation mission and the Rise of Japanese naval air power, 1919-1925, in Donald Stoker, Michael T. McMaster, Naval Advising and Assistance: History, challenges and analysis, Helion, Solihull 2017, pp. 87-116. (3) Thomas C. Hone, Mark D. Mandales, Interwar Innovation in Three Navies: U.S. Navy, Royal Navy, Imperial Japanese Navy, in Naval War College Review, Spring 1987, Vol. 40, No. 2, pp. 69-70. (4) Wayne P. Hughes, Robert P. Girrer, Fleet tactics and naval operations, Naval Institute Press, Annapolis 2018, pp. 78-79. (5) David C. Evans, Mark R. Peattie, Kaigun, Strategy, tactics and Technology in the Imperial Japanese Navy, 1887-1941, Naval institute press, Annapolis 2012, p. 339. (6) Mark R. Peattie, Sunburst, The rise of Japanese naval air power, 1909-1941, Naval institute press, Annapolis 2001, pp. 102-128. (7) La somma di queste esperienze è descritta in: Michele Cosentino, L’aviazione della Regia Marina durante la Prima guerra mondiale, USMM, Roma 2018; Gino Galuppini, La forza aerea della Regia marina, USMM, Roma 2012. (8) Si vedano a riguardo le perplessità sulle capacità operative dell’Aeronautica espresse dal Capo di Stato maggiore Ducci relativamente al Mediterraneo occidentale in Antonello Biagini, Alessandro Gionfrida, Lo Stato Maggiore Generale fra le due guerre, Verbali delle riunioni tenute da Badoglio dal 1925 al 1937, USSME, Roma 1997, pp. 280-281. (9) John Gooch, Mussolini and his generals, The Armed Forces and the Fascist Foreign Policy, 1922-1940, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 54-58. (10) AUSMM, Registri del comitato degli ammiragli, Adunanza dell’11 agosto 1925, pp. 2-4. (11) Claudio G. Segré, Italo Balbo, Una vita fascista, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 233-234. (12) Puntualizza questa tensione tra Cavagnari e le richieste degli ammiragli, Alberto Santoni, La mancata risposta della Regia marina alle teorie di Douhet, Analisi storica del problema della portaerei in Italia, in La figura e l’opera di Giulio Douhet, Atti del convegno di Caserta-Pozzuoli, 12-14 aprile 1987, pp. 257-269. (13) Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996, p. 314. (14) Robert Mallett, The Italian Navy and the Fascist expansionism, 1935-1940, Frank Cass, Londra 1998, p. 112. (15) Romeo Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, Mursia, Milano 1971, pp. 247-248. (16) Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Legislatura XXIX, 1a SESSIONE, Discussioni, Tornata del 15 marzo 1938, pp. 4696-4697. (17) Giuseppe Fioravanzo, Arte Militare marittima, Vol. III, Livorno 1926, p. 1590. (18) Angelo Iachino, La composizione e il proporzionamento di una flotta, in Almanacco navale, ministero della Marina, Roma 1938, p. 33. (19) Luigi Sansonetti, The Royal Italian Navy, New defensive duties for the Italian Navy, in Brassey’s naval annual, Londra 1938, p. 84 (20) AUSMM, Riassunto delle decisioni prese nelle riunioni tra i capi di stato maggiore nella 3a e 4a seduta del 1931, p. 2. (21) Lettera di Ducci a Bernotti, 28 agosto 1956, in Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, p. 234. (22) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 3, Supermarina, Relazione sulle operazioni navali dei giorni 6,7,8 e 9 luglio 1940, pp. 45-46. (23) Francesco Mattesini, La battaglia di Punta Stilo, USMM, Roma 1990, p. 189. (24) Le cifre sono in Alberto Santoni, Francesco Mattesini, La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo, Bizzarri, Roma 1980, tabelle A e B. (25) La domanda fu pronunciata al senato il 19 settembre 1945, Forrestal rispose che non era possibile combattere i nuovi nemici degli Stati Uniti senza un’adeguata capacità di proiezione che passava attraverso il mare, Statement of Hon. James Forrestal, Secretary of the Navy, Hearings Before the Committee on Naval Affairs of the House of Representatives on Sundry legislation affecting the naval establishment, 1945, United States Government Printing Office, Washington 1946, p. 1164. (26) Edward Kaplan, To Kill Nations, American Strategy in the Air-Atomic Age and the Rise of Mutually Assured Destruction, Cornell University Press, Itacha-London 2015, pp. 49-56. (27) George W. Baer, One Hundred Years of Sea Power, The U.S. Navy 1890-1990, Stanford University Press, Stanford 1993, pp. 314-315. (28) Norman Friedman, The post-war naval revolution, Naval institute Press, Annapolis 1986, p. 25. (29) Edward J. Sheehy, The U.S. Navy, the Mediterranean, and the Cold War, 1945-1947, Greenwood, Westport, pp. 108-109. (30) Eric J. Marolda, The U.S. Navy in the Korean War, Naval Institute Press, Annapolis 2007, p. 35. (31) Trent Hone, Learning War. The Evolution of the Fighting doctrine in the U.S. Navy, 1898-1945, Naval institute press, Annapolis 2018, pp. 338-339.
BIBLIOGRAFIA
Michele Cosentino, Le portaerei italiane. Dai primi studi del 1912 al Cavour, Albertelli, Parma 2005. Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996. David C. Evans, Mark R. Peattie, Kaigun. Strategy, tactics, and technology in the Imperial Japanese navy, 1887-1940, Naval institute press, Annapolis 1997. Norman Friedman, The Postwar Naval Revolution, Naval Institute press, Annapolis 1986. Edward Kaplan, To Kill Nations, American Strategy in the Air-Atomic Age and the Rise of Mutually Assured Destruction, Itacha-London 2015. Mark R. Peattie, Sunburst: The Rise of Japanese Naval Air Power, 1909-1941, Naval institute Press, Annapolis 2001. Geoeffry Till, Adopting the aircraft carrier, The British, American and Japanese case studies, in Williamson Murray, Alan R. Millett, Military innovation in the interwar period, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 191-226. Thomas Wildenberg, Billy Mitchell’s War with the Navy. The Interwar Rivarly over air power, Annapolis, Naval Institute press, 2013.