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Osservatorio internazionale

Sudan ed Etiopia: una pace difficile

Nella seconda metà di dicembre l’Esercito sudanese ha dichiarato di essere stato vittima di un’imboscata da parte delle Forze armate etiopi nei pressi del confine tra i due Stati. Gli scontri sarebbero avvenuti al ritorno di una pattuglia presso la sua base di Jebel Abutiour. Nella dichiarazione l’Esercito non ha fornito dettagli sugli scontri, a parte il fatto che un suo reparto sarebbe caduto in un’imboscata da parte di «forze e milizie etiopi». Infine, l’Esercito di Khartoum ha affermato la sua determinazione a difendere i confini e respingere qualsiasi aggressione. La zona è un importante punto di contesa tra il Sudan e l’Etiopia e si aggiunge a uno scenario regionale peggiorato. È un terreno agricolo molto fertile, coltivato per 25 anni dai contadini etiopi Amhara. Questo territorio appartiene legalmente al Sudan, che l’Etiopia non mette in discussione, anche se per anni ne ha avuto il controllo diretto. Il problema è emerso recentemente; infatti gli etiopi civili che vi abitano sono protetti dalle milizie della vicina provincia di Amhara, che fungono da braccio armato supplementare per le forze federali etiopi, nel recente conflitto contro le forze del Tigrai. Queste milizie, che i sudanesi chiamano in senso peggiorativo «shiftas» (banditi), sono accusate di compiere regolari incursioni per rubare bestiame o compiere sequestri a scopo di estorsione. È stato quindi grazie al conflitto in Tigrai che l’Esercito sudanese ha preso il pieno controllo di questo territorio agricolo che si estende per oltre 250 chilometri quadrati. Questa zona rappresenta migliaia di ettari di terreno fertile e coltivabile. Una questione economica e alimentare cruciale per gli abitanti (e per Khartoum). La regione è nota per la sua violenza e i traffici illeciti. L’Esercito sudanese avrebbe quindi beneficiato del ri-dispiegamento delle truppe etiopi a seguito dell’emergenza del Tigrai. Secondo diverse fonti, i soldati di Khartoum avrebbero così preso il controllo dei settori confinari di Kurdia, Jebel Tayara e Khor Yabis, occupati dagli etiopici da 25 anni.

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Una nuova crisi fra Somalia e Kenya

Il Corno d’Africa, nonostante alcune occasionali fasi positive, sembra non riesca a uscire dal tunnel delle crisi, siano esse interstatali, intrastatali o tribali/claniche, economiche (siccità, locuste). L’ultima vicenda, in ordine di tempo è la sospensione delle relazioni diplomatiche tra Somalia e Kenya le cui relazioni si sono inasprite su diverse questioni, compreso il sostegno di Nairobi al governo della regione federale somala del Giuba, al confine con il Kenya, in conflitto con il governo di Mogadiscio. La Somalia ha annunciato di aver sospeso i legami con Nairobi, accusando il suo vicino di interferire nei suoi affari interni in previsione delle elezioni anticipate del 2021. Il brusco peggioramento si è avuto quando il Kenya a metà dicembre ha ospitato Muse Bihi Abdi, presidente del Somaliland, entità autoproclamatasi indipendente, non riconosciuta da Mogadiscio. I diplomatici kenioti a Mogadiscio hanno avuto sette giorni di tempo per lasciare il paese, alla stregua dei rappresentanti della Somalia richiamati in patria. Il ministro somalo dell’Informazione, Osman Abukar Dubbe, ha dichiarato: «Il governo somalo considera il popolo del Kenya Modadiscio, il comandante AMISOM, generale Diomede Ndegeya, durante una riunione da remoto con i sectors Commanders (AMISOM). una comunità amante della pace che vuole vivere in armonia con le altre comunità della regione. Ma l’attuale leadership sta lavorando per allontanare le due parti», aggiungendo che: «Il governo somalo ha preso questa decisione per rispondere alle ricorrenti interferenze del Kenya contro la nostra sovranità». Questa nuova crisi arriva in un momento difficile. Mentre i due paesi hanno avuto problemi in passato, il Kenya, che ospita circa 200.000 somali nei campi profughi nell’est del paese (ma anche a Nairobi), è anche un importante contributore di truppe all’operazione militare dell’Unione Africana (AMISOM), con quasi 4.000 militari, schierati nel Giubaland e combattendo gli insorti del movimento terrorista islamista di al-Shabaab che hanno colpito pesantemente

sia il Kenya, sia la Somalia dal 2004. Il ministero degli Esteri keniota ha usato toni concilianti, ma oggettivamente il peggioramento delle relazioni non è di oggi. Nel novembre 2019, entrambi i paesi hanno reintrodotto i visti di ingresso dopo una disputa territoriale su una zona dell’oceano Indiano, rivendicata da entrambi, in cui si ritiene vi siano importanti giacimenti di petrolio e gas. All’inizio del 2019, la Somalia ha iniziato a mettere all’asta blocchi di petrolio e gas nell’area contesa, riaccendendo la controversia. Il Kenya ha richiamato il suo ambasciatore da Mogadiscio nel febbraio scorso.

Operazione statunitense Octave Quartz in Somalia

Gli Stati Uniti hanno inviato, l’ultima settimana dello scorso dicembre, un Gruppo navale anfibio forte di 2.500 marines nelle acque al largo di Mogadiscio. L’operazione Octave Quartz aveva il compito di costituire, in cooperazione con le forze regolari somale e dell’AMISOM, un corridoio di sicurezza necessario per l’imbarco di circa 800 consiglieri militari statunitensi presenti in quel paese. Questo, obbedendo a un ordine del presidente Trump, in ossequio alla sua idea di ridurre la presenza militare degli Stati Uniti all’estero. L’operazione, non indenne da rischi, vista la letalità delle milizie islamiste Al Shabab, si è invece conclusa senza problemi e il personale ritirato, proveniente in gran parte da unità dipendenti dall’USSOCOM, avrà come assegnazione sia il rientro negli Stati Uniti, sia il trasferimento nella base del vicino Gibuti (Camp Lemonnier) sia, infine, in Kenya.

Il comunicato dell’AFRICOM, che supervisionava l’intera operazione ha tuttavia riferito della «maggioranza» del personale, lasciando intendere che un’aliquota, non si sa quanto ampia, resterà in Somalia. Il Makin Island Amphibious Ready Group (ARG), che trasportava membri della 15a Marine Expeditionary Unit (MEU), ha operato protetto a sua volta da un Gruppo navale guidato dalla portaerei Nimitz e il suo gruppo d’attacco, composto dagli incrociatori Princeton e Philippine Sea e dal cacciatorpediniere Sterett. Marcando la differenza con le decisioni del presidente Trump, il generale dell’USAF, Dagvin Anderson, comandante della Joint Task Force Quartz (e comandante della componente delle operazioni speciali dell’AFRICOM) ha messo in chiaro che gli Stati Uniti non si stanno ritirando o disimpegnando dall’Africa orientale e che restano impegnati ad aiutare i partner africani. Per memoria, il 4 dicembre, il Pentagono ha annunciato che il presidente Trump aveva ordinato il ritiro delle truppe statunitensi in Somalia e che aveva precedentemente ordinato di ridurre il numero delle truppe in Afghanistan da 4.500 a 2.500 e in Iraq da 3.000 a 2.500, da compiersi entro il 15 gennaio.

Etiopia: un costruttore di pace attualmente in guerra

L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato la candidatura dell’Etiopia alla Commissione per il Consolidamento della pace (PBC) per un periodo di due anni (2021-22). L’Etiopia è uno dei maggiori contributori africani alle operazioni di peacekeeping dell’ONU con quasi 7.000 tra militari e personale di polizia (appena sotto il Ruanda). La Peace Building Commission è un organo consultivo intergovernativo che sostiene gli sforzi per consolidare i processi di pacificazione nei paesi colpiti da conflitti. È composto da 31 Stati membri, eletti dagli organismi più importanti, l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e il Consiglio economico e sociale (ECOSOC). Ne fanno parte anche i principali paesi contributori finanziari e i quelli che contribuiscono in misura maggiore alle operazioni di peacekeeping con personale militare e di polizia. Anche se poco conosciuta rispetto alle attività del Consiglio di sicurezza, l’architettura dell’ONU per il consolidamento della pace è piuttosto complessa e comprende, oltre alla PBC, il Fondo per il consolidamento della pace e l’Ufficio di sostegno per il consolidamento della pace. Quest’ultimo assiste e sostiene la Commissione per il consolidamento della pace con consigli strategici e orientamenti politici, amministra il Fondo per il consolidamento della pace e serve il Segretario generale nel coordinamento delle agenzie delle Nazioni unite nei loro sforzi per il consolidamento della pace. Nonostante i recenti problemi interni con il Tigrai e le accuse di azioni militari indiscriminate, l’Etiopia è un paese storicamente con un elevato profilo all’interno dell’ONU e l’ingresso nella PBC completa un archivio di tutto rispetto; infatti era stata eletta nel 2017 dall’Assemblea generale con 185 voti a favore (su 190) come membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle

Nazioni unite a partire dal 1o gennaio 2017 per un mandato di due anni (Addis Abeba era stata membro del Consiglio di sicurezza nel 1967-68 e nel 1989-90).

La Turchia e il suo sogno utopico

Il Covid impatta e impazza su diversi ambiti, come si è visto, ma anche e pesantemente sulle politiche strategiche e di sicurezza di diversi Stati. Un esempio di questo sono gli ultimi sviluppi delle relazioni turco-cinesi. Per comprendere meglio il contesto bisogna fare riferimento al fiume carsico del progetto panturanico, uno schema che nasce dal sogno di riunire tutti i popoli turcofoni dall’Anatolia all’Asia centrale sotto l’egida, ovviamente, di Ankara (guidata, altrettanto ovviamente, dal presidente Erdogan). Questo progetto, irrealistico e con un chiaro obiettivo di coesione dell’opinione pubblica interna turca, viste le dimensioni politiche ed economiche della Turchia, si sovrappone e stride con le realtà e le ambizioni dei partner privilegiati di Ankara, quali Russia e Cina. Mentre le relazioni con Mosca oscillano tra il male e il quasi stabile per via dei diversi scenari nei quali Russia e Turchia cooperano e rivaleggiano allo stesso tempo (come Siria, Caucaso, Libia), per la Cina le cose sono diverse. Da tempo la Turchia aveva accolto diversi attivisti e personalità del movimento degli uiguri (popolazione turcofona della Cina occidentale che aspira all’indipendenza di quel territorio chiamandolo Turchestan, da non confondere con l’ex repubblica sovietica del Turkmenistan) e la Cina, in un primo tempo, ha lasciato correre ben consapevole della sterilità del loro agire. Ora, con la mobilitazione internazionale a favore del movimento uiguri, Pechino ha iniziato a fare pressioni su Ankara per farsi riconsegnare queste persone. Inizialmente Ankara, per tenere conto della sua opinione pubblica interna e nutrirne le ambizioni imperialistiche e di guida del mondo musulmano d’Asia centrale, ha resistito. Ma ora, con la consegna in vista dei vaccini cinesi antiCovid (comprati da Ankara), Pechino avrebbe posto un aut aut brutale: consegna degli attivisti o niente vaccini. Erdogan, alle strette con una situazione sanitaria difficile, avrebbe accettato la consegna, per salvare la faccia nei confronti di una opinione pubblica nutrita di panturanismo, degli attivisti in Kazachstan, lasciando che Nur-Sultan (che dal 1997 è la nuova capitale [il cui vecchio nome Astana, cambiato nel 2019] rimpiazzando l’antica capitale Almaty) e Pechino se la sbrighino.

Ora, la vicenda dovrebbe far meditare cosa è diventato il sogno panturanico, schiacciato tra gli interessi economici (per Erdogan è vitale aderire al progetto «Belt and Road Initiative» per sostenere una economia interna che ha dimenticato i tassi di crescita annuali dell’8% del passato e il consenso conseguente) e quelli politici (questa vicenda rappresenta per il Presidente un serio problema politico in quanto il progetto panturanico è fortemente sostenuto dai partiti nazionalisti della coalizione parlamentare che sostiene il governo turco) e dalla determinazione di Pechino a perseguire i suoi obiettivi. Inoltre i progetti regionali di Ankara nel Mashrak potranno essere influenzati dalla normalizzazione diplomatica tra Qatar e gli altri Stati arabi del Golfo. Questa normalizzazione ha obbligato Erdogan a felicitarsi, non potendo fare altro, visto l’unanime soddisfazione a livello internazionale del rinnovato clima amichevole, anche se resta da domandarsi cosa sarà dell’impegno militare di Ankara messo a disposizione di Doha come assicurazione da una possibile azione di forza del GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo).

La Turchia assume il comando della VJTF-L della NATO

L’Esercito turco ha preso il comando della Very High Readiness Joint Task Force-Land (VJTF-L) della NATO venerdì 1o gennaio 2021, rimpiazzando la Polonia, che ha fornito il nucleo della forza nel 2020. Il contributo turco, la 66a Brigata di fanteria meccanizzata, forte di circa 4.200 unità, su un totale di circa 6.400 soldati, servirà nella VJTF-L. Gli altri 2.200 militari della forza mul-

Il presidente turco Erdogan (a sinistra), stringe la mano al presidente cinese Xi Jinping (startmag.it).

tinazionale provengono da Albania, Ungheria, Italia, Lettonia, Montenegro, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti (per chi ha memoria la VJTF-L è l’ampliamento, rafforzamento e aggiornamento del concetto della antica AMF, Allied Mobile Force, attiva tra il 1960 e il 2002). La VJTF, nelle sue due componenti (il concetto ne include anche una aerea, definita VJTF-A), è a sua volta componente della più ampia NRF (NATO Reaction Force). La Turchia ha effettuato investimenti sostanziali nell’unità assegnata, in particolare nella pianificazione dei requisiti di mobilità, logistici e munizionamento. Alla brigata sono stati assegnati gli ultimi modelli dei sistemi d’arma in servizio nell’Esercito turco. I capi di Stato e di governo della NATO avevano deciso di creare la VJTF (nelle sue due component, Land e Air) nel vertice in Galles nel 2014 in risposta a un mutato contesto di sicurezza, compresa la destabilizzazione dell’Ucraina da parte della Russia e le turbolenze in Medio Oriente. I membri della NATO si alternano alla guida del VJTF-L su base annuale fornendo il grosso della forza, quale «leading nation». La Polonia ha guidato la VJTF-L nel 2020, la Germania nel 2019, l’Italia nel 2018 e la Gran Bretagna nel 2017, quando è diventata operativa per la prima volta. È comunque interessante osservare che nonostante (o forse proprio per questo) le turbolenti relazioni tra Ankara e Bruxelles e l’avvicinamento verso Mosca, Pechino e Teheran, l’Alleanza cerca in ogni modo di tenere agganciata la Turchia all’ architettura di sicurezza occidentale.

La crisi francese nel teatro del Sahel

Le autorità francesi sono incerte sul futuro della loro presenza militare nel Sahel, dopo aver fatto sapere che era in corso una seria valutazione su una possibile riduzione. Con una difficile acrobazia verbale, il capo di Stato Maggiore delle Forze armate francesi, François Lecointre, nel corso di una visita nella località di Hombori (Mali), situata al centro del zona dei «tre confini» tra Mali, Niger e Burkina Faso, dove imperversano le milizie islamiste, ha chiarito che non ci sarà alcun «disimpegno» nel Sahel, solo una «evoluzione» di questo impegno, ma senza sbilanciarsi circa i tempi e le modalità. Il timore, non espresso chiaramente, ma assai forte nei vertici politici e militari parigini (ma anche degli Stati Uniti, NATO e UE) è che un ripiegamento francese possa permettere che russi e cinesi occupino il vuoto che i francesi lascerebbero in caso di ritiro parziale delle loro forze nel Sahel (e oltre). Dato che la NATO e gli Stati Uniti continuano a considerare Russia e Cina potenze ostili, non è stato quindi ufficialmente fissato da parte francese alcun calendario per annunciare una possibile riduzione delle forze presenti nella regione. Ricordiamo che da diversi anni, oltre 5.000 militari francesi sono stati di- Il generale Lecointre, Capo di Stato Maggiore delle Forze armate francesi (lesechos.fr). spiegati nella regione del Sahel come parte della lotta al terrorismo attraverso due operazioni principali, vale a dire «Serval» nel 2013 seguita dalla «Barkhane» nel 2014, attivate sotto l’allora presidente francese François Hollande. Le operazioni nella regione, pesantissime per il personale e i mezzi impiegati, hanno messo a dura prova le strutture militari francesi, numericamente insufficienti; inoltre il sostegno delle forze locali, siano esse nel loro quadro nazionale, sia nel conteso della forza multinazionale G5 Sahel, è ben poca cosa e anzi è ragione di contrasti tra Parigi e le capitali della regione (mostrando anche come si sia logorato il legame della FranceAfrique) obbligando il capo della diplomazia francese a continui viaggi per ricucire le frizioni, esasperatesi dopo il colpo di Stato che ha deposto l’ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keïta, il 18 agosto scorso, accusato di non essere in grado di fronteggiare le sfide politiche e militari cui il paese è sottoposto. La «Barkhane», provatissima, ha il sostegno di reparti di elicotteri britannici e danesi, ed è in corso il (lento, in verità) dispiegamento della forza speciale europea «Takuba» con contingenti estoni, cechi e svedesi (degli altri contingenti promessi a Parigi non si hanno dettagli recenti). Ma il timore francese, statu-

nitense, atlantico ed europeo per il Sahel è stato ampliato e rafforzato per la potente accelerazione delle presenza militare russa nel non distantissimo Centrafrica, pericolosamente prossimo al Chad, chiave di volta della restante architettura francese nel continente. Infatti, all’antivigilia di Natale, Mosca ha reso noto l’invio di altri 300 istruttori militari nella Repubblica Centrafricana (RCA) per occuparsi di quello che il ministero degli Esteri russo chiama un «forte degrado della sicurezza». Il governo della Repubblica centrafricana, minacciato da gruppi ostili alla rielezione dell’attuale presidente, poi confermata, aveva chiesto un aiuto, che è stato rapidamente concesso. Il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, un abile e preparato diplomatico di carriera, ha specificato che l’Esercito russo non era coinvolto nei combattimenti nella Repubblica centrafricana, sottolineando che si trattava «solamente» di istruttori militari, sostenuto dal ministro degli Esteri di Bangui (mentre il portavoce del governo ha parlato di centinaia di militari operativi appoggiati da armi pesanti). La presenza di guardie di sicurezza private russe (non solo della leggendaria «Wagner») è diventata cosa altamente visibile a Bangui, fornendo sicurezza ai membri del governo e proteggendo installazioni strategiche, ma già la Russia era riuscita a mettere un piede in Centrafrica convincendo Bangui a ridurre quanto più possibile lo spazio della missione di addestramento militare della UE (EUTM-RCA) e fornire armi ed equipaggiamenti alle forze regolari, mettendo a disposizione i primi istruttori. Ma accanto alla Russia opera il Ruanda, un aperto avversario della Francia (ma forte alleato degli Stati Uniti, sic) che, pur avendo quasi 800 soldati e poliziotti all’interno della missione ONU che dal 2014 opera in Centrafrica (MINUSCA), ha inviato altre truppe in sostegno del governo di Bangui, a protezione dei civili locali. Ma perché questo movimento militare (e in prospettiva politico)? L’attuale presidente (dal 2016) della RCA, Faustin Archange Touadéra, che è stato rieletto nelle elezioni del dicembre scorso e confermato ufficialmente il 4 gennaio, è visto con enorme preoccupazione da Parigi che teme che uno Stato baricentrico della (restante) FranceAfrique venga sfilato dalla sua area di influenza, proprio dalla Russia, con la Cina, per ora, in seconda linea. Touadéra, rappresenta una generazione di leader politici africani, che seppur formata in un contesto francese di cultura ed educazione, vorrebbe scrollarsi di dosso il pesante controllo da parte di Parigi e guardare altrove. Touadéra è un recente, ma sembra assai solido, amico della Russia. Nell’ottobre 2017, ha guidato una delegazione di alti funzionari del suo governo, nonché rappresentanti dell’industria mineraria, al primo vertice Russia-Africa nella località di Sochi, sul Mar Nero, i quali hanno incontrato il ministro degli Esteri Sergey Lavrov.

Pochi mesi dopo, nel gennaio 2018, la prima di più consegne di rifornimenti militari russi è arrivata a Bangui, dopo che Mosca si era assicurata l’esenzione da un embargo sulle armi delle Nazioni unite contro la RCA, irritando al più alto livello Parigi. Più tardi nel 2018, Touadéra ha nominato un certo Valery Zakharov, che si dice sia collegato alla principale agenzia di intelligence russa, l’FSB, come suo consigliere per la sicurezza nazionale. Come spesso accade in Africa le elezioni sono state marUna donna vota in un centro elettorale nella Repubblica Centrafricana (MINUSCA). cate da un clima di violenza diffusa che ha portato alla mobilitazione l’intera missione ONU in Centrafrica, la MINUSCA, per riprendere il controllo di aree periferiche cadute in mano a gruppi armati (accusati di essere al soldo di uno dei maggiori opponenti di Touadéra, cioè l’ex presidente Bozizé).

I partiti dell’opposizione, compreso quello di Bozizé, hanno smentito il loro coinvolgimento nelle azioni militari ma hanno prima chiesto il rinvio del voto «fino al ristabilimento della pace e della sicurezza» e successivamente (ma inutilmente) il loro annullamento. Come citato, le elezioni e i tumulti connessi e le prospettive di vittoria di Touadéra hanno talmente preoccupato Parigi arrivando a far sorvolare Bangui e le aree circonvicine da squadriglie aeree con l’ufficiale dichiarazione

di deterrenza contro i gruppi ribelli. L’elezione presidenziale di Touadéra e quelle legislative (contemporanee) sono il risultato di un lungo e difficile lavoro di mediazione politica condotta dall’ONU che vuole, anche per ragioni di costo (13.000 persone tra militari, poliziotti e civili), ritirare la MINUSCA quanto prima e chiudere una crisi che corre dal 2012. Questa prospettiva è un altro elemento di preoccupazione anche perché’ la Francia deve ritirare conseguentemente il restante personale ancora in loco, circa 4-500 militari, dopo la fine della sua operazione in Centrafrica, la «Sangaris», che era arrivata al suo apice tra il 2013 e il 2016 a contare 2.500 unità, e ridurre ulteriormente il suo imprinting locale. Per informazione, la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri e instabili dell’Africa, anche se è ricchissima di diamanti e uranio. L’ONU stima che metà della popolazione dipenda dall’assistenza umanitaria e fino a un quinto dei suoi abitanti sia stato sfollato. Il 3 dicembre, la Corte costituzionale della Repubblica Centrafricana ha stabilito che Bozizé non soddisfaceva il requisito della «buona moralità» richiesto per i candidati, a causa di un mandato di cattura internazionale e delle sanzioni delle Nazioni unite contro di lui per presunti omicidi, torture e altri crimini durante il suo governo. Bozizé (cristiano, come la maggioranza della popolazione, mentre i musulmani sono in gran parte nel nord e hanno ascendenze tribali prossime al confinante Chad) è salito al potere dopo un colpo di Stato nel 2003 e successivamente ha vinto due elezioni (2005 e 2010) che sono state ampiamente considerate fraudolente. È stato estromesso nel 2013 dopo l’insurrezione del movimento dei Séléka — una coalizione ribelle proveniente in gran parte dalla minoranza musulmana (e che si sospetta sia stata sostenuta clandestinamente da influenti gruppi finanziari parigini irritati per la linea economica di Bozizé che aveva aperto il mercato dello sfruttamento minerario e agricolo a operatori non francesi) che lo ha accusato di aver infranto gli accordi di pace e che ora è affrontata da una milizia delle tribù meridionali, tutte cristiane, gli Anti-Balaka.

Missione UE EUCAP Sahel-Mali. Si prosegue, nonostante tutto

Il Consiglio europeo ha deciso di prorogare il mandato della missione civile dell’UE EUCAP Sahel-Mali fino al 31 gennaio 2023 stanziando allo scopo un bilancio di oltre 89 milioni di euro per il periodo dal 15 gennaio 2021 al 31 gennaio 2023. Questa volta, però, non si tratta tuttavia di un rituale prolungamento di una scadenza; viste le recenti mutazioni della situazione nel Mali e nel Sahel, è stato deciso di adeguare il mandato della missione per migliorare la sua capacità di assistere e consigliare le forze di sicurezza interna del Mali sostenendo una graduale ridistribuzione delle autorità amministrative civili del paese. Inoltre, gli obiettivi della cellula di consulenza e coordinamento regionale sono stati adattati per migliorare la cooperazione e il coordinamento con gli Stati componenti e le strutture dell’organizzazione regionale G5 Sahel (Mali, Mauritania, Chad, Burkina Faso, Niger) e la regionalizzazione dell’azione della CSDPC (Common Security and Defence Policy) dell’UE che comprende, come parte dell’approccio integrato dell’Unione alla sicurezza e allo sviluppo nel Sahel: la EUTM-Mali, che addestra le Forze armate maliane e la EUCAP SahelNiger (vero gemello della EUCAP Sahel-Mali), che sostiene la lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo in Niger.

L’EUCAP Sahel-Mali, è utile ricordarlo, in quanto è una piccola sconosciuta realtà del già poco noto universo delle missioni esterne dell’Unione, è una operazione civile, ha il suo QG a Bamako ed è operativa dal gennaio 2015 a seguito di un invito ufficiale del governo maliano ad assistere le forze di sicurezza interna nel riaffermare l’autorità del governo in tutto il paese, sulla scia della crisi del nord del Mali, che aveva lasciato ampie parti del paese sotto il controllo di varie fazioni islamiste, movimenti separatisti tuareg che puntavano alla costituzione dell’Azawad e gruppi criminali. L’EUCAP Sahel-Mali fornisce assistenza e consulenza alle tre componenti della sicurezza interna maliana (polizia, gendarmeria e guardia nazionale) nell’attuazione della SSR (Security Sector Reform) in stretto coordinamento con altri partner internazionali, tra cui la delegazione dell’UE e la missione dell’ONU (MINUSMA). Accanto all’estensione e ampliamento della EUCAP Sahel-Mali è stato designato, con un mandato annuale, Hervé Flahaut, dirigente generale della polizia francese con oltre 30 anni di esperienza professionale.

Enrico Magnani

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