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Gli spazi geografici e geopolitici dei trasporti marittimi

Paolo Sellari

1. Geografia e geopolitica dei trasporti: sviluppi del pensiero

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Geopolitica e geografia dei trasporti sono due ambiti disciplinari intorno ai quali ruota uno dei temi più dibattuti in epoca globale: quello dei flussi commerciali e della loro evoluzione attraverso processi di complessificazione del commercio internazionale, di progressiva divisione internazionale del lavoro e della creazione delle catene di approvvigionamenti (supply chain).

Il primo ambito, quello geopolitico, può essere riscontrato già in A. T. Mahan e nel sea power che conferiva posizioni di dominio del pianeta attraverso il controllo dei mari e dei traffici marittimi; anche H. Mackinder, probabilmente attratto dalla realizzazione della ferrovia Transiberiana, pose al centro della sua riflessione la relazione tra potere geopolitico e infrastrutture. Anche nella produzione del geografo tedesco F. Ratzel, il sistematore della geografia antropica e il padre della geografia politica, pur non essendovi opere dedicate alla geografia dei trasporti vi erano tuttavia numerosi spunti interessanti sull’importanza delle vie

Docente di ruolo per materie geografiche e geopolitiche presso il Dipartimento di Scienze politiche della Sapienza, Università di Roma, dove dirige anche il Master di secondo livello in Geopolitica e sicurezza globale. Si occupa da anni di geografia dei trasporti. Tra i principali scritti vi sono Geopolitica dei trasporti (Laterza, 2013) e Spazi e Poteri (Laterza, 2019), Scenari eurasiatici (Nuova cultura, 2020), Geopolitica e spazi marittimi (Nuova cultura, 2021).

di comunicazione come principale agente per l’espansione dello stato e per il dominio dello spazio.

La geografia dei trasporti ha diramazioni più frequenti. I tedeschi A. Hettner (1897) e K. Hassert (1931) diedero inizialmente un contributo importante a questa disciplina con un approccio per lo più quantitativo e descrittivo, osservando la distribuzione del traffico e delle diverse forme di comunicazione. In Italia si ricordano gli studi, per lo più descrittivi, di Elio Migliorini e di Umberto Toschi, che tentarono di spiegare alcune relazioni tra sviluppo territoriale e presenza di reti stradali o ferroviarie. Migliorini (La terra e le strade, 1951) descrisse mirabilmente il rapporto tra singole modalità di trasporto e sviluppi territoriali; Toschi (Compendio di Geografia Generale, 1960), si dedicò maggiormente al mare, e fu il primo in Italia a notare come la navigazione marittima si inscrivesse nel paesaggio con il porto, organo fisso sulla linea di contatto fra mare e terra emersa. Più recentemente, in particolare negli anni Ottanta e Novanta, fu il geografo genovese Adalberto Vallega a effettuare uno scatto decisivo in avanti, iniziando ad avvicinare i due approcci, quello geografico in senso stretto e quello geopolitico, e osservandone le mutazioni in atto. Cambiamenti rapidi, inesorabili, che spostavano l’attenzione sui paradigmi reticolari e non più lineari. Attenzione che veniva data all’integrazione tra sistemi di trasporto attraverso il filo conduttore comune della logistica e dell’interfaccia terra-mare.

Rotte oceaniche e terrestri erano da sempre state legate: i colonizzatori, soprattutto britannici, furono i primi a collegare mare ed entroterra per ferrovia, ma

ancora prima i fiumi e i canali navigabili realizzati in Europa dal XIX secolo in poi avevano conferito un formidabile vantaggio competitivo per il fronte marittimo del Mare del Nord rispetto a qualunque altro fronte marittimo a livello mondiale. Già nel 1980 con il volume Per una geografia del mare (1984, Mursia), Vallega aveva innovato concetti e metodi della geografia del trasporto e dei porti, relazionandoli allo sviluppo economico, commerciale e geopolitico. Temi sviluppati per oltre un decennio e ripresi, definitivamente nell’opera Geografia delle strategie marittime (1997, Mursia) nella quale Vallega osservò la trasformazione del mondo in villaggio globale avvenuta grazie alla rete planetaria costituita da relazioni marittime, rotte oceaniche e terrestri, porti in rapida trasformazione e grazie, soprattutto, all’evoluzione delle tecniche logistiche. Vallega fu stimolato nella sua analisi, dall’incontro avvenuto nel 1970, con André Vigarié, geografo francese che per primo seppe allontanarsi da una visione cartesiana della geografia del mare, concentrata sulla descrizione dei singoli porti e sulle singole rotte, per proporre, invece, una visione d’insieme dei porti, nella fattispecie europei. Era un nuovo modo di intendere la geografia dei trasporti: si proponeva, in sostanza, una modellizzazione sistemica nella quale gli elementi erano funzionali al tutto: dai porti in trasformazione (dai porti-emporio tardo settecenteschi, alle metropoli marittime industriali, ai centri logistici e direzionali della globalizzazione) alla «oceanizzazione» di un’economia in rapida espansione spaziale, nella quale le relazioni marittime sono espressione primaria.

Gli stadi di sviluppo del sistema hanno generato una relazione circolare tra innovazioni «a terra» e ripercussioni «in mare», tra fattori continentali e fattori oceanici in grado di influire sull’organizzazione delle relazioni internazionali, determinando appunto il passaggio dalla geografia alla geopolitica dei trasporti. Per comprenderne le dinamiche è utile disporre del concetto di orizzonte del trasporto al cui interno distinguere l’orizzonte marittimo dall’orizzonte continentale. Il primo è costituito dalle forme che assumono le relazioni marittime (flussi di traffico, rotte, tipologie di navi) nei differenti stadi, ed è espressione geografica del commercio internazionale. Ogni stadio è contraddistinto da determinati schemi di organizzazione degli spazi marittimi che, con il progresso, vengono utilizzati per un crescente numero di attività. L’orizzonte continentale, o terrestre, è, invece, l’insieme delle espressioni geografiche che a terra sono provocate dalla relazione marittima: le strutture retroportuali, le infrastrutture per la movimentazione e lo stoccaggio, le infrastrutture di collegamento con l’entroterra che determinano ampiezza e «profondità funzionale» del retroterra portuale.

2. Stadi di sviluppo delle relazioni marittime e potenza geopolitico-economica: dai mercanti alle petroliere

Le prime forme di proiezione oceanica furono concepite dalla borghesia mercantile che tra XVII e XIX secolo spinse alcuni Stati all’esplorazione e alla colonizzazione, fondative di un potere economico sulle cui basi la nuova classe aveva costruito i suoi spazi geopolitici, vale a dire gli oceani. Tale proiezione coinvolse quei paesi che ebbero maggior successo nel creare una coesione nazionale sufficiente per disegnare e applicare politiche efficaci a sostegno del commercio internazionale. La potenza economica si fondava, in pratica, su una relazione circolare, secondo la quale lo

Stato favoriva i commerci interni e internazionali accrescendo il suo potere economico lungo le rotte oceaniche trasformandolo in potere politico. Quest’ultimo rafforzava lo Stato che era così indotto alla tutela degli interessi nazionali, cioè della borghesia. Il sistema degli stati mercantili, che faceva perno sia sulla Gran Bretagna sia sul fronte europeo settentrionale (Francia, Olanda, regioni anseatiche) rappresentò il fulcro geografico dello stadio mercantile.

Lo smantellamento progressivo delle grandi Compagnie commerciali avvenuto nella prima metà del XIX secolo, l’abrogazione del Navigation Act che riservava il commercio marittimo alle sole navi battenti bandiera inglese e, in sostanza, l’allentamento della morsa protezionistica, rappresentarono il momento cardine dello stadio paleoindustriale (dal 1830 al 1900). L’evoluzione tecnologica e migliorie tecniche permisero l’ampliamento dell’orizzonte oceanico e lo sviluppo di rotte specializzate (ad esempio quella del caffè, del grano, eccetera) e di borse portuali. Questa fase fu caratterizzata da una prima forma di asservimento dell’industria alle rotte marittime per la fornitura di materie prime, e consolidarono il fulcro geografico nord-europeo: nonostante l’apertura di Suez, che conferì un nuovo ruolo al Mediterraneo, il pivot oceanico erano posizionato nell’Oceano Atlantico settentrionale. Il porto paleoindustriale, inoltre, iniziò a svolgere un ruolo di gateway, grazie all’infrastrutturazione di terra costituita dalla fitta rete di canali navigabili nel nord Europa e dalle numerose linee ferroviarie realizzate dopo il 1840. Quello che Vallega chiamò «trittico» (rotta marittima, porto, retroterra) iniziava a costituire la base dei processi di crescita territoriale indotti dalle relazioni marittime.

Nell’ultimo quarto del XIX secolo per le regioni più dinamiche si preannunciava lo stadio probabilmente più importante nell’evoluzione geografica e geopolitica dei trasporti: quello industriale, il quale ebbe due fulcri geografici, negli Stati Uniti (primario) e in Gran Bretagna (secondario) e uno marittimo (Atlantico boreale). La caratteristica di questo stadio fu che per la prima volta nella storia tutto l’ecumene terrestre, con esclusione dei territori antartici, era coinvolto dall’organizzazione industriale, pur se inquadrata in una relazione di tipo «centro-periferia», con regioni trainanti e regioni trainate. Un tipo di organizzazione economica che era un vero e proprio strumento per l’affermazione nella politica internazionale, attraverso lo scambio di beni strumentali e produzioni belliche.

Sul fronte dei traffici marittimi i cambiamenti radicali della fase industriale furono il presupposto fondamentale per il cambiamento successivo e contemporaneo: per capacità e velocità delle navi, per specializzazione delle rotte, per la formazione di catene logistiche. Anche la geopolitica tradizionale ebbe notevolissime ripercussioni sul sistema dei trasporti mondiali. Si pensi al gigantismo delle petroliere, accelerato dalle crisi mediorientali e dalla chiusura di Suez che costrinse a percorrere la rotta del Capo; e ancora, al ruolo geopolitico di alcuni choke points petroliferi come Hormuz.

L’orizzonte oceanico nel caso industriale fu, dunque, fortemente legato alla variabile geopolitica, mentre la «geografia» tradizionale osservava lo sviluppo di processi di industrializzazione litoranea e alla trasformazione del porto, che, secondo l’applicazione delle teorie di Alfred Weber sul punto di minimo costo trasportazionale, diventava la localizzazione industriale ottimale. Europa e Giappone diventarono punti d’arrivo della gran parte dei traffici petroliferi e carboniferi del pianeta. L’introduzione del container, alla fine degli anni Ses-

santa, sostenne anche un certo traffico di matrice sudsud, soprattutto nel contesto del sud-est asiatico, che da lì a pochi anni sarebbe diventato il fulcro marittimo globale. Accanto ai key points petroliferi si affiancarono i canali di Suez e Panama. L’apertura di quest’ultimo permise allo scacchiere delle rotte oceaniche di raggiungere la maturità, perché offriva la possibilità di utilizzare due rotte circumplanetarie in direzioni opposte. Prese così forma, tra le due guerre mondiali, un vero e proprio sistema ecumenico del trasporto oceanico, nel quale i due Canali, Suez e Panama, si integravano ma al tempo stesso entravano in concorrenza, dando luogo a una competizione geoeconomica che era esito dello spostamento continuo degli scacchieri che configuravano le

aree di gravitazione dei due canali.

Stadio paleo industriale e stadio industriale definirono un medesimo cuore oceanico, l’Atlantico boreale, ma definirono differenti fulcri geografici primari: nel primo caso la Gran Bretagna, nel secondo gli Stati Uniti: un passaggio che fu, come noto, anche geopolitico in senso lato e che iniziò a concretizzarsi all’indomani del conflitto ispano-americano e l’applicazione delle teorie mahaniane del Sea Power. L’esplosione delle relazioni nordatlantiche e nord pacifiche non deve minimizzare la diffusione di altre rotte che caratterizzò altri spazi marittimi: l’Oceano Indiano, il Northern range e il Mediterraneo, il sud-est asiatico. Proprio mentre lo stadio industriale mostrava tutte le sue potenzialità nel commercio marittimo il Mediterraneo, anche per effetto della prolungata chiusura di Suez, veniva sostanzialmente emarginato dai grandi traffici marittimi globali.

3. L’evoluzione trans industriale.

Così come nel 1870, a seguito dell’adozione della trazione a vapore e dell’utilizzo del ferro per gli scafi delle navi, si era concretizzato il passaggio tra stadio paleoindustriale e industriale, così un secolo dopo, nel 1970 si registrò il passaggio tra stadio industriale e trans industriale. Il quadro geopolitico di quegli anni era caratterizzato dalle guerre arabo-israeliane, che,

come detto, ebbero un forte impatto sui traffici marittimi petroliferi con la chiusura di Suez e con la progressiva autonomia dei paesi produttori nella definizione dei prezzi del greggio che crearono le basi per un progressivo multipolarismo. Ma non solo: il Tokyo Round e il Kennedy Round del GATT videro montare le istanze dei paesi meno sviluppati che reclamavano il diritto di esportare non solo materie prime, ma prodotti finiti, allo scopo di avere maggior valore aggiunto per le proprie economie. Ma il fatto probabilmente più eclatante a livello globale, in grado di scombinare gli equilibri geopolitici precedenti, fu l’entrata in scena della Cina popolare nel 1971, che ebbe il ri-

conoscimento da parte degli Stati Uniti che a loro volta ne favorirono l’ingresso nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fu un evento rivoluzionario nel quadro delle relazioni marittime in quanto Cina e Giappone ridefinirono da lì a poco, un nuovo pivot oceanico: quello del Pacifico occidentale.

Contestualmente l’avvento della tecnologia informatica operò una contrazione spazio-temporale mai vista in precedenza nella storia dell’uomo. La comunicazione favorì l’ampliamento sia per numero che per estensione delle aree trainanti che si aggiunsero a quelle tradizionali: alcune parti del Medioriente, il sudest asiatico, l’Oceania, il Sud africa. Lo stadio trans industriale fu, dunque, sin dai suoi albori alla fine degli

anni Settanta, lo stadio dell’iper-connessione, dell’ampliamento della «base geografica», che fece da «rampa di lancio» per la globalizzazione economica.

L’orizzonte marittimo dello stadio trans industriale era sempre più a vocazione oceanica globale, e può essere efficacemente rappresentato dalla tipologia di rotte che si sviluppò dagli anni Ottanta, quella round the world (giramondo), che conseguì un profilo ben definito con l’introduzione di navi portacontainer di grandi dimensioni (all’epoca 3000-4000 Teus). La correlazione fondamentale per la competitività del sistema poggia sulla sua velocità e quindi sulla necessità che la nave tocchi pochi porti, innescando il feederaggio regionale. Accanto alla rotta round the world si misero in evidenza le cosiddette rotte pendolari (pendulum route) che connettevano due al massimo tre versanti portuali toccando un solo porto per versante, richiamando così l’immagine del pendolo. Ne scaturirono rotte triangolari lungo le quali si sviluppò gran parte del commercio mondiale che aveva come fulcro geografico l’Asia sud-orientale e come pivot oceanico quello Indiano.

L’orizzonte continentale dello stadio trans industriale doveva necessariamente tener conto del dirompente ingresso in scena del container. Innanzitutto, si modificava radicalmente la riconfigurazione degli spazi portuali, che ridimensionava gli spazi industriali ma accresceva la verticalità, il ruolo direzionale e lo-

gistico. Ancora più determinanti diventavano, quindi, le efficienze prodotte dal sistema di interconnessioni con il retroterra: diventava decisivo per il porto e per l’intera catena di trasporto marittimo l’efficienza del lavoro a terra, la velocità di trasferimento della merce alla destinazione finale attraverso sistemi intermodali. Le aree pianeggianti, infrastrutturate, connesse, avevano un vantaggio competitivo innegabile che ha determinato una gerarchia naturale basata su fattori di natura deterministica: i porti del nord- Europa sono favoriti per una storica infrastrutturazione che si radicava nell’esistenza di numerose vie navigabili interne (fiumi e canali artificiali). I porti mediterranei solo in rarissimi casi pos-

sono sfruttare vie di acqua interne e il loro successo dipende, dunque, o dall’attrattività del mercato interno o da grandi opere in grado di valicare catene montuose complesse (Pirenei a Ovest, Alpi al centro, Alpi Dinariche a est). Sebbene la capacità tecnologica dell’uomo sia stata in grado con grande brillantezza di superare grandi barriere orografiche, questo aspetto appena evidenziato non può passare inosservato. Quando l’opinione pubblica, i mass media, si accaniscono contro certe scelte politiche che non favoriscono, ad esempio, la portualità italiana, va ricordato che gli spazi per il deposito, la logistica, la movimentazione, all’interno o a ridosso dei porti nazionali, non hanno la stessa possibilità di espandersi come quelli del nord Europa, trovando vincoli morfologici che pongono problematiche in termini di sostenibilità economica, ambientale, paesaggistica.

Lo stadio trans industriale, in definitiva, ha operato cambiamenti in tutti gli aspetti del trasporto marittimo: dal container al gigantismo navale, alla ridefinizione delle rotte geografiche che ridisegnavano gerarchie terracquee. Esso ha progressivamente mostrato caratteristiche intrinsecamente geopolitiche legate alla perdita di potere dello stato-nazione. La globalizzazione con le sue logiche industriali e imprenditoriali ha portato alla costruzione di navi giganti (nel biennio 2020-21 ne sono state ordinate circa 90 di oltre 15 mila Teus), ma anche al gigantismo delle compagnie di shipping che, con processi di fusione e raggruppamento, hanno costituito veri e propri soggetti politici, oltre che economici: la scelta, ad esempio, di un operatore di shipping in grado di movimentare 5 milioni di container di posizionare il proprio hub in un porto piuttosto che in un altro, costituisce un potere che è di fatto politico, in grado, cioè, di prevaricare competenze statali e di determinare il successo di un intero fronte portuale, di un’intera regione, di un sistema paese.

La fase trans industriale, dunque, la cui fase matura è iniziata grossomodo con il consolidamento della leadership del fulcro geografico estremo orientale, stimola il sistema portuale (in particolare quelli centrati su uno scalo hub) alla ricerca di fattori competitivi in grado di convogliare le attività dei global operators: fattori economici (relativi ai costi e alla gestione imprenditoriale), psico-sociali (relativi alla propensione degli individui a determinati lavori), strutturali (disponibilità di spazi e infrastrutture per la gestione e la movimentazione

della merce) e politici (attenzione e reattività del mondo politico verso determinate scelte): fattori, in definitiva, che determinano il successo geopolitico del paese in questione, specialmente laddove il paese stesso ha un sistema economico e sociale fortemente legato all’economia marittima.

4. Mari intermedi in oceani globali

Nella fase più recente dello stadio trans industriale, segnato da shock globali come la crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia e il conflitto russo-ucraino, la globalizzazione sembra ripensare sé stessa, non mostrando segnali di regressione, ma evidenziando una marcata spinta a processi diffusi di regionalizzazione dell’economia che pongono alla ribalta i mari intermedi.

In tale contesto, quale ruolo ha il Mediterraneo? Quello di «centro strategico del mondo», per riprendere la definizione di Fioravanzo, oppure è destinato inelluttabilmente a rincorrere altri sistemi portuali nordeuropei? Ma soprattutto, è un mare unitario? È ancora «mediterraneo» o piuttosto «medioceano»?

Sono temi che hanno caratterizzato la geopolitica dei trasporti, almeno da un trentennio e che possono a nostro avviso essere ricondotti all’interno di dicotomie che ben ne riproducono le dinamiche e che vanno inquadrati nel più ampio spettro dei rischi e delle opportunità.

La prima dicotomia, cerniera-frattura, ha rilevanti manifestazioni sia geopolitiche sia geoeconomiche. Da un punto di vista geopolitico il confronto post bipolare ha lasciato il campo a una fase in cui il tema caratterizzante il rapporto tra le due sponde era da una parte cooperativo (i tentativi di accordi di partenariato tra Unione europea e paesi nord sahariani), dall’altra conflittuale (fenomeno migratorio, gestione europea delle primavere arabe). Si è andato progressivamente definendo un quadro complesso che ha favorito l’emergere nel contesto geopolitico mediterraneo di nuovi attori interni (la Turchia) ed esterni (la Russia). Da un’ottica puramente trasportistica l’ultimo decennio ha visto l’ascesa poderosa di alcuni porti di transhipment della sponda nordafricana (Port Said, Tangeri) che hanno eroso importanti quote di mercato a quelli della sponda settentrionale (con i loro 11 milioni complessivi di container movimentati assommano circa il 20% dell’intera portualità mediterranea) con i quali evidentemente, operano in competizione.

La seconda dicotomia, medioceano-mediterraneo si riferisce alla struttura stessa dei traffici nel mare nostrum. Spesso nella letteratura prevalente si considera il Mediterraneo quasi esclusivamente come bacino di transito tra due oceani, dimenticando la valenza dei traffici interni. L’Italia, non va dimenticato, è il paese leader nel Mediterraneo per la quota di mercato delle autostrade del mare (37% sul totale) e ha una conformazione geografica tale da far ritenere il cabotaggio come forma di trasporto strategico anche, e soprattutto, per decongestionare gli assi autostradali nazionali. La navigazione intra-mediterranea, inoltre, ha margini di sviluppo notevoli anche grazie al fenomeno del reshoring che ha caratterizzato l’economia mondiale dopo la pandemia del 2020: la tendenza, cioè, a rilocalizzare alcune attività produttive dall’Oriente al bacino del Mediterraneo. Una tendenza che si è consolidata in pochi mesi, anche se, va detto, non ha condizionato significativamente i volumi di traffico delle rotte intercontinentali via Suez.

La terza dicotomia che riguarda il Mediterraneo è centro-periferia, che riconduce a quella più ampia tra rischi di marginalizzazione dal contesto globale e opportunità. Se il Mediterraneo è, come noto, uno dei fulcri geografici primari del trasporto marittimo globale, per posizione lungo le rotte pendulum e round the world che dall’Asia giungono in Europa, è altrettanto vero che subisce concorrenze significative su più versanti: innanzitutto, come abbiamo visto, la concorrenza «storica» con il Mare del Nord come porta di ingresso all’Europa continentale; in secondo luogo la concorrenza della rotta del Capo, utilizzata nelle relazioni Atlantico-Indiano soprattutto nei periodi caratterizzati dal basso costo del carburante.

Alternative potenziali, anche se al momento del tutto marginali, alle rotte per il Mediterraneo sono anche le nuove vie della seta terrestri del progetto cinese Belt and road initiative, soprattutto nella loro sezione sino-russapolacca e balcanica. Pur nelle inevitabili difficoltà della gestione operativa di tracciati terrestri transfrontalieri (differenze di scartamento, operazioni doganali), i progetti trans-asiatici sono potenzialmente competitivi soprattutto in termini temporali (le merci impiegherebbero circa la metà dei giorni rispetto alla rotta marittima), e in termini di sicurezza (eliminazione dei rischi geopolitici nei choke points come Malacca, Bab el Mandeb, Suez), anche se il recente quadro geopolitico ha congelato ogni prospettiva di passaggio per i territori russi.

5. Nuove rotte per nuove utopie

Alternativa alla rotta per il Mediterraneo è anche la rotta marittima polare, sulla cui sostenibilità economica e ambientale si sono aperti numerosi dibattiti scientifici. La Northern Sea Route siberiana, quella potenzialmente più sgombra dai ghiacci polari per un maggior numero di mesi all’anno, gode del favore, oltre che della Russia, anche della Cina, che ha contribuito con ingenti risorse finanziarie alla realizzazione di terminali portuali sulle coste russe dell’Artico, per favorire le esportazioni di idrocarburi. Pechino l’ha addirittura introdotta come Polar Silk Road nel più vasto progetto di BRI, a conferma della centralità geopolitica che riveste il bacino artico in chiave prospettica di sviluppo dei traffici commerciali generici, anche di container, che sfrutterebbero una rotta più breve di 4000 miglia nelle relazioni tra Cina e Nord Europa, rispetto alla rotta per i mari caldi.

Riprendendo la bipartizione tra orizzonte marittimo e orizzonte continentale, va rilevato come quest’ultimo sia quasi completamente assente nel caso del fronte artico siberiano, mancando di retroterra economici significativi che possano alimentare in entrata e in uscita porti intermedi lungo la rotta.

Pur considerando anti-economica in termini generali la rotta per Suez-Gibilterra, in virtù della maggior distanza e del costo del passaggio del Canale, proprio la mancanza di porti intermedi, fondamentali nello svolgimento dei servizi di shipping da parte delle grandi navi di oggi, e la situazione geopolitica che coinvolge, al momento, la Russia, non sembrano alimentare prospettive di sviluppo significative dell’Artico come «medioceano»: piuttosto, il bacino polare, potrà presumibilmente accrescere il suo peso nel trasporto marittimo regionale di idrocarburi. Non va, infine, dimenticato l’impatto che avrebbe l’aumento dei traffici marittimi artici sull’ambiente marino, e che andrebbe ad aggravare una situazione già di per sé delicata dovuta proprio al cambiamento climatico. L’ipotesi della riduzione della velocità delle navi allo scopo di ridurre le emissioni inquinanti produrrebbe un rallentamento tale da minimizzare i vantaggi dell’accorciamento della rotta. La narrazione sull’alternativa artica sembra, dunque, più rispondere a logiche geopolitiche di potenza (la Russia si affermerebbe su uno spazio marittimo molto ampio, e la Cina controllerebbe una nuova linea che rafforzerebbe il sistema di supply chain verso occidente), che a effettive opportunità economico-trasportistiche.

Le dicotomie del Mediterraneo appena esaminate ci indicano, in conclusione, come la geografia dei trasporti contemporanea si sia arricchita di infinite variabili, che, più che negli stadi di sviluppo ottocenteschi e novecenteschi, si intersecano con dinamiche ed elementi geopolitici di straordinaria intensità e profondità.

Lo stadio trans industriale potremmo, in conclusione, definirlo come «stadio della complessità competitiva» caratterizzato dalla multidimensionalità degli orizzonti, dalla frammentazione dei fulcri geografici, dalla mobilità dei pivot oceanici, che diventano elementi di supply chain planetarie sempre più articolate e sensibili alla variabile geopolitica. 8

BIBLIOGRAFIA

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