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FARE RISTORAZIONE
Autrice: Giulia Zampieri
Sto sfogliando le pagine di un libro edito da Rizzoli nel 1982, A tavola al San Domenico. Si parla naturalmente di lui, il San Domenico di Imola, un ristorante che non ha bisogno di presentazioni. Lì, dove ancora oggi brillano due stelle Michelin, si è scritta la prefazione della cucina italiana e, per quanto già sia stato raccontato, ci sarebbero sempre parole nuove da spendere per elogiare questo inenarrabile palcoscenico di vite e buona cucina. Il libro porta la firma di Gianluigi Morini, rivoluzionario fondatore, lungimirante sognatore, amante del bello e del buono; mentre l’altra metà della pubblicazione accoglie, suddivise per stagioni, le ricette di Valentino Marcattilii, chef per una vita al San Domenico. Inizia proprio dalle parole di Valentino la nostra piccola indagine per definire alcuni tratti indispensabili per essere chef. La sua è una figura di riferimento per il panorama della ristorazione italiana, in Italia e nel mondo. Ha firmato piatti iconici, formato giovani, e trasferito con intelligenza a chi ora ha preso il suo posto, il nipote Massimiliano Mascia.
Valentino Marcattilii
La storia di Valentino Marcattilii è talmenQuali te densa che porgli delle domande dirette, circoscritte, è perdersi metà del racconto. Bisogna lasciarlo andare. In cucina ci è fielementi definiscono nito per caso, complice il desiderio di lavorare con il fratello Natale, da poco assunto in sala al San Domenico - un luogo che ancora non aveva un’identità ma prometteva bene - e complice pure la volontà di andare la figura dello chef? oltre il lavoro nel bar della piazza, forse non abbastanza per uno che dentro covava tanta determinazione e voglia di mettersi in gioco. E dunque, il 18 Luglio 1972, inizia una storia straordinaria. Negli occhi di Valentino si legge ancora la luce di quel primo ingresso in cucina e degli anni a venire, ricchi di incertezza ma segnati da tanta caparbietà e da momenti indimen-
ticabili.
“Non sapevo nulla di cucina, eppure facevo. Ascoltavo lo chef dell’epoca, Romani Visani, e cercavo di stargli dietro imparando in fretta. Ero l’apprendista di cucina. Questo mestiere era tutt’altra cosa, c’era molto rigore, non aveva il fascino di oggi” dice. Dopo qualche anno è giunto il Maestro Nino Bergese, il re dei Cuochi, o il cuoco dei re, com’era definito da molti, convocato da Morini per scrivere un capitolo nuovo del ristorante, poi dilatatosi nel tempo, fatto di innovazioni, basi francesi e di tanta tecnica. Arrivava dalle cucine dei nobili italiani. “La curiosità di apprendere le preparazioni da Bergese era così forte che non vedevo l’ora finisse il servizio per iniziare a provare il pan di Spagna, o le altre ricette che, all’epoca, mi sembravano un sogno. Qui fino al suo arrivo si facevano tortelli alla salvia e fesa di vitello, piatti semplici, che avevamo imparato. Volevo provare, capire dove potevamo arrivare. Ho sentito un autentico
Valentino Marcattilii
trasporto per questo mestiere, un senso di attacca-
mento vero”. L’interesse, l’entusiasmo per il nuovo, elementi importanti, ma non gli unici che servono per essere chef. Valentino continua. “Bergese mi ha insegnato cos’è la tranquillità in cucina, un atteggiamento fondamentale, che ho cercato di trasferire a mia volta. Le ore di lavoro sono tante, i picchi di stress sono frequenti, bisogna saperli gestire. Con il tempo ho imparato anche ad allargare la mente, a far entrare tutto ciò che incontravo, in particolare nell’esperienza del San Domenico a New York, che mi ha affacciato al mondo. Ho cucinato per attori, personaggi illustri, ma non ho mai perso la dedizione per la casacca e per il locale. Quand’ero qui a Imola volevo essere sempre il primo ad aprire”. Oltre all’emozione e all’impegno, di Valentino stupisce la memoria: gli episodi, gli aneddoti, i piatti proposti, i menu, ogni cosa è impressa nel dettaglio nella sua mente. “E sarebbe un guaio se non fosse così! Sono momenti che ho vissuto con molta intensità, non potrei dimenticarli. Quel mattino di metà luglio non lo avrei mai immaginato, ma questo, che sembrava un lavoro come un altro, è diventato la mia vita”.
Gianfranco Pascucci
“A volte mi domando: sarei ugualmente felice se esercitassi la mia professione altrove?”. Il quesito che si pone Gianfranco Pascucci, patron e chef del ristorante Da Pascucci al Porticciolo, a Fiumicino, s’insidia in chiunque abbia a cuore il proprio lavoro e ricerchi nei progetti personali il senso dell’investimento. Per Pascucci l’altrove sarebbe lontano dal suo locale, dove da autodidatta si è formato e affermato con una delle più solide proposte di pesce della costa tirrenica. Altrove sarebbe in un posto non costruito secondo le proprie idee e il proprio gusto, ma secondo le direttive di qualcun’altro. Un luogo in cui magari non si lavorano i migliori pesci del mercato, o non si fa un lavoro di valorizzazione delle aree limitrofe come invece avviene, con massima dedizione, al Porticciolo, per esempio per nobilitare le risorse dell’oasi del WWF di Macchiagrande.
Gianfranco Pascucci
“La risposta è… no, probabilmente non sarei ugualmente felice. Essere chef nel proprio ristorante genera, almeno per me, una sensazione di ricchezza davvero prepotente. Non è una questione di poter impartire ordini o di prendere decisioni sugli altri. Queste penso, mi auguro, siano attitudini di supremazia in via di estinzione. Mi sento ricco nel poter scegliere ottimi ingredienti per la mia cucina, di poterli trasformare come meglio credo; di orientare lo stile e gli abbinamenti attingendo dalle esperienze che faccio. Penso che uno chef debba avere, tra le doti, una grande propensione ad esprimersi. Deve riuscire a veicolare agli altri un pensiero attraverso scelte e preparazioni, siano esse semplici o complesse. Per questo mi ritengo fortunato: qui posso esprimermi!”. Per Gianfranco la capacità espressiva non è, ovviamente, l’unico tassello che serve a chiunque voglia affrontare questo lavoro. “La passione, checché se ne dica, non può mancare. Questa è una professione che richiede passione sia per essere mantenuta, sia per essere coltivata. Avere il fuoco dentro, la fiamma viva, aiuta a superare i ritmi duri,
ma anche spinge a cercare nuove risorse per la cucina, a studiare le tecniche di ultima generazione, a confrontarti con i colleghi. La curiosità verso il mondo non può essere legata solo alla cucina e agli ambienti del ristorante: bisogna essere aperti, attenti alle sensibilità, alle culture che corrono. Se non si tiene conto di questi aspetti mancherà qualcosa nei piatti, nel modo di accogliere, di raccontare. La cucina di un ristorante non è il luogo in cui si soddisfano meri bisogni nutrizionali, ma in cui convergono tantissimi fattori sociali, uno chef oggi deve avere sete di conoscenza. Da unire alla motivazione, alla tecnica, alla propria identità.”.
Marco Caputi
Ha trentadue anni e da sette lavora al Maeba Restaurant, ad Ariano Irpino (AV) un ristorante costruito in un vecchio frantoio del 700. Marco Caputi, diplomato all’istituto alberghiero, si è formato sul campo attraversando svariate cucine, ma una l’ha segnato: Casa del Nonno 13, a Sant’Eustachio, in provincia di Salerno. “Lì ho capito cosa significa amare questo lavoro: essere attenti al cliente, ben organizzati, avere una certa solidità di pensiero, scegliere con coerenza i prodotti che intendi preparare e valorizzare. Non elevo questa esperienza rispetto alle altre, credo che tutto aiuti a fare le ossa, ma sicuramente se incontri le persone giuste, il locale d’esempio, ti arricchisci molto. Per diventare chef occorre però una buona predisposizione ad accogliere, altrimenti può piombarti addosso anche il ristorante migliore del mondo ma non riesci a cambiare marcia”. È curioso chiedergli quando e perché ha deciso di intraprendere la strada da solista. “Se hai voglia, se senti di poter costruire un tuo progetto, quello è il momento giusto. Non sei più un cuoco in quel momento, vuoi assumerti più responsabilità. Così è stato anche per me quando ho deciso di sposare il progetto Maeba. La parte tecnica e quella esecutiva sono rimaste, ma si sono aggiunti molti altri requisiti, come la capacità gestionale, la misura, il coraggio di far uscire la propria identità in un ristorante in cui la tua cucina è protagonista ma deve essere complementare alla sala. Quando diventi chef passi dal replicare un piatto a scriverlo di tuo pugno. Sono entrambi operazioni complesse, se non si ha esperienza e talento non si ha il risultato, ma nel secondo caso bisogna avere anche qualcosa da dire!” Marco non si è fermato, consapevole che la personalità di uno chef debba essere sempre alimentata da nuove esperienze. “Da Alessandro Gilmozzi, a El Molin di Cavalese, dove sono andato qualche mese per uno stage. Ho imparato davvero tanto. Quando, da chef, decidi di trascorrere del tempo in un’altra cucina non ci vai certo per soffiare le ricette, ma per trarre spunti, capire le modalità, la gestione dei flussi. Ho apprezzato tantissimo lo chef Alessandro che mi ha trattato esattamente come fossi uno dei suoi ragazzi. In quei giorni ricoprendo una carica inferiore a quella a cui ero abituato nel mio ristorante non ho fatto passi indietro, ma dieci in avanti!”
“Non è soltanto l’esaurirsi della prima introvabile edizione del 1982 che mi spinge a riproporre una nuova versione di questo libro, ma anche il desiderio di offrire a chi si sveglia la mattina folgorato dalla strada della “padella facile” la testimonianza di quanto valgano lo studio, la fatica, la volontà per gratificare sé stessi e far felici gli altri, misurandosi con l’utopia e credendo nella sua fertilità”. Scriveva così Gianluigi Morini in una successiva edizione del libro A tavola al San Domenico. Un pensiero che, unito alle esperienze sopracitate, aiuta a definire oneri, onori e valori della figura dello chef.
Marco Caputi