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«La disabilità per noi è normalità»
from Stadium n. 4/2022
by Stadium
(VITTORIO BOSIO, PRESIDENTE NAZIONALE CSI)

di Alessio Franchina
È su queste parole del presidente nazionale, Vittorio Bosio, che si fonda tutto il lavoro del Centro Sportivo Italiano a favore delle persone con disabilità che desiderano fare sport. L’attività sportiva è in grado di generare, per sua natura, un contesto privilegiato sotto tanti aspetti; in particolare rispetto a tematiche quali integrazione, socializzazione e inclusione.
Praticare un’attività sportiva e cercare di raggiungere un obiettivo sviluppa autostima, attenzione e benessere, fisico ed emozionale. In particolare, il benessere emozionale equivale alla consapevolezza che tu ce la puoi fare, che qualcuno crede in te, indipendentemente dalle tue abilità.
In una società sportiva che crede e lavora anche per il benessere emotivo puoi trovare persone che ti aiutano, soprattutto in un’ottica di allenamento al miglioramento. Ti consigliano come muoverti per raggiungere risultati migliori, ti spronano a non mollare, ti stimolano a superare fatiche ed ostacoli e questi insegnamenti valgono per tutti, senza differenze, per crescere sia come atleti che come persone. L’attività sportiva diventa così un mezzo meraviglioso per avvicinare le persone e porle al centro di un progetto educativo.
Il CSI poggia il suo impegno nel mondo sportivo su precisi valori e scopi, volutamente inseriti nel proprio statuto e nel patto associativo. L’uomo, la persona umana, è al centro del suo progetto educativo pertanto, a maggior ragione, il CSI vuole operare in un settore, come quello della disabilità, che necessita ancora di essere aiutato a crescere e a raggiungere una dignità sportiva equiparata a tutte le altre attività sportive.
Proprio per raggiungere questo obiettivo e al fine di avviare azioni incisive sia a livello nazionale che di coordinamento sui territori, il Centro Sportivo Italiano si è dotato di un’apposita commissione che lavora in sinergia con tutta l’Associazione, a tutti i livelli.
Attraverso un importante lavoro di rete tra associazioni, società sportive e comitati territoriali sono state infatti incrementate le occasioni di incontro tramite tornei, manifestazioni e corsi formativi.
Moltissime le attività che le società affiliate al CSI, da nord a sud, già propongono con impegno per rendere accessibile la bellezza dello sport anche alle persone che, avendo delle disabilità, potrebbero trovarsi ad essere escluse dallo sport praticato.
A Ravenna, oltre a corsi di qualifica come operatori sportivi per la disabilità ed eventi volti alla promozione dell’inclusione come “Giocando senza frontiere”, meeting dedicato all’inclusione sociale attraverso gare di atletica e tornei dedicati ad atleti con disabilità, e “Correndo senza frontiere” che apre le porte della Maratona di Ravenna Città d’Arte ad atleti impossibilitati ad affrontare distanze più impegnative, scopriamo “Oltre la siepe”, manifestazione nazionale di pallavolo, in collaborazione con la FISDIR (Federazione Italiana Sport Paralimpici degli Intellettivo Relazionali) e patrocinata dal CIP, con il maggior numero di partecipanti con difficoltà intellettivo-relazionali.

Anche a Mantova un “Oltre la siepe” raccoglie, in una giornata conclusiva, tornei all’insegna dello sport inclusivo. A Salerno, “Oltre lo sport” con il basket in carrozzina, è un evento organizzato in occasione della giornata della disabilità in collaborazione con il CUS e associazioni paralimpiche e il patrocinio del CONI e del CIP. A Nuoro “Sulle ali dell’inclusione”, un progetto il cui sviluppo si è articolato in un periodo iniziato ad aprile 2022 e terminato lo scorso novembre, orchestrato dall’ASD Speedysport con il coinvolgimento di ben 10 comuni della provincia, che ha proposto moltissime attività e progetti sportivi per creare una vera inclusione dei ragazzi con disabilità attraverso lo sport.
Troviamo poi le “Virgiliadi” a Mantova, mini olimpiadi dedicate a ragazzi con disabilità intellettivo-relazionali, la “Coppa del sorriso” a Roma, proposta attiva dal 2010 del CSI Roma all’interno della Commissione Sport e Marginalità. Anche tanti altri comitati come ad esempio Foligno, Siracusa, Bergamo, Varese, Brescia, Cava De’ Tirreni, Reggio Calabria, Pesaro-Urbino, Livorno, Volterra, Acireale, Modena, Latina, Firenze, Pistoia, Cremona hanno da tempo incorporato, nelle loro proposte sportive, attività inclusive con un particolare e specifico riguardo alla disabilità.
Ma questi sono solo gli esempi più “evidenti” del grande e quotidiano lavoro che le società CSI fanno, su tutto il territorio italiano, per regalare a tutti i propri tesserati, con o senza disabilità, la possibilità di fare sport… com’è giusto e normale che sia. Da qualche anno, il CSI ha ricevuto dal Comitato Italiano Paralimpico la qualifica di ente di promozione sportiva paralimpico, a testimonianza del grande lavoro svolto quotidianamente dalle oltre 1000 società sportive sparse su tutto il territorio nazionale e che svolgono attività sportive, ludiche e motorie per persone con disabilità.
Il grande lavoro è anche quello di conoscerle e farle conoscere in quanto fare rete è il miglior strumento di promozione di un valore in cui crediamo fortemente: l’inclusione.
Giorgia Greco, una farfalla inarrestabile

Giorgia Greco ai campionati nazionali CSI di ginnastica ritmica del 2018
Stadium ha conosciuto Giorgia Greco ai campionati nazionali CSI di ginnastica ritmica del 2018, impegnata come allieva alla fune. Prima ancora ai regionali della Lombardia. Nella palestra brianzola della Sesto Ritmic Dreams a Sesto San Giovanni la conoscono da sempre. Il grande pubblico l’ha invece scoperta e apprezzata nel 2021 quando in tv, sotto i riflettori di “Italian’s Got Talent”, la giudice Federica Pellegrini con il Golden Buzzer la portò direttamente in finale. La storia di Giorgia parte da una foto, dall’immagine di una bambina di 7 anni che porta i segni evidenti della chemio. In quella foto la piccola è ritratta mentre effettua una verticale a muro con l’apparecchio della chemioterapia attaccato al braccio. Oggi Giorgia ha 15 anni, recentemente al Gran Prix della Federginnastica era a cantare l’inno di Mameli. Gareggia sempre nel CSI con quella stessa passione vitale per la ginnastica ritmica, che dalla sua cameretta ha portato sino in palestra. Con quel suo dinamismo e quella voglia inarrestabile di sport che non si sono fermati nemmeno davanti alla terribile diagnosi del 2014: un osteosarcoma con conseguente disarticolazione della gamba destra. Sempre in pedana, anche da amputata, mai ridimensionato il suo sogno, quello di aggregare altre giovani atlete nella sua medesima condizione e creare un piccolo grande movimento di ginnaste irriducibili quanto esemplari.
Storie stra-ordinarie dai Comitati
La storia di Fabrizietto
di Stefano Soro

Questa è la storia di Fabrizio, alias Fabrizietto, e di quel calcio che ancora conosce il sentimento, la poesia, l’odore dello spogliatoio, la maglia senza sponsor con numeri troppo grandi per lui e che narrano di un giovane apprendista campione. Fabrizio: stravagante, lunatico, angelico, troppo presto orfano di madre e padre, cresciuto in collegio dalle suore e poi escluso dalla vita con un solo amico, il suo dito medio, l’altro da sé, con cui ancora imbastisce discorsi senza fine con domande e risposte e con la voce che cambia a seconda dell’io narrante. Fabrizio: l’uomo giusto al posto giusto, operaio addetto al mangano della lavanderia industriale Coop integrata Spazio Lavoro, un progetto per l’integrazione lavorativa di persone con disabilità. Fabrizietto davanti alla macchina infernale sbuffa, strepita, suda, fatica ma insieme ai suoi colleghi/amici non tradisce mai le aspettative. E la sua passione per il calcio. Correva l’anno… tanta acqua è passata sotto i ponti… immagini sfocate… un campetto di terra, un pallone regalato, magliette di colori diversi, scarpe da passeggio e ragazzi speciali con tecnici volontari e tanta voglia di dimostrare che il calcio, in quanto gioco, ha un’anima ed è un grimaldello per scardinare pregiudizi ed esclusione sociale.
Una grande squadra variopinta che supera la goffaggine ed i sorrisi di sarcasmo con il coraggio di chi è abituato alle sfide con la vita. Fabrizio ha i suoi problemi ma ha anche un’innata capacità calcistica: dribbling, piroette, destro e sinistro, tiri fulminanti, colpi di tacco, cannoniere insaziabile. E poi l’esultanza: un salto mortale, impossibile per tutti. Allenamenti, partite, prati, strade, stadi, qui, là, dove c’è da giocare si va. Grazie all’impegno volontario di tutti, la squadra cresce in autostima e autonomia.
I ragazzi, compreso Fabrizio, sono ormai consapevoli delle loro capacità. Arriva inaspettata la grande notizia: Fabrizio da Ariccia è convocato per la squadra nazionale di calcio Special Olympics, che rappresenterà l’Italia ai Giochi Mondiali di Shanghai, con la fascia di capitano! Incredulo capitan Fabrizio non sta nella pelle. Non dorme pensando al viaggio di 14 ore in aereo, ad un paese sconosciuto, a genti diverse, allo stadio, alle partite, lontano dalle sue certezze però consapevole, nonostante le sue difficoltà, di vivere un sogno. Finalmente si va… da Ariccia a Shanghai… che brivido! Nuovi orizzonti, altre abitudini, giocare con altre nazioni. Sapersi adeguare: un affare non da poco e non così semplice. Nicaragua, Myanmar sotto l’uragano, Irlanda, Principato di Monaco, Fabrizio quando è schierato fa la sua parte…segna ed esulta da giocatore della Nazionale. Arriva la finale: Italia – Guatemala…1 a 0 per l’Italia, 1 pari, 2 a 1 per il Guatemala… Mancano 5 minuti… entra Fabrizio… ormai solo catenaccio… palla che supera la difesa sbuca Fabrizietto e… E qui vorremmo tutti il lieto fine ma, ahimè, il destino fa sbattere il tiro sul palo di sinistra che poi carambola sul palo di destra, ballonzola sulla linea ed esce. L’arbitro fischia la fine. Vice campioni e… scusate se è poco per Fabrizietto, calciatore da Ariccia.
Non più «noi e loro», ma semplicemente «noi»
di Davide Iacchetti
Ci sono bisogni fondamentali che accomunano tutti: essere riconosciuti, avere stima di sé e amarsi, donare e contare per gli altri

La diversità spesso ci mette in crisi, ci inquieta, ci infastidisce, particolarmente quando manifesta una difficoltà, un limite o un deficit. Bartimeo il cieco, seduto al bordo della strada, grida a tutti che lui ha un problema. Dà fastidio, al punto che gli apostoli gli dicono di smettere per non disturbare il Maestro. Ma Bartimeo non grida solo con la voce; le persone con disabilità non gridano solo con la voce, gridano col loro corpo, con la loro presenza. Ci turbano perché di fronte a loro non possiamo rimanere indifferenti, siamo costretti a metterci in discussione. Scattano allora meccanismi di difesa che hanno l’obiettivo di allontanare il problema. La difesa più immediata è l’allontanamento fisico. Un meccanismo molto attivo fino alla metà del secolo scorso, ma tuttora molto presente. Un altro modo per difendersi è quello del pietismo. La pietà è un sentimento molto nobile, ma facilmente si rischia di scivolare nel pietismo dove il problema è quello di mantenere una netta separazione tra “noi” e “loro”: noi siamo i normali, loro i disabili; noi quelli che aiutano, loro quelli che hanno sempre bisogno. Un terzo meccanismo di difesa è la negazione: «la diversità non conta nulla, è una cosa superficiale; in fondo siamo tutti uguali perché siamo tutti esseri umani». Provate a dirlo a chi è in carrozzina e non riesce a camminare! Ma se non siamo tutti uguali, ci difendiamo usando l’idealizzazione: «La diversità è bella! Non siamo forse tutti diversi?» Allora «la diversità è produttiva, è creativa». È un altro modo per squalificare l’esperienza, spesso triste e faticosa, di chi lotta con i propri limiti per cercare una vita dignitosa. Come conciliare questa antinomia irriducibile: essere diversi e uguali insieme? Non rifiutare la diversità, ma da un lato considerarla per quello che è, e nello stesso tempo riconoscere che ci sono bisogni fondamentali che accomunano tutti. Quali sono questi bisogni? Il primo è quello di essere riconosciuti. Poi avere stima di sé e amarsi, con le proprie difficoltà e i propri limiti. Altro bisogno è quello di appartenere, di esserci per qualcuno con la prospettiva di “contare” per gli altri. Non basta l’accoglienza, non basta l’appartenenza, occorre che l’essere con gli altri significhi anche essere utili per gli altri. E l’ultimo dei bisogni è “donare”. Troppe volte alle persone con disabilità è stata tolta l’esperienza di essere un dono, reale e non astratto.
Un dilemma irrisolvibile
Lo sport per sua natura ha la necessità di definire delle regole: senza le regole non ci sarebbe gioco, non ci sarebbe il confronto. Ma proprio perché è necessario, ogni volta che definiamo una regola, creiamo una separazione e quindi facciamo un’operazione di in-clusione e di es-clusione. Questo dilemma irrisolvibile dello sport è spesso anche il dilemma irrisolvibile di tutti i progetti e le proposte per le persone con disabilità. Storicamente come è stato affrontato questo dilemma? Sono due i modelli. Il primo è quello della specializzazione: per poter dare di più e meglio agli atleti partecipanti si crea un territorio culturale ed organizzativo specifico, si creano sport speciali o attività speciali dentro gli sport. Ciò permette una competizione più equilibrata perché si mettono insieme solo persone con un deficit simile. L’esempio a tutti noto è quello delle Paralimpiadi. Questo modello è molto positivo dal punto di vista della crescita e del miglioramento e tuttavia ripropone in maniera drammatica la separazione. Il modello alternativo è quello dell’inclusione, che permette a tutti di partecipare insieme, di socializzare; il rischio tuttavia è che la qualificazione dell’attività venga meno fino al punto che, si dice, «purché si stia insieme va sempre bene». E invece non va per niente bene, perché si rischia di considerare la diversità come qualcosa di squalificato, una zavorra solo inutile. L’inclusione deve anche portare al miglioramento.

La normalizzazione dello sport
Quando pensiamo allo sport normalizzante, ci rifacciamo ai bisogni fondamentali della persona per comprendere come i modelli sportivi rispondano a questi bisogni. Occorre ribadire comunque che non esiste un modello perfetto ed altri negativi: ogni modello ha una sua validità e si adatta a specifiche situazioni. Un progetto di sport “inclusivo” dovrebbe contemplare, in maniera integrata, la proposta di vari modelli. Detto ciò, il primo modello è Fare come gli altri. In questo caso le attività, pur rivolte a persone con disabilità, dal punto di vista dell’organizzazione sono esattamente come quelle di tutti. L’esperienza della normalizzazione si fa quando noi facciamo le cose uguali a tutti, con l’organizzazione uguale a quella di tutti, con rispetto delle regole, non solo quelle di gioco che magari possono essere adattate, ma quelle dello sport: l’agonismo, l’impegno, la serietà, l’amicizia e così via. Concretamente: stessi impianti sportivi di tutti, partite regolari, arbitri ufficiali, allenamenti e campionati, perché non si fa sport due giorni all’anno, la classifica che è il modo con cui ci si confronta con i propri risultati, la festa, il pubblico e anche i premi, che sono un altro modo di riconoscere quello che uno fa.
Stare fra gli altri. Anche in questo caso si tratta di attività che vengono svolte da persone con disabilità, che tuttavia si svolgono in un contesto in cui ci sono tutte le altre categorie di atleti, giovani, adulti, ragazzi e ragazze. Si crea così uno spazio di assoluta integrazione perché lo sport non si identifica con la gara, ma con esperienze sociali più ampie e la squadra non vive soltanto sul campo.
Contare per gli altri. Ognuno di noi sente che è davvero se stesso quando ha qualcosa da regalare e donare agli altri. Non basta che la mia presenza nella squadra venga accettata, occorre che sia desiderata e utile. Per fare questo è necessario che le regole del gioco vengano modificate e adattate in modo che le potenzialità di ciascuno siano valorizzate e rese preziose per la squadra.
Misurarsi con gli altri. Lo sport insegna a riconoscere i limiti e ad amare se stessi nonostante i limiti. Questo è complicato e difficile per le persone con disabilità, ma lo sport è un buon aiuto. E tuttavia i limiti esistono anche per essere combattuti e quindi per riuscire a migliorare.
Troppo spesso alle persone con disabilità non si chiede di cambiare, di combattere, di migliorare; vengono trattate da “croniche”, da proteggere e si toglie loro la speranza.

Affinchè lo sport diventi normalizzante occorrono allora due cambiamenti radicali, perché lo sport storicamente non è adatto a svolgere una funzione di normalizzazione delle persone con disabilità. Innanzitutto occorrono dei cambiamenti del contesto: gli impianti, il terreno di gioco devono essere modificati perché siano aperti e accessibili davvero a tutti. E non parliamo solo di barriere architettoniche. Occorre inoltre un cambiamento delle regole, che devono essere adattate a tutti, diverse perché siano commisurate a ciascuno, permettendogli di esprimere se stesso e di contare per gli altri, confezionate sulle risorse e non sui deficit. In questa dimensione relazionale complessiva, olistica oserei dire, la diversità non è né un limite né una risorsa, ma è semplicemente una modalità della vita che appartiene a tutti, che condiziona tutti, che aiuta tutti. Per questo occorre andare oltre l’integrazione, oltre l’inclusione, per realizzare la normalizzazione.
Non più PARAlimpiadi, ma ALLimpiadi, non più calcio integrato ma calcio, non più baskin ma basket, non più sport speciali ma semplicemente sport. Possiamo così sperare di superare tutte le barriere che continuano a dividere persone con disabilità e persone non disabili, barriere prima di tutto culturali.
È la diversità che è normale e possiamo riconoscerci tutti come persone e cittadini dello stesso mondo.
Non più “noi e loro”, ma semplicemente “noi”.


Christian, la forza della vita
di Silvia Merli

Una sofferenza cerebrale alla nascita toglie alcune possibilità al ragazzo ma non la capacità di mostrare al mondo le sue qualità di vincente. Mamma Silvia racconta la sua storia
Da quel giorno sono passati quasi 12 anni, ma lo ricordo come fosse ieri il giorno della nascita di Marco e Christian, i miei due gemellini. La dottoressa ci chiama, ci fa entrare, ci fa sedere. Sicuramente vuole aggiornarci sulle condizioni dei bambini. E invece le parole sono altre: il cuore di Christian si era fermato. Il cuore del mio bambino appena nato, prematuro di 2 mesi, del peso di poco più di 1 kg. Il suo cuoricino si era fermato. Penso che in quel momento anche il mio si sia fermato, forse per qualche secondo. Quello di Christian per 20 minuti.
Lei inizia a dire cose tipo «l’abbiamo rianimato, l’abbiamo intubato…» ma io non sto più ascoltando, piango, voglio solo andare a vederlo, vedere se è vivo, se respira. Mi accompagnano e lo trovo in una culla termica, con tanti tubicini attaccati, macchinari intorno a lui che suonano e scandiscono i battiti del suo cuore e, a questo punto, la stoccata definitiva: “paralisi cerebrale”, il suo cervello ha riportato un danno.
E a quel punto i miei pensieri iniziano a galoppare. In quel periodo lavoravo nelle scuole come assistente educatrice, affiancavo i bimbi disabili nelle loro giornate scolastiche, vivevo e condividevo le loro gioie e le loro fatiche e quelle delle loro famiglie. Ora ci sarei stata io dall’altra parte, sarei stato io il genitore da confortare, qualcuno avrebbe parlato a me delle fragilità di mio figlio, io avrei avuto bisogno dei servizi sociali; sarei andata agli incontri in neuropsichiatria da genitore non da insegnante e tutto quello che io dicevo alle famiglie dei miei bambini qualcuno ora lo avrebbe detto a me.
Non è così che doveva andare. A volte la vita non va come ti aspetti, come l’hai pensata, come l’hai programmata... ma è così che è iniziata la storia della nostra “famiglia speciale”. Abbiamo avuto la fortuna che la disabilità di Christian si è manifestata piano piano. Man mano che lui cresceva cercavamo di capire quali potessero essere i suoi punti di forza e le sue fragilità, gioivamo di ogni sua conquista e di ogni suo progresso, ma presto abbiamo capito che le sue difficoltà motorie erano serie, il paragone con il fratello gemello era inevitabile. Marco striscia e lui no, Marco gattona e lui no, Marco si alza in piedi e lui no. E così inizia il percorso di riabilitazione, ginnastica, specialisti, psicomotricità, ricerche varie, non sempre fruttuose e non sempre utili. A volte lo sconforto prendeva il sopravvento e, aggrappati alla speranza e all’illusione di poter trovare qualcuno che ci potesse aiutare, che potesse aiutare Christian, purtroppo ci siamo imbattuti in venditori di fumo che promettevano il miracolo, e ci abbiamo voluto credere, ci abbiamo voluto provare, perché il dolore e il dispiacere erano talmente grandi da annebbiare quasi la mente e renderci irrazionali. Gli incontri con queste persone però ci sono serviti per farci capire, fortunatamente, quale fosse la strada giusta da seguire. Finché Christian era piccolo tutto è proseguito abbastanza tranquillamente. Poi però Christian ha iniziato a diventare grande, il passeggino che usavamo per portarlo fuori stava un po’ stretto, e all’età di 4 anni ci è stata prescritta la prima (di tante) carrozzina. Noi eravamo anche contenti tutto sommato, perché lui sarebbe stato più comodo e avrebbe potuto essere un pochino indipendente (e in realtà all’epoca avevamo ancora la speranza che avrebbe potuto camminare). Ma quando l’abbiamo visto per la prima volta seduto su quella carrozzina verde l’impatto è stato devastante. È come se la disabilità si fosse di colpo materializzata e manifestata in tutta la sua spietatezza.
Pochi giorni dopo la consegna della carrozzina siamo partiti per le vacanze al mare e lì abbiamo avuto per la prima volta un assaggio della quotidianità con la nostra nuova compagna di viaggio. Non avevamo mai pensato a quanto fosse difficoltoso spingere una carrozzina sulla spiaggia, non avevamo pensato di chiedere in hotel se l’ascensore fosse abbastanza largo, non abbiamo calcolato che nel baule ci sarebbe stato meno spazio per i bagagli… Ora queste cose le abbiamo imparate, queste e altre. Sappiamo per esempio che non possiamo decidere all’ultimo momento di partire in treno per una gita perché la pedana per salirci si deve prenotare con giorni di anticipo;
sappiamo che se vogliamo andare al mare dobbiamo assicurarci che la spiaggia non sia rocciosa, che ci sia una pedana che porta fino alla riva, che abbiano una sedia job per entrare in acqua. Se vogliamo fare una passeggiata in montagna dobbiamo cercare dove sono indicati i sentieri accessibili, se vogliamo andare in un parco divertimenti dobbiamo prima capire se ci sono delle attrazioni che Christian può usare, se vogliamo andare al ristorante ci dobbiamo assicurare che non sia troppo affollato e che ci si riesca a muovere senza far alzare tutti per passare. Se Christian deve andare in gita con la scuola dobbiamo far presente che serve il pullman con la pedana (anche se costa

di più). Tante piccole cose a cui normalmente non si deve pensare, ma con il tempo ci siamo abituati e le difficoltà pratiche le sappiamo abbastanza gestire. Quello che invece facciamo tanta fatica a gestire è la parte emotiva e sentimentale. Christian è ormai un ragazzo, è pienamente consapevole della sua disabilità; spesso in casa ci scherziamo e facciamo battute, ma ci sono cose che lo turbano tanto. Un giorno, appena tornato da scuola, ha iniziato a piangere in un modo disperato e inconsolabile e mi ha detto che mentre passava nei corridoi della scuola si è accorto che un ragazzo più grande rideva di lui. Mi ha chiesto perché lui è così, perché è successo proprio a lui, ha voluto sapere se la sua vita sarebbe sempre stata così, ha detto che non voleva più uscire di casa perché non voleva essere preso in giro, che sarebbe stato meglio se non lo avessi fatto nascere… e per una mamma è terribile sentire queste cose e sapere che il proprio figlio prova questo dolore.
Io so che nella vita incontrerà gente stupida e insensibile e gliel’ho spiegato, ma gli ho voluto dire che incontrerà anche persone che gli vorranno bene e che lo sapranno apprezzare per com’è se solo avranno la pazienza e la volontà di conoscerlo. Noi siamo stati fortunati negli incontri, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere persone fantastiche che dedicano tempo prezioso, anche sottraendolo alle proprie famiglie, per stare vicino a questi ragazzi, farli divertire, farli svagare, e per noi genitori è bello vedere Christian vivere questi momenti di spensieratezza.
Un esempio lampante lo abbiamo quando vediamo Christian con la sua squadra di calcio. Ebbene si, lui gioca a calcio. È sempre stato il suo grande desiderio ma per anni glielo abbiamo dovuto negare perché non abbiamo mai trovato una squadra adatta ad accoglierlo. Lo abbiamo sempre portato allo stadio a vedere la sua amata Atalanta ma lui non era mai sceso in campo fino a quando un paio di anni fa ha potuto tesserarsi, come atleta CSI, in una squadra vera nata nella società del nostro paese: “AIB Special”. E sì, è veramente una squadra speciale, composta da giocatori molto speciali e allenatori e volontari ancora più speciali. Per Christian gli allenamenti del sabato sono un appuntamento imperdibile. Li aspetta con impazienza per tutta la settimana, a casa si vuole allenare perché il Mister deve essere orgoglioso di lui, si esalta quando parla con i suoi compagni di classe perché anche lui può raccontare come è andata la sua partita, con la sua squadra, si sente parte attiva di un gruppo, sente forte in lui questo senso di appartenenza e di inclusione. A nessuno interessa il risultato o la prestazione ma in questo caso più che mai lo sport aiuta a stabilire relazioni, crea buon umore e infonde maggior fiducia in se stessi. Quando Christian è in campo e prende la palla ed entra nella porta con tutta la carrozzina e la lascia cadere oltre la linea, lui bacia la sua maglia ed esulta come se fosse il più grande giocatore al mondo, e per noi lo è.
Inutile negare che le difficoltà ci sono e ci saranno ma, se Christian può affrontare tutto questo, possiamo anche noi!
Move City Sport, progettare la libertà
Diverse le voci che hanno dato vita, lo scorso ottobre, al workshop “Progettare la libertà: lo sport come diritto… per tutte le abilità” organizzato da CSI Lombardia e LEDHA Lombardia a “Move City Sport”, la fiera dello sport per il benessere svoltasi a Bergamo. Introdotti da Marco Zanetel, responsabile Terzo Settore e cittadinanza attiva del CSI Lombardia, e coordinati da Maurizio Trezzi, giornalista professionista, i relatori hanno introdotto al mondo della disabilità. Sono intervenuti: Vittorio Bosio, presidente nazionale del CSI; Gaetano Paternò, presidente CSI Comitato di Bergamo, Carlo Boisio, presidente del CBI – Coordinamento bergamasco dell’inclusione e referente di Bergamo per LEDHA - Davide Iacchetti, componente della Commissione Nazionale CSI - attività paralimpiche, Felicia Panarese, Segretario territoriale di Sport e Salute, Massimo Achini, presidente CSI Comitato di Milano, Armando De Salvatore, responsabile CRABA –LEDHA e Alessandro Munarini, responsabile nazionale CSI delle attività paralimpiche. Dai diversi punti di vista hanno affrontato il tema della disabilità nel mondo dello sport.