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«Per questo mi chiamo Francesco»
from Stadium n. 4/2022
by Stadium
Lo chiamano Messi, per via del cognome, ma oggi per Francesco Messori, capitano della Nazionale di Calcio Amputati, è il suo nome ad essere più importante
di Alessio Franchina
Nato senza la gamba destra, ma con tante ambizioni nel calcio. Dagli inizi in oratorio, fino al primo gol in azzurro CSI. Un tatuaggio “provocazione”, i recenti Mondiali FISPES. Il giovane calciatore di Correggio racconta a Stadium tutto il suo percorso.
Partiamo da quando ancora non eri il Francesco Messori che ormai conoscono in tanti ma solo il piccolo Francesco che voleva a tutti i costi giocare a calcio anche con una gamba sola. Quando e come è iniziata la tua avventura nel mondo del calcio?
Sono nato senza la gamba destra, ma questo non ha mai fermato le mie ambizioni. Sono sempre stato appassionato di calcio. Volevo giocare e ho iniziato a farlo. Inizialmente con la protesi, la stessa che usavo ad un anno e mezzo e con cui ho iniziato a camminare e che mi ha accompagnato fino al termine delle scuole elementari, poi con le stampelle. All’età di 7 anni ho iniziato a frequentare i campi della parrocchia San Prospero di Correggio, dove sono stato accolto. Alla Virtus Correggio il primo tesseramento, poi ho giocato a Mandrio. I ragazzini erano curiosi ma non mi hanno mai fatto del male. Magari qualche fatica in più con i miei compagni di gioco: dovevo essere io a dare fiducia a loro che, vedendomi senza una gamba, non mi giocavano contro come dovevano quando avevo la palla. Mi dava fastidio, perché evidentemente non mi consideravano alla pari.
E poi, nel febbraio 2012, a 13 anni, hai creato il gruppo Facebook “Calcio Amputati Italia” e hai scritto il primo post che ha dato il via a tutto. Cosa ti ha spinto a farlo?
Ne ho parlato anzitutto con i miei genitori, che ringrazio sempre perché sono stati i primi a dover affrontare la mia disabilità, prima ancora di me. Ma l’hanno superata. E l’hanno fatta superare a me. Mi hanno mostrato sempre per quello che ero, senza nascondermi a nessuno. E crescendo questo mi ha aiutato nel costruire il mio rapporto con gli altri. Nel 2009 è arrivato Facebook in Italia e mia madre, che è la più sportiva fra noi due, ha deciso di assecondare il mio desiderio di creare il gruppo Facebook “Calcio Amputati Italia” e di pubblicare un post in cui dicevo apertamente che sognavo di confrontarmi, col pallone, con altri ragazzi amputati in giro per l’Italia. Da lì subito le prime adesioni. Nemmeno un anno e una dozzina di consensi dopo è nata la squadra nazionale e ad Assisi, grazie al CSI, ho capito che il mio sogno era divenuto realtà.
A soli 10 mesi da quel post, a dicembre dello stesso anno, al meeting annuale di Assisi del CSI, la Nazionale Italiana Calcio Amputati viene ufficializzata. Un traguardo raggiunto a tempo di record. Come ti sei sentito in quell’occasione ma anche nei mesi precedenti in cui vedevi il tuo sogno prendere forma?
Penso spesso anche oggi a quanto mi è successo. E solo adesso riesco a vedere tutto il bello di quello che è avvenuto. Prima non mi accorgevo di queste grandi cose. A quei tempi ero ancora troppo piccolo, troppo bambino. Oggi invece le riconosco. Penso, e spero, di essere più maturo oggi. Mi è cresciuta anche la barba…
Dal mondo CSI a quello della FISPES per arrivare, nel 2018, al Mondiale. C’era anche questo nei tuoi sogni di ragazzino?
Attraverso il CSI la nostra squadra ha ricevuto l’invito a partecipare, prima volta nella nostra storia, ai Mondiali di calcio per persone amputate; eravamo nel 2014 ed il torneo si è giocato in Messico. La nostra squadra è stata successivamente riconosciuta ufficialmente tra le discipline della FISPES (Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali). Anche nel 2018 abbiamo partecipato ai Mondiali arrivando fino agli ottavi di finale, battuti dall’Angola, che poi avrebbe vinto quel Mondiale. Nel Mondiale di alcuni mesi fa, giocato in Turchia, siamo arrivati ottavi. Non male anche se avevo la sensazione che avremmo potuto fare qualcosa di più. Comunque a livello europeo siamo secondi, dietro solo alla Turchia. Proprio non male. Tra due anni (nel 2024) ci saranno gli Europei. Sono convinto che se arriveremo al top della condizione, potremo fare bene. Spero che il movimento di calcio per persone amputate possa crescere sempre di più. In questo momento in Italia ci sono in tutto 4 squadre per 40 atleti.
Nel tuo libro “Mi chiamano Messi” racconti dell’abbraccio silenzioso e rassicurante che si sono scambiati i tuoi genitori quando hanno avuto notizia che saresti nato con una gamba sola. Ne parli come di un gesto che ancora oggi, anche nell’affrontare i Mondiali, ti ha regalato molta forza. Cos’hanno rappresentato, nella realizzazione del tuo percorso, la forza, la serenità e il sostegno dei tuoi genitori?
I miei genitori mi hanno sempre trasmesso serenità e forza per accettare le sfide della vita. Non si sono mai vergognati, anzi andavano orgogliosi. Senza di loro non sarei qui. Non sarei quello che sono.
Ti riporto tre concetti che appaiono più volte nel tuo libro: “rispetto del proprio corpo”, “fortuna” e “musica”. Che rapporto hai con ciascuno di loro?
La musica per me è mio padre. Amo la musica e papà mi ha trasmesso il gusto per Chopin, il suo pianista preferito come compositore. O Rubinstein come interprete. Mi lega a mio padre anche il fatto di aver inciso due dischi insieme. Uno nel 2009, a dieci anni. L’altro nel 2017. Solo cover di Michael Jackson, Phil Collins, Elton John, Stevie Wonder… artisti così insomma.
Fortuna vuol dire crederci sempre. E occorre cercarla. Fortuna sta nell’incontrare, giorno per giorno, le persone giuste. Penso ad esempio alla fortuna di giocare nella squadra della Nazionale. Penso alla fortuna di avere dei genitori come i miei prima di tutto. Poi l’aver incontrato Massimo Achini, allora presidente del Centro Sportivo Italiano; poi tutte le altre persone del CSI che hanno sempre creduto in me. Il mister Renzo che mi ha accolto al campo della parrocchia. Ecco, questa è fortuna.
Per quanto riguarda il rispetto del proprio corpo penso che ognuno sia speciale a modo suo. È unico e per questo deve rispettare la persona che è ed il corpo che ha. Credo che ognuno debba seguire la strada per la quale è stato pensato.
E il tuo rapporto con la fede invece? Hai potuto incontrare tre volte papa Francesco e, sempre nel tuo libro, scrivi che tua mamma aveva pensato che, forse, il Signore stava mettendo alla prova la vostra famiglia con la tua disabilità. Ritieni che sia così? Pensi che una disabilità possa essere anche un dono?
Apro un discorso che non ho mai fatto con nessuno al di fuori della mia famiglia. Sono reduce dall’anno più difficile della mia vita, dovuto ad una grave crisi depressiva in cui sono entrato. Depressione riferita essenzialmente ad una crisi d’identità. Non mi riconoscevo più. Mi chiedevo chi fosse il vero Francesco. Se quel ragazzino nato senza una gamba o il personaggio costruito in seguito. Mi faceva paura tutto quello che ero diventato. E ho toccato il punto più basso. Ecco allora la fede. Penso di non poter raccontare oggi una storia più bella di questa. Perché in questo momento difficile io mi sono sentito amato dal Signore. Proprio nel grande dolore, anzi solo nel dolore credo si possa conoscere Dio. Non in altre cose. Lui ci mostra la strada per conoscerlo. E la strada è la croce. Ognuno ha la sua. Sono fermamente convinto, dopo la mia esperienza personale e quanto mi è accaduto, che il Signore veda nel segreto, e venga per guarirti. E io personalmente sono stato guarito, magari da falsi idoli che potevo avere. Quelli che forse mi ero costruito con il mio personaggio.
In che senso?
Quello di prima, probabilmente, non era il vero Francesco. Ed io, dopo questo periodo importante della mia vita, ho ricevuto un nome nuovo. Che è sempre Francesco, ma un altro Francesco. Il nome con il quale io veramente sono nato e che forse è stato un po’ coperto da tutto il resto. Io l’amore di Dio me lo spiego solo con le lacrime. Durante questa crisi piangevo quasi sempre ma, nello stesso tempo, sentivo che mi arrivavano dei messaggi forti. Ho sentito l’amore di Dio attraverso le lacrime. Ho provato una gioia che apre nuovi orizzonti. Oltre qualsiasi felicità terrena. E ho iniziato a vedere con occhi diversi. Mi piace condividere tutto ciò con Stadium e con il CSI, per quanto ha fatto per me e per come lo conosco legato ai valori della Chiesa.
Senti ora il desiderio di tornare dal Papa?
Oggi più che mai. Non vedo l’ora di incontrarlo di nuovo. Magari anche per una Messa a Santa Marta. Quel famoso 7 giugno lo vidi con altri occhi. Di recente sono stato in Terra Santa e anche questo viaggio è stato un bel coronamento di questo mio nuovo percorso.
Hai raccontato anche di una tua esperienza a Gardaland dove ti era stato proibito (anche se poi hai ricevuto debite scuse), immotivatamente, l’ingresso ad alcune attrazioni. Troppe volte la disabilità significa esclusione. Noti dei miglioramenti oggi da questo punto di vista? Pensi si stia facendo abbastanza per garantire a tutti almeno l’equità dove non è possibile l’uguaglianza?
A Gardaland, dopo 70 minuti di fila, non mi fecero salire su una giostra a causa della protesi. Diversamente a Mirabilandia ho potuto fare anche le adrenaliniche. Spero che presto ogni divertimento possa essere accessibile a tutti. Dappertutto. Perché è sempre meglio essere attori che spettatori, ovunque.
Posso dire che hai trovato nell’ironia un gran bel sistema per mettere a tacere gli sguardi, magari a volte un po’ insistenti, delle persone? Mi riferisco in particolare al tuo tatuaggio... (It’s only one leg less)
È il mio motto. L’ho fatto a 16 anni per provocare. Mi piace sempre. Mi osservi il collo e vedi scritto “Ho solo una gamba in meno”. Chi mi guarda pensa magari che io sia un poverino. Ed invece la frase vuole essere uno stimolo a riflettere. Un altro tatuaggio, ma virtuale, è quello del CSI, perché è inciso nel mio cuore. È grazie al CSI se oggi sono quello che sono. L’ambiente che ho potuto frequentare, le persone che hanno creduto in me. L’enorme lavoro fatto per la Nazionale… addirittura cambiando le regole affinché potessimo giocare!
Ho letto la bellissima lettera che ti ha scritto una tua insegnante di lettere. Parole significative che ti hanno scaldato e sicuramente anche motivato. Ne regali tu alcune a tutti i nostri ragazzi e ragazze, amanti dello sport giocato sul campo, che si impegnano a rincorrere, con o senza le fatiche di una disabilità, il proprio sogno? La dedica di Francesco Messori per loro?
Una lettera bellissima, da pelle d’oca. Commovente. Io dico di credere sempre nei propri sogni. Di farsi sempre aiutare dai vicini, dagli amici e non cercare di fare tutto da soli. È grazie al gruppo che talvolta si realizzano i sogni.
E, a chi si sente perso o non ha motivazione nella vita, disabile o no (e forse mi rivolgo più ai normodotati che le difficoltà le hanno dentro) voglio ricordare senza presunzione che noi siamo chiamati. Ognuno di noi è stato pensato ancora prima di nascere. Se siamo qua, c’è un motivo. Qualcuno ti ha amato ancor prima che tu nascessi. Questo è il messaggio più importante della mia vita. Da questo deve nascere qualsiasi idea, qualsiasi speranza, qualsiasi sogno.
Oggi sembri assai più vicino al Messia che a Messi. Ma dopo tanti titoloni fatti su di te, “Il Messi di Correggio”, “Oltre le gambe c’è di più”, “Il mio piede sinistro”, possiedi in cuor tuo un titolo inedito, che nessuno ha mai scritto?
Ho vissuto tutta un’altra vita in quest’ultimo anno e sto pensando di scrivere un altro libro.
Dopo “Mi chiamano Messi” mi piacerebbe che il titolo del nuovo libro, che arriva al termine di un grande cambiamento, fosse: “Mi chiamo Francesco”.

La lettera della professoressa
Caro Francesco, ti ho incontrato la prima volta tra una folla vociante di ragazzi in partenza per Torino, la gita, la “grande vacanza” che anche la scuola concede! Non ti nascondo che il mio sguardo si è fermato su di te, sulle tue stampelle, sulla tua gamba e sui tuoi bellissimi occhioni azzurri... Quella giornata mi stava insegnando che avevi gambe più forti, più allenate e più veloci della maggior parte di tutti noi. Tutti incontriamo ostacoli o viviamo difficoltà fisiche, emozionali, psicologiche: sono come montagne sulla nostra strada. Possiamo fermarci a guardarle intimoriti e lasciarci sopraffare o possiamo provare a scavalcarle e fare dei nostri impedimenti e delle nostre diversità i nostri punti di forza. L’autunno successivo ti ho ritrovato tra i banchi della mitica III D RIM e sei stato un mio allievo dei corsi di Italiano e Storia negli anni del triennio, fino alla maturità. È stata per me un’altra occasione di scorgere “un varco rotto nella rete”, di scoprirti oltre lo scatto della gazzella.... Mi hai rafforzata nel credere che agli studenti vada data la possibilità di portare alla luce i propri talenti dal porto sepolto e di scegliere la lingua che amano per esprimersi. Mi hai convinta che a lezione è bello portare anche la voglia di coltivare i sogni. Ecco perché non ti lascerò scivolare tanto facilmente dai ricordi.
Cristina Guidotti