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«Dalle pari opportunità alle pari probabilità»

Il percorso di emancipazione femminile nel mondo sportivo, attraverso le immagini, la partecipazione, il linguaggio e i diritti di atlete, regine e “signorine”

di Antonella Stelitano

Se c’è un’attività che più di altre ha contribuito al processo di emancipazione della donna, questa è certamente lo sport. Attività per secoli declinata prettamente al maschile, legata a concetti di forza, di lotta, di addestramento militare, sul finire dell’Ottocento registra la richiesta di partecipazione di fasce sempre più ampie della popolazione e, da subito, si pone un problema: le donne possono fare sport?

Passi che si cimentino nobildonne ed esponenti dell’alta borghesia, per le quali lo sport è il nuovo loisir, che esprime aderenza alle mode europee, quasi uno status symbol che apre a una nuova visibilità, fuori dal contesto perimetrale di casa.

Ma quando a chiedere di fare sport sono le donne del popolo, le cose cambiano, perché se da un lato le protagoniste ne intercettano il potenziale che ne favorisce l’empowerment, dall’altro la società ne comprende subito i pericoli: lo sport rischia di cambiare l’immagine della donna sovvertendo l’ordine sociale costituito.

Non si spiegherebbero altrimenti le innumerevoli e fantasiose obiezioni che vengono da subito sollevate. La prima è che lo sport nuoccia gravemente al delicato fisico femminile, che non può sopportare attività ad alta componente atletica. Peccato che le stesse obiezioni non furono mai mosse nei confronti di quelle donne, talvolta poco più che bambine, che lavoravano anche per 12 ore in fabbrica, in filanda, sui campi. Lì, d’altronde, si restava sotto il vigile controllo maschile.

Nessun pericolo. Lo sport, invece, permetteva a queste strane donne di uscire di casa, di incontrare altra gente, di mettere in mostra forza, coraggio, autonomia e altre capacità. Pensiamo solo al potere straordinario che ebbe l’immagine di una donna in bicicletta: una donna in grado di governare un mezzo meccanico, di muoversi liberamente, di indossare dei pantaloni.

E se le obiezioni mediche non bastavano, ecco che il mondo maschile è subito coeso nell’intercettare altri pericoli legati alla morale: una donna che vuole fare sport non è altro che un fascio di nervi che deve sfogare i suoi istinti, o una donna che apprezza troppo la promiscuità di ambienti che sono ancora prettamente maschili, o che vuole mettersi in mostra con un abbigliamento che più che razionale viene considerato sconcio.

D’altronde lo stesso Pierre de Coubertin fu sempre contrario ad aprire alle donne i Giochi Olimpici. Riferendosi allo sport diceva: «Questo scompiglio non è fatto per le donne, Esso non giova mai loro. Se esse vogliono affrontarlo, che avvenga nel loro privato». In casa, in giardino. Ma non fuori. In pubblico, infatti, una donna sportiva resta oggetto di scandalo, per l’abbigliamento certo, ma anche per quella mascolinità che si associa al gesto atletico e che avrebbe fatto perdere grazia e femminilità. Così la pensa anche il giornalista del “Corriere della Sera” che in un articolo del 31 gennaio 1896, riferendosi alle donne sportive, le identifica come «Il terzo sesso»: non sono certo uomini, ma perdendo grazia e femminilità, cessano anche di essere donne.

E, se perdono femminilità e grazia, vedono scendere inevitabilmente le possibilità di sposarsi, metter su famiglia e fare figli. Ovvero un fallimento completo della loro vita, che è ancora legata alla funzione di moglie e madre.

Ecco perché il diritto allo sport è stato un diritto difficile da conquistare per le donne. Ed ecco perché la presenza delle donne nello sport si presta ad essere un misuratore della condizione femminile della donna nei rispettivi Paesi: dove alle donne non è permesso fare sport o si incontrano limitazioni per accedere sia allo sport praticato sia ad altri ambiti di realizzazione professionale ad esso collegati, state pur certi che lì, in quegli stessi Paesi, le donne incontrano ostacoli anche per affermarsi in altri contesti della vita sociale.

È difficile trovare un misuratore comune per analizzare l’evoluzione della presenza femminile nello sport nell’ultimo secolo. L’unico che abbiamo a disposizione è fornito dai numeri sulla partecipazione femminile ai Giochi Olimpici, che di fatto è una fonte di dati di valore internazionale. Scopriamo così che nazioni che non hanno incluso le donne nelle proprie rappresentative olimpiche sono quelle che presentavano condizioni sfavorevoli per le donne non solo nello sport ma anche nella vita sociale.

Fa sorridere quindi sapere che, ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952, su 69 Paesi partecipanti erano 27 quelli che non comprendevano donne nella loro delegazione, ma che «l’Olanda, paese governato da una lunga serie di regine, diede il più alto apporto femminile, tanto come cifre di partecipazione che come ripartizione di punti conquistati in gara».

Se una donna può governare un Paese, può dunque anche fare sport e questo la dice lunga sul legame tra sport, donne e società.

Oggi, guardando alla maggior parte dei Paesi, compreso il nostro, possiamo dire che le donne (tutte le donne: bambine, ragazze, adulte e con disabilità) hanno conquistato il diritto di praticare qualsiasi sport, come previsto dalla Carta Internazionale dello Sport e dell’Educazione fisica dell’UNESCO che per prima sancì questo diritto. Ma alcune disparità resistono ancora. Le ritroviamo, in Italia, riferite alla governance sportiva, dove le donne restano ancora meno presenti degli uomini. Le percentuali di presenza sono esattamente quelle previste dalle norme che tutelano le cosiddette “quote rosa”: 30% o poco più. Una conseguenza legata sia a una tradizione al maschile in fatto di leadership, sia alla difficoltà oggettiva che ancora molte donne incontrano nel conciliare i tempi della loro vita (lavoro/famiglia) con quelli necessari per acquisire quel capitale di fiducia che consente loro di essere votate per ricoprire ruoli di dirigente. Altra differenza riguarda il trattamento economico, i contratti e le sponsorizzazioni.

Le donne, salvo rare eccezioni, guadagnano meno degli uomini, anche quando praticano lo stesso sport o conseguono gli stessi risultati. Anche qui sono stati fatti molti passi avanti, equiparando ad esempio i premi per competizioni importanti. Ma dietro la punta dell’iceberg le differenze resistono e rendono più difficile per una donna vivere di solo sport rispetto ad un uomo.

Un’ultima cosa, che fortunatamente va scemando, è il linguaggio con cui si descrivono le sportive. Veniamo da decenni di descrizioni che hanno indugiato più su aspetti fisici (in negativo o positivo) che sulla prestazione tecnica. Ci sono state campionesse descritte (ARPINO G., “Lo spirito dello sport” in Sport, etiche, culture, Volume I, Diritti Umani, Società Olimpismo, Ed. A. Daino per Panathlon International, 2003/4, pag. 16.) come «la mammina della Val Badia» (Maria Canins), o donne ingegneri di Formula 1 che sono indicate come «mamma ai box».

L’indugiare sulle caratteristiche fisiche, sottolineandole nel bene e nel male, sembra sia un obbligo a cui l’immagine della donna ancora oggi non può sottrarsi e che troppo spesso viene fatta notare.

Se guardiamo il fenomeno nel suo complesso, ritroviamo, insomma, in ambito sportivo le stesse differenze che possiamo rilevare in altri ambiti della vita sociale, dove le donne patiscono ancora trattamenti economici diversi, commenti fuori luogo sul loro fisico e maggiori difficoltà ad accedere a ruoli di governance.

Rubando una citazione a Silvia Salis, anche se esistono pari opportunità, di fatto non ci sono ancora le pari probabilità che ciò avvenga. Tutto ciò per dire che guardare alla storia dello sport femminile significa molto più che prestare attenzione a ciò che le atlete fanno e ai risultati, peraltro importanti, che hanno fin qui collezionato.

Significa dotarsi di un passepartout per analizzare, sotto una lente differente, la storia del nostro Paese.

Oggi, guardando alla maggior parte dei Paesi, compreso il nostro, possiamo dire che le donne hanno conquistato il diritto di praticare qualsiasi sport, come previsto dalla Carta Internazionale dello Sport e dell’Educazione fisica dell’UNESCO che per prima sancì questo diritto
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