La_morte di Ivan Ilijc

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XVII. — Così vivevamo. Le nostre relazioni diventavano sempre più ostili, e finalmente giunsero a tal punto che non erano i dissensi che producevano l'odio, ma l'odio che produceva i dissensi: essa stava per dire una cosa e io già la contraddicevo prima che l'avesse detta, e lo stesso faceva lei. Ma al quarto anno eravamo già a tale che comprendevamo l'impossibilità di star d'accordo. Smettemmo perfino di tentare di condurre un discorso sino alla fine. Sulle più piccole cose, specialmente quando si trattava dei bambini, ognuno rimaneva con la sua opinione. Come ora ricordo, le opinioni che io sostenevo non mi stavano talmente a cuore che non avessi potuto abbandonarle; ma essa era dell'opinione contraria e avrei dovuto cedere, cedere a lei. Questo io non potevo fare e lei neppure. Essa era sempre persuasa di aver ragione contro di me e io credevo sempre di esser un santo a paragone di lei. Sicchè eravamo quasi ridotti al silenzio o a conversazioni che anche gli animali, credo, potrebbero avere fra loro: «Che ore sono? È tempo di andare a dormire. Che c'è di pranzo oggi? Dove si va? Che c'è nel giornale? Bisogna chiamare il dottore. Nascia ha mal di gola». Bastava allontanarsi di un capello da questo stretto cerchio di argomenti per andar subito in furore. Avvenivano urti e ci scambiavamo espressioni di odio per il caffè, per una tovaglia, per una carrozza, per un giuoco di carte, 179


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