La_morte di Ivan Ilijc

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XVIII. — Già, io divago sempre — cominciò egli. — Ho molto riflettuto. Su molte cose ho adesso un punto di vista diverso e vorrei dire tutto ciò. Basta, ce ne andammo in città. In città la vita è meno penosa per gl'infelici. In città un uomo può vivere cent'anni e non accorgersi d'esser morto e putrefatto da un gran pezzo. Non ha mai il tempo di raccogliersi, è sempre occupato. Gli affari, le relazioni di società, la salute, l'arte, la salute dei bambini, la loro educazione. Ora bisogna ricevere i tali e i tal altri, ora andare da questi e da quelli; ora bisogna veder la tal cosa, o udire la tal altra. In città ad ogni momento vi è una persona celebre e a volte due e magari tre, che non si può mancare di conoscere. Ora bisogna curarsi, o curare qualcun'altro, il precettore, il ripetitore, la governante, e la vita è vuota, è tutta una vuotaggine. Dunque si viveva così e sentivamo meno la sofferenza di quel nostro vivere insieme. Oltre a ciò nei primi tempi c'era un immenso da fare: stabilirsi in una città nuova, in una casa nuova, e poi ancora occupazioni per trasferirsi dalla città in campagna e dalla campagna in città. Passò l'inverno e nell'inverno seguente accadde una circostanza che non fu notata da nessuno e che pareva insignificante, ma che fu tale da trascinare dietro di sè tutto ciò che poi avvenne. Mia moglie era sofferente e i medici le vietarono un nuovo concepimento e le insegnarono il mezzo di evi183


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