La_morte di Ivan Ilijc

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XXII. — Per tutto quel giorno non parlai a mia moglie, non potevo. La sua vicinanza provocava in me un tale odio verso di lei che io avevo paura di me stesso. A tavola, davanti ai ragazzi, mi domandò quando sarei partito. Nella settimana seguente dovevo assistere a una seduta del consiglio distrettuale. Le dissi il giorno. Mi chiese se mi occorresse nulla per il viaggio. Io non dissi nulla e in silenzio rimasi a tavola e in silenzio me ne andai nello studio. Negli ultimi tempi essa non veniva mai nella mia stanza e specialmente a quell'ora. Mi sdraio nel mio studio e mi rodo di rabbia. A un tratto, un passo ben noto. E mi viene in mente un orribile, ignobile pensiero: cioè che essa, come la moglie di Uria, volesse già nascondere il peccato oramai commesso e perciò venisse a me a quell'ora insolita. «Viene dunque da me?», pensai, udendo i suoi passi che si avvicinavano. Se viene, vuol dire che ho ragione io. E nell'anima mi ribolliva un odio indicibile verso di lei. I passi si fanno sempre più vicini. Forse passa oltre, va nella sala. No, la porta scricchiola, e sulla porta la sua alta, bella figura, e nel viso, negli occhi una timidezza, qualcosa d'insinuante che essa vorrebbe nascondere, ma che io vedo e di cui capisco il significato. Per poco non soffocai, così a lungo trattenni il respiro e, seguitando a guardarla, presi una sigaretta e mi misi a fumare. — Che è? Vengo a stare un poco da te e ti metti a fuma205


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