VI. Ivan Ilijc capiva di morire ed era disperato. Nel profondo del suo spirito egli sapeva di dover morire, ma non soltanto non si era abituato a quest'idea, ma non la poteva concepire, mai l'avrebbe potuta concepire. Quell'esempio di sillogismo che aveva imparato nel trattato di logica di Kizeveter: Caio è un uomo – gli uomini sono mortali, quindi Caio è mortale – gli era parso, in tutta la sua vita, giusto soltanto nei riguardi di Caio, ma mai nei riguardi suoi. Caio era un uomo, l'uomo in genere, e il sillogismo era perfettamente giusto: ma egli non era Caio, nè l'uomo in genere; egli era un essere assolutamente, assolutamente a parte da tutti gli altri: egli era Vania, con la mamma, col papà, con Mitia e Valodia, coi suoi giocattoli, col cocchiere, con la bambinaia, poi con Katenka, con tutte le gioie, i dolori, gli entusiasmi dell'infanzia, dell'adolescenza, della gioventù. Forse che Caio conosceva quell'odore di cuoio della palla che piaceva tanto a Vania? Forse che Caio baciava così la mano della mamma? Forse che Caio aveva sentito il fruscìo che facevano le pieghe del vestito di seta della mamma? Forse che Caio aveva fatto rissa per i pasticcini a scuola? Forse che Caio era stato innamorato come lui? Forse che Caio poteva condurre a termine l'istruzione d'un processo? «Caio, sì, è mortale, ed è giusto che muoia, ma non io, Vania, Ivan Ilijc, con tutte le mie sensazioni, i miei pensieri; per me è un altro affare. E non è possibi68