VII. Come ciò avvenisse, al terzo mese della malattia di Ivan Ilijc, nessuno lo avrebbe potuto dire, perchè la cosa si fece passo per passo, senza che nessuno se ne accorgesse, ma avvenne questo: che la moglie, la figlia, il figlio, i domestici, gli amici, i medici e sopratutto egli stesso sapevano che tutto l'interesse che gli altri concentravano in lui consisteva soltanto nel chiedersi se, finalmente, lascerebbe presto libero il suo posto e libererebbe i vivi dal peso della sua presenza, liberando sè dalle sue sofferenze. Egli dormiva sempre meno: gli davano dell'oppio e cominciarono a fargli iniezioni di morfina. Ma ciò non lo sollevava. Soltanto da principio provava qualche sollievo in quello stato di ottuso torpore che lo cullava in una specie di dormiveglia: ma poi subito tornava a stare come prima, anzi quel torpore era più tormentoso che un dolore acuto. Gli preparavano cibi speciali secondo la prescrizione del medico ma questi cibi gli sembravano sempre più sciapiti, sempre più nauseanti. Per i suoi bisogni corporali erano stati anche adottati speciali provvedimenti, e ogni volta era una tortura. Tortura per la sudiceria, per l'indecenza, per il cattivo odore, per la coscienza di dover per forza assoggettarsi agli altri. Ma da quella così penosa soggezione gli nacque un con73