L’immobilismo cinetico di
JAFAR PANAHI di Maria CERA
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a libertà è uno stato mentale. Nessuno meglio di Panahi può testimoniarcelo. «Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo». Tutta la cinematografia del cineasta iraniano, sospesa tra realtà e finzione, è uno sguardo sociale, politico ed economico sul suo Paese, nell’attenzione a quelle cartine di tornasole che più di altre demarcano le caratteristiche esistenziali dell’oppressione e del patriarcato in Iran. Jafar Panahi (classe 1960) ha studiato regia all’Università del Cinema e della Televisione di Teheran. Aiuto regista di Abbas Kiarostami per la pellicola Sotto gli ulivi (1994), Panahi ha debuttato da solo dietro la macchina da presa nel lungometraggio Il palloncino bianco (1995), film rivelazione e Camera d’Or come migliore opera prima a Cannes nel 1997. Un racconto morale capitanato da una bambina che deve comprare un pesciolino rosso ad ogni costo, pervaso dall’aura di Kiarostami (autore della sceneggiatura), in presa
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diretta, zeppo di personaggi della strada, per guardare anche ciò che non è bello da vedere. Seguiranno titoli amatissimi: Lo specchio (1997, Pardo d’Oro a Locarno): a Teheran, all’uscita della scuola, una bambina non trova sua madre e decide di tornare a casa. Ma nel bus, la piccola (Aida Mohammadkhani, la stessa folgorante interprete de Il palloncino bianco) all’improvviso si stufa di recitare, si toglie il velo e il finto gesso al braccio e molla tutti, dimenticandosi il microfono. Panahi decide di continuare a girare e di seguirla. Il cerchio (2000, Leone d’oro alla 57^ Mostra del Cinema di Venezia): un collage tutto femminile nella colpa di esistere ed essere donna in un Iran maschilista e oppressivo… Fino ad Offside (2006): Iran-Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali 2006 e alle donne è proibito entrare negli stadi. 6 giovani tifose tentano inutilmente di forzare il blocco, finché la gente invade le strade per festeggiare la vittoria, in un entusiasmo collettivo maschile e femminile, un abbraccio visivo incontrollabile, di sicuro irritante per il regime islamico. Questo film segna una linea di demarcazione temporale ed esistenziale per Panahi. Il 2010 sarà infatti l’anno più
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duro per il regista: accusato di propaganda contro la Repubblica islamica (Panahi aveva partecipato ai movimenti di protesta contro Ahmadinejad del marzo 2010 a Teheran), viene condannato a 6 anni di reclusione, riuscendo però ad ottenere la libertà vigilata pagando una cauzione salatissima. Privato del passaporto, scatta l’interdizione dalla professione per 20 anni: 20 anni senza dirigere film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste a media stranieri… Un verdetto agghiacciante. Il regista, a questo punto, sceglie di non abbandonare l’Iran ma di continuare a raccontarlo da dentro, senza arretrare nelle lotte da sempre portate avanti con il suo cinema. Clandestinità diventerà la parola d’ordine di Panahi, che si inventa This is not a film (2012): un diario della sua reclusione domestica, in attesa del verdetto della Corte d’Appello a cui si era rivolto contro la condanna inflittagli. Chiama un suo collaboratore Mojtaba Mirtahmasb, che arriva e inizia a filmare, donandoci un visivo da balcone, da televisione e da androne del palazzo sempre critico e denso di esistenza. Nel 2013 è il momento di Closed Curtain, girato anche grazie al rischioso aiuto del regista Kamboziya Partovi. Un uomo ed il suo cane arrivano clandestinamente con un taxi in una