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Tintoretto, le donne (e altre tentazioni
febbraio 2019
Esposta agli sguardi incrociati degli spioni, Susanna, soggetto di legittima seduzione ma anche oggetto di illegittimo desiderio, appare sospesa come un’eroina al bivio [...]. Sarà lo specchio a dirle, come sempre, la verità, a “riflettere” con lei e per lei, a svelare la sua identità morale
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Intervista a
Augusto Gentili
di Franca Lugato
L’opera geniale di Tintoretto deve essere naturalmente considerata all’interno del contesto storico-culturale della Venezia cinquecentesca. Non potevamo trovare compagno di viaggio migliore di Augusto Gentili per comprendere e apprezzare la Tintoretto-mania che ha finalmente contagiato la città grazie alle due grandi mostre alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Ducale, ad altre iniziative importanti anche se meno clamorose, alle chiese e scuole veneziane che hanno aperto come sempre il loro “museo diffuso”. Questa intervista, che vuole festeggiare il compleanno di Tintoretto, la cui nascita è accreditata tra la fine del 1518 e i primi mesi del 1519, pone l’accento sulle figure femminili, sulle tante veneziane, nobildonne e popolane, che il pittore ha rappresentato in luoghi ed episodi della realtà o trasformato in personaggi della mitologia classica e della leggenda cristiana. Gentili guarda e fa guardare dentro e oltre l’immagine, per questo le sue conferenze sono sempre gremite di pubblico entusiasta.
La presenza di figure femminili nei dipinti di Tintoretto – in ruoli e atteggiamenti che non ci aspetteremmo – mostra un aspetto piuttosto insolito nella pittura veneziana. Come si spiega questa scelta?
Donne anonime, prive di un’identità riconoscibile, popolane o nobili, sono rappresentate nell’atto di offrire assistenza o nutrimento. Il punto di partenza obbligato è la Scuola Grande di San Rocco con la chiesa adiacente del santo titolare. Siamo nel 1549, un momento decisivo per la carriera di Tintoretto, che un anno prima è esploso sulla scena veneziana col rivoluzionario Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco e che ora inaugura il sodalizio di una vita intera col santo della peste e i suoi seguaci collocando nel presbiterio della chiesa di San Rocco un telero non meno sconvolgente, il San Rocco risana gli appestati (fig. 25). La scena è costruita su una prospettiva a imbuto verso il fondo, dove un morto è trasportato a braccia fuori della sala e un altro giace sul pavimento. Tutt’intorno, sui piani più vicini, si raccoglie in terra o su giacigli una piccola folla di malati e malate, che mostrano sulla pelle i segni vermigli del “mal francese” (si direbbe) e non della peste. Al centro, un giovane privilegiato dall’attenzione del santo guaritore – disinvolto da par suo in tenuta da viaggio con “jeans” e mantello – gli mostra fiducioso la gamba. Tra gli stessi infermi sembra esserci una certa solidarietà. Ma soprattutto ci sono donne evidentemente sane che assistono, curano, toccano. Una giovane popolana spettinata, depositata in terra una scodella con frutta (sembra) e un bicchiere quasi pieno, prepara una benda; nell’angolo a destra, un’altra meglio vestita e acconciata porta un vassoio con piatto e bottiglia; dalla parte opposta, una di bell’aspetto, chioma e abito, ma alquanto scollacciata, si china premurosamente recando un panno pulito. Il messaggio è chiaro e diretto: dentro c’è tutto lo spessore ideologico del santo titolare, protettore e taumaturgo, integrato nella realtà dalla dedizione per statuto e per mentalità della Scuola Grande di San Rocco all’attività assistenziale, quella che oggi diremmo la sua mission. Le ragioni concrete andavano però molto al di là della narrazione. Una volta edificata la nuova grandiosa sede, i confratelli intendevano destinare la vecchia scoletta dirimpetto alla creazione di un vero ospedale. Il dipinto diventò così uno strumento di propaganda a sostegno del progetto. Tutto inutile: i potenti vicini dei Frari, che mantenevano una serie di privilegi amministrativi sulla zona fin dall’insediamento della Scuola sui loro terreni, non vollero mai concedere
fig. 25
Tintoretto
San Rocco risana gli appestati Chiesa di San Rocco, Venezia
fig. 26
Tintoretto
Sant’Agostino risana gli sciancati (particolare) Museo Civico di Palazzo Chiericati, Vicenza
AUGUSTO GENTILI
Professore universitario, la sua attività di insegnamento e di ricerca è interamente dedicata all’indagine storico-documentaria e iconologico-contestuale sulla pittura veneziana del Quattrocento e Cinquecento. Ha pubblicato numerosi studi, tra gli altri, su Mantegna, Bellini, Carpaccio, Cima, Giorgione, Tintoretto, Veronese, e soprattutto Tiziano. Ha fondato, dirige e cura il periodico semestrale «Venezia Cinquecento».
l’autorizzazione. L’ospedale di San Rocco restò puramente virtuale, affidato a un dipinto straordinario che riesce (quasi) a trasformare un desiderio collettivo in realtà col solo potere dell’immagine. Altri due significativi dipinti di Tintoretto possono essere avvicinati, anche cronologicamente, a quello della chiesa di San Rocco. La pala d’altare con Sant’Agostino risana gli sciancati (fig. 26), un tempo collocata nella chiesa di San Michele a Vicenza e ora nella Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati, porta in scena dalla Legenda aurea un episodio poco noto, curioso e non particolarmente gradevole: un consistente drappello di sciancati, diretti in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di una miracolosa guarigione, sono sorpresi durante una sosta nell’improbabile viaggio dall’apparizione celeste di sant’Agostino, che li indirizza invece alla chiesa di San Pietro nell’assai più vicina Pavia, dove in effetti saranno risanati. I disgraziati sono accasciati a terra, mentre la visione è riservata a un gruppetto di guide d’aspetto sano, tra cui plausibilmente trovano posto i committenti. Insieme all’impressionante storpio dagli occhi sbarrati verso lo spettatore, spicca la donna dal fare energico e dall’aspetto popolano che sorregge il giovane dalla gamba bendata. Ancor più singolare è l’iconografia dell’ampio telero con Cristo e l’adultera della Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda. La consueta assemblea che discute il delicato soggetto principale comprende, infatti, uno storpio genuflesso sul pavimento e appoggiato al bastone che cerca di attirare su di sé – per il momento senza successo – l’attenzione di Cristo. Dall’altra parte una donna solleva uno sciancato sdraiato a terra, come nella pala vicentina; dietro di lei sta un’altra donna a capo coperto con una bambina in braccio. Sulla soglia lontana, restano in speranzosa attesa un’altra giovane madre con due pargoli, una nera inturbantata col bimbo in spalla, un invalido trasportato sulla schiena da un giovane robusto. Il perdono dell’adultera sfugge quasi, per una volta, all’attenzione dello spettatore, colpito piuttosto dalle ripetute figure dell’assistenza concreta, fisica, materiale: immagini di quella virtù, superiore a ogni altra, che si chiama Carità.
fig. 27
Tintoretto
Sant’Orsola e le undicimila vergini Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti, Venezia
fig. 28
Tintoretto
Discesa di Cristo al Limbo (particolare) Chiesa di San Cassiano, Venezia
Che risvolti ha offerto questa analisi alla sua ricerca?
In realtà il tema dell’assistenza è ampiamente sviluppato nella storiografia veneziana. Per quel che qui ci riguarda, ricordo in particolare lo splendido studio di Sabina Brevaglieri che prende le mosse dall’attività di Angela Merici, la terziaria francescana che nel 1535 fonda a Brescia la Compagnia di Sant’Orsola, un istituto femminile destinato all’educazione delle giovani nel nome della leggendaria santa martire. A Venezia nascono dapprima piccole comunità femminili in case sparse nella città, fin quando le Orsoline – come saranno abitualmente chiamate – si insediano in un luogo di capitale importanza, l’Ospedale degli Incurabili alle Zattere, dove l’intera ala destra del grande edificio è riservata alle donne e governata da donne. All’istruzione si affiancano l’assistenza e la prevenzione. I documenti riferiscono di ragazze da educare o rieducare, malate da curare, orfane e vedove senza sostentamento, prostitute pentite. Il governo è affidato a donne del patriziato veneziano, non monache ma nubili, maritate e vedove, che restano a vivere in famiglia pur prestando servizio volontario nell’ospedale. Nel 1540 l’edizione milanese dello Specchio interiore del domenicano Battista da Crema si apre con la dedica a «Madonna Maria Gradenigo et altre sue coadiutrici governatrici dell’Hospitale degli Incurabili». Per iniziativa di altre nobildonne – tra le quali Andriana Contarini, Isabella Grimani e Isabetta Loredan – nasce nel 1559 il “conservatorio di virtù” delle Zitelle in Giudecca. Altri istituti seguono nell’area tra i Mendicoli e Santa Marta, per l’impegno civile e l’organizzazione sempre più capillare delle “magnifiche zentildonne della Compagnia di Sant’Orsola”.
Proprio in questo periodo Tintoretto dipinge la pala di Sant’Orsola e le undicimila
vergini (fig. 27), oggi nella chiesa di San
Lazzaro dei Mendicanti.
In questo periodo e in questo preciso contesto. La pala, considerata per molto tempo un’opera giovanile, proviene dalla chiesa di San Salvatore, edificata a partire dal 1566 proprio nella corte dell’Ospedale degli Incurabili: la
sua datazione slitta dunque attorno o dopo il 1570. Nell’Ottocento, soppressa e demolita la chiesa, la pala fu spostata nella cupa sede di San Lazzaro dei Mendicanti, che è rimasta la sua abituale dimora. Ricollocata nel suo contesto originario, Orsola non è più la guida di un improbabile plotone di ragazze addestrate all’arte militare, come nella Legenda aurea, né la protagonista di un’avventura di viaggio dal finale sanguinoso, come nel ciclo famoso di Carpaccio, nonostante il “residuo” del Papa, del vescovo e dell’angelo con la palma del martirio. Quella che ora vediamo è la milizia dell’assistenza veneziana, gerarchicamente organizzata in “compagnia” nel nome della santa guerriera. Orsola, tuttora santa aureolata, apre l’innumerabile corteo. Dopo di lei occupano le prime file sette donne educate e composte, come lei bene abbigliate e acconciate ma senza sfarzo; segue un gruppetto di altre cinque, con mantelline e cuffie da popolane. È evidente che queste donne – senza beninteso pretendere il “ritratto” – alludono alle governatrici e alle lavoratrici dell’ospedale. Il corteo si chiude a semicerchio in una verde piana sulla riva del mare, dove le navi si svuotano in una delicata luce di crepuscolo e ancora tante donzelle sfiorano l’erba in una danza silenziosa, fino a svanire.
In un contesto al femminile è impossibile non chiederle delle tre magnifiche nude, tra le opere più famose della produzione tintorettiana: Venere, Vulcano e Marte della Alte Pinakothek di Monaco, Susanna e i vecchioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna, Tarquinio e Lucrezia dell’Art Institute di Chicago. Tre immagini di donna che lei ha definito rispettivamente “la Venere passiva, la Susanna riflessiva, la Lucrezia vittima”.
Venere, Vulcano e Marte è un quadro comico, nel senso che rimanda a una commedia che potrebbe essere esistita oppure no. Da sempre decine di studiosi, me compreso, hanno cercato un testo di riferimento perdendo tempo, perché non l’ha trovato mai nessuno. Può essere che una commedia ci sia stata davvero e l’abbiamo perduta, o non siamo stati capaci di trovarla, oppure, semplicemente, la commedia se l’è inventata Tintoretto insieme a un committente colto. Venere, che se ne sta lì adagiata, è un personaggio totalmente passivo, non prende in nessun modo posizione rispetto a quello che le sta succedendo attorno, non ha espressione, non fa alcun gesto, si lascia “ispezionare” da Vulcano che cerca di capire se qualcosa è successo in quel letto. Ma niente può essere successo perché Marte è nascosto sotto al tavolo con l’armatura addosso, non ha fatto nemmeno in tempo a spogliarsi. Tutto ciò è anche giustificato nella teoria dal mito del Cupido addormentato, che dunque non fa il suo mestiere di incitamento ad Amore. In mezzo c’è il cane intento a puntare Marte: naturalmente non sentiamo se abbaia, ma possiamo immaginare che fra poco inizierà a farlo. È un cagnolino piccolo, che non può certo spaventare il dio, ma tra una manciata di secondi farà scoppiare un putiferio: Marte dovrà scappare, sarà lento perché indossa quella pesante armatura e sarà inseguito da Vulcano, altrettanto lento perché zoppo. È un quadro di una comicità acida, piuttosto cattiva, perché – anche se Venere e Marte avranno certo altre occasioni – è una storia di momentanea frustrazione della sessualità. È una scena di commedia nel senso più teatrale del termine, perché chi la vede si aspetta la scena successiva. Anche per via dell’atteggiamento così disimpegnato e remissivo di Venere, non c’è nulla di erotico, se non sottinteso. E pensare che su questo tema esistevano già immagini molto esplicite, come i celebri disegni del Parmigianino, spesso diffusi a stampa da Enea Vico, un eccellente incisore assai noto a Venezia.
Quindi la vena ironica o dichiaratamente comica di questi soggetti sembra restituire un tratto distintivo dello spirito di Jacopo.
Direi proprio di sì, e voglio darne un altro esempio particolarmente dimostrativo anche per la grande questione della committenza: la Discesa di Cristo al Limbo (fig. 28), il grande telero laterale nel presbiterio della chiesa di San Cassiano, eseguito insieme a una Crocifissione nel 1568, dove Tintoretto ci mette di fronte a una scena molto movimentata, trasformandoci ancora una volta in spettatori a teatro. Con l’aiuto di un angelo poderoso che spezza le catene, Cristo abbatte le porte degli
fig. 29
Tintoretto
Susanna e i vecchioni (particolare) Kunsthistorisches Museum Gemäldegalerie, Vienna
Inferi e tende la mano verso Adamo ed Eva. Eva è ovviamente nuda, anche se in qualche imprecisabile momento le hanno messo una nuvoletta intorno ai fianchi. Esattamente dietro le belle natiche di Eva, collocati “in abisso”, sono ritratti i committenti: in primissimo piano il pievano Giovan Battista Licini, con tanto di tunichetta bianca, e Cristoforo Gozzi, in quel momento guardiano della Scuola del Santissimo Sacramento; il terzo poco più indietro è plausibilmente Zuan Piero Mazzoleni, guardiano della Scuola nel 1565, quando Tintoretto aveva eseguito la pala d’altare con la Resurrezione. I tre personaggi stanno lì con un’espressione piuttosto esilarante, tra comprensibile imbarazzo e malcelata soddisfazione. Ma quel che è più interessante è la coincidenza storica fra due gruppi di committenza assolutamente omogenei. I personaggi attivi nella chiesa di San Cassiano e nella sua Scuola del Sacramento rimandano infatti direttamente all’ambiente della Scuola Grande di San Rocco, e precisamente al potentissimo clan costituito al suo interno dai cittadini bergamaschi, per la maggior parte ricchi mercanti. È bergamasco Giovan Battista Licini, parroco di San Cassiano dal 1561 al 1568, protagonista del rinnovamento della chiesa e della scuola con lo spostamento del Sacramento al presbiterio e la costruzione del nuovo altare: Licini era stato cappellano della chiesa di San Rocco dal 13 dicembre 1551 al 31 luglio 1558. È bergamasco Zuan Piero Mazzoleni, guardiano della Scuola del Sacramento in San Cassiano nel 1565, quando sull’altare arriva la Resurrezione: Mazzoleni serve come Degano della Scuola di San Rocco nel 1565, esattamente quando con lo stesso ruolo vi compare per la prima volta ufficialmente Tintoretto. È bergamasco Cristoforo Gozzi, guardiano della Scuola del Sacramento in San Cassiano nel 1568, quando arrivano la Crocifissione e la Discesa agli Inferi: Gozzi seguirà poi una lunga carriera nella Scuola di San Rocco come membro della zonta di governo ad anni alterni, secondo prassi consueta, dal 1577 al 1581 e dal 1584 al 1596. Naturalmente è bergamasco (fra i tanti) anche Gerolamo Rota, guardian grande della Scuola di San Rocco nel 1565: il solo ad aver lasciato il suo nome fra i teleri tintorettiani e precisamente nella “targa” a sinistra della gigantesca Crocifissione nella sala dell’Albergo.
Assieme ai due autoritratti, quello giovanile e quello tardo, l’opera che più ha affascinato i visitatori della mostra di Palazzo Ducale è senza dubbio Susanna e i vecchioni.
Intanto, rispetto a tutto quello che s’è detto e si dice di Tintoretto (nel bene e anche nel male) dal punto di vista della qualità di esecuzione Susanna e i vecchioni (fig. 29) è un quadro di una perfezione formale che Jacopo spesso non raggiunge e neanche ricerca, perché non vuole un modello unico e tanto meno un “canone”. Il nodo fondamentale è proprio la sua discontinuità funzionale, il percorso che è in grado di cambiare nel giro di sei mesi o di un anno producendo opere coeve completamente diverse. Di date sicure ne abbiamo abbastanza per osservare con chiarezza questi mutamenti. Quanto alla costruzione della figura, un corpo perfetto come quello di Susanna potrà anche derivare il suo disegno dalla Venere antica che s’asciuga il piede, mediata da Raffaello e dalle stampe di Marcantonio Raimondi, se però cerchiamo confronti per questa concreta corporeità risolta in straordinaria intensità e lucentezza di tinte, allora non resta che Tiziano. Tutto questo è risaputo, ma c’è molto d’altro. I due attempati “guardoni” sono rappresentati distanti uno dall’altro, non lontanissimi ma divisi, mentre di solito fanno coppia in modo che la pressione nei confronti di Susanna sia raddoppiata. Il fatto che stiano uno nel fondo e l’altro in basso li rende più ridicoli che minacciosi. La posizione strisciante del primo è in realtà piuttosto goffa, nonostante il punto di vista strategico per un voyeur, mentre quello più defilato appare timoroso, incerto se partecipare o meno all’azione. I “vecchioni” non fanno certo una bella figura, anche se non sono contrassegnati da espressioni o gesti scomposti. Tintoretto, con la sola scelta compositiva della distanza, li rende non dico inoffensivi (perché si sa che offenderanno), però nella percezione dello spettatore non appaiono pericolosi. Nel quadro sono anche presenti tutti gli
fig. 30
Tintoretto
Susanna e i vecchioni (particolare) Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
elementi di un’allegoria matrimoniale (fig. 30) creata attraverso attributi e simboli tradizionali, senza bisogno di novità o invenzioni particolari. C’è un corredo di vestiario e di toletta di grande pregio: il portaprofumi, lo scriminale, il pettine, il panno di un bianco raramente visto, il corsetto sgargiante e l’elegante acconciatura, le perle della collana, dei bracciali e dell’orecchino, infine i due anelli nuziali al centro, quello di lei col diamante e quello liscio del marito, che bisogna cercare attentamente per poterli scorgere tra gli altri oggetti. Susanna, come nella storia biblica vive negli agi di una dama d’alta casta. Soprattutto, è una donna sposata. Poi ci sono i simboli tradizionali d’amore matrimoniale: la coppia di cervi in fondo a sinistra, la famiglia di cigni al centro e, soprattutto, la grossa gazza sull’albero proprio sopra la testa della donna, facilmente identificabile anche per chi sia poco esperto di ornitologia. La gazza è celebrata nelle fonti perché difende il nido a tutti i costi, usando il suo verso acutissimo per scacciare ogni insidia. Tre elementi ugualmente indicativi della fedeltà di Susanna. Chi ha voluto questo dipinto? Di certo il marito, anche perché c’è il suo anello, e chi altri poteva commissionare un quadro con questa figura di donna, con queste immagini simboliche di celebrazione del matrimonio? L’immagine si offre alla contemplazione compiaciuta e al possessivo ammonimento
di un uomo che la vuole ardente Venere per sé e casta Susanna per chiunque altro. È un quadro amoroso. Ma è anche un quadro erotico. Allora, se ci piace, possiamo accettare la sfida della “commedia” tintorettiana anche per questa vicenda, ambigua fin dall’origine. Nuda e sola all’aperto, il corpo morbido in primo piano tra oggetti di lusso, Susanna deve affrontare una situazione complicata. I “vecchioni” non sono sporcaccioni qualsiasi, ma due anziani e autorevoli giudici: la donna non rischia forse di cedere al ricatto e alla violenza del più forte? Esposta agli sguardi incrociati degli spioni, Susanna, soggetto di legittima seduzione ma anche oggetto di illegittimo desiderio, appare sospesa come un’eroina al bivio, forse dubbiosa, di certo riflessiva: cosa farà tra un momento? Sarà lo specchio a dirle, come sempre, la verità, a “riflettere” con lei e per lei, a svelare la sua identità morale. Lo spettatore, rassicurato dal valore positivo dei simboli, riconoscerà il suo controllo e la sua prudenza.
Il visitatore è anche colpito dalla violenza di Tarquinio e Lucrezia.
In Tarquinio e Lucrezia la violenza è impressionante ed è una violenza che si legge anche nei gesti di Lucrezia, perché non sa più cosa fare, come difendersi e come muoversi. Appare quindi scomposta, finendo quasi per toccare l’aggressore con il braccio sinistro. È un quadro dove la reazione di entrambi, Tarquinio in preda al raptus e Lucrezia in cerca di difesa, è spasmodica. È un’immagine del disordine, dove sia negli atteggiamenti delle persone che negli oggetti non c’è più nulla al proprio posto: la collana di Lucrezia si è spezzata e alcune perle rotolano sul pavimento, la statua bronzea o dorata cade giù a capofitto, il cuscino è a terra, la spada di Tarquinio pure. Il disordine totale della scena diventa la lezione morale del dipinto. La vicenda di Lucrezia – come viene narrata dagli scrittori classici, nelle Storie di Tito Livio e nei Fasti di Ovidio – lascia qualche possibilità di equivoco e qualche problema di giudizio. Lucrezia è aggredita in casa propria e nella sua stanza da letto in assenza del padre e del marito impegnati al campo nelle manovre militari. Tarquinio, parente e amico di famiglia, quindi accolto come ospite, è particolarmente bieco per queste ragioni. Eppure, è anche lui un soldato e figlio di re (l’ultimo di Roma, Tarquinio il Superbo, come abbiamo imparato fin dalle scuole elementari), tanto che Tintoretto in accordo con le fonti gli ha dato la spada romana, ora abbandonata a terra, disonorata dalla sua violenza. Tiziano, nelle tre versioni dell’episodio (Cambridge, Bordeaux, Vienna), lo svergogna ancor più direttamente escludendo la nobile spada e dotandolo di diversi coltellacci, un po’ rustici e un po’ turcheschi. Quanto a Lucrezia, la cultura d’antico regime non brilla certo per comprensione. E allora le “domande” sono sempre le stesse, quelle che purtroppo si fanno ancor oggi: “se l’è cercata” accogliendo Tarquinio in assenza degli uomini di casa? Doveva proprio farsi trovare in letto seminuda? Poteva magari far qualcosa di più per difendersi? Gli antichi scrittori risolvono tutto col suicidio “per onore”. Lucrezia, dopo aver narrato l’accaduto al padre e al marito affermando d’aver infine ceduto per non creare troppo clamore, per non intaccare la rispettabilità della famiglia, dichiara di non voler sopravvivere al disonore, afferra un pugnale e se lo pianta nel petto. Ma finanche il valore esemplare del suo eroico suicidio, ancora attuale nelle immagini di qualche decennio prima (si veda il Ritratto di gentildonna nelle vesti Lucrezia di Lorenzo Lotto nella National Gallery di Londra), è ormai tramontato. Sia in Tiziano che in Tintoretto, anche con tutte le differenze di dettaglio, resta soltanto una storia di violenza mai prima letta, vista o sentita; soltanto un bravaccio brutale e una donna indifesa.
Le Tentazioni di sant’Antonio nella Chiesa di San Trovaso aprono il dibattito su Tintoretto pittore di religione.
Le Tentazioni di sant’Antonio (fig. 31) è un altro straordinario esempio, innanzitutto, del “comico” tintorettiano. Il povero santo viene tartassato da ben quattro personaggi, due diavolesse e due diavolotti, che lo tormentano da tutte le parti, gli strappano le vesti di dosso, gli stracciano il libro della Regola, gli buttano via la borsa e il rosario, la campanella e la stampella, lo privano insomma di tutto quel poco che possiede. C’è anche un cinghiale,
fig. 31
Tintoretto
Le Tentazioni di sant’Antonio (particolare) Chiesa di San Trovaso, Venezia
che nella tradizione simbolica è un animale pericoloso e diabolico, mentre nella realtà non è così aggressivo (a meno che si vada a infastidire una femmina con i cuccioli). Nonostante sia affollato di tanti personaggi e tanti oggetti, è un quadro assai movimentato, col Cristo che arriva in picchiata a salvare il santo da aguzzine e aguzzini della tentazione. Le due giovani diavolesse non sembrano, a prima vista, troppo inquietanti. Quella a destra è piuttosto procace, è ornata di collana e bracciali ed espone un seno prosperoso. Sarebbe solo una bella ragazza, se non fosse per le due corna sottili e appuntite come frecce in mezzo ai capelli. La sua collega è altrettanto discinta ma meno sfacciata, con un diadema sul capo che non riesce a nascondere due piccole corna caprine. Ha un compito più immediatamente concreto, quello di offrire vasi pieni di monete e gioielli. La prima rappresenta la Lussuria, la seconda l’Avidità. I due giovani diavoli si occupano solo di tirare e strappare le vesti di Antonio, che però non se la prende più di tanto e lancia uno sguardo fiducioso al Cristo che scende a salvarlo. Sia pur con i dovuti accorgimenti – ripensiamo alla nuvoletta di Eva a San Cassiano – era dunque possibile rappresentare il nudo femminile non solo in chiesa, ma addirittura in una pala d’altare. Evidentemente non è vero che le autorità ecclesiastiche esercitassero sulla produzione di immagini una censura tanto minuziosa e soffocante.
Si può pensare che Tintoretto, sia per i soggetti religiosi che per quelli storici o mitologici, fosse affiancato o consigliato nelle scelte iconografiche da personaggi di spicco del mondo della letteratura?
Fissiamo un punto fermo di metodo storico. Tutti i grandi pittori del Cinquecento sono più o meno strettamente collegati alla dimensione della letteratura e dell’editoria, sia laica che religiosa. Non sappiamo quasi mai cosa e quanto leggessero, ma sappiamo che ascoltavano, conversavano, discutevano. Non erano loro a scegliere il soggetto di un dipinto ma i committenti, che avevano sempre una ragione precisa. Al pittore spettava il compito di rappresentare quel soggetto disponendo forme e figure in maniera coerente e attraente a partire dalla propria invenzione, senza mai “tradurre” un testo ma piuttosto interpretandolo sulla base della tradizione figurativa. Chi produce immagini si nutre soprattutto di altre immagini, pensa per immagini. Per quel che riguarda il giovane Tintoretto, sembrano ormai acquisiti – dopo i più recenti contributi in mostre e convegni – i rapporti con la produzione editoriale di Francesco Marcolini e con i letterati attivi nella sua stamperia, a partire da Pietro Aretino, che nel 1548 gli invia una celebre lettera di elogio per il Miracolo dello schiavo, il capolavoro che afferma il pittore sulla scena cittadina. La costante adozione dell’allegoria umanistica e di un raffinato concettismo incline alla commedia, alla meraviglia e alla sorpresa, insieme alla tensione del linguaggio pittorico alla maniera della cultura tosco-romana piuttosto che alla tradizione veneziana, è il fondamento condiviso di questa relazione culturale.
E per quel che riguarda la pittura religiosa?
Siamo arrivati alla questione più importante, e anche alla più scottante, delle attuali discussioni. Troppe volte abbiamo sentito e tuttora sentiamo di Tintoretto “pittore della Controriforma”, intesa come l’epoca che raccoglie le peggiori perversioni della reazione del mondo cattolico ai mondi protestanti, dalla persecuzione e i supplizi degli “eretici” ai fenomeni di oscurantismo come il divieto di traduzione e lettura delle sacre scritture in volgare, gli indici dei libri proibiti, il pressante controllo su licenze e deviazioni nelle immagini. Sarà utile ricordare che la “Controriforma” non sapeva di esserlo, dato che questo termine fu coniato da uno studioso tedesco nel tardo Settecento. La storiografia otto-novecentesca ha opportunamente preferito la formula “Riforma cattolica”, considerando non solo gli aspetti negativi e repressivi dell’epoca segnata dal Concilio di Trento, ma anche quelli costruttivi, quali la ripresa del dibattito dottrinale e la riorganizzazione politica e culturale del mondo cattolico. La contrapposizione secca tra questo e il mondo protestante appare però schematica e riduttiva, poiché esistono diverse posizioni laterali e intermedie. La più importante è la tendenza “spirituale” promossa dal teologo spagnolo Juan de Valdés nei circoli di Napoli, Roma e Viterbo, dove si esalta la “via larga” alla grazia e alla salvezza garantita dal sacrificio di Cristo sulla croce. Il più famoso “spirituale” del secolo è indubbiamente Michelangelo. Ma tutti i grandi pittori veneziani sono toccati, in maniera saltuaria o duratura, dalla nuova spiritualità: Lorenzo Lotto per tutta la sua vita, Tiziano negli ultimi anni e nella sua tragica pittura estrema, il presunto campagnolo Jacopo Bassano e il finto neutrale Paolo Veronese. E naturalmente Tintoretto.
Qual è allora su questi temi la posizione di Tintoretto?
L’opera di Tintoretto, come già si accennava, è in grado di affrontare allo stesso tempo diversi contenuti e diversi linguaggi. Caratterizzata dalla committenza delle scuole e delle chiese – dunque di laici e religiosi, di mercanti, artigiani e funzionari statali – reclama una religione facilmente comprensibile e comunicabile, fondata su una cristologia radicale, ma anche una religione didascalica e propagandistica, pronta a ribadire l’importanza di leggende e miracoli, a ravvivare il dibattito sull’eterno confronto tra mondo ebraico e mondo cristiano, a sostenere la necessità di riforme delle istituzioni ecclesiastiche e delle pratiche quotidiane in risposta alla progressiva diffusione di pensieri e parole delle riforme protestanti. La richiesta di un’alta temperatura sentimentale è la condizione di partenza per una pittura piena di “effetti speciali”, utili
per attenuare con lo stupore le tracce di inquieto dissenso che affiorano fra gli interstizi delle immagini. L’analisi dei contesti e delle immagini mostra con assoluta chiarezza che Tintoretto e i suoi lettori – come peraltro ogni pittore e lettore del secondo Cinquecento – lavorano sui testi religiosi in volgare, prendendo consapevolmente posizione contro i divieti di traduzione, interpretazione e diffusione delle sacre scritture fuori del controllo ecclesiastico. Il riferimento principale per Tintoretto è stabilito dalle opere devozionali di Pietro Aretino, soprattutto l’Umanità di Cristo e la Vita di Maria Vergine, già pubblicate e più volte ristampate dal Marcolini fra il 1534 e il 1543, infine riproposte dai figli di Aldo Manuzio nell’edizione del 1551-‘52. Ma ce ne sono altri, chiamati in causa da diversi studiosi: un paio di Bibbie commentate, quelle di Antonio Brucioli e di Santi Marmochino, dai contenuti almeno sospetti (Weddigen); le pie, et christiane parafrasi sopra l’evangelio di san Matteo, et di san Giovanni, di Angelico Buonriccio, canonico regolare agostiniano, stampate in Venezia da Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1568, con parecchie illustrazioni e puntuali rimandi al ciclo della Scuola di San Rocco (Romanelli). O ancora il libro del Monte Calvario del frate francescano Antonio de Guevara, consigliere, predicatore, diplomatico e cronista ufficiale di Carlo V: un’opera tradotta e diffusa in tutta Europa, stampata da Giolito per la prima volta nel 1555 e più volte riproposta negli anni successivi, con la stupefacente definizione del calvario come “spettacolo degli spettacoli” dinanzi al pubblico del mondo intero (Gentili). Tintoretto s’era costruito una cultura tale da permettergli l’immediata adesione a soggetti diversissimi se non addirittura contrapposti tra loro: la tradizionale “concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento”, della vita di Mosè e quella di Cristo per la Scuola di San Rocco, o il “mito di fondazione”, con le storie del santo patrono per la Scuola di San Marco; ma anche i due teleri con L’adorazione del vitello d’oro e il Giudizio universale alla Madonna dell’Orto, complicatissimi di dottrina oltre che giganteschi di misura; o la discussione sull’eucarestia, continuamente aggiornata, nelle tante versioni dell’Ultima cena.
Dopo la magnifica sovraesposizione del Cinquecentenario, c’è il rischio che Tintoretto rientri di nuovo in un cono d’ombra? Qual è la sua posizione in merito, e magari il suo augurio?
Per molto tempo il limitato interesse nei confronti di Tintoretto è dipeso dal fatto che le sue opere si vedono prevalentemente sparse tra chiese e scuole, oltre che nei musei. Molti ritenevano che quel che era possibile esporre in mostra senza troppi problemi materiali non bastasse a tenere il livello di attrazione “commerciale” di Tintoretto rispetto al grande pubblico di Tiziano o di Paolo Veronese. Grazie alle mostre del 2018 – antologie di qualità, ben pubblicizzate e molto frequentate – abbiamo visto che questo non è vero. Se ben ricordo, nel quarto centenario della morte c’era stata soltanto la mostra di ritratti curata da Paola Rossi e il solito invito a visitare le opere in città. Quindi ben venga adesso questo successo, forse per molti inaspettato, ma non certo per me. L’augurio è sempre lo stesso, che l’appassionato delle mostre vada anche negli altri luoghi tintorettiani con qualche consapevolezza di più. Dopo tanto clamore, un po’ di silenzio inevitabilmente ci sarà e servirà a pensare e ripensare: è successo qualche anno fa per Tiziano e ora aspetto alla prova Lorenzo Lotto, dopo la splendida stagione dedicata anche a lui in Italia e in Europa. Tintoretto ha appena ricevuto mostre, cataloghi, guide, film, restauri, finanche storytelling. Ora, per chi vuole, è il momento di nuovi studi sulla complessità della sua pittura.
Ora i suoi studi tintorettiani in che direzione sono rivolti?
I miei studi sono rivolti già da parecchio tempo all’approfondimento di alcune questioni legate alla situazione religiosa di cui abbiamo parlato, e in particolare al tema dell’Ultima cena, che spesso viene definito – altro luogo comune insopportabile – come il “preferito” di Tintoretto. Per quel che sappiamo, è plausibile che non ne potesse più di dipingere tredici persone a tavola, e tuttavia doveva farlo perché glielo richiedevano le Scuole del Sacramento, le fraternite che avevano in carico la cura e la conservazione dell’eucarestia. L’Ultima cena permette molte variazioni
fig. 32
Tintoretto
Ultima cena (particolare) Chiesa di San Marcuola, Venezia
fig. 33
Tintoretto
Ultima cena Chiesa di San Trovaso, Venezia
fig. 34
Tintoretto
Ultima cena (particolare) Chiesa di San Polo, Venezia
interne ai testi e ai commenti evangelici, perché è composta di diversi episodi. Si può rappresentare il momento in cui Cristo rivela agli apostoli che uno di loro lo tradirà, creando agitazione e domande, oppure quello meditativo dell’istituzione del sacramento, o ancora quello festoso e celebrativo della comunione degli apostoli. È molto difficile trovarne due versioni simili e su ogni versione bisogna ragionare in maniera distinta. Si direbbe che questo tema abbia creato fin da principio qualche problema a Tintoretto, o piuttosto ai suoi committenti. Nell’Ultima cena (fig. 32), di impianto tradizionale, eseguita nel 1547 per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Marcuola, il pittore aveva disposto ai lati della tavola le figure allegoriche della Fede e della Carità, la prima col calice e l’ostia, la seconda con un bambinetto in braccio e uno attaccato alle gonne. Fu forse quell’“Isepo Morandelo” – gastaldo della compagnia, che ha lasciato il nome sullo sgabello centrale – a chiedergli prudentemente di travestirle da serventi, ricoprendo l’ostia e aggiungendo una brocca, un vassoio bollente di arrosto e un simpatico gatto da cucina. Molto più avanti appaiono due versioni dell’Ultima cena (fig. 33) particolarmente intriganti, diversissime tra loro, scarsamente documentate, di datazione oscillante (tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento) e di complessa iconografia. La prima, eseguita per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Trovaso, rappresenta l’annuncio del tradimento: il problema principale è identificare Giuda, protagonista immancabile, tra i possibili candidati. La seconda, eseguita per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Polo (fig. 34), mette invece in scena la comunione degli apostoli, ma il gesto di Cristo a braccia aperte, con una doppia offerta del pane, non s’era mai visto prima. Al fondo di tutto ciò sta ovviamente il decreto tridentino dell’11 ottobre 1551, in cui si stabiliva una volta per tutte che nel mondo cattolico, diversamente da quello protestante, la comunione si fa col solo pane, e non anche col vino. La presenza o l’assenza del vino sulla tavola dell’Ultima cena, in Tintoretto e in altri pittori, diventa l’indizio di una questione rimasta aperta nel sentimento diffuso, oltre la norma ufficiale. Ecco, quel che ancora vorrei studiare e capire – al di là del dibattito intellettuale e delle categorie storiografiche – è il contesto sotterraneo di queste piccole fraternite, i pensieri e i desideri della “gente comune” dinanzi ai problemi quotidiani della religione veneziana. I documenti scritti sono rari, ma per fortuna restano le immagini.
Bibliografia essenziale
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