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Il “sequestrato di Venezia

novembre 2018

Alla Scuola di San Rocco mi ero affacciato sin da ragazzo con lo stupore di chi rimane folgorato da una rivelazione misterica e soggiogato dalla potenza strabordante della corporeità nel tonitruante teatro delle grandi sale. Era come mettere insieme tutti i viaggi di Jules Verne (che avevo sempre amato), il fantastico dantesco e l’orrore della Farsaglia

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Intervista a

Giandomenico Romanelli

di Mariachiara Marzari

Un ritratto

ricco di infiltrazioni letterarie, filosofiche, teologiche e soprattutto esperienziali, fuori dagli schemi canonici della critica, che giunge alla radice pura della sua arte, all’origine del gesto. Giandomenico Romanelli racconta il “suo” Tintoretto, che potremmo definire “underground”. Un viaggio dentro la storia di un Maestro, il suo dramma umano e il suo travaglio artistico, un’indagine oltre l’arte per spiegare le ragioni di una visione capace di superare la tradizone e, pur nella perfetta aderenza al suo tempo, di essere sempre contemporaneo rispetto a chi si trova di fronte alle sue grandiose opere, anche oggi.

Tintoretto ricorre, se pur diluito nel tempo, come uno degli interessi forti e costanti nella produzione critica di Giandomenico Romanelli. Anzi, per esser più precisi, come una sorta di terreno di lavoro particolarmente stimolante nell’evidenziare la sperimentata attitudine di Tintoretto a mettere in relazione fatti e storie dell’Antico e del Nuovo Testamento – così come episodi di storia della chiesa e delle sue strutture e organizzazioni – con i segni e le immagini della pittura. A che cosa è dovuta tale peculiarità?

In effetti, l’arte di Jacopo Tintoretto mi ha sempre tentato, così come la sua prodigiosa abilità nel montare macchine scenografiche e figure retoriche di inimitabile arditezza. Ma le sue traduzioni in immagini di storie (dell’Antico Testamento come del Nuovo, di episodi delle vite dei santi e altre figurazioni sacre) di conversioni e martirî, di atti di fede ed epifanie del sacro mi son sempre parse di straordinaria modernità, provocazioni e sfide, mirabili variazioni sul tema e raffinati esercizi di stile, sempre nuove tentazioni di impossibile. Alla Scuola di San Rocco mi ero affacciato sin da ragazzo con lo stupore di chi rimane folgorato da una rivelazione misterica e soggiogato dalla potenza strabordante della corporeità nel tonitruante teatro delle grandi sale. Era come mettere insieme tutti i viaggi di Jules Verne (che avevo sempre amato), il fantastico dantesco e l’orrore della Farsaglia. Sono poi passato ad altri interessi, più geometrici e “freddi”: il neoclassico e poi l’Ottocento, l’architettura e la storia urbana, e altro ancora. Finché un giorno mi ha invitato a occuparmi di San Rocco e di Tintoretto oramai molti anni or sono don Bruno Bertoli, il prete veneziano che sollecitava instancabilmente a cercare, nel patrimonio artistico e culturale di questa città, i segni inequivocabili di una

storia di fede, ad andare oltre un certo oramai arido esercizio attribuzionistico e formalistico su cui si affaticava la tradizionale critica d’arte, per attingere alle ricchezze spirituali e culturali di quell’universo, attratto, anche lui, dai problemi di iconografia e dagli esercizi di esegesi biblica e iconologica. Mi ci misurai con timore, ma ne ricavai un primo prodotto: una comunicazione al convegno annuale di Biblia-Associazione laica di cultura biblica tenutosi nel 1988 su L’arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica. Presentai inediti d’archivio e nuove letture di quelli noti, e altro ancora. Pressoché contemporaneamente Carlo Pirovano, che teneva saldamente il timone della grande e celebre collana di Electa «Dentro la Pittura», mi propose di trasformare il mio lavoro in uno dei volumi di quell’impresa. Accettai con entusiasmo, anche perché la formula della collana mi garantiva un uso delle riproduzioni (eseguite con un’apposita campagna fotografica da Antonio Quattrone) molto ricco e molto articolato: dai grandi totali ai dettagli in rapporto 1:1. Eravamo arrivati al 1994.

Anche il contesto storico e culturale ha mosso il suo lavoro, che appare una sorta di storia culturale totale, non solo artistica. Quel contesto, storico intendo, ha peraltro fortemente condizionato l’attività degli artisti del Cinquecento veneziano, un Cinquecento inquieto, per mutuare il titolo di una sua celebre mostra di pochi anni or sono, perché travagliato da disavventure politiche e militari e minato dai devastanti effetti della guerra di religione che ha diviso e insanguinato l’Europa.

Precisamente! Gli storici d’arte hanno la tendenza a isolare i fatti artistici in una sorta di territorio separato, che funziona con proprie regole e logiche. Semmai pretendono di trasporre quasi automaticamente le vicende artistiche su quelle storiche o viceversa; sembra che sentano il bisogno di creare categorie semplificate e schematiche. Si pensi all’infinito dibattito sull’appartenenza di un artista alla Riforma o alla Controriforma: o di qua o di là, insomma, senza incroci o contaminazioni, bianco o nero, buoni o cattivi. Ma torniamo al nostro Jacopo e al suo inserimento nella realtà lagunare. Era ben affollata di artisti la Venezia del medio Cinquecento, e che artisti! Siglata la pace di Bologna nel 1529-‘30, che sanciva la fine della stagione drammatica e dolorosa apertasi con la Lega di Cambrai e la bruciante sconfitta di Agnadello, sistemate alla meglio le cose col papato (era stato Giulio II – e non certo per motivi religiosi – a scatenare l’uragano anti-veneziano, coinvolgendo l’Europa intera contro la superbia arrogante e insensata del Leone marciano), consolidati i confini e lanciato un imponente piano di fortificazioni sul territorio dello “Stato da mar” non meno che di quello di terra, la domanda era: quali orizzonti dare alla Repubblica dopo la perdita definitiva di quelle caratteristiche che ne avevano sempre guidato l’abile gestione dell’immagine nel mondo? Non più imbattibile, non più vergine (violata dalle armi francesi e imperiali, soprattutto), non più baluardo contro l’infedele (si era infatti ritrovata con un sonoro inter-

GIANDOMENICO ROMANELLI

Professore universitario, ha studiato protagonisti e temi dell’arte e dell’architettura veneta dal Cinquecento al Novecento, declinando la sua ricerca in fondamentali pubblicazioni e importanti mostre a livello internazionale. È stato direttore dei Musei Civici di Venezia dal 1979, quindi direttore del dipartimento dei Beni e Attività Culturali del Comune di Venezia e della Fondazione Musei Civici Veneziani fino al 2011. Attualmente è vice presidente di Chorus.

E poi c’era lui, il figlio del tintore, inquieto e piccante come un granello di pepe (secondo le celebri e abusate parole di Andrea Calmo), Jacopo Robusti, il Tintoretto. Il “sequestrato di Venezia”, secondo la curiosa e provocante definizione di Jean-Paul Sartre

detto papale), non più potenza in grado di contendere con i regni nazionali e non più, infine, padrona delle rotte e dei più lucrosi commerci, visto che il “suo” Mediterraneo oltre alle minacce turche rischiava la marginalità dopo l’apertura delle rotte oceaniche. La scelta fu proprio di investire tutto il suo patrimonio di credibilità morale e culturale e tutte le sue risorse materiali in una mastodontica, geniale operazione di marketing. I suoi intellettuali più accreditati, più illustri e più “organici” al sistema politico-istituzionale diedero vita a una campagna pubblicitaria di cui mai prima si era forse visto l’uguale. Letteratura, trattatistica politica, libellistica ideologica, architettura, decorazione plastica e scultura, poesia encomiastica e, naturalmente, pittura furono arruolate a dare lustro e nuova vita alla figura troneggiante e giunonica della nuova regina dei mari. Tutta la storia doveva essere riletta (e riscritta!) perché facesse convergere fatti e leggende, miti e smaccati falsi a cantare la giovinezza nuova della signora in qualche modo acciaccata, ma le cui ambizioni continuano a resistere impavide. Abbiamo detto Pittura. Era un crocevia di geni e di ingegni che affollava il palcoscenico della Serenissima: Tiziano, la prepotenza fatta pittura, immarcescibile ed eterno; Paolo Caliari, il Veronese, rutilante di ori, vesti sfarzose, cornucopie traboccanti di gioielli, perle e coralli. E Jacopo Bassano, la cui musa bucolica e appartata catturava dalla natura stessa ogni sfumatura di colore, ogni barbaglio e luccichio di acque e di fuochi. E poi gli altri, i molti altri che avevano preso il posto dei maestri della generazione precedente, quella dei Bellini, dei Vivarini, dello stesso Giorgione. Altri che sapevano guardare fuori di casa, al di là dei confini della laguna, sulle strade che mettevano a Mantova, a Brescia, a Ferrara, a Firenze e, soprattutto, a Roma: Pordenone, Sebastiano del Piombo, Romanino, Savoldo, anche a voler tacere del Lotto, umbratile e tormentato, che andrà vagando tra Treviso, Bergamo, Roma, per finire i suoi giorni a Loreto. E poi c’era lui, il figlio del tintore, inquieto e piccante come un granello di pepe (secondo le celebri e abusate parole di Andrea Calmo), Jacopo Robusti, il Tintoretto. Il “sequestrato di Venezia”, secondo la curiosa e provocante definizione

di Jean-Paul Sartre. L’uomo che sfugge alla grande impresa di normalizzazione tentata dal progetto di marketing politico-culturale di cui si diceva, ma che si sottrae altresì al ruolo di piagnone controriformista, di impiegato al servizio dell’ideologia romana e anti-luterana. Perché, non dimentichiamolo, mentre la Serenissima faticosamente metteva le basi del suo nuovo mito, elegante e aristocratico, l’Europa intera era squassata dalle guerre di religione da cui uscirà definitivamente spaccata in due: di qua Roma, le immagini, la potenza, il fasto, l’inflessibilità teologica e il rigore ideologico, l’infallibilità del Papa e l’imprescindibile onnipotenza della gerarchia; di là il libero arbitrio, l’accesso personale alla lettura della Bibbia, un rigore di vita che spesso trascende in cupezza, una comunità di credenti spogli come i primi cristiani, ma che troveranno la loro realizzazione nel mondo e nel successo professionale, segno infallibile del gradimento celeste. Esteriorità fastosa e festosa che culminerà nel barocco romano, per i primi; rigore e sobrietà che condurranno a un classicismo compassato e algido, i secondi.

Ha appena accennato a un testo dedicato a Tintoretto, Le séquestré de Venise di Jean-Paul Sartre, che lei ha più volte citato nei suoi interventi. Come mai questa insistenza?

La questione è, insieme, semplice e complessa. Debbo una volta ancora prendere le mosse da un vezzo (vitium, come si sa) di noi storici d’arte, e dico noi anche se a fatica mi sento di incasellarmi nella categoria (certo per indegnità mia, non dei chierici regolari). Quello di non accettare contributi di riflessione critica che non provengano dall’hortus conclusus della disciplina. Oppure di esigere che di tematiche storico-critiche non si possa ragionare se non con il linguaggio, il codice cioè, in cui è redatta la disciplina stessa. Due testi fondamentali di critica tintorettiana sono appunto il Séquestré di Sartre e un saggio del celebre epistemologo francese Jules Vuillemin. Sono testi che non hanno alcuna ambizione filologica ma che avrebbero potuto aprire prospettive critiche e di pensiero straordinarie sul nostro Jacopo: sulla sua collocazione dentro/fuori rispetto al panorama sociale, culturale e artistico del suo tempo, sulla sua densa sostanza poetica, tragica e lirica, sul senso della città che egli percepisce quasi rabdomanticamente e con la quale si identifica in tutto, dalla forma alla storia. Sulla strabiliante metodologia immaginativa e impaginativa delle scene dipinte con effetti che, come propone Sartre, sono di natura “cinematografica in cinemascope”, e non a caso il filosofo cita il celebre kolossal Ben-Hur. Nulla, Sartre non ha studiato abbastanza! La risposta di qualche storico d’arte alle “provocazioni” sartriane è stata imbarazzata e imbarazzante: il filosofo francese – cui non si perdona “il punto di vista marxista”(!) – ha equivocato, non ha capito, non ha studiato a sufficienza; “se avesse seguito meglio lo sviluppo dell’attività artistica di Tintoretto, si sarebbe accorto... (Pallucchini)”. Ritorni sui banchi di scuola magari all’Università di Padova! E non si è nemmeno saputo cogliere la sorprendente qualità letteraria del testo sartriano, fatto tutto di figure retoriche, immagini stranianti, paradossi: insomma, un’opera d’arte su un’opera d’arte, un metatesto indimenticabile, una mise en abîme perfetta. Non si ha avuto la pazienza, vorrei dire, e la lungimiranza di entrare dentro uno scritto sorprendente e disperato, quello che porta Sartre a “vedere” nelle opere la tragedia di Jacopo e di immedesimarvisi attraverso un processo di identificazione prodigiosa. Sartre coglie il dramma umano e il travaglio artistico di Jacopo come propri: quella su Tintoretto è l’ultima opera di Sartre, quasi un testamento spirituale. Che occasione perduta per noi!

Vuillemin ha cercato di individuare la struttura logica del pensiero dell’artista dentro alle sue opere, indagandone i modelli strutturali e i percorsi logici e psicologici con acutezza straordinaria

Lei accennava a un altro studioso francese, Jules Vuillemin.

Peggio ancora è andata allo studio di Jules Vuillemin. Ignorato per mezzo secolo anche se pubblicato dalla prestigiosa «Les Temps Modernes» nel 1954 e condotto con metodo critico esemplare, il testo (La personnalité esthétique du Tintoret) è stato totalmente e accuratamente rimosso. Vuillemin ha cercato di individuare la struttura logica del pensiero dell’artista dentro alle sue opere, indagandone i modelli strutturali, appunto, e i percorsi logici e psicologici con acutezza straordinaria. Anticipava la proposta di decifrazione della complessa costruzione dei cicli di San Rocco (Chiesa e Scuola Grande) sia dal punto di vista teologico che letterario con affondi di stampo psicanalitico. Ha proposto di applicare a questi cicli un’ulteriore chiave di lettura partendo dagli Esercizi di Ignazio di Loyola; intuizione geniale: silenzio di tomba. Vuillemin suddivide l’opera di Tintoretto in grandi categorie logiche, contenutistiche e formali-figurative, ma, soprattutto, individua le impalcature strutturali sottese ai dipinti profani (mitologici e storici) e a quelli di soggetto sacro, rilevandone la diversa e contrapposta costruzione figurativa. Oltre a rilievi inediti e originali (mai più approfonditi dagli “esperti”) egli scorge nel percorso artistico di Jacopo processi e temi di regressione e di restituzione che vengono risolti in chiave di distruzione della concezione classica dello spazio in vere e proprie esplosioni figurative e di ri-composizione in colore e luce sotto lo stimolo del concetto cattolico di peccato per le tematiche religiose. Sia in Vuillemin che in Sartre, Tintoretto è l’uomo «che la pittura ha scelto [...] per far esplodere in lui le sue contraddizioni. La pittura mi resisteva e io l’ho uccisa» (Sartre). «Un quadro è un problema, sempre lo stesso, la pittura»; Tintoretto «è il primo artista geniale della decadenza» (Vuillemin). Aver ignorato queste acquisizioni e queste proposte nei nostri storici d’arte, da un lato denuncia una limitatezza di orizzonti che è una carenza culturale grave, dall’altro una sorta di reazione psicologica che ha del patologico, una vera ossessione di difesa con chiusura a riccio che porta al cul-de-sac in cui si sono infilate le recenti esposizioni tintorettiane, con quella sorta di indigeribile rimasticatura di ragionamenti e confronti e limature ossessive di vecchie diatribe attribuzionistiche. Anche l’ultimo testo di Vuillemin, come per Sartre, è dedicato al pittore e alla sua città, Le miroir de Venise. Nulla avviene per caso. Fortunatamente il libro e gli altri testi critici di Sartre, ripubblicati di recente in forma completa e corret-

ta sia in francese che in italiano per cura di Michel Sicard, offrono, a chi vorrà finalmente leggerli, l’occasione opportuna che, temo, gli storici d’arte lasceranno una volta ancora cadere.

Torniamo al “suo” Tintoretto. Drammaticità e teatralità sono, a suo giudizio, le colonne portanti dell’edificio tintorettiano. Possiamo provare a sviluppare più diffusamente questa linea, magari partendo più indietro, dalla formazione dell’artista?

Ho sempre pensato che sia un errore di prospettiva, spesso ripetuto, incasellare tout court Tintoretto come il “naturale” completamento di una stagione gloriosa della pittura veneziana, o una sorta di conclusione obbligata e inevitabile di un percorso iniziato con la “rivoluzione” pittorica avviata attorno alla metà del Quattrocento nelle botteghe dei Bellini e dei Vivarini e che ha poi conosciuto le grandi conquiste di Giorgione, Tiziano e via dicendo. Nel percorso di formazione e poi di progressiva elaborazione del suo universo di forme, di immagini e di poesia, infatti, intervengono ad arricchire la personalità e le scelte artistiche di Tintoretto una serie di fattori per così dire “esterni” al puro e semplice suo inserimento dentro una tradizione e nella scia di una fortunata e clamorosa scuola artistica e culturale. Così che è possibile dire che egli è il consapevole portatore di novità, conquiste e cadenze linguistiche, oltre che ideologiche, di innegabile qualificazione addirittura eversiva rispetto proprio a quella scuola e a quella tradizione. Ho detto “eversiva” e non a caso. Ma andiamo con ordine. Tintoretto è sempre e da tutti considerato uno dei grandi protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento. E a ben ragione: le sue qualità pittoriche, le sue invenzioni, il travolgente furore delle sue scene, la profondità del suo pensiero religioso coinvolgono, stupiscono e affascinano l’osservatore oggi non meno di quanto hanno fatto per più di quattro secoli. Trent’anni più giovane di Tiziano e dieci più anziano di Veronese, egli transita brevemente per l’atelier del Vecellio. Ma guarda, soprattutto, all’attività di altri artisti, convenuti a Venezia per scelta o per necessità: vedi il sacco di Roma del 1527, che induce a fuggire dall’Urbe, come è noto, una nutrita schiera d’intellettuali e di artisti, Jacopo Sansovino su tutti.

Le sue qualità pittoriche, le sue invenzioni, il travolgente furore delle sue scene, la profondità del suo pensiero religioso coinvolgono, stupiscono e affascinano l’osservatore oggi non meno di quanto hanno fatto per più di quattro secoli

“Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano”: Tintoretto avrebbe, secondo la leggenda, posto quest’insegna quasi come emblema nel suo studio

In termini mediati (cioè quasi esclusivamente osservando e studiando gli appunti grafici di altri colleghi pittori o incisori), sappiamo che il giovane Jacopo s’infatua di Michelangelo e sente fortissimo il richiamo di Parmigianino, di Correggio, dei toscani, come Pontormo e Rosso, del lavoro di Giulio Romano a Mantova. Ossia, in sintesi, della cultura del Manierismo toscano e romano. Innanzitutto, Tintoretto si esercita nel disegno e, in particolare, nel copiare opere scultoree di Sansovino e calchi dalle tombe medicee di Michelangelo, ambedue novità eclatanti nel percorso di formazione di un artista veneziano: l’introduzione del disegno come irrinunciabile passaggio nel tirocinio di un artista e la devozione nei confronti della cultura artistica tosco-romana. Poi c’è il trattamento del colore, ma questa non era certo una novità in un ambiente che aveva fatto del colore la propria naturale materia espressiva. “Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano”: Tintoretto avrebbe, secondo la leggenda, posto quest’insegna quasi come emblema nel suo studio; leggenda quanto mai prossima al vero (anche se immersa nella paccottiglia dei luoghi comuni) poiché riassume efficacemente i due pilastri della maniera tintorettesca. Un grande critico seicentesco come il Ridolfi ci testimonia di un’ulteriore importante novità nel metodo di lavoro di Tintoretto: «Esercitavasi ancora nel far piccioli modelli di cera e di creta [...] entro picciole case e prospettive composte di asse e di cartoni, accomodandovi lumicini per le finestre, recandovi in tal guisa i lumi e le ombre». Queste scatole spaziali e prospettiche, queste figurette di cera e creta che le popolavano, come pure il vestire i suoi modelli per studiare le pieghe e gli effetti della luce sui panneggi, ci mostrano il nostro artista intento a dar vita quasi a dei tableaux vivants, rivelando per tempo la natura profondamente teatrale delle sue pitture, costruite come scenari montati in successione con quinte e prosceni a marcare la profondità dello spazio della rappresentazione e ad articolarla nella dimensione temporale, cioè nel suo farsi sotto i nostri occhi, sotto gli occhi del pittore e dei suoi committenti, sotto gli occhi degli spettatori contemporanei alla scena: sia il Miracolo di San Marco, sia la Crocifissione della Scuola di San Rocco, sia una qualsiasi delle molte Ultime cene di cui abbondano le chiese veneziane, fino all’ultimo impegno a San Giorgio in Isola. Nessuno dei successori di Jacopo potrà d’ora in avanti ignorare questo metodo e l’innegabile efficacia drammatica e drammaturgica che esso garantiva. Ma è forse Andrea Meldolla, lo Schiavone, il collega cui Tintoretto deve di più in termini di avanzamento nel cammino sulla strada del manierismo maturo. E ciò appare con grande evidenza nella trasformazione del suo linguaggio a partire dai primi anni Quaranta. Progressivamente Jacopo si allontana dalla composta

fig. 21

Tintoretto

Disputa di Gesù con i dottori del Tempio, Veneranda Fabbrica del Duomo, Museo del Duomo, Milano, a destra nella mostra Il giovane Tintoretto, Gallerie dell’Accademia, Venezia (7 settembre 2018-6 gennaio 2019)

Jacopo si allontana dalla composta ed equilibrata tradizione del classicismo tizianesco introducendo un dinamismo compositivo di natura esasperatamente teatrale, così che tutto diventa rappresentazione, narrazione di eventi e drammatizzazione di storie sia sacre che profane

ed equilibrata tradizione del classicismo tizianesco introducendo un dinamismo compositivo di natura esasperatamente teatrale, così che tutto diventa rappresentazione, narrazione di eventi e drammatizzazione di storie sia sacre che profane. Lo si vede già nettamente in una tela riferibile al 1542-’43, la Disputa di Gesù con i dottori del Tempio (fig. 21), oggi a Milano. Quella che era sempre stata costruita come una sorta di composta epifania del sacro (salvo le sottolineature grottesche di Dürer) diventa qui un’esagitata contrapposizione di masse e corpi in movimento, di gesti eccessivi e retorici, di dimostrazioni controversistiche tra compulsare di codici e lo sfogliare libroni giganteschi; ma sulla sinistra una figura femminile in piedi assolve per noi il ruolo di spettatrice-testimone dell’evento, ricordando, in un certo senso, che si tratta pur sempre d’uno “spettacolo”, di una drammatica sacra rappresentazione. Anche nell’uso degli strumenti linguistici della pittura Tintoretto imprime una formidabile accelerazione, una forzatura senza precedenti verso una predilezione netta degli effetti luministici su quelli cromatici, collocandosi in un percorso di evidente superamento del fortunato tonalismo giorgionesco e tizianesco. Un percorso, un processo che esploderà nelle grandi narrazioni delle ultime tre tele per la Scuola di San Marco e che trionferà nei teleri della Madonna dell’Orto e della sala grande della Scuola di San Rocco. Certamente Tintoretto deve tener conto delle affermazioni che, negli stessi anni, veniva ottenendo Paolo Veronese con la sua pittura brillante dai colori squillanti, dall’antinaturalismo delle sue ombre colorate. Ciò induce Jacopo ad accostarsi, temporaneamente, a questo filone facendosene influenzare. Sartre parla di provocatorio veronesismo di Jacopo, che consente all’artista da un lato di conquistare fette di mercato facendo come e meglio di Paolo, dall’altro lato di impadronirsi di tecniche e linguaggi di straordinaria maturità e di “superare” quella sorta di complesso del rifiutato che gli pesava fin dall’allontanamento dalla bottega di Tiziano. Tuttavia, se la visione veronesiana appariva, pur nella complessità di composizioni virtuosistiche e affollate nei suoi scorci mirabolanti e in sotto-in-su tendenti ad annullare la veridicità di uno spazio cristallino e quasi equoreo, intrisa di un classicismo solare e olimpico, vicino per molti aspetti a quello coevo di Andrea Palladio, Jacopo al contrario esaspera la componente drammatica e nera, sulfurea e furibonda come in incubi negromantici: i cavalieri che sfilano nell’Adorazione dei Magi (fig. 22) oppure nel Battesimo di Cristo (fig. 23) a San Rocco, dipinti quasi in monocromi fantasmatici e lunari, appartengono più a ricordi di fantasie fiamminghe, oppure rendono tributo alla pittura urgente e scarnificata delle favole esoteriche e metamorfiche di Schiavone.

Tintoretto e il sacro, Tintoretto e la fede, Tintoretto e la Chiesa. Lei ha spesso dichiarato di rifiutare la forzata iscrizione di Jacopo a uno dei due partiti, Riforma e Controriforma, in cui si tenta di chiuderlo. Quale allora la sua opinione in proposito?

La grandezza inimitabile di Tintoretto sta nell’ardimento delle sue scene di massa, nel trasformare in pittura sia verità di fede che epifanie del sacro, nel suo immergersi totalmente ed esistenzialmente nelle problematiche scritturali e dogmatiche, nel mettere in forma le più impervie e drammatiche fra le dispute teologiche. E qui si entra in un territorio peculiare dell’arte e della personalità di questo straordinario artista. Non solo, ci si trova a dibattere su una questione delicata e più volte affrontata dalla storia e dalla critica d’arte: quella di Tintoretto è una pittura che appartiene al mondo e all’ideologia della Controriforma, quindi di diretta derivazione e allineata ai canoni e alle prescrizioni del Concilio

La grandezza inimitabile di Tintoretto sta nell’ardimento delle sue scene di massa, nel trasformare in pittura sia verità di fede che epifanie del sacro, nel suo immergersi totalmente ed esistenzialmente nelle problematiche scritturali e dogmatiche, nel mettere in forma le più impervie e drammatiche fra le dispute teologiche

fig. 22

Tintoretto

L’Adorazione dei Magi Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

fig. 23

Tintoretto

Battesimo di Cristo Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

di Trento, come vorrebbero alcuni, oppure la collocazione del Nostro è più sfumata, più ambigua o, addirittura, alternativa a tutta questa costruzione ideologica e teologica? La questione si pone in termini abbondantemente lontani da un tale dilemma. Se è vero che Tintoretto mostra inequivoci segnali di interesse nei confronti della spiritualità della Riforma (quindi a favore di una religiosità austera, povera di mezzi, caritatevole e sobria), dall’altro lato è anche indubitabile che appaiano sovente i segni di accettazione delle direttive tridentine (ad esempio nella trattazione dei temi eucaristici, sacramentali, o nella riduzione e subordinazione delle tematiche veterotestamentarie ad anticipazione di quelle neotestamentarie). Ma qui va fatta un’ulteriore distinzione: la religiosità di Tintoretto – per quanto sinceramente vissuta ed esposta – non può che essere ricondotta alle forme della sua pittura. Per le scelte tematiche, per l’impianto teologico e per l’orizzonte escatologico, egli è sempre e comunque debitore nei confronti dei suoi suggeritori: teologi ed esegeti delle scritture, letterati, predicatori. Di alcuni di essi, a partire dall’Aretino e dai suoi infuocati scritti sacri, oppure ancora dal predicatore cappuccino Mattia Bellintani, si sono trovati i nomi; altri nomi è possibile che emergano nel procedere degli studi tintorettiani, finalmente liberati dall’ossessione delle attribuzioni e delle vere o presunte autografie per rivolgersi piuttosto alla sostanza solida e ineludibile dei significati e dei messaggi teologici e religiosi tradotti in iconografie originalissime, in luci e ombre, in colori e forme di inesauribile ispirazione. Due fatti sono certi: primo, Tintoretto frequentava circoli di spirituali cattolici molto esposti nel tentativo di conciliare l’ortodossia cattolica con le idee della Riforma; secondo, i suoi cicli pittorici – soprattutto quello della Scuola di San Rocco – orientati da consiglieri molto colti, sono decisamente ispirati alla teologia del Vangelo di San Giovanni, come ho anticipato. E questa, si pensi solo al tema del contrasto luce/tenebre presente fin dal prologo del quarto vangelo, si presta in maniera magnifica a dar corpo e a esaltare la poetica luministica di Jacopo. È incredibile che nelle recenti iniziative su Jacopo tutto questo bagaglio di riflessioni e di informazioni sia del tutto ignorato: quasi un secolo di studi e di proposte è stato come buttato al vento, immolato sulla presunta disciplinarietà dei filologi: gli scritti di Tramontin e Niero, le illuminazioni di Anna Pallucchini, gli scritti di Augusto Gentili e della sua scuola, di Hüttinger, le stesse lucide pagine di Rosand e De Vecchi sulla scenograficità delle grandi rappresentazioni del Nostro a San Rocco; per non parlare dei libri e articoli di Sinding-Larsen e Wolfgang Wolters sul Tintoretto “politico” e la sua pittura ideologica e “rappresentativa” nei gangli stessi del potere della Repubblica. Tintoretto ha oggi perso tridimensionalità storica e umana e viene trattato come un cadavere pronto sul tavolo di marmo per una spietata autopsia. Ma la navicella della sua genialità saprà superare anche queste secche. Per parte mia posso dire di amare tutto intero quest’artista visionario e furente, eppure straordinariamente delicato e sensibile. Un’ultima notazione, ancora sulla linea di cui abbiamo appena ragionato. Mi ha sempre affascinato soprattutto un dato: la straordinaria e perfetta corrispondenza del linguaggio di Jacopo con alcune fondamentali linee portanti dei testi scritturali. Se il tema dell’acqua, ad esempio, dopo le anticipazioni di Vuillemin, e, più modestamente, di François Fosca, era stato già chiaramente illustrato da un celebre saggio di de Tolnay del 1960, così come una buona parte di altre organizzazioni strutturali dei cicli pittorici a San Rocco, quel che mi ha conquistato è il dominio assoluto, nelle parti neotestamentarie, della teologia di San Giovanni e della sua drammatica dialettica luce/tenebre. Mi è sempre

fig. 24

Tintoretto

Tentazione di Cristo Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

La tensione teologica e morale diventa provocazione luministica attraverso un fulminante scambio di ruoli e di mezzi espressivi

sembrato di poter dire, e ne sono pienamente convinto anche oggi, che le scelte di organizzazione dei cicli della Scuola non appartengono a Jacopo, bensì ai suoi suggeritori (teologi, biblisti, predicatori e così via – già Anna Pallucchini aveva scritto pagine importanti al riguardo), mentre è tutta sua la traduzione formale di quelle linee ermeneutiche in una esplosione incontenibile di luce e di tenebra, testimonianza di una battaglia che non si estinguerà fino alla fine dei tempi. Vorrei dire che la teologia giovannea ci appare come tradotta e trasfigurata in pittura, ma anche questo è troppo poco! Perché Jacopo, che parte dai condizionamenti fisici e spaziali delle sale della Scuola (non si dimentichi che il disegno delle cornici e degli scomparti dei soffitti precede l’intervento dell’artista!) rovescia tale handicap a suo favore: cattura la luce abbagliante dei finestroni e la fa creatrice e animatrice dei suoi giochi di contrasto e di battaglia tra Lucifero e Cristo, come nelle Tentazioni (fig. 24) o come nel Battesimo (fig. 23) nel Giordano, nella Piscina probatica o nella Preghiera nell’orto: la tensione teologica e morale diventa provocazione luministica attraverso un fulminante scambio di ruoli e di mezzi espressivi. È il mistero che inquieta Giovanni nel prologo del suo Vangelo: «Veniva nel mondo la luce vera [...] eppure il mondo non lo ha riconosciuto». Tintoretto si è dilaniato e speso a rappresentare tale lacerante dialettica. Questa lotta ho voluto che desse il titolo anche alla riedizione aggiornata del mio volume di Electa, La luce e le tenebre, fatta da Marsilio nel 2011. Dopo Tintoretto la pittura veneziana non sarà più la stessa di prima. Il fulcro del linguaggio pittorico si sposta dalla combinazione dei colori e dall’effetto “tonale” di tali accostamenti in funzione della creazione di quell’atmosfera che da Bellini in poi aveva contrassegnato la pittura veneta (rispetto, ad esempio, a quella toscana) alla contrapposizione di luce e buio, luce del sole e notte profonda, squarciata da esplosioni baluginanti, tenebre dei cieli e folgori e fuochi degli animi. Su questa strada si avvieranno anche le esperienze della generazione di artisti successiva a quella dei grandi protagonisti, titanici ed eroici nella loro inimitabile sintesi di eredità culturali e di innovazioni rivoluzionarie. I forti contrasti luministici, i colori che giungono a contrapposizioni quasi “espressionistiche”, il disegno quale irrinunciabile preparazione alla pittura, la teatralità esagitata fino allo spasimo, la considerazione attenta della natura, del paesaggio, dell’ambientazione nel quotidiano; il tono medio e basso fino al popolaresco, all’aneddoto, alla notazione di costume, l’impressionante controllo degli scorci e delle prospettive ripresi in mirabolanti, virtuosistiche forzature, la padronanza dell’anatomia umana, l’esecuzione velocissima che lascia sempre più spazio a una sorta di “non finito”, di “opera aperta”, dinamica, la creazione, infine, di macchine figurative sempre più complesse e di equilibri sempre più instabili: questi gli ingredienti che fanno del Tintoretto un pittore di confine, di rottura. Si vedano i teleri della Madonna dell’Orto, oppure lo stesso bozzetto (non eseguito in questi termini) del Paradiso per Palazzo Ducale oggi a Madrid: si tratta di gruppi di figure sospese nello spazio, galleggianti, in caduta precipitosa, scomposte e trascinate da un turbine. I successori dovranno confrontarsi con questo dinamismo, queste rotture, queste turbolenze, queste deformazioni, questo manierismo estremo e poetico. E sarà così un altro gigante dell’arte europea a ricevere il testimone da Jacopo Tintoretto, portando il suo percorso artistico e la sua ricerca fino ai limiti ultimi della leggibilità e della anamorfosi, con una pittura che espelle dal suo vocabolario la delicatezza dei colori caldi e delle atmosfere tonali per scegliere lo squillare acido dei verdi, dei gialli, dei violetti di una nuova stagione: Domínikos Theotokópoulos, El Greco.

Tintoretto ha oggi perso tridimensionalità storica e umana e viene trattato come un cadavere pronto sul tavolo di marmo per una spietata autopsia. Ma la navicella della sua genialità saprà superare anche queste secche. Per parte mia posso dire di amare tutto intero quest’artista visionario e furente, eppure straordinariamente delicato e sensibile

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