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I labirinti del Maestro

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Mostre

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di Giandomenico Romanelli

ottobre 2018

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Convenzionalmente, il Miracolo dello schiavo, prima opera del ciclo per la Scuola Grande di San Marco, vien reputato il punto di svolta nella carriera di Jacopo Robusti. Clamorosa irruzione giovanile di uno spirito che non teme di scandalizzare e di rompere con una consolidata tradizione. In realtà Tintoretto aveva preparato da tempo questa performance e, con tutta probabilità, aveva messo nel conto lo choc che la straordinaria teatralità della scena avrebbe procurato nei suoi stessi committenti. Più che giustamente, Rosand ha individuato appunto nella caratterizzazione scenografica e teatrale (o “cinematografica”, secondo Jean-Paul Sartre) delle sue grandi figurazioni l’elemento di immediata riconoscibilità del fare tintorettiano. Già sostanzialmente diverso dall’altro e precedente choc inferto al mondo dell’arte veneziana da Tiziano con l’Assunta dei Frari e, forse ancor più, dall’Uccisione di san Pietro martire ai Santi Giovanni e Paolo (distrutta in un incendio nel 1866). È la coralità della rappresentazione profana (e sacra) del Miracolo a tener banco e, certo in maniera non meno clamorosa, i diversi livelli del pubblico spettatore della scena dentro e fuori di quel che accade attorno al corpo ignudo dello schiavo riverso a terra. Comincia dopo, per Jacopo, il problema di confermare e affermare il suo ruolo di innovatore e di maestro. E qui, come osserva acutamente Jean-Paul Sartre nel suo (purtroppo da molti ignorato, perché fuori dagli schemi usuali della storia dell’arte e quindi per certi versi non riducibile e difficilmente comprimibile alle terminologie e ai parametri degli “addetti ai lavori”) Le Séquestré de Venise, le rivalse personali, il violento bisogno di autoaffermazione, le accuse mossegli dai rivali, un acuto senso della drammatica svolta epocale vissuta nei suoi decenni, tutto questo forgia la personalità titanica e ribelle di Jacopo, il suo inimitabile dinamismo, il percorso chiaroscurato di una vita di battaglie, quindi di sconfitte e di trionfi. Perché questo appare indubitabile e oggi ancora ci stupisce, ci inquieta e ci incanta: la vita di Jacopo è talmente impastata con il linguaggio della sua arte che tutta la sua pittura sembra quasi la trama di una vita spericolata ed “eccessiva”. Il lungo lavoro di Melania G. Mazzucco ha trasformato, come si sa, tutto ciò in un’inimitabile narrazione. Illuminazioni e neri profondi, rabbie, maledizioni ed estasi, amori e passioni, tradimenti e martirî: lo spessore, la tridimensionalità dell’opera di Jacopo sarà di certo apprezzabile nei confronti filologici tra i dettagli delle tele, nell’indicazione delle citazioni e dei ricordi di opere di contemporanei e concorrenti, ma l’uomo – e l’artista – è soprattutto nella complessità di una figura emblematica, di un individuo che ha – dolorosamente – la percezione del proprio valore e che vive tale situazione esistenziale come una condizione di tensione continua, irrefrenabile e compulsiva. Questo rivelano le critiche di Vasari, del Dolce e di altri ancora che faticavano a capire l’anti-classicità di Jacopo, infine il suo manierismo sulfureo e tragico, la sua unicità rivoluzionaria. E, dall’altra parte, Tintoretto non si capisce se non all’interno di un dibattito culturale, religioso e teologico che era, al suo tempo, mate-

ria viva e incandescente, paradiso e inferno, perdizione e salvezza. Anche in questo (oltre che nella coincidenza tra vita e linguaggio pittorico di cui s’è detto) sta l’ulteriore unicità di Jacopo: egli fa coincidere gli strumenti della sua pittura con la sostanza della materia che tratta, trasformando il pennello quasi in strumento di esegesi scritturale, per le opere religiose, e in pura ideologia la componente allegorica di quelle profane. Non staremo qui a stupirci ancora davanti alla fantastica linea sinuosa che contiene magicamente il profilo del corpo fatto di luce gelatinosa della casta Susanna (che esplode però di sensualità abilmente esibita), né c’è necessità di attirare l’attenzione sul Battesimo di Cristo di San Silvestro, dove non troveresti un centimetro quadro di pittura che non lieviti di pura luce fosforescente (non meno che nell’Annunciazione di San Salvador del grande vecchio Tiziano). E che dire del ritratto dell’uomo con catena d’oro in equilibrio geniale tra la ritrattistica di Lotto e quelle di Tiziano o di Savoldo, così come il ritrattino di Giovanni Mocenigo dove non si può reprimere l’entusiasmo che si racchiude ed esprime in una parola pericolosa: perfetto. I restauri che la mostra di Palazzo Ducale ha proposto sono forse il contributo più importante che questa occasione centenaria ci propone dopo le encomiabili sistematizzazioni operate sul materiale pittorico tintorettiano nel secondo Novecento dai lavori di Rodolfo Pallucchini e Paola Rossi: opere invisibili o faticosamente leggibili appaiono in tutto il loro splendore e in tutta la variegata ricchezza del loro “messaggio”; si veda il San Marziale in gloria, il sublime ciclo mitologico di Palazzo Ducale, la Flagellazione di Praga, la Via Lattea di Londra, la Deposizione già nella Chiesa dell’Umiltà, citando a caso e disordinatamente. La fortunata e opportuna scelta di collocare la mostra a Palazzo Ducale ha consentito di assaporare l’aria tintorettiana in tutto questo straordinario contenitore, ed è certo un elemento non secondario e non di poco conto per contestualizzare un artista che deve essere poi visto e ritrovato in giro per le chiese e le Scuole sparse in città con le loro mirabolanti Ultime cene e le Crocifissioni, le Assunzioni e le Ascensioni, le Presentazioni al Tempio e le Circoncisioni, Vecchio e Nuovo Testamento, paesaggi, miracoli, pezzenti e Re Magi, inferno e paradiso e così via. Cioè il mondo luminoso e tenebroso, fantastico e reale di Jacopo Tintoretto.

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