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Taccuino d’ombre

maggio 2019

Quando nei primi anni Cinquanta [Ruskin] ebbe occasione di conoscere e frequentare Burne-Jones apprezzandone il talento e l’abilità pittorica, pensò di chiedere proprio a lui di salvare la memoria di alcune opere che in Laguna aveva riscontrato più “a rischio”

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Intervista a Michela Luce

di Mariachiara Marzari

Una tesi

di laurea che diventa passione pura per la pittura inglese dell’Ottocento e un’apparente evasione dalle trame imprescindibili della pittura veneziana, lo studio dell’artista Edward Burne-Jones, che diventa per Michela Luce un vero e proprio innamoramento, come quello dello stesso pittore per Tintoretto. Un legame dunque che da Venezia ritorna a Venezia, per riscoprire attraverso gli schizzi dell’artista inglese la grandezza del Maestro veneziano.

Com’è nata questa fatale attrazione, questo interesse per un pittore vittoriano così “lontano” da Venezia?

Risale all’epoca universitaria: dovevo scegliere l’argomento della tesi di laurea. Avrei potuto puntare su qualcosa di più vicino, legato alla mia città. Ma fui catturata da quell’universo di cavalieri ed eroi, dal mito classico rivisitato in chiave estetizzante, dalla possibilità di viaggiare oltre il tempo nel mondo della Bellezza. C’era appena stata una mostra su Edward Burne-Jones a Roma. Era il lontano 1986. Quindi fu una scelta di passione, di feeling a prima vista. Poi, studiandolo, scoprii quanto in realtà ci fosse anche in lui di “veneziano”.

Chi era Edward Burne-Jones?

Figlio di un corniciaio di Birmingham, perse presto la madre, così fu cresciuto dal padre e dalla governante. Visse un’infanzia triste e solitaria, chiudendosi in un mondo di fiabe, disegnando le caricature di amici e professori. Frequentò il college a Oxford, dove incontrò John Ruskin, le cui lezioni lo stregarono. Era appena fuggito dalla sua città natale che all’epoca definì “priva di bellezza”. Il critico inglese prospettava alla platea dei suoi studenti – tra i quali William Morris, con cui Burne-Jones legò subito – l’importanza del valore morale della società che, sosteneva, doveva essere anche strettamente connesso con l’arte che la rappresentava.

Ruskin e Morris: due figure chiave nella sua vita?

Senz’altro, ma a questo punto si inserisce la terza personalità che si rivelò decisiva nel liberare l’immaginazione del giovane Edward: Dante Gabriel Rossetti, fascinoso e carismatico, leader della Confraternita dei Preraffaelliti fondata a Londra nel 1848 e sostenuta dallo stesso Ruskin. Si trattava di una scuola che

voleva affrancarsi dalle regole imposte dall’Accademia, prospettando il recupero dell’arte precedente Raffaello, da cui ritenevano si dovesse ripartire e la cui Trasfigurazione consideravano ante quem.

Un primo riferimento all’arte italiana?

I Preraffaelliti caldeggiavano una pittura più chiara, luminosa e ispirata a tematiche medievaleggianti. Ne facevano parte, tra gli altri, John Everett Millais – iconica la sua Ophelia in un letto bagnato di fiori, che rappresentava all’interno del gruppo la tecnica, precisa, nitida, naturalistica, usata per narrare un episodio storico-letterario –, e Holman Hunt, considerato l’ostinatezza, che con il dipinto Risveglio della coscienza “fotografò” la sottile, ironica allusione a quel perbenismo puritano per cui lo stato d’animo della ragazza, ritratta in una stanza sovraccarica di simboli e rimandi, si trova sul confine tra la liberazione e l’asservimento all’amante che la mantiene. Importante per i Preraffaeliti era anche il tema della religione, trattata secondo una nuova iconografia, che faceva riferimento al significato letterario più che al messaggio teologico. Emblematica in questo senso la figura dell’Ancilla Domini di Rossetti per raffigurare l’Annunciazione. Ognuno di loro puntava a trasporre su tela l’impegno sociale, il recupero della storia, la critica ad una società da cui idealisticamente volevano prendere le distanze sconfessando il compromesso vittoriano. Una vera e propria avanguardia, quella vittoriana pre-novecentesca.

Le opere dei Preraffaelliti possono essere considerate vivide manifestazioni culturali di quell’energia esplosiva che animava la prima società industriale del mondo?

Senz’altro. Erano caratterizzate, dal punto di vista stilistico, da linee nette, da colori stridenti, dall’abbondanza e dallo splendore del mondo naturalistico, dall’impegno provocatorio nella vita sociale e religiosa, dall’attenzione alla bellezza e alla sessualità. All’epoca si trattò di una effettiva rivoluzione.

Ruskin, Morris, Rossetti. Cosa assorbì da ciascuno di loro Burne-Jones?

L’incontro con Rossetti fu decisivo nel liberare la mano di Burne-Jones, spingendolo a dare sfogo all’immaginazione senza vincoli espressivi o condizionamenti tecnici; inoltre lo avvicinò alla letteratura, a Dante e al Medioevo letterario. Con Morris invece condivise l’impegno sociale in vista di una società migliore, che durò tutta la vita. Insieme eliminarono la distinzione tra arti minori e arti maggiori, considerando che vetrate, mosaici, mobili decorati, tessuti, carte da parati, libri illustrati, tutto ciò contribuisse a migliorare la qualità della vita vissuta. Ruskin, infine, fu per Burne-Jones un vero e proprio nume tutelare. Maestro di formazione oltre che Mecenate. Fu infatti John Ruskin a sponsorizzare i due viaggi di Burne-Jones a Venezia.

MICHELA LUCE

Nata a Venezia, laureata in Lettere con indirizzo artistico all’Università Ca’ Foscari; è appassionata d’arte e giornalista. Cresciuta in un ambiente legato al mondo del collezionismo e del mercato, ha collaborato con varie testate in qualità di critica d’arte e corrispondente da Venezia per le pagine culturali. Oggi gestisce la Galleria Luce Arte Moderna, inaugurata nel 1983.

Edward e Georgiana furono stregati dall’alba che sorgeva dal mare del Lido o dal tramonto che si rifletteva sulla Basilica di San Marco facendone brillare i mosaici e colorando di rosa Palazzo Ducale

Veniamo al rapporto sinergico con Venezia: da dove deriva?

Quello di Edward Burne-Jones per Venezia fu un vero e proprio colpo di fulmine. Come racconta la moglie Georgiana nelle sue memorie, l’artista inglese compì due viaggi in Laguna, nel 1859 con i compagni del college Val Prinsep e Charlie Faulkner e nel 1862 con la moglie stessa, una sorta di viaggio di nozze finanziato appunto da Ruskin che li aveva accompagnati fino a Milano. In entrambe le occasioni la sua sensibilità estetizzante subì completamente il fascino della città lagunare, così diversa dalla realtà inglese dove si respirava l’incipiente industrialismo che ingrigiva monumenti e umori. Le metropoli frenetiche accentuavano i contrasti, Venezia viveva atmosfere rallentate, colori impensabili. Edward e Georgiana furono stregati dall’alba che sorgeva dal mare del Lido o dal tramonto che si rifletteva sulla Basilica di San Marco facendone brillare i mosaici e colorando di rosa Palazzo Ducale.

Degno allievo dell’autore delle Pietre di Venezia…

Infatti! Allora Ruskin era molto sensibile alla bellezza dei monumenti del passato che proprio a Venezia aveva ammirato in occasione dei suoi ripetuti viaggi. Ne temeva l’invecchiamento se non addirittura la distruzione e si dimostrava particolarmente attento anche alle tecniche del restauro che all’epoca riteneva inadeguate. Così, quando nei primi anni ‘50 ebbe occasione di conoscere e frequentare Burne-Jones apprezzandone il talento e l’abilità pittorica, pensò di chiedere proprio a lui di salvare la memoria di alcune opere che in Laguna aveva riscontrato più “a rischio”. Era rimasto turbato – come racconta appunto nelle Pietre di Venezia–, quando nel 1846 aveva visto l’acqua filtrare attraverso i teleri di Tintoretto a San Rocco o di fronte al Paradiso, nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, in occasione del viaggio successivo.

Quindi galeotto fu Ruskin?

Temendo dunque l’incuria o ancora di più i cattivi restauri, che all’epoca venivano eseguiti ridipingendo sopra le vecchie pitture e utilizzando colori brillanti e pennelli intinti in volgari misture da imbianchino per far riemergere l’antico splendore, Ruskin pregò l’allievo di “salvare” la memoria delle opere conservate nei due palazzi che, scrisse, «contengono le più belle pitture della città e per qualità di colore le più belle pitture al mondo». Al suo allievo, che nel primo viaggio del 1859 si era aggirato in città estasiato e che ammirando «case e

Ruskin era rimasto turbato quando nel 1846 aveva visto l’acqua filtrare attraverso i teleri di Tintoretto a San Rocco, o di fronte al Paradiso, nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale

palazzi costruiti sull’acqua e gondole al posto delle carrozze» si era già invaghito del Carpaccio, Ruskin chiese, dopo aver deciso di finanziarne la trasferta successiva, copie specifiche e mirate.

Burne-Jones fa scoprire Carpaccio a Ruskin e Ruskin a sua volta indica Tintoretto a Burne-Jones?

Effettivamente avvenne proprio così. E lo conferma una lettera che Ruskin inviò al suo allievo anni dopo: «Mio carissimo Ned, non esiste niente di simile al Carpaccio! Devo umilmente ammetterlo a tuo favore. Bene, il fatto che io prima non lo avessi mai guardato avendolo classificato alla prima occhiata ed accomunato ad un Gentile Bellini e ad altri uomini più o meno della stessa incipiente e severa scuola; aver pensato invece migliore Tintoretto nonostante i suoi giochi di ombre e di luci. Certo non smetto di apprezzare il mio Tintoretto, ma il suo dissolvere l’impressione nel drappeggio e nell’ombra è per me troppo licenzioso ora. Questo Carpaccio invece è un mondo nuovo; solo che tu non hai ragione ad essere così entusiasta di lui, poiché egli è proprio quello che tu saresti stato se fossi nato qui, esercitandoti correttamente dall’inizio – e uno non dovrebbe piacere a se stesso così tanto? Fin ora ho visto solo l’Accademia, questa mattina (con una luce senza nubi) andrò dal tuo San Giorgio degli Schiavoni; ma prima devo spedire queste righe».

Ma torniamo al Robusti. Burne-Jones e Tintoretto: copie o rivisitazioni? A San Rocco, dalla Sala Capitolare, Ruskin commissionò a Burne-Jones un piccolo bozzetto del San Sebastiano (fig. 49), definito nei suoi Modern Painters «una delle cose più belle e sicuramente il più maestoso San Sebastiano che esista per quanto la pura umanità possa essere maestosa poiché non c’è alcuno sforzo né alcuna espressione di angelica santa rassegnazione. Lo sforzo è semplicemente di realizzare il fatto del martirio, e ciò mi sembra sia compiuto per esteso e neanche tentato da qualsiasi altro pittore». Inoltre, Ruskin era rimasto incantato davanti al Sommo Sacerdote della Circoncisione (fig. 50) al pianterreno. Da quando aveva scoperto Tintoretto nel 1845, infatti, lo aveva portato in cima alla sua lista di pittori della sua scuola d’arte. Lo considerava «artista veneziano essenziale, che rappresentava la virilità espressiva associata alla città». Ruskin continuò scrivendo: «Tintoretto si è dato molta pena con la testa del Sommo Sacerdote.

fig. 49

Tintoretto

San Sebastiano Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

fig. 50

Tintoretto

Circoncisione (particolare) Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

Non conosco nessun’altra testa di vecchio così squisitamente dolce o tanto nobile nelle sue linee

John Ruskin

fig. 51

Tintoretto

Nozze di Cana Sacrestia, Basilica di Santa Maria della Salute, Venezia

fig. 52

Tintoretto

Nozze di Bacco e Arianna Sala dell’Anticollegio, Palazzo Ducale, Venezia

Non conosco nessun’altra testa di vecchio così squisitamente dolce o tanto nobile nelle sue linee […] Il più laboriosamente finito nella Scuola di San Rocco, la più lata tipologia esistente della sublimazione che può essere messa nel trattamento di accessori, vesti, decorazioni». Per questioni sentimentali Ruskin associò Venezia all’amore sofferto e per certi versi fallimentare nei confronti della giovane Rose La Touche, così non vi tornò che parecchi anni dopo, nel 1869, andando senza esitare a San Rocco, dove egli stesso eseguì delle copie d’insieme, soffermandosi su alcuni dettagli che riteneva essenziali. Dalla Circoncisione che tanto lo aveva colpito fece uno schizzo del Bambino in braccio al sacerdote, espressione, secondo lui, della «rivelazione divina quale testimonianza di un sogno poetico». Così lo copia illuminandolo con una luce dorata.

E Burne-Jones cosa ne pensava? Continuò ad assecondare il suo maestro?

Molto diligentemente Burne-Jones accontentò il suo mecenate, eseguendone anche lui una copia, ma nella corrispondenza pressoché quotidiana che gli inviava da Venezia ammetteva di non essere rimasto soddisfatto dei due bozzetti. «Ho avuto molte difficoltà nel fare lo schizzo del San Sebastiano poiché è così scuro […]». Nonostante ciò, lavorando sul corpo nudo del santo trafitto da una pioggia di frecce, eseguì un suo personale esercizio di stile improntato sul volume, reso attraverso lo sfumato di matita e carboncino. Riguardo alla Circoncisione lamentò poi addirittura che «l’acquerello col Sommo Sacerdote è venuto fuori molto male poiché ho lavorato al buio e il quadro è esso stesso molto scuro e avvolto dal gelo», dimostrandosi dunque estremamente perfezionista nella pratica del disegno, a cui dava enorme importanza, tanto che tale pratica si sarebbe rivelata fondamentale nei dipinti degli anni successivi. Singolare e non trascurabile, inoltre, la testimonianza storica, raccolta attraverso le lettere riportate dalla moglie, sulle condizioni di abbandono della Scuola di San Rocco, da lui definita “gelida e buia”. Ma l’interesse di Ruskin per Tintoretto era tale (era rimasto «sopraffatto» dalla sua potenza, dalla sua «intensità di immaginazione», dalla capacità evocativa che gli consentiva attraverso dieci pennellate di definire una figura e con altrettante di colorarla) che non poteva rischiare che tutto ciò andasse perduto. Così commissionò al giovane altri bozzetti: l’“harem”, come lo chiamò nei suoi appunti riferendosi alle Nozze di Cana (fig. 51) della Salute, per la presenza di figure femminili in pose sempre molto sinuosamente e plasticamente definite, e una Testa di Bacco da Palazzo Ducale, intendendo il Bacco e Arianna (fig. 52) dell’Anticollegio. In entrambi questi bozzetti Burne-Jones lavorò affinando lo sfumato, mezzo tecnico per dare volume e plasticità alle forme. Li reinterpretò dunque in maniera assolutamente pedissequa, eseguendoli come veri e propri esercizi di stile.

Quindi Ruskin era più interessato all’antico o a far maturare l’allievo?

Burne-Jones sentiva il peso della responsabilità di operare per quello che considerava il suo nume tutelare. Ricorda la moglie Georgiana nelle sue memorie che Edward venerava a tal punto Ruskin da averle regalato, per il fidanzamento, un volume del maestro da tenere sul comodino come fosse la Bibbia, e che nei suoi schizzi satirici si era raffigurato prostrato ai suoi piedi, ritraendolo avvolto da aureola. Le copie non lo avevano soddisfatto poiché, come fece notare al suo mecenate, anche un semplice bozzetto meritava maggior cura e concentrazione. In realtà non fu dello stesso parere Ruskin, tanto che al ritorno dell’allievo in Inghilterra nel 1862 apprezzò la sua abilità di esecuzione e gli acquistò la copia

della Visitazione – oggi conservata alla Bembridge Gallery dove fu data in lascito – che Burne-Jones aveva eseguito quando si trovava nello scalone della Scuola di San Rocco di fronte al Tiziano; già rappresentava una interpretazione plastica del soggetto copiato. Quindi il duplice obiettivo di Ruskin era stato raggiunto: innanzitutto era riuscito a liberare Burne-Jones da quella che considerava l’influenza nefasta di Rossetti, che non gli avrebbe permesso di maturare perfezionandosi artisticamente, dall’altro aveva conservato per sé e per i posteri tracce dell’artista che in quel momento riteneva il genio rinascimentale per eccellenza e che soffriva a vedere in uno stato di abbandono.

Come Burne-Jones scelse i soggetti da copiare?

Come abbiamo visto, in parte gli furono esplicitamente commissionati da Ruskin. In alcuni casi però catturarono la sua attenzione per il soggetto che trattavano, come il Carpaccio, che fu lui stesso a riscoprire perché lo riportava al suo amore per i cavalieri medievali. Oppure sceglieva opere che gli consentivano di approfondire la tecnica di disegno. Tra queste, eseguita seppur non richiesta, lo schizzo della testa di Santa Caterina di Palazzo Ducale dal Tintoretto, presumibilmente dalle Nozze mistiche della Sala del Collegio. Infine, la scelta cadeva sulle opere che lo stimolavano per i cromatismi accentuati e le sfumature tonali.

Venezia per il giovane preraffaellita fu quindi decisiva per la propria crescita e maturazione pittorica.

Un vero viaggio di formazione, questo di Burne-Jones, che, alla luce delle opere realizzate in seguito al suo ritorno a Londra, gli stimolò inizialmente un senso del colore tutto veneziano quale si coglie nei lavori dei primi anni ‘60; opere come Chant d’Amour, Green Summer, l’Idillio, la Musica miscelano perfettamente lasciti tonali giorgioneschi e paesaggi belliniani che sembrano imperniati su spazialismi lagunari; mentre la piccola Natura morta con le mele pare eseguita sulla falsariga di quella della Sala dell’Albergo di San Rocco, tanto che mi piace vederla come diretta discendenza dal maestro veneziano.

Appare strano che tra le tante opere si sia soffermato proprio su quella piccola Natura morta.

Si è trattato, a mio parere, di un esercizio di stile, di tecnica, di evidente ricerca cromatica. Del resto, Burne-Jones non lasciava nulla al caso e la formazione risultò sempre più approfondita. Lo studio sul colore fu essenziale in questa fase. Chissà poi se avesse saputo che proprio questa piccola Natura morta che tanto lo aveva colpito nella Sala dell’Albergo sarebbe diventata nel XXI secolo opera fondamentale per risalire alla tecnica originaria del Tintoretto grazie al prossimo intervento di restauro annunciato da Maria Agnese Chiari Moretto Wiel, in quanto unico tra i capolavori del maestro veneziano a non essere mai stato soggetto a malsane ripuliture, quindi perfetto per conoscere la tecnica, i materiali, i pigmenti originali da lui usati.

Ci saranno influenze veneziane anche in seguito?

A prima vista appare diversa la sensibilità nelle opere eseguite in seguito intorno agli anni ‘70, che sembrano improntate ad una plasticità manieristica più legata al centro Italia; anche se, magari indirettamente, non può però prescindere da quanto gli aveva lasciato la vista dei capolavori dello stesso Tintoretto. Infatti, se i viaggi di quel periodo in Toscana e a Roma furono compiuti per prendere le distanze dall’attacco di Ruskin a Michelangelo, studiando il maestro

fig. 53

Tintoretto

Strage degli Innocenti Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

fiorentino dal vivo, allo stesso tempo gli fecero riaffiorare le precedenti memorie visive veneziane.

Tornerà in seguito a Venezia?

Non fisicamente. I viaggi nel centro Italia del 1871 e 1873 non lo riportarono in Laguna. In quell’occasione sentiva di dover approfondire lo studio del Manierismo e vedere dal vivo Michelangelo e Signorelli. Però di fronte ad un’opera cardine della sua produzione pittorica quale è il Polittico di Troia di Birmingham, non finito, una bellissima e complessa opera pittorica sulla scia delle pale d’altare o dei capolavori rinascimentali di Mantegna, Crivelli e, ovviamente, Michelangelo, il rimando allo stesso Tintoretto non va trascurato. Sembra evidente il riferimento alla Strage degli Innocenti (fig. 53) di San Rocco, tanto che a me è parso immediato e non trascurabile come dal groviglio di corpi delle madri disperate del Robusti, che si contorcono in un chiasmo di terrore muscolare, sembri discendere il panico dei fuggiaschi della città assediata dell’inglese, davanti ad una Venus discordia glaciale, che assiste con distacco, da un improbabile trono, alla macchinazione scatenata dai Vizi, - Ira, Invidia, Sospetto, Contesa - appartati in primo piano sulla destra del dipinto. Sul pavimento, vittime dei loro intrighi, ai piedi della Venere impassibile, stanno corpi nudi e contorti in torsioni manieristiche tintorettesche. E come la strage di Betlemme del veneziano, così l’assedio di Troia del preraffaellita sembra ambientato in una quinta teatrale aperta sulla fuga di archi e pilastri in mattone. Come Tintoretto, così

Burne-Jones inserì nei suoi quadri degli “ordini bastardi”, bellissima, intrigante definizione di Gianmario Guidarelli che ci piace poter citare con riferimento a quegli elementi strutturali, architettonici, essenziali, portanti, ma frutto di un’abile ricostruzione di fantasia. Nei suoi dipinti Tintoretto ha utilizzato lo spazio architettonico a fini narrativi in un modo molto raffinato e complesso, deformandolo e frammentandolo grazie ad un impiego innovativo e spregiudicato della prospettiva geometrica. In questa strategia compositiva, spiega ancora Guidarelli, gli ordini architettonici, perdendo parte del loro significato prospettico e morfologico, diventano elementi frammentari di un allestimento scenografico degli spazi narrativi. In questo caso ho riscontrato un’ulteriore vicinanza tra i due pittori, poiché anche per Burne-Jones l’architettura non è mai casuale o semplice sfondo, ma viene via via rielaborata con puntuale attenzione, diventando involontaria protagonista. Elementi che fanno parte di memorie visive sospese nel tempo, inconsciamente affioranti a distanza di anni nell’immaginario pittorico del baronetto vittoriano Edward Burne-Jones.

Venezia, la sua arte e Tintoretto: possiamo vederli come esperienza formativa per Burne-Jones?

Senz’altro, anche perché Burne-Jones per certi versi si è fatto da solo, proprio attingendo dal passato. Nel senso che inizialmente frequentò la scuola di disegno, poi la Old Watercolour Society, da cui si staccò in disaccordo per la critica ad alcuni suoi dipinti, da allora si rinchiuse per 7 anni, dal 1870 al 1877 nel suo atelier fuori Londra, The Grange, perfezionandosi a studio dipingendo e circondandosi di opere in maniera quasi maniacale. In una sorta di rapporto fisico con il proprio lavoro, dipingeva, ritoccava, rielaborava le cromie in una ricerca di approfondimento stilistico e tecnico continuo che gli derivava dagli anni italiani a contatto coi capolavori del Rinascimento. Del resto, dopo il suo ritorno in pubblico con la mostra della Grosvenor Gallery del 1877 il successo crebbe in maniera esponenziale, così come i suoi clienti e le richieste.

Quindi non viaggiò più?

Venezia lo rivide con una presenza molto importante, seppur non di persona. Infatti, proprio in Laguna vennero eseguiti i mosaici che decorano la chiesa di San Paolo entro le Mura a Roma. Si tratta di un’opera fondamentale per diversi motivi, unica sua testimonianza in Italia, il solo ciclo musivo da lui realizzato e interamente prodotto in una fornace muranese, secondo tecniche veneziane. Un’opera laboriosissima che lo impegnò nei suoi ultimi vent’anni, fino alla morte nel 1898.

Che ruolo ha avuto Burne-Jones rispetto all’ambiente artistico veneziano?

È fuori dubbio che abbia avuto un ruolo di primo piano alla Biennale d’apertura. Non a caso è stato per due volte nel Comitato di Patrocinio nel 1895 e di nuovo nel 1897. Ha esposto in due occasioni: alla storica prima edizione, portandovi La Sponsa de Libano, opera che suscitò opinioni molto contrastanti, tra ammirazione entusiastica e pesanti stroncature, mentre alla 4. Esposizione, nel 1901, fu inviato Il sogno di Lancillotto, dipinto meno intrigante, ma testimonianza di un artista il cui nome ancora era all’apice del successo. Fu una presenza doppiamente importante, espressione del gusto dell’epoca e riflesso dei suoi consensi internazionali. Di questi, ovviamente, un evento mediatico quale è stata la Biennale sin dalle sue origini doveva tener conto. Niente di meglio dunque che ospitarlo ai Giardini, dove sbarcò il suo mondo incantato di Bellezza senza tempo.

Come Tintoretto, così Burne-Jones inserì nei suoi quadri degli “ordini bastardi”. [...] Elementi strutturali, architettonici, essenziali, portanti, ma frutto di un’abile ricostruzione di fantasia. Elementi che fanno parte di memorie visive sospese nel tempo, inconsciamente affioranti a distanza di anni nell’immaginario pittorico del baronetto vittoriano Edward Burne-Jones

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