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Il Maestro rivelato
marzo 2019
Tintoretto è un pittore veramente difficile da restaurare. Imprevedibile e tecnicamente discontinuo, non possiede un modo unico di realizzare le sue pitture; è “un anarchico”, riesce a essere meticolosamente progettuale e nello stesso tempo velocissimo, con una realizzazione finale di getto, sempre focalizzata al risultato scenico complessivo
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Intervista a
Sabina Vedovello
di Franca Lugato
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i riflettori su un Maestro comporta, oltre alla visibilità di mostre e celebrazioni, la possibilità di studiarne in modo scientifico il catalogo e direttamente le opere. L’occasione del Cinquecentenario della nascita di Tintoretto (1519-2019) è stata fondamentale anche e soprattutto per la promozione e la realizzazione di importanti restauri che hanno visto protagonisti capolavori del Maestro. Lo scorso gennaio si è concluso infatti il lungo lavoro sulla Maria in meditazione e la Maria in lettura, i grandi teleri dipinti da Tintoretto tra il 1582 e il 1584 per la Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco. L’intervento è stato finanziato da SKY Arte, che ha realizzato il bellissimo documentario sulla vita di Tintoretto (vedi pag. 137), passato nelle sale cinematografiche il 25, 26 e 27 febbraio scorso. Il restauro è stato un vero lavoro di squadra tra la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna e la Scuola Grande di San Rocco. A realizzare l’intervento Sabina Vedovello, Irene Zuliani, Ramona Scamporrino, Eleonora Toppan della CBC Conservazione Beni Culturali, gruppo italiano di professionisti con più di quarant’anni di esperienza. Abbiamo avuto la fortuna di assistere allo svelamento delle due Marie e di sentire dalla viva voce di una delle protagoniste del restauro, Sabina Vedovello, l’emozione di aver vissuto per lunghi mesi a fianco del grande artista veneziano.
Da dove siete partiti e quali sono state le indagini che avete condotto prima di intervenire sui teleri?
Fondamentale nel nostro lavoro e nel nostro approccio è cominciare a guardare molto attentamente le opere e il dettaglio delle loro caratteristiche. Forse è l’indagine più importante, perché permette di precisare lo stato di conservazione, i problemi che riverberano sulla superficie, e di cominciare a impostare le indagini di carattere scientifico, che diventeranno poi il testo oggettivo, la documentazione trasmissibile di quello che osserviamo. Si parte dunque da una lettura attenta dell’oggetto, con una buona luce, spesso radente, che ci consente di cogliere tutta una serie di caratteristiche o di particolarità, compresi gli eventuali danni; una fase fondamentale per poi costruire un approccio sia operativo che di approfondimento scientifico. La parte di diagnostica, o comunque di documentazione scientifica, è un percorso che in genere deve accompagnare tutto il nostro lavoro e che viene a definirsi via via che si approfondiscono anche le parti operative. Non può bastare un controllo scientifico a spot; sarebbe buona prassi ripetere certe operazioni nel corso del lavoro, perché mentre si procede ad affrontare i diversi temi conservativi affiorano i problemi, le domande e le necessità di risposta. Nel caso particolare delle due Marie del Tintoretto (figg. 35-36) siamo stati abbastanza fortunati, perché si è creata una certa disponibilità anche logistica a operare in più riprese. In particolare, Dino Chinellato, che si è occupato dei rilevamenti con luce infrarossa e ultravioletta, si è reso disponibile a documentare passo dopo passo il procedere del lavoro.
Quanto è importante per il vostro lavoro, e nel caso specifico per il restauro delle due Marie, la ricerca storico-archivistica e come affrontate l’analisi degli interventi pregressi?
È chiaro che lavorando su un’opera o un oggetto affiorano dei dati materiali che riguardano non solo come è stato realizzato ma anche gli interventi e i materiali aggiunti nel corso del tempo. In questi casi è fondamentale poter avere dei riscontri archivistici e storici che datino e che rendano possibile mettere in
fig. 35
Tintoretto
Vergine Maria in meditazione Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
fig. 36
Tintoretto
Vergine Maria in lettura Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
sequenza gli eventi, separando gli elementi che sono da ricondurre al momento dell’esecuzione da quelli ascrivibili a operazioni successive. La conoscenza storica è elemento altrettanto importante per le scelte di restituzione finale dell’opera su cui si interviene: ci permette di comprendere che cosa ha senso mantenere e che cosa, al contrario, ha senso rimuovere. In questo caso particolare abbiamo trovato molto poco sulla storia dei dipinti della Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco, forse perché è sempre stata considerata come l’atrio d’accesso alla sala superiore, sicuramente più importante e ricca. Le notizie che si ricavano cominciano dal primissimo Novecento e non sono esattamente riferibili a questi due dipinti. Tra l’altro, all’interno del ciclo della Sala Terrena, le due Marie sono le meno considerate nel corso del tempo, anche nelle guide antiche e nei resoconti. Sappiamo per certo che sono state rifoderate più di una volta: è stata aggiunta cioè una nuova tela di supporto alla tela originale per dare tensione e coesione ai dipinti. Le uniche notizie certe riguardano due avvenimenti del Novecento, ovvero il restauro di Antonio Lazzarin, che tra il 1969 e il 1974 lavora su tutti i dipinti della Scuola, e poi, nel 2012, una manutenzione con una leggera pulitura e una riverniciatura in occasione della grande mostra di Tintoretto alle Scuderie del Quirinale.
Nella fase di pulitura e di rimozione delle dipinture non originali come e dove vi siete posti il limite di intervento?
Si può dire che già come deformazione professionale possediamo un particolare allenamento a leggere in stratigrafia gli strati della pittura. Inoltre, nel corso del tempo sono stati messi a punto dei processi di pulitura graduale e progressiva che consentono, partendo da solventi e sostanze molto blande fino a solventi maggiormente aggressivi, di arrivare a determinare come rimuovere i materiali non pertinenti e raggiungere i livelli desiderati. La prima fase in assoluto è sempre quella di togliere la vernice più recente; anche in questo caso ha coinciso con la solubilizzazione sia della vernice data nel 2012 che della vernice risalente a interventi di metà del Novecento. In particolare quest’ultima, una vernice naturale, aveva subito un’alterazione e un ingiallimento abbastanza pronunciati. Già la rimozione di questi strati ha alleggerito la pittura restituendo una chiara visione di numerosi dettagli e una nuova profondità, permettendo una comprensione più chiara di quella che era la superficie originale. È emersa così l’evidenza che in tempi passati era stata operata una pulitura abbastanza radicale, ma allo stesso tempo molto veloce, che aveva lasciato molti residui. Il nostro passo successivo è stato, quindi, un intervento di pulitura puntuale solo sulle zone dove si vedevano tracce di ridipinture e ritocchi, oppure in determinate parti – come le radici dell’albero della Madonna in lettura (fig. 37) o sulla parte del prato intorno al ruscello della Madonna in meditazione (fig. 38) – dove abbiamo rinvenuto applicazioni di sostanze oleose che avevano impregnato il colore. Abbiamo cercato di assottigliare e alleggerire queste sostanze, anche se non siamo ovviamente riusciti a estrarle laddove ormai strettamente compenetrate nella pittura originale. Tuttavia, nonostante i limiti innegabili, il lavoro di equilibratura e di rimozione puntuale delle alterazioni ha sicuramente reso più limpida la visione.
CBC Conservazione Beni Culturali
Fondato nel 1977 da restauratori diplomati presso l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, è uno dei primi gruppi italiani di professionisti costituiti in forma solidale. Tra i molti lavori svolti citiamo i dipinti di Giotto (Assisi e Padova), la Cappella di San Brizio a Orvieto, la decorazione di Paolo Veronese nella Chiesa di San Sebastiano a Venezia, la Pietà Rondanini di Michelangelo, le opere di Bernini alla Galleria Borghese, la Torre di Pisa e la Fontana di Trevi.
Partendo dal presupposto che Tintoretto sia un imprevedibile sperimentatore e che le sue opere siano spesso caratterizzate da discontinuità tecniche e stilistiche, cosa ci svela di nuovo il restauro delle due Marie?
Tintoretto è un pittore veramente difficile da restaurare. Imprevedibile e tecnicamente discontinuo, non possiede un modo unico di realizzare le sue pitture; è “un anarchico”, riesce a essere meticolosamente progettuale e nello stesso tempo velocissimo, con una realizzazione finale di getto, sempre focalizzata al risultato scenico complessivo. La cosa che lascia più stupefatti è che molte delle sue pitture hanno una quantità di materia infinitesimale: anche in questi due teleri lo strato di preparazione e lo strato della pittura insieme non superano quasi mai i 100 micron, una stratificazione veramente esilissima. È quasi un controsenso rispetto alla sensazione di pittura materica, muscolare, che i suoi lavori trasmettono, con quel gesto così veloce che sembra pieno di colore, quando in realtà si tratta di velature molto rapide che trovano la propria tridimensionalità attraverso il forte contrasto tra chiaro e scuro. Le Marie, anche rispetto ad altri dipinti della Scuola, sfruttano moltissimo la tonalità della preparazione: molte delle sfumature ambrate, nocciola scuro e marroni presenti nei due dipinti sono dovute al colore della preparazione che traspare in superficie. Forse queste sono le caratteristiche più incredibili in merito ai due dipinti: la sottigliezza degli strati colorati e l’uso sapiente della trasparenza nella preparazione di fondo. Se guardiamo, ad esempio, la Fuga in Egitto ci troviamo al cospetto di un quadro tecnicamente tradizionale, con strati pittorici costruiti secondo le regole della pittura cinquecentesca, eppure è stato dipinto nemmeno un anno prima delle due Marie. La Strage degli Innocenti, altro esempio, è ancora diversa… Tintoretto piegava, o comunque utilizzava una delle tante tecniche di cui disponeva in base al risultato che voleva raggiungere. Il fatto che le due Marie risultino un po’ “dimenticate” all’interno del percorso della Sala Terrena e la stessa difficoltà a inquadrarne l’iconografia ci portano quasi a pensare che Tintoretto avesse deciso di riempire i due
fig. 37 Tintoretto, Vergine Maria in lettura
Particolare delle radici dell’albero
fig. 38 Tintoretto, Vergine Maria in meditazione
Particolare del ruscello
fig. 39 Tintoretto, Vergine Maria in meditazione Tintoretto, Vergine Maria in lettura
Particolare del paesaggio
fig. 40 Tintoretto, Vergine Maria in meditazione Tintoretto, Vergine Maria in lettura
Particolare delle due figure
spazi finali e marginali delle pareti della Sala svincolandosi dalla narrazione ufficiale per proiettarsi in una restituzione iconografica libera, sfruttando appieno la sua capacità di riuscire con poca materia, pochi strati e pochi colori a rendere uno spazio scenico straordinario, innovativo, diverso dal solito.
Il riutilizzo nella bottega tintorettiana. In particolare la prassi del riutilizzo dei ritagli delle tele è riscontrabile anche nel caso delle due Marie?
Parzialmente, perché i due dipinti non sono uguali: la Maria in lettura è costruita molto regolarmente con quattro pezze di lino poste in orizzontale, una sopra l’altra, a tessitura a mezza saia con cuciture molto regolari; la Maria in meditazione è più articolata nella costruzione del supporto, perché è costituita da tre pezze grandi cui sono stati aggiunti lungo i bordi tre frammenti rettangolari e una lunga striscia verticale sulla sinistra.
Sono stati ritrovati disegni sottostanti le stesure di colore – pentimenti, ripensamenti – nelle due Marie?
Tintoretto era un pittore che disegnava e progettava molto, eseguiva sempre almeno un paio di passaggi. Il disegno preparatorio è stato ritrovato anche in questo caso, soprattutto nelle due figure. Pentimenti in realtà non ve ne sono, niente di così appariscente, giusto qualche piccolo ripensamento sulla posizione dei piedi della Maria in meditazione. Forse all’inizio tutte e due le figure erano state pensate un pochino più grandi, poi in seguito sono state ridotte di dimensione. Ma sostanzialmente la partenza compositiva è la stessa che si ritrova nella realizzazione finale.
La luce per Tintoretto è quasi un marchio di fabbrica e le due piccole figure di Maria sono inserite in un ampio paesaggio notturno che le sovrasta, immanente, quasi fantasmagorico, rischiarato da una luce scenica. Possiamo avere un’idea di come rendeva questi effetti luministici dal punto di vista della tecnica e dello stile?
Sulla parte della vegetazione in linea di massima Tintoretto sembra partire da un mezzo tono. Esegue cioè le forme, l’andamento delle
fronde, le radici, ecc., utilizzando quello che è l’impatto coloristico della tinta intermedia. Poi dà volume con tratti scuri o con delle lunghe pennellate molto chiare, creando quindi un contrasto chiaroscurale forte che fa risaltare soprattutto la parte in luce. Non è sicuramente uno che sfuma o che crea passaggi tonali, affidando tutto al contrasto tra campiture nette. Anche nel paesaggio (fig. 39) i volumi vengono resi con colpi di luce che vanno a delineare le forme. Nelle figure (fig. 40) si sofferma, invece, a costruire di più i volumi, sempre con segni molto veloci di pennelli abbastanza grandi, lasciando così l’impressione di un lavoro svolto in velocità. Partendo dalla considerazione che la Scuola di San Rocco oggi è un luogo molto buio nonostante le molte luci e nonostante il grandissimo numero di finestre, attualmente sempre rigorosamente chiuse, ci siamo interrogati su come venisse vissuta la Scuola quando Tintoretto dipinse le sue opere. Chissà se anche allora ci fosse una grande penombra o se magari durante il giorno le finestre venissero lasciate aperte. Sarebbe interessante capire come questi due dipinti venissero percepiti all’epoca. Forse il modo così drammatico di mettere a confronto ombre e luci era dettato proprio dalla poca luminosità del luogo e dalla difficoltà di vederle in piena luce; è dunque probabile che il gioco così spinto di contrasti servisse a Tintoretto proprio per accentuare la visibilità dei suoi quadri.
I due dipinti si collocano temporalmente nella fase più tarda della pittura tintorettiana, l’ultima della sua parabola artistica, che spesso vede interventi diretti della sua bottega nelle opere. In questo caso è possibile stabilire la presenza di altre mani?
Dal punto di vista tecnico è veramente troppo complicato capirlo, non ci sono molti appigli, soprattutto se consideriamo che Tintoretto era capace di dipingere in ogni modo possibile e lo ha dimostrato durante tutta la sua carriera.
Cosa e quanto si è perso rispetto alla pittura originale delle due Marie?
Proprio perché non è una pittura regolare è difficile stabilirlo. È molto probabile che siano andate perdute delle velature finali, soprattutto sulle due figure, anche perché sono le zone dove abbiamo trovato meno strati sovrammessi, indicazione di antichi interventi di pulitura maggiormente insistiti; questo genere di operazione, soprattutto nei tempi in cui non esistevano mezzi abbastanza selettivi, facilmente poteva portare alla rimozione di qualche ultima ombra, qualche velatura o lacca di rifinitura.
Quali sono le più importanti alterazioni che i due dipinti hanno subito?
Su questi due dipinti la tavolozza, cioè la tipologia di pigmenti che Tintoretto ha usato, è abbastanza limitata. L’artista ha lavorato molto con le miscele di colori e alcuni di questi pigmenti – non solo nei suoi dipinti – subiscono delle alterazioni legate all’invecchiamento, in particolare i verdi, che si scuriscono molto. Nelle due Marie, stranamente, anche alcuni pigmenti chiari si sono alterati, probabilmente perché avevano un’aggiunta di vetro a base di potassio che li ha offuscati e resi opachi. L’alterazione più evidente è invece quella dell’azzurro: non solo sulle vesti, ma anche nell’impasto usato per il cielo e i paesaggi. Tintoretto ha qui aggiunto dello smaltino che col tempo, soprattutto in mescolanza con l’olio siccativo usato come legante, perde la tonalità azzurra e diventa marrone. Il manto delle figure come lo vediamo noi oggi è sicuramente alterato: in origine non era ocra, bensì di una qualche tonalità di azzurro. Un’altra alterazione un po’ più verso il bruno e il violetto potrebbe esserci anche nei cieli e nei profili delle montagne, dove è presente appunto lo smaltino.
Per la restituzione estetica, cioè la parte che voi chiamate delle “integrazioni”, come avete proceduto?
Il lavoro più minuzioso è stato quello di stuccare le cuciture che avevano delle piccole mancanze e poi di integrare lungo queste linee. Tintoretto in realtà non sopporta la reintegrazione meticolosa che noi in genere facciamo. Qualsiasi tocco in più viene quasi respinto dall’opera, anche perché immediatamente si rischia di disegnare troppo o di rendere i passaggi troppo sfumati. Questi due dipinti non hanno niente a che fare con
questo tipo di precisione. Alla fine, il lavoro dal punto di vista operativo è stato relativamente breve. Molto più lungo è stato il tempo che abbiamo impiegato per decidere di non aggiungere e di non intervenire. Abbiamo sistemato i bordi, che erano le parti maggiormente lacunose, con tante piccole e fitte lacune legate soprattutto ai cambi di cornice e ai diversi allestimenti, ma alla fine il lavoro di integrazione è stato piuttosto ridotto.
È possibile, dopo il vostro accurato lavoro, ipotizzare quale fosse la cromia originale dei due dipinti?
È molto difficile perché non sappiamo quali fossero le tonalità di partenza. Lo smaltino è un pigmento di cui si sa la composizione, ma può avere infinite tonalità di partenza: poi può essere più denso, più liquido, più velato. La tonalità in sé poteva essere più scura, più chiara o tendente al verde, quindi non abbiamo parametri; si può giocare con la realtà virtuale, qualcuno l’ha anche fatto, però manca il dato fondamentale della scelta cromatica iniziale.
I due dipinti vengono sempre associati come “gemelli”: operando su entrambi avete individuato qualche netta differenza, o sono proprio da considerare come due epigoni paralleli?
La differenza, quella che si percepisce, è principalmente stilistica. Si può notare, per esempio, come la Maria in lettura sia molto più piccola della Maria in meditazione, un dato che vedendole accostate colpisce ancora di più. Nella Maria in lettura per certi versi è presente una pittura un po’ più morbida, meno netta nei contrasti. Tuttavia, le differenze sono quasi inafferrabili e dal punto di vista tecnico è chiaro che sono due opere dipinte nello stesso momento.
Cosa significa per lei personalmente lavorare con questo Maestro? È stata un’esperienza particolare o alla fine è diventato un “paziente” come un altro?
Ogni opera ha le sue particolarità e quindi ogni volta è necessario rimettere un po’ in discussione tutto quello che si è imparato e si pensa di sapere... Tintoretto è un osso duro! Io e la mia collega Irene (Zuliani, n.d.r.) abbiamo passato interi pomeriggi a ragionare, guardare, cercare di capire, confrontare gli elementi tecnici con quelli rilevati negli altri dipinti di Tintoretto che abbiamo restaurato, perché effettivamente si ha sempre la sensazione che se si interpreta male qualche dato si può davvero combinare disastri. Bisogna stare molto attenti, essere estremamente cauti in qualsiasi operazione che si va a compiere. La cosa più bella del nostro lavoro è questa vicinanza quasi millimetrica con la superficie dipinta, che ti permette di conoscere tutte le stratificazioni, le velature, le pennellate, le cadute e i ritocchi. Quando finisci e ti devi necessariamente staccare da un’opera la senti ancora un po’ una tua creatura, resiste un legame particolare. E poi con Tintoretto rimangono ancora molti interrogativi aperti: il legame non si è affatto reciso, ci costringe a continuare a ragionarci sopra.
fig. 41 Il restauro delle due Marie è stato affidato a Sabina Vedovello e Irene Zuliani, con la collaborazione di Ramona Scamporrino e Eleonora Toppan. Il lavoro, iniziato a maggio del 2018, si è concluso ai primi del 2019
L’ultimo tempo di Maria
di Augusto Gentili
Il lineare percorso mariologico di Tintoretto nella Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco ha la sua più significativa conclusione nei due teleri con una donna in solitudine nel paesaggio d’acque, alberi e borghi fra crepuscolo e sera, or ora recuperati a leggibilità e godibilità con il restauro magistralmente condotto da Sabina Vedovello e Irene Zuliani (con la collaborazione di Ramona
Scamporrino ed Eleonora Toppan). I due dipinti sono taciuti dalle fonti, forse in difficoltà a identificarne il soggetto, e poi prevalentemente interpretati, secondo tradizione vecchia ma non antica, come rappresentazioni di Maria
Maddalena e Maria Egiziaca, due eremite penitenti, oltretutto rappresentate di norma poco vestite, che con questo contesto non hanno evidentemente nulla a che fare. In realtà, all’interno di quella disciplina conservatrice e lenta di riflessi che è la storia dell’arte, da almeno vent’anni alcuni studiosi non conformisti avevano più volte ragionato, parlato e scritto di questa donna: la stessa donna in ambedue i dipinti, che siede in due luoghi contigui presso il medesimo fiume, che veste gli stessi abiti (identici anche con i vecchi colori alterati), che in un caso è rivolta quasi frontalmente verso di noi e nell’altro volge quasi le spalle lasciandoci soltanto il profilo “perduto”, che in un caso concentra lo sguardo sul libro aperto e nell’altro lo solleva, come a riflettere. È una doppia immagine di Maria, non oggetto ma soggetto della storia della salvezza, non comprimaria ma protagonista della redenzione, detentrice di un punto di vista privilegiato che le consente in contemporanea, su due percorsi equidistanti e complementari, la meditazione degli avvenimenti passati e la loro proiezione sugli avvenimenti futuri, nei tempi che il pittore elabora, come sempre,
in assoluta libertà di narrazione e allegoria. A sostegno di tutto ciò, potrà per ora bastare la Vita di Maria Vergine di Pietro Aretino, pubblicata nel 1538 da Francesco Marcolini, l’editore amico di Tintoretto (e di Tiziano, e di tanti altri), poi più ampiamente diffusa con l’edizione prodotta dai figli di Aldo Manuzio nel 1552, dalla quale riprendo qualche passo (cc. 77r–78r). Nella lunga parte conclusiva, la madre decide di ripercorrere i luoghi della vita del figlio, cominciando dal Giordano:
Giunta al benedetto fiume riconobbe le sponde premute da le piante sacre di Giesù, a la novità diversa de i fiori e de l’herbe varie di che esse erano dipinte e smaltate. Ella si accorse che ivi gli angeli spogliorono la veste a Christo, perché sopra di cotal parte l’aria si stava ancora isferzata da le strisce, che ne i giri de i lor voli ci stamparono gli splendori de i divini spiriti. [...] O fiume nobile, o fiume aventuroso, o fiume eletto, sia il tuo corso eterno. Siano le tue sponde sempre limpide, sia il tuo fondo sempre herboso, e la dolcezza de l’acque, de le quali sei pieno, vinca il soave d’ogni liquore. [...] E voi rive grate e amene, restatevi ammantate di perpetuo verde, e di sempiterna pittura di gigli ornate. Faccinvi ombra gli alberi di eterna primavera [...]. Le tempre del sole cinte de i suoi più lucidi raggi appaiano ne le continue aurore di tutti i giorni di te, beatissimo Giordano, né manchi a veruna tua notte il lume candido de la luna, né il lampo aureo de le stelle.
Sembra che a questa lettura del soggetto abbiano tardivamente aderito in molte e molti, sia pure senza spiegazioni, motivazioni e citazioni. Tuttavia, le “due Sante eremite” non accennano per ora a ritirarsi: staremo a vedere.
Bibliografia essenziale
giandoMEnico roManElli, Tintoretto a San Rocco. Pittura, teologia, narrazione, in Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Milano, Electa, 1994, pp. 7-50 (27-28). valEntina sapiEnza, Miti, metafore e profezie. Le Storie di Maria di Jacopo Tintoretto nella sala terrena della Scuola Grande di San Rocco, «Venezia Cinquecento», XVII/33, 2007, pp. 49-139. augusto gEntili, Tintoretto. I temi religiosi, «Art Dossier», 228, Firenze, Giunti, 2006. augusto gEntili, Tempi della narrazione e tempo dell’allegoria. Tintoretto alla Madonna dell’Orto, a San Cassiano, alla Scuola Grande di San Rocco, in La bilancia dell’arcangelo. Vedere i dettagli nella pittura veneziana del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 217-243.