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Mostre
Il diario di un’eternità
di Franca Lugato
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ottobre 2018
Non era per nulla cosa semplice e scontata concepire un prequel al Miracolo dello schiavo (1548), che come una navigata star ha chiuso la mostra su Il giovane Tintoretto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Già avvicinandosi al cinquecentesino anniversario della nascita di Jacopo Robusti detto Tintoretto (Venezia, 1518/1519-1594), i musei di Colonia (Wallraf-Richartz Museum, 2017) e di Parigi (Musée du Luxembourg, 2018) avevano avuto l’onore di inaugurare il ciclo di mostre sul più veneziano dei pittori del Cinquecento, con un’esposizione dal titolo – forse un po’ troppo hollywoodiano – Tintoretto: A Star Was
Born, progettata e curata da Roland Krischel.
Una mostra, ritenuta da alcuni ambiziosa e coraggiosa, sugli esordi e la produzione giovanile del pittore veneziano, attività che in anni recenti è tornata prepotentemente alla ribalta con studi, convegni e mostre. «Perché
“il giovane Tintoretto” è un problema così complesso?»: è la domanda che si sono posti gli studiosi tintorettiani più famosi e dibattuti di questi tempi. Gli americani Robert Echols e Frederick Ilchman, curatori della mostra di
Palazzo Ducale, con successiva tappa arricchita e ampliata – proprio perché non siamo a
Venezia, nel museo diffuso dell’artista – alla
National Gallery of Art di Washington (marzo 2019) e oramai consulenti di quasi tutte le iniziative tintorettiane in città. La scarsità di documenti sulla sua formazione, sull’alunnato presso un maestro, sulla datazione delle opere giovanili prima del fatidico 1548, anno in cui venne concluso il Miracolo dello schiavo per la
Scuola Grande di San Marco, allo scadere del trentesimo compleanno del pittore, pongono gli specialisti davanti a una scelta metodologica forzata e cioè all’utilizzo di quell’analisi di carattere filologico basata sulle prove visive e sui confronti. Allontanandoci volutamente dalle questioni attribuzionistiche, dai pareri discordanti e dai dubbi della comunità scientifica e dalla scelta di adottare una metodologia a mio avviso estremamente riduttiva e fuorviante – rischiosa e insidiosa spesso da connoisseurship – e ritornando ancora per un solo istante alla mostra di Colonia-Parigi, sono state proprio le questioni di “problematicità” insite nello studio di alcune opere che hanno spinto la curatela a impostare e a proporre al visitatore un percorso espositivo insidioso, poco convincente e forse un tantino “pretenzioso”. Alcuni l’hanno ritenuta un’operazione dall’alto valore scientifico, ma come ne sarà uscito il giovane Tintoretto all’occhio di un visitatore “normale”? Tra opere attribuite a Tintoretto, Tintoretto e bottega (Giovanni Galizzi?), Giovanni Galizzi e addirittura una terza mano non ancora identificata? Fortunatamente Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani, curatrici della mostra Il giovane Tintoretto (7 settembre 2018-6 gennaio 2019), hanno lasciato le “dispute nel tempio” e hanno lavorato sodo per costruire e proporci alle Gallerie dell’Accademia una mostra godibile, più lineare, emozionante, spettacolare e, aggiungerei – spero non venga inteso come un’offesa di questi tempi –, “una mostra pallucchiniana”. Le prime due sezioni sono di importanza fondamentale per orientarci in quella stagione figurativa degli anni Trenta del Cinquecento, così magmatica e ricca di fermenti grazie alla politica di rinnovamento promossa dal doge Andrea Gritti (1523-1538). Le prime sale illustrano attraverso le opere di Tiziano, Bonifacio de’ Pitati, Polidoro da Lanciano, la civiltà del classicismo cromatico lagunare appena
toccata da un’ondata di raffaellismo. Ma prima di passare all’arrivo dei toscani a Venezia e alla loro portata di modernità, al centro del discorso viene posta un’opera fondante per la nascita del manierismo veneziano: quel San Martino e san Cristoforo, portelle di un armadio per gli oggetti preziosi, che Pordenone realizzò tra il 1527 e il 1528 per la chiesa di San Rocco di ritorno da Roma. La forza e l’energia che sprigiona l’ardita composizione pordenoniana anticipa quella sfida michelangiolesca che colpirà i pittori della nuova generazione, ma che non lascerà indifferente nemmeno il maturo e ben piazzato Tiziano. La presenza in Laguna di Salviati, Porta e Vasari (1539-1541) corroborano e fortificano la pittura lagunare in quella direzione toscoromana, già anticipata dal protomanierismo pordenoniano, ma altresì introducono un nuovo repertorio di stilemi esemplati sulle eleganze emiliane, in particolare parmigianinesche, che influenzeranno il giovane Tintoretto e i pittori suoi coetanei. Il dipinto di Francesco Salviati per la chiesa bolognese di Santa Cristina della Fondazza ne è un esempio strepitoso. Approfondimenti puntualissimi e imperdibili quelli suggeriti dalle opere a stampa di Marcolini e Aretino. Qual è la ricaduta sul giovane Tintoretto di questa congiuntura che si è prodotta a Venezia nell’arco di un decennio? La possiamo individuare con chiarezza nella sezione dell’esordio attraverso la presenza di un gruppo di importantissimi dipinti, opportunamente selezionati e riuniti per l’occasione, che permettono di cogliere quell’atteggiamento di rottura, di dirompente energia, di impazienza e originalità che anima la sua frenetica sperimentazione giovanile e che egli assorbe e rielabora attraverso una risposta stilistica estremamente personale e moderna, dalla visionaria Conversione di san Paolo a quell’onda di movimento della Sacra Conversazione Molin (1540), primo pilastro cronologico della produzione giovanile del pittore. Dagli spericolati sotto in su negli ottagoni per il soffitto dei Pisani di San Paternian all’enfasi luministica della drammatica Cena in Emmaus, così lontana da quella di Tiziano della prima stanza, dal michelangiolismo dei Dottori nel tempio alle eleganze realizzate con fluidezza di pennellata dei cassoni di Vienna, dove la narrazione dell’episodio è supportata da un’intelaiatura prospettica ispirata all’architettura contemporanea, si avvertono oramai tutte le componenti della futura pittura tintorettiana. Dal 1546 al 1548 si appresta a diventare un pittore affermato sulla scena veneziana, sgomitando e anche su questo inventandosi strategie nuove e fantasiose. Infine, prima di lasciare lo spettatore rapito e totalmente assorbito dal Miracolo dello schiavo, il percorso espositivo induce a soffermarsi e a prendersi il giusto tempo davanti al confronto tra l’Ultima cena di Porta Salviati, Bassano e Tintoretto. Eccoci, dunque, arrivati al 1548 e al fuori formato del Miracolo dello schiavo eseguito per la Scuola Grande di San Marco, dove le diverse esperienze della giovinezza giungono a maturazione dando vita a un linguaggio provocatoriamente innovativo. Come per le star più consumate, anche per questa fantastica creazione artistica il periodo di assenza dall’esposizione – il dipinto è stato per alcuni mesi rullato – non ha compromesso il suo rientro in scena né la possibilità di ammirare un capolavoro assoluto della pittura di tutti i tempi, che assume ora, in questo sapiente percorso espositivo, un nuovo e inedito significato. Per una sintesi su tutta la questione della giovinezza del Tintoretto si rimanda al ben congeniato catalogo edito da Marsilio.