12 minute read
Appuntamento al buio
settembre 2019
C’è un aspetto estremamente moderno in Tintoretto, che non è legato ai teleri cinquecenteschi ma ad un concetto di una “metropolis fisica”, in cui i personaggi, la loro anatomia, i gesti, le urla che si percepiscono non sconfinano mai nel decorativo, nell’aneddotica o nella narratività. Direi che è più un verista, un caravaggesco che coglie il momento e lo ferma nel tempo
Advertisement
Intervista a
Fabrizio Plessi
di Fabio Marzari
Ultima tappa: Tintoretto e il contemporaneo. Non potevamo allora che dirigerci verso le inconfondibili luci e le contrapposte ombre di Fabrizio Plessi, grande artista le cui suggestioni verso Jacopo Robusti sono forti e profonde. I bagliori emanati dalle opere di Plessi sono un ponte diretto verso l’antico, esplosioni di luce nel buio declinate in forma originale e suggestiva che inevitabilmente richiamano alla memoria l’affascinante pittura del Tintoretto. Il Maestro coglie il momento e lo ferma nel tempo proprio come fa Fabrizio Plessi, traducendo con lingue diverse l’impareggiabile capacità dinamica nel progettare la visione. Sia in Tintoretto (fig. 61) che in Plessi (fig. 62) c’è un’importante progettuali-
tà a monte: il disegno pare il fondamento dell’opera di entrambi.
Più che di disegno parlerei di struttura. Essendo molto settoriale, nel mio pensiero Tintoretto è quello della Scuola Grande di San Rocco (fig. 63). È lì che colgo in pieno la sua grandezza; nelle sue monumentali tele percepisco un senso che va dall’eroico alla megalomania. I suoi teleri sono organizzati in “cicli pittorici” ed essendo io stesso un artista che da sempre lavora per sequenze, serie, raggruppamenti, non posso che vivere una profonda attrazione nei confronti di questo straordinario artista. Lavorare per realizzare un “ciclo” significa progettare, avere un pensiero che via via cresce, sviluppandosi a poco a poco. Operando in questo modo ci si accorge gradatamente che si può proseguire lungo una strada principale oppure invece sceglierne altre, secondarie, per evitare la catastrofe finale.
Luce e ombra, centro della poetica di entrambi?
Tintoretto realizza i suoi grandi teleri scuri, neri, perché in fondo la sua vera forza sta proprio nel buio. Lo stesso accade nel mio lavoro: è l’oscurità a rappresentare la principale fonte di interesse. Quando ci troviamo in un ambiente oscuro affiniamo le nostre capacità intuitive. In Tintoretto c’è una sorta di mondo oscuro, un’oscurità globale da cui emergono quasi come fantasmi i personaggi, ognuno dei quali è interprete di se stesso e recita la propria parte. Da questo buio, da questo mondo indefinito, grazie alla luce e, in questo caso, grazie alla straordinaria e inconfondibile pittura del Robusti, i protagonisti emergono dalla scena per colpire lo sguardo dello spettatore con grande forza. Anche la loro
fig. 61
Tintoretto
Self Portrait (slightly reworked version of), 1588 c. Musée du Louvre, The Yorck Project (2002) GNU Free Documentation License Wikimedia Commons (Public Domain)
fig. 62
Fabrizio Plessi
fig. 63
Tintoretto
Resurrezione Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
postura non è mai normale, essi sono sempre mossi, contorti, colti di sghembo, non risultano mai raffigurati in posizioni statiche, è oramai un movimento tipicamente pre-seicentesco, quasi un barocco ante litteram: dinamismo e vorticosità nella pittura tintorettiana si traducono in energia e forza espressiva.
Dal buio nascono i pensieri migliori, perché nasce anche una sorta di inevitabile “autodifesa”: un bisogno di trovare un minimo di confine per poter procedere?
Questa mattina, sapendo che ci saremmo incontrati, sono andato a osservarlo con molta attenzione, per riguardarlo sotto un aspetto più strutturale. Ho tirato via tutti i personaggi, le vesti, i particolari, per vedere che cosa c’è sotto, l’impianto scenico alla base. Una cosa fortissima, di rara pregnanza, in cui emerge prepotente la forza morale, storica e anche proprio chimica del lavoro. È un modo di creare e operare prettamente wagneriano!
Tintoretto aveva un grande amico, Andrea Calmo, letterato e commediografo, nonché poligrafo. Gli studiosi ormai sono concordi nel ritenere che Tintoretto abbia lavorato per il teatro, sicuramente come scenografo, e questo si riscontra nelle sue opere, nelle sue “messe in scena”. L’aiuto delle maquette, dei “teatrini”, è documentato dai suoi biografi antichi ed è uno degli aspetti che è stato evidenziato nella mostra di Palazzo Ducale. Tintoretto progettava in maniera tridimensionale – quindi già teatrale –, posizionava i suoi personaggi in creta o in cera all’interno dei “teatrini” e poi li illuminava utilizzando candele e lampade a olio...
Quella di Tintoretto è certamente una macchina teatrale, anzi, una macchina visiva, a metà tra il teatro e il cinema (fig. 64). Molte volte queste apparizioni sembrano il fermo immagine di una scena che si sta svolgendo, per cui essa non è soltanto quella che vediamo dipinta, perché bisogna presupporre un antefatto e un postfatto al suo svolgersi. È un’intuizione importantissima in cui l’aspetto scenico si confonde con la dimensione del tempo passato, presente e in divenire.
Tintoretto è stato un pittore cult per il mondo del cinema…
Dietro ad ogni suo lavoro c’è sempre un’importante progettualità, un disegno. Durante la mia visita di oggi a San Rocco ho voluto riprodurre in maniera schematica il disegno della Crocifissione: è un modello geometrico chiaro e pulito; tutte le linee conducono alla figura centrale, con i personaggi che invadono e occupano i diversi spazi. Sembra proprio un set cinematografico e mi ha portato la mente a Visconti e al cinema degli anni Cinquanta e Sessanta. C’è un aspetto estremamente moderno in Tintoretto, che non è legato ai teleri cinquecenteschi ma ad un concetto di una “metropolis fisica”, in cui i personaggi, la loro anatomia, i gesti, le urla che si percepiscono non sconfinano mai nel decorativo, nell’aneddotica o nella narratività. Direi che è più un verista, un caravaggesco
FABRIZIO PLESSI
Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha poi insegnato. Dedicatosi inizialmente alla pittura, dagli anni Settanta ha indirizzato la sua ricerca verso i rapporti tra arte e tecnologia. Le sue videoinstallazioni e videosculture di forte impatto emotivo sono incentrate sulle molteplici possibilità di interrelazione tra immagine, suono, luce e movimento. È presente nei più importanti musei di arte contemporanea a livello internazionale.
fig. 64
Tintoretto
Salita al Calvario Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
che coglie il momento e lo ferma nel tempo. Tintoretto non è affatto un narratore, non è Bellini, non è il Quattrocento veneziano o fiorentino; è un uomo che ha la grande forza di affrontare la realtà con un senso quasi neorealistico, vestendo e addobbando le persone dell’epoca. È in fondo un artista moderno e riesce a dare un senso “eroico” al suo lavoro. La sua pittura mi interessa molto e mi colpisce appunto perché è “eroica”. Le affinità con il mio lavoro non sono mai palesi come lo possono essere per esempio quelle tra lui e Vedova, in cui il rapporto visivo è di una prossimità evidente. La mia affinità con Tintoretto esiste proprio nella parte dell’opera che non è visibile, nella struttura, nel pensiero, in quelle che sono le basi analogiche del lavoro, non nel risultato estetico. Mi sento molto vicino a Tintoretto proprio per quel senso eroico del buio, per la drammaticità dell’emersione delle persone. Oggi ammiravo Maria in meditazione della Sala Terrena della Scuola di San Rocco, resa attraverso una pittura che ricorda molto i lampi delle mie opere. Osservando il ruscello, mi sono accorto che sembrava quasi televisivo: pixel che emergono nel buio della notte. Quella di Tintoretto è una pittura che si può definire “povera”, perché non ricerca l’eleganza formale o la stratificazione, ma ricorda quasi una ripresa televisiva, in cui il segno che l’artista aveva immaginato diventa un fermo immagine per sempre, un segno calligrafico, e la sua calligrafia è data proprio dall’impareggiabile capacità dinamica nel progettare la tela.
Tintoretto era famoso per la velocità di esecuzione, che gli permetteva di realizzare i suoi cicli in tempi sorprendenti. Tuttavia, dietro alla velocità c’era sempre una progettualità. Plessi come “progetta la sua progettualità”?
Facendo una stima del mio lavoro grafico mi sono reso conto di aver fatto qualcosa come sedicimila disegni. Il disegno è alla base del mio lavoro, tutto quello che vedete nella mia opera è disegnato. La prima cosa è il pensiero, avere un’idea; la seconda è cercare di trasferire il pensiero su un foglio di carta il prima possibile per non dimenticare; la terza cosa è infine il progetto. A volte ho una visione talmente wagneriana del mio lavoro – e anche Tintoretto, come dicevo, è decisamente wagneriano! – che mi viene quasi da pensare che realizzare l’opera
fig. 65
Fabrizio Plessi
Plessi a Caracalla. Il segreto del tempo Roma (18 giugno-29 settembre 2019)
fig. 66
Tintoretto
Cristo nell’Orto dei Getzemani Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
finale sia quasi un atto inutile. Quando realizzo una grande installazione e la mostro al pubblico, la reazione è quasi sempre di stupore, interesse, ammirazione, ma non da parte mia, perché è come se l’avessi già vista per mesi durante la lavorazione. Provo emozione mentre sto creando l’opera, per cui quando è finita mi sembra quasi ovvia, non mi suscita nulla in più. Con centinaia di disegni, schizzi e progetti affino l’idea, che resta la cosa più importante, la prima a nascere, simbolicamente la pala piantata nel televisore, nella tecnologia, nell’emozione, tutto il resto è quasi decorazione. La messa in scena dell’idea è necessaria per renderla accessibile agli altri. Mi può capitare di avere un’idea talmente bella, o almeno che io reputo tale, che non vorrei nemmeno fissarla su un foglio, però in questo modo resterebbe riservata a me, gli altri non avrebbero la possibilità di accedere al mio pensiero. Le centinaia di disegni che faccio, questo percorso faticosissimo e anche felicissimo che costantemente compio, scaturiscono da qualcosa che ho dentro e che non posso arrestare. Posso disegnare su fogli di carta, sui finestrini dei treni, ovunque, su ogni tipo di superficie, perché per me il disegno è la realizzazione di un pensiero che si codifica soltanto attraverso il lapis, la grafite. Anche Tintoretto disegnava incessantemente; gli serviva per mettere in moto una specie di mondo immaginario che aveva dentro di sé. Così vale per me. Il mio lavoro è composto di flash al magnesio che vanno
a illuminare le zone buie, nascoste e segrete della nostra percezione. I bagliori di Tintoretto sono esattamente questo. Questi flash fotografici al magnesio illuminano le percezioni, perché più l’ambiente è buio più la sensibilità e la percezione si affinano, mentre nella grande luce tutto diventa ovvio e viene letto alla stessa maniera. La semioscurità offre a ciascuno spettatore l’occasione di vivere il privilegio della luce secondo la propria sensibilità. Anche il mio lavoro viene letto in maniera diversissima, perché a seconda della percezione che si ha può essere vissuto come un lavoro mentale e concettuale fortissimo oppure come uno sforzo di una evidenza incredibile. È un lavoro radicalmente democratico proprio per questo suo prestarsi a plurimi e difformi livelli di lettura.
Continuiamo il gioco tra Plessi (fig. 65) e Tintoretto (fig. 66). Tintoretto non
ha avuto una vita facile, nel senso che nel suo percorso era probabilmente troppo “moderno” per i suoi tempi anche rispetto ai Tiziano, ai Veronese, a un certo classicismo dell’epoca. La sua vita, invece, com’è?
Sono stato fortunato perché durante i miei studi liceali ho conosciuto un uomo meraviglioso come Edmondo Bacci, pittore spazialista veneziano, che mi ha introdotto nel salotto di Peggy Guggenheim. Mi sono formato proprio nel giardino di Peggy e alle sue cene. Io, che ero solo un ragazzino, ho avuto l’opportunità di conoscere tutti i più grandi artisti che passavano in quella stupefacente dimora, e venivo tollerato perché portato da Bacci, che Peggy stimava enormemente. Mentirei se non dicessi che fin da quando ero lì immaginavo di fare una mostra al Guggenheim di New York. Ero sicurissimo che prima o poi ci sarei riuscito; era un sogno che avevo fin da ragazzino. Quando alla fine, molti anni dopo, nel 1998, sono riuscito a esporre al Guggenheim, la cosa più bella per me è stata naturalmente vedere quel sogno di ragazzino finalmente compiuto. Ho sempre avuto una visione un po’ megalomane della mia vita: non volevo diventare né ricco, né famoso, volevo semplicemente esporre nei musei più importanti del mondo. Forse era una visione un po’ esasperata, un eccesso di fiducia in me stesso, ma sapevo che arrivando a esporre a New York si sarebbero aperte tutte le porte degli altri musei del mondo. E così è stato. La mia vita non è stata facile, ma neanche difficile. Bisogna sempre avere una grande forza d’animo e soprattutto tenere sempre viva la passione, perché se non hai passione non puoi neanche pensare di intraprendere un lavoro come questo. Da giovane ero molto vivace e dinamico. Ero a capo dei movimenti studenteschi, ero tra gli animatori durante gli anni in Accademia. Ho esordito con la mia prima mostra nel 1962 esponendo opere molto vicine a quelle di Gorky, artista conosciuto grazie a Bacci, che mi aveva mostrato alcuni suoi disegni inediti. Mi piaceva da morire Gorky, ero innamorato del suo lavoro e mi ha fatto davvero molto piacere vedere ora a Ca’ Pesaro la bellissima retrospettiva a lui dedicata.
Lei aveva il sogno di esporre a New York, invece Tintoretto aveva il sogno di vincere il concorso ed essere scelto per dipingere il Paradiso nella Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, poi alla fine vinto. Quanto conta davvero l’ambizione nella realizzazione dei propri obiettivi artistici?
Ognuno ha i suoi sogni. Da qualche parte ho letto che la vecchiaia inizia quando i rimpianti si sostituiscono ai sogni, ed è esattamente così: se si smette di sognare si è già vecchi. Io a questa età dentro di me penso sempre di avere quaranta o cinquant’anni, neanche sessanta!