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Conversazione/Lacerazione
giugno 2019
Tintoretto è stato una mia identificazione. / Quello spazio appunto / una serie di accadimenti. Quella / regia a ritmi / sincopati e / cruenti, magmatici di energie / di fondi interni di passioni / di emotività commossa. / Di caverne d’ombra da / un / balenio di luce / di pozzi di luce e di ombra / le ombre dello sprofondamento / i luoghi precipiziali. / Una domanda... / della paura / Tintoretto precipita. / In estrema mobilità frenetica / insostenibile caduta di respiro / impennate traiettorie / fughe / dove?
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Emilio Vedova, da uno scritto risalente al 1991
Intervista a
Stefano Cecchetto
di Franca Lugato
Un’affinità
sia fisica che naturalmente artistica, Jacopo Tintoretto ed Emilio Vedova sembrano parlare a distanza di secoli la stessa lingua, una lingua tormentata ma sublime, che cerchiamo di discernere attraverso le parole di Stefano Cecchetto, che con Germano Celant nel 2013 alla Scuola Grande di San Rocco ha curato la straordinaria mostra Vedova Tintoretto. Un passaggio espositivo fondamentale che ha svelato al pubblico lo sguardo di Vedova, intriso sin dai primi lavori di smisurata passione nei confronti delle imprese del Maestro, siano esse i grandi teleri di San Rocco o dipinti concepiti per altri luoghi della città. Cecchetto ripercorre le tracce di una sorta di espressionismo condiviso che penetra le opere dei due artisti, restituendoci la loro dimensione del vedere e del sentire e facendoci entrare nell’arte pura.
Com’è nata l’idea della mostra del 2013, che ha messo insieme Tintoretto e Vedova alla Scuola Grande di San Rocco?
In realtà l’idea viene da lontano, nel 2004 stavo preparando la mostra su Emilio Vedova e Luigi Nono commissionata dall’Auditorium Parco della Musica di Roma, poi realizzata nel 2005 in occasione del Festival Abbado, e un giorno, parlando con Vedova nel suo studio, gli dissi che dopo questa esperienza sul connubio musica e pittura mi sarebbe piaciuto fare un affondo sulla sua passione per l’opera di Tintoretto e portare i “Teleri” degli anni Ottanta in dialogo con il ciclo di San Rocco. «Non te lo permetteranno mai – rispose – profanare il tempio non ti sarà possibile, troppi scontri e inutili lacerazioni». In seguito ci sono voluti otto anni di trattative e una forte determinazione per mettere insieme la macchina scientifica e organizzativa necessaria alla realizzazione del progetto1 .
Il testo in catalogo inizia con due ritratti straordinari: una foto emblematica del
volto di Emilio Vedova (fig. 54) e l’Autoritratto di Tintoretto da vecchio (fig. 55).
Che cosa ci svelano questi due ritratti?
Ho scelto queste immagini perché sono ritratti emblematici dei due artisti da vecchi e rivelano, oltre ai segni evidenti dell’ineffabile trascorrere degli anni, anche l’eco del tempo trascorso in contrapposizione alla visione di un tempo che deve ancora accadere. Tintoretto e Vedova, i giovani solitari e taciturni di un tempo, che vivevano più volentieri insieme agli strumenti della pittura che non alle persone, guardano poi, da vecchi, la loro personale solitudine diventare solitudine universale, destino tragico dell’umanità. È un presagio evidente, rivelato dalla voragine dei segni che aggrediscono il viso: il solco delle rughe e lo sguardo immobile degli occhi impenetrabili dove abita «l’impossibile spazio dei riflessi». L’apparente rassegnazione della vecchiaia, quello stato manifesto di memento mori che contrasta con la fiera espressività del volto, è l’orgogliosa affermazione di una veggenza.
Due ritratti che non mancano di sublimare il travaglio esistenziale e artistico di questi due grandi artisti?
Il travaglio che affiora nella pittura di questi due artisti – quel processo di integrazione tra pensiero e gesto che permette di mescolare positivo e negativo, bianco e nero, quale sistematica applicazione di un procedimento alchemico – serve a esternare il dubbio e a renderlo compatibile con l’esistenza. L’intera produzione di Emilio Vedova è impregnata di un alone di mistero e di un’euforia diffusa, cui soggiace la costante denuncia alle “promesse non mantenute” di una società democratica, socialmente e moralmente imperfetta.
fig. 54
Emilio Vedova
fig. 55
Tintoretto
Self Portrait (slightly reworked version of), 1588 c. Musée du Louvre, The Yorck Project (2002) GNU Free Documentation License Wikimedia Commons (Public Domain)
L’artista che da giovane guarda al barocco delle chiese veneziane e poi frequenta la scrittura pittorica tintorettiana è lo stesso che prima anticipa e poi scavalca l’informale, mantenendo intatta la coerenza poetica del segno. Lo stesso segno, visivo e tattile al contempo, che è possibile riscontrare anche in tutta l’opera di Tintoretto e che sembra scaturire da un lavoro proteso dentro alla tela, in una sorta di corpo a corpo che si risolve nell’esternazione del gesto pittorico, piuttosto che nella contemplazione del risultato finale. Lo stato d’animo che si ravvisa nei dipinti del Tintoretto resta dunque celato nell’espressionismo stesso del gesto e nell’istinto “imperfetto” di quell’impeto.
Luci e ombre: quale contrasto?
Il chiaroscuro, nella pittura del grande maestro manierista, prima di diventare effetto cromatico è innanzitutto una metodologia di pensiero: luce/ombra, peccato/redenzione, bene/male, sofferenza/gioia restano gli elementi visibili di un esasperato conflitto interiore. L’alternanza tra la produzione di opere sacre e profane denuncia lo stato di una situazione in bilico per la ricerca di un costante equilibrio. L’oscillazione tra lirismo e drammaticità determina anche la realizzazione di alcuni dipinti che vogliono rappresentare l’opposizione tra elementi naturali e soprannaturali della fede. Questo contrasto diventa anche per Vedova la condizione ossessiva di un procedere multiplo. Le opere realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – che riportano titoli evidenti, quali Contrasto, Scontro di situazioni, Immagine del tempo, Intolleranza, fino ai dipinti-denuncia contro il regime spagnolo franchista – esplodono nella rottura di opposti cromatismi, che fondono i toni dominanti del nero e del bianco insieme a rapide pennellate di rossi, gialli e verdi che irrompono nella scena come schegge impazzite di luce: dichiarazioni visive di un umano sentire, frammentato e lacerato tra la passione e la rabbia.
Nello stesso testo lei ha messo in evidenza alcune peculiarità simili fra i due artisti, per un “sentire comune” che travalica lo spazio del visibile al fine di evocare “l’oltre”, il non visibile.
Nella fabbrica di San Rocco si svolge una delle più affascinanti avventure pittoriche di Tintoretto, che proprio in quei teleri, realizzati per la maggior parte lavorando in totale solitudine, riesce a portare il suo stile a piena maturazione. L’impianto realistico caratterizza la costruzione delle scene, che risultano ricche di figure, paesaggi, natura e architettura e contestualizzate in luoghi dentro ai quali si inseriscono oggetti che appartengono alla vita quotidiana, quali ceste, sedie impagliate e pentole, tutti oggetti riconoscibili e dunque necessari a sottoscrivere la radice terrena degli accadimenti. La parte destinata alla descrizione soprannaturale è invece confinata in quella zona di chiaroscuro, in quel gioco di luce e ombra che rivela e nasconde, e che sembra voler trasferire il mistero al “non visibile”. Un gioco, quello tra visibile e non visibile, che spingerà poi Emilio Vedova a rileggere l’opera di Tintoretto e a frequentarla come la vertigine di un’esperienza realista: «I miei agganci sprofondano nel reale, ma dove comincia a finire il reale? La vita, in un continuum, da infinita e mai chiusa sperimentazione ti porta a estremi di testimonianza, in aperta articolazione ‘Scontri…’, ‘lacerazioni’…‘No’?»2 . La sequenza dei disegni e dei dipinti dedicati alle Figure (fig. 56), che Vedova realizza negli anni che vanno dal 1936 al 1938, hanno la loro origine nell’incredibile universo sugge-
STEFANO CECCHETTO
Critico, storico dell’arte e curatore indipendente, collabora con importanti musei e istituzioni culturali in Italia e all’estero. Per molti anni ha collaborato con La Biennale di Venezia, è stato consulente alla Fondazione Bevilacqua La Masa e nel comitato scientifico del Lucca Center of Contemporary Art. Dal 2009 è direttore artistico del Museo del Paesaggio a Torre di Mosto (Ve).
rito dai cicli tintorettiani di Palazzo Ducale e ancor più in quello straordinario della Scuola Grande di San Rocco (fig. 57). La visione prospettica verticale, l’impulso primordiale del gesto, rivelano una chiave di lettura moderna dell’opera di Tintoretto che lo stesso Vedova percepisce come un’autentica folgorazione. Le storie raccontate dai teleri di San Rocco contengono – celata nell’iconografia della narrazione – l’intensità del dramma in tutti i suoi risvolti umani e teologici.
La visione prospettica che lei enuncia, rimanda dunque a quella sensation de vertige tipica della pittura del Tintoretto, dove le figure, anche quando sembrano sospese, dichiarano una loro accentuata gravità terrena?
Sono rare le figure che svolazzano nei dipinti di Tintoretto. L’artista preferisce coloro che precipitano: anime in pena tormentate dal dubbio, sottoposte a giudizio. Gli stessi angeli rivelano una loro gravità: non si elevano mai troppo alti da terra, e sembrano sempre sul punto di cadere. Possiamo quindi sottoscrivere l’affermazione di Lucien Rudrauf, che vede nello spazio tintorettesco l’estasi legata alla sensation de vertige, a quello spostamento in avanti dell’asse che provoca un effetto di caduta. Il peso del vivere, per Tintoretto, sta in ogni forma di costrizione e la salvezza deve per forza arrivare passando attraverso il giogo dell’esistenza. È quindi naturale che le figure dei suoi dipinti siano intrise di quella drammaticità che toglie ogni leggerezza al loro percorso terreno. Il dramma e la tragedia, per Emilio Vedova, si risolvono invece nella presa di coscienza di una protesta civile che si traduce nell’occupazione visiva di uno spazio inconsueto per il dialogo. Una conversazione/lacerazione che accende polarità dialettiche e anima la disputa: «Lo scontro per me è fisiologico. È modo di riferimento, tutto il capire. Scontri – per meglio sentire quanta vita, quanta morte. Non che io non sia presente alla complessità – fatta anche di sesso, di azzurro, di amore… – ma tutto questo che è pure la vita, questo spazio, è per me costantemente contrastato, lacerato, da presenze contrarie. Da sbarre, da ritmi, di ingiusto fatto»3 .
Non sono dunque solo i disegni – quelli che Vedova realizza tra la fine degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta – a determinare l’evidente legame visivo tra i due artisti. Anche i “teleri”, realizzati da Vedova negli anni Ottanta restano fortemente evocativi per una sorta di espressionismo condiviso?
Sì, certo. L’ammirazione di Emilio Vedova che guarda a Tintoretto non rimane confinata solo nella dimensione del disegno; è soprattutto nella forza espressionista dei “teleri” – le opere realizzate negli anni Ottanta – che l’artista opera un moderno dialogo con il Maestro manierista. La concezione del dramma come luogo più recondito e complesso dell’intuizione poetica conduce l’artista negli abissi di una ricerca che si esterna in una serie di dipinti assolutamente straordinari. I titoli sembrano
fig. 56
Emilio Vedova
Interpretazione dal Tintoretto (Ultima cena), 1938 Venezia, Fondazione di Venezia
fig. 57
Tintoretto
Ultima cena Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
fig. 58
Tintoretto
Crocifissione (particolare) Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco Venezia
fig. 59
Emilio Vedova
Crocifissione (da Tintoretto), 1942 Museo Novecento, Firenze
voler raccontare il suo lungo viaggio attraverso una dimensione notturna fatta di silenzio, di eros e di morte: Emerging, Registrazione, Compresenze, Non Alveo, Incombente, …als ob…, Di umano, fino ad arrivare a quei Triangoli crocifissi del 1982, dove l’artista indaga le tematiche legate al sacrificio e alla speranza di una redenzione. I due elementi dominanti di questo ciclo di opere, l’odio come sopraffazione dell’umanità e la pietas come redenzione per la salvezza, svelano un percorso fatto di segni ultimi, rarefatti, che dichiarano la loro compresenza dentro ad un magma sempre più nero e confuso: «[…] in antri immensi precipiti – questi tranciati –, orribili pagine di libro –, presenza e fuga… Un numero inquieto di presenze – o Goya “nero” dal nero – o Orozco nero dal nero – o Tintoretto nero dal nero – comprecipito. Teatro dell’assurdo – inconsulto… sgangherata precipitazione dell’oggi – che mi si ripercuote –, deludenti quinte di odio – e infine di pietas»4 . Il critico Claudio Spadoni nel descrivere questi particolari dipinti mette in evidenza lo stretto rapporto tra il presente e il passato nel contesto della definizione stessa di “teleri”: «Queste grandi tele (meglio sarebbe chiamarle Teleri, ché anche l’uso veneziano del nome è qui pienamente giustificato, assieme al costituirsi delle opere in cicli, certo non narrativi, ma in qualche modo tematici); questi teleri, dunque prorompono con l’energia, il respiro forte di un pittore che dopo oltre quarant’anni di lavoro, innestati su esordi tanto precoci quanto straordinariamente intensi e presaghi, appare più che mai artista di oggi»5 .
Ha citato il ciclo Triangoli crocifissi, realizzato da Emilio Vedova tra il 1982 e il 1983. Anche in questi dipinti è possibile leggere l’impeto del Tintoretto nel rappresentare la barbarie dell’umanità o è piuttosto una manifestazione di fede?
Con la Crocifissione (fig. 58) Tintoretto mette in scena la barbarie degli uomini: è una crudeltà gratuita quella che si compie, voluta solo per dare spettacolo, per affermare la forza, per esibire il potere. È una lettura laica quella che l’artista intende sottolineare; alla fine si tratta soltanto dell’esibizione di un fatto cruento, dove anche il cielo sprofonda sgomento davanti all’ineluttabilità del suo compiersi. Tintoretto preferisce manifestare in altri dipinti l’espressione della sua fede. È nel mettere in scena i miracoli che la sua pittura conferisce al dogma la testimonianza dell’avvento; è tutto nella luce, nell’illuminazione mistica della contemplazione che Tintoretto rivela la trascendenza della sua spiritualità. Non qui, non dentro a questa sofferenza diffusa dove il sacrificio è obbligatorio e deve compiersi per forza, senza nessuna mediazione, senza l’ausilio di alcun miracolo. E allora “sia fatta la Tua volontà”, ma a modo nostro e con l’umana crudeltà che ci appartiene. Il tema della crocifissione è un soggetto che Vedova esplora già dalla metà degli anni Quaranta. Il percorso parallelo dei due artisti, così lontani nel tempo ma vicini nella concezione dell’analisi esistenziale che li accomuna, permette di comprendere l’accostamento parallelo della loro opera e genera lo sviluppo di una simbiosi che mette in rilievo le affinità e le divergenze del loro procedere. “Lo squarcio giallo del cielo” evocato da Sartre nel suo straordinario saggio su Tintoretto6, lo si ritrova anche nella versione della Crocifissione (fig. 59) che Vedova dipinge nel 1942, ora conservata al Museo Alberto Della Ragione a Firenze, e in quella del 1947 di proprietà del Museo d’Arte Moderna Mario Rimoldi di Cortina d’Ampezzo. Queste due opere, nate certamente dalla spinta di un forte sentimento di denuncia verso i massacri e gli orrori della guerra, provengono dalla partecipazione dell’artista alla lotta partigiana e dall’influenza per quel realismo drammatico che Renato Guttuso esprime proprio nella sua Crocifissione del 1941, dove impone un ordine sintattico e compositivo che esalta la tematica espressionista della rappresentazione. Emilio Vedova, nella sua personale interpretazione, affronta il tema della morte di Cristo restringendo il campo dell’azione. La scena convulsa, densa di quell’angoscia che Sartre descrive così bene nella sua analisi, diventa nel dipinto di Vedova il gesto immediato e frenetico di una drammaturgia barocca spinta fino alla vertigine dell’eccesso da una fisicità grondante: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo»7 .
La cupa rappresentazione dell’evento è compressa dentro alla dimensione obbligata della tela. La contorsione di quelle figure straziate dal dolore ai piedi della croce testimoniano la contingenza di una crisi e raccontano la sofferenza universale dell’umanità. Ma è proprio in mezzo a tutta quella pena, dentro ai tenebrosi cromatismi della narrazione che s’intravede la speranza. E lo “squarcio giallo del cielo” rimane l’unica via d’uscita, la sola apertura possibile, verso l’altrove. Un’ulteriore testimonianza di questo tema, carico di tensione e di forte impatto emotivo, è documentata dal dipinto Crocifissione contemporanea del 1953. L’opera fa parte del Ciclo della protesta, e si inserisce in un contesto di ricerca che incalza verso un linguaggio più moderno toccando uno dei punti più alti della spontaneità espressiva dell’artista. Il “manierismo” utilizzato da Vedova per eseguire variazioni sui temi drammatici della storia antica e contemporanea raggiunge, proprio in questi anni, l’apice di una maturità narrativa che esula dalle cosiddette correnti di scuola nostrana e lo guida verso un palcoscenico internazionale, dove il linguaggio non ha più bisogno di una lingua per farsi intendere.
Sul tema del linguaggio possiamo quindi affermare che Vedova è stato anche un pittore figurativo e che le sue tele raccontano storie che è ancora possibile decifrare?
Non c’è trappola più insidiosa che il linguaggio dell’arte possa tendere, della tentazione di interpretare un’opera attraverso la decifrazione didascalica della sua rappresentazione. Ciò che appare non sempre descrive quello che l’artista intende comunicare. Restano aperti i risvolti, le innumerevoli verità nascoste dietro allo spiraglio dei chiaroscuri, le tracce infinite di un percorso parallelo che si manifesta attraverso la distanza che percorre l’apparente realtà del campo visivo e l’affascinante stimolo di una percezione intellettuale. La disperata angoscia che caratterizza Massacro, un disegno di piccole dimensioni che Emilio Vedova realizza nel 1937-‘38, rivela un concetto profondo legato alla pesantezza della materia, la stessa che ritroviamo anche in un capolavoro di Tintoretto del 1547-’48, Miracolo dello schiavo. Quel groviglio di segni che Vedova stende sul foglio – quasi a rincorrere la dinamica di una composizione non risolta – lascia intravedere la costruzione di una scena che prelude a una sequenza di azioni ben determinate, come sottolinea Alessandro Masi nel suo studio dedicato agli anni giovanili dell’artista: «[…] l’uomo in alto a destra, la macchia nera discende al centro, ciò che resta del corpo della donna sinistra, ma, ancor più, lo spazio concitato dell’azione: come se un occhio stravolto in un attimo avesse visto quelle figure prendere vita e muoversi, dimenticando perfino il miracolo, per azzuffarsi improvvisamente, senza preciso motivo»8 . San Marco libera uno schiavo è la “novella” drammatica che induce Tintoretto a realizzare un dipinto magistrale nella sua “imperfetta” composizione pittorica e che spinge l’artista a presentare uno scenario inconsueto e a trovare, nella dinamica della costruzione, l’affermazione di tutte le leggi fisiche della gravità. La sua analisi riporta inoltre a considerare, anche in questo contesto che ha del “miracoloso”, la singolare frequentazione con i temi della gravità e della leggerezza di cui abbiamo accennato prima.
A suo avviso, possiamo definire Emilio Vedova e Jacopo Tintoretto due figure malinconiche?
La figura dell’artista quale costruttore di un’identità melanconica mette in evidenza una strategia di avvicinamento alla vita che cerca di modificare il reale per l’affermazione di un universo artificiale costruito dall’immaginazione e dal sogno. In sintesi: quello che non riusciamo ad avere dalla vita cerchiamo di ricostruirlo sulla scena. Non definirei quindi questi artisti come figure malinconiche, ma legate piuttosto all’esplorazione di temi malinconici, ad esempio il ciclo sugli Angeli che Vedova affronta nella seconda metà degli anni Ottanta, altro non è che un focus sul tema di una verità sospesa tra il dubbio e la ragione. Nel dipinto dell’Annunciazione (fig. 60), che si trova a San Rocco, la figura dell’angelo si manifesta per testimoniare l’evento e resta un elemento indispensabile al processo narrativo della rappresentazione pittorica, perché nell’indugio sospeso del volo conferma l’istante della “rivelazione”, per un soprannaturale possibile.
fig. 60
Tintoretto
Annunciazione Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
La figura dell’angelo [...] nell’indugio sospeso del volo conferma l’istante della “rivelazione”, per un soprannaturale possibile
È la presenza dell’attimo che si palesa nella manifestazione momentanea dell’annuncio ed è proprio in quell’attimo che si ristabilisce la congiunzione tra umano e divino. Nel 1986 Emilio Vedova dedica al tema dell’angelo una serie di opere su carta che sviluppano la continuità di un procedere estetico e riportano il suo lavoro alla sacralità del segno. Il tratto leggero, quasi liquido nella sua evanescenza, costituisce il culmine di una ricerca dedicata proprio al ricongiungimento, alla chiusura del cerchio. In questi disegni Vedova indaga il tema delle differenze e delle similitudini e pone la figura dell’angelo quale spartiacque della memoria, elemento primordiale di un passaggio tra essere ed esistere: «L’angelo delle annunciazioni, di un possibile dialogo – che ti ascolta… ma nella “breccia” (l’Annunciazione di Tintoretto a San Rocco) tutti i possibili…»9 . Angelus Novus, Angeli Prigione, Angeli Possibili, Offanim; le figure distinte e distinguibili che Vedova utilizza per nominare questo ciclo di opere raccontano la dimensione di un “transfert vulnerabile”, un percorso introspettivo che indaga le debolezze umane e cerca un’espiazione soprannaturale attraverso un medium che fa da ponte e apre la breccia tra il visibile e il non visibile. Massimo Cacciari nel suo illuminante scritto sugli angeli di Vedova afferma: «Il problema dell’Angelo non è altro che il problema della rappresentazione. Perciò esso si manifesta con particolare evidenza proprio al vertice delle più radicali speculazioni apofatiche»10. Sottolinea, inoltre, il concetto che l’immagine appartiene alla figura del mistico e al radicale processo di identificazione con la sua stessa simbiosi: «Solo per il mistico è essenziale l’immagine. È sempre essenziale: sia che debba esprimere il proprio amore per l’Ineffabile, sia che debba comunicare con gli Angeli dell’Ineffabile, perché questi intermediari gli si presentano»11 .
È possibile quindi ravvisare in questi due artisti anche una concezione dell’immagine e dello spazio che rimandi alla “metafisica”, intesa quale pensiero filosofico di un’esperienza sensibile?
Tutta la tradizione iconografica contiene in sé un lampo della grande illusione metafisica – quel senso di sospensione e di attesa immerso nel silenzio di una riflessione – eppure, nell’attimo preciso della contemplazione dell’opera siamo come attraversati dalla rivelazione istantanea di un segno, dal racconto di una visione che è nello stesso tempo la base di ogni esaltante bellezza e di ogni profonda malinconia. Ma l’opera d’arte travalica ogni metafisica della visione stessa e conduce verso il possibile ricongiungimento con lo spirito. Che cosa resterà del nostro conflitto interiore? E tra il corpo e l’anima che cosa saremo portati a scegliere? «Ho il collo sulla ghigliottina, la lama scende, la mia testa va da questa parte il resto dall’altra. Da quale parte starò io?»12 . Dalla lettura puntuale dell’opera di questi due artisti veneziani emana il senso di una ricerca claustrofobica, paragonabile a un tuffo in acque profonde dove si continua a nuotare senza sosta per esplorare l’ignoto, sporgendo ogni tanto la testa nell’atto liberatorio della respirazione. Ed è proprio in quell’emergere istantaneo è in quel momentaneo respiro che si coglie ancora il suono, il frastuono, l’immensa vitalità del loro infinito universo pittorico.
1 La mostra Vedova Tintoretto era parte del progetto Tintoretto Contemporaneo, a cura di Stefano
Cecchetto e Giorgio Baldo, e si è svolta a Venezia,
Scuola Grande di San Rocco, dal 24 maggio al 3 novembre 2013. L’esposizione, a cura di Germano Celant e Stefano Cecchetto, era promossa dalla Scuola
Grande di San Rocco e dalla Fondazione Emilio e
Annabianca Vedova. 2 EMilio vEdova, Stralci da quaderni/studio, 1980-1983, in Emilio Vedova, Venezia, Marsilio, 2007. 3 EMilio vEdova, Appunti in quaderni/studio, per Plurimi/Binari, 1978. 4 EMilio vEdova, Frammenti – appunti – in studio, 1980. 5 claudio spadoni, Emilio Vedova, Milano, Electa, 1983. 6 JEan-paul sartrE, Tintoretto, o il sequestrato di Venezia, Milano, Christian Marinotti, 2005. 7 Vangelo di Luca, 23.45 8 alEssandro Masi, Emilio Vedova 1935-1950. Gli anni giovanili, Città di Castello (Pg), Edimond, 2007. 9 EMilio vEdova, Pensieri sull’Angelo, in Vedovas Angeli,
Venezia, Ed. Arsenale, 1989. 10 MassiMo cacciari, L’Angelo di Vedova, in Vedovas
Angeli, Venezia, Ed. Arsenale, 1989. 11 Ibidem 12 r.D. laing, Borbottii
Il travaglio che affiora nella pittura di questi due artisti – quel processo di integrazione tra pensiero e gesto che permette di mescolare positivo e negativo, bianco e nero, quale sistematica applicazione di un procedimento alchemico – serve a esternare il dubbio e a renderlo compatibile con l’esistenza