Photo Marco Cappelletti Supplemento al n. 245-246 di Luglio/Agosto 2020 del mensile Venezia News - spedizione in A.P. 45% art. 2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE
MAPPING UP/1 SUMMER2020
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INCONTRI SHORT TALKS VISIONI
COME ABITARE IL TEMPO DI DOMANI
PREMESSA
Città eterne? D
a anni i nostri meravigliosi centri storici, a parte le solite, non poche, virtuose eccezioni classiche di una normalità altra quale esprime precariamente il nostro Paese, sono fermi in trincea, sulla difensiva, timorosi di osare, di innovare, appesi unicamente all’imperio etico di dover preservare un patrimonio unico travolto da una massificazione devastante, in primis da un turismo selvaggio e incontrollato. Qui a Venezia siamo in prima linea su questo fronte; e in prima linea, purtroppo, quasi sempre si muore di più e prima. Ma al contempo, essendo i primi a combattere, si dovrebbe anche essere i primi a capire cosa c’è che va e cosa non va nella strategia messa in atto per fermare questa deriva. Rimanendo però continuamente sotto il fuoco incrociato di svariati demoni la cosa più probabile è perdere la lucidità, il tempo stesso per analizzare il contesto in cui ci si trova ad agire, le cure che esso abbisogna. Con questo primo speciale tematico a centro giornale, nuovo format di inserti che inauguriamo con questo numero di luglio/agosto del nostro city-magazine, con formato e carta diversi a voler battezzare un nuovo spazio di riflessione dedicato volta per volta a un tema specifico e monografico, abbiamo quindi cercato di guadagnare un po’ di spazio, tempo e lucidità in più per guardarci dal di fuori e dal di dentro, con una giusta misura di visione al contempo distanziata e partecipata. Per fare questo abbiamo deciso di aprire lo speciale interrogando una città cugina, se non proprio sorella, della nostra, quella meravigliosa Firenze in cui tutti noi italiani non possiamo non riconoscere l’identità di originaria culla del nostro stare insieme, madre della stessa lingua attraverso la quale ci parliamo, in una parola dell’Umanesimo. Firenze perché attanagliata da problemi assai prossimi a quelli che angustiano la nostra a sua volta meravigliosa città lagunare, Firenze perché ci è parsa il luogo in cui una classe dirigente territoriale ha saputo esprimere con maggiore decisione una nuova visione concreta di come vivere il futuro di queste fragili realtà urbane. Il suo Sindaco, Dario Nardella, è stato il primo in questi mesi, ma anche prima della crisi pandemica, a proporre alcune soluzioni concrete per incominciare a restituire una vivibilità più civile e consona a queste città Patrimonio unico dell’Umanità, che per troppi anni hanno voltato le spalle ai propri abitanti per via di una malsana interpretazione di un turismo che, anziché esprimere un calibrato valore aggiunto al vivere sociale ed economico delle comunità, ha rappresentato nella sua invasività un elemento di esplosivo degrado in contesti urbani già di per sé complessi e delicati. Da qui l’idea di interrogarlo, di confrontarci con un’esperienza amministrativa che dovrebbe essere molto prossima a quella della nostra città. Subito a seguire abbiamo poi coinvolto alcune voci significative, veneziane e non, provenienti dal mondo della cultura, delle istituzioni comunitarie, della letteratura, della finanza, per chiedere loro di darci una personale visione di quale futuro dovremmo disegnare per queste nostre città d’arte rispondendo a un unico, diretto quesito. Infine, a chiudere il tutto, una profonda, lunga immersione sulla nostra cara, fragile Venezia. L’occasione si è presentata quanto mai puntuale e a giusto tono: il libro Venezia Secolo Ventuno di Sergio Pascolo, architetto di lungo corso con un corposo curriculum costruito un po’ in tutto il mondo e tra i più impegnati nello studio di soluzioni sostenibili per la salvaguardia e la valorizzazione della città delle acque, come lui ama giustamente definire Venezia, scritto prima della pandemia e talmente a tempo che pare scritto oggi, ci ha fornito la possibilità di intraprendere un viaggio concretissimo e visionario insieme tra le pieghe della storia recente, del presente precario in cui oggi versiamo, di un futuro prossimo e prospettico in cui l’autore disegna le sue direzioni per la ri-definizione di una Venezia città vivibile per elezione e vocazione. Ne è uscito un dialogo a più voci fitto e incalzante, che ha visto come primo protagonista l’autore naturalmente, ben coadiuvato dal noto architetto Paolo Lucchetta, tra le altre cose nostro editorialista di punta sui temi dell’architettura, e dai noi della redazione. Uno speciale polifonico che nel suo insieme vorrebbe riuscire a parlare alle menti più virtuosamente irrequiete e appassionate a un futuro che in questo territorio così vario e complicato, meraviglioso e delicato, in particolare può disegnare una sua nuova grammatica nel segno di una nuova, davvero sostenibile vivibilità. Massimo Bran
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se la smettessimo di considerare entità distinte e separate le così dette città d’arte da tutte le altre forme del vivere, abitare e coabitare? E se affossassimo finalmente la logica dei sitiUnesco che pretende di isolare e tutelare emergenze (vere e presunte) di paesaggio, di oggetti storici, di addensamenti d’arte e di storia e così via elencando e prendessimo finalmente coscienza che è il Pianeta nel suo insieme che va tutelato, difeso, salvaguardato? E che è illusorio creare delle riserve privilegiate, magari protette da legioni di vigilantes, lasciando che il rimanente affoghi, bruci, divenga discarica, deserto, s’impaludi, s’ammali, sia falcidiato da peste, colera, aids, coronavirus ecc. ecc. quando la maggior parte dell’umanità vive o sopravvive o muore in periferie, conurbanenti sovraffollati, campi profughi, luoghi-non luoghi, centri commerciali, favelas, campi d’addestramento terroristici, spiagge accalcate e disumane, immensi ingorghi autostradali...? Solo la presa di coscienza della sostanziale continuità del tessuto del vivere e dell’abitare potrebbe, forse, aiutare a conseguire non un apparentemente inevitabile allineamento verso il basso della complessiva qualità della vita, cosa che avviene a ritmi precipitosi e in progressione geometrica da vari decenni a questa parte, bensì a trovare il filo di Arianna che ci possa far uscire da una condanna che appare, oggi, senza uscita. Le città d’arte, peraltro, esistono: è un dato di fatto. Se non le vogliamo considerare soltanto come isole di civiltà (di “grande bellezza”: quanto ridicola e retorica quest’espressione!) dentro alla travolgente corrente del degrado, di certo non vanno ritagliate dalla carta geostorica del mondo, ma, al contrario, connesse al contesto in cui sono bene o male inserite (ambientale e storico) ed essere, in ogni caso, una sorta di paradigma di una modernità intessuta di futuro liberato e di coscienza storica. Pazientemente, alla scala del singolo e della collettività (piccola o grande che sia), sulla griglia di una composizione né nostalgica né romanticamente votata al rimpianto di ciò che fu e non è più, ma proiettata a utilizzare lucidamente risorse e strumenti forgiati in secoli di confronti e affinamenti tecnologici, progettuali, creativi fino a far sì che la storia entri, naturalmente, nelle vene del fluire dell’oggi, abbattendo le barriere che separano con violenza la città d’arte dalla periferia, dall’abbandono, dal degrado e dall’abbruttimento. Scienza e pazienza sono le uniche armi che possono ridare un ruolo, a questo punto irrinunciabile, alla logica perfetta e inimitabile della città d’arte. Giandomenico Romanelli 3
INCONTRI
Dario Nardella, Sindaco di Firenze
Nuovo Rinascimento
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Nato a Torre del Greco (Napoli) nel 1975, vive a Firenze dal 1989. Sin da bambino ha sviluppato la passione per la musica che lo ha portato a diplomarsi in violino al Conservatorio Cherubini di Firenze, svolgendo fino al 2004 un’attività professionale musicale. Laureato in Giurisprudenza summa cum laude all’Ateneo fiorentino, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto pubblico e diritto dell’ambiente, e insegna Legislazione dei beni culturali. Nardella è amato dai fiorentini, che lo hanno eletto al primo turno con grande vantaggio sugli avversari ed è voce ascoltata e stimata nell’ambiente politico nazionale.
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irenze e Venezia hanno risentito
e risentono in modo drammatico della crisi causata dal calo vertiginoso delle presenze turistiche a seguito della pandemia di Covid-19. Per ampliare l’orizzonte ponendo lo sguardo oltre il ponte, abbiamo voluto sentire l’autorevole voce del Sindaco di Firenze, Dario Nardella, che primo tra i sindaci delle città d’arte ha saputo elaborare un piano preciso per il turismo, e non solo, chiamato “Rinasci Firenze”, che affronta in nove temi la vita e il futuro della città in epoca non ancora di post-pandemia. Le aree tematiche al centro del piano riguardano: città policentrica, un centro storico nuovo, vivere gli spazi urbani, mobilità green, sviluppo dell’economia cittadina, cultura diffusa, bambini e famiglie al centro, cura della persona (welfare, casa, lavoro) e una città sempre più intelligente. Una necessaria riflessione, dunque, per ripensare le città d’arte in Italia e il loro sistema turistico-culturale, per una ripartenza che segni il primo passo di una da tempo auspicata rivoluzione.
I sindaci si sono trovati in trincea nell’affrontare l’emergenza drammatica legata al Covid-19. Come è stato sentirsi il primo cittadino di una Comunità completamente attonita e smarrita di fronte a una situazione inimmaginabile? Abbiamo trascorso settimane veramente difficili e ancora non possiamo dirci fuori da questa terribile pandemia. Durante il lockdown mi ferivano quotidianamente le immagini di una Firenze desolata, mai vista prima di allora, silenziosa eppure composta nella sua tristezza. È stata dura mantenere lucidità e forza per superare quei momenti e non mi stanco di ringraziare i miei concittadini per la serietà, il coraggio e la tenacia che hanno dimostrato da marzo scorso. Ma una volta messo parzialmente da parte il problema sanitario ci siamo scontrati violentemente con i danni economici e sociali del Coronavirus: nella città metropolitana di Firenze calcoliamo 1 miliardo di euro di danni al turismo, 1,2 miliardi di euro di danni al commercio e 5,5 miliardi di euro di danni all’export (moda, meccanica e altri settori) nel quale Firenze è tradizionalmente leader. Per il Comune stimiamo un ammanco di quasi 200 milioni di euro a meno che non arrivino gli aiuti dal Governo che il Presidente Conte ha promesso ai sindaci italiani.
Firenze come Venezia è una delle destinazioni turistiche italiane di rilevanza
mondiale. L’apporto delle rimesse economiche legate al turismo rappresenta una voce imprescindibile nel bilancio della città. Come pensa potrà ripartire il settore turistico e soprattutto quanto tempo occorrerà per riportare i dati economici a livelli pre Covid-19? Le stime di molti osservatori anche internazionali indicano una ripresa del turismo pre Covid non prima del 2022, quindi ci aspettano ancora almeno due anni di allarme rosso. Secondo le stime del Centro studi turistici di Firenze l’emergenza sanitaria degli ultimi mesi ha causato un calo di 960 mila turisti rispetto al 2019 e una perdita di 2,6 milioni di pernottamenti, vale a dire il 23,4% delle presenze totali dello scorso anno. Un quadro difficile che proseguirà anche per il trimestre estivo appena iniziato. Per contenere le perdite il settore si affiderà quindi al mercato interno. L’estate vedrà anche una minore disponibilità di servizi sul mercato, poiché molte aziende della filiera hanno deciso di sospendere l’attività per tutto il periodo estivo. Le strutture ricettive che rimarranno chiuse saranno comprese tra 450 e 500, fortemente condizionate dal timore di non riuscire a coprire i costi di gestione. Il destino comune di centri storici ineguagliabili, fragili e preziosissimi non può più essere legato a un turismo “mordi e fuggi” che non gode, se non in minima parte, dei tesori artistici e culturali di queste città. Quali possono essere i nuovi approcci a un turismo più consapevole e responsabile, al di là degli ovvi distanziamenti sociali del periodo? Da anni siamo al lavoro per limitare il turismo cosiddetto “mordi e fuggi” di chi ‘usa’ la città per pochissimo tempo e con la pandemia questa tendenza deve essere ancora di più contrastata. Per questo abbiamo messo in campo diverse azioni a sostegno del settore e della promozione della qualità e sicurezza della nostra città e dell’area metropolitana. Abbiamo lanciato un avviso per raccogliere nuovi pacchetti turistici sostenibili e lanciato una nuova Card chiamata “Welcome” per riservare in quest’anno un’accoglienza speciale, mentre dal primo luglio è disponibile la nuova App del turismo: si chiama “Feel Florence” ed è stata sviluppata dal Comune di Firenze per promuovere un nuovo turismo sostenibile, governare i flussi e avvicinare i visitatori alle esperienze locali, ma anche per offrire al cittadino uno strumento per restare aggiornato su eventi e iniziative pre-
senti in città. Entro la fine del mandato, inoltre, l’obiettivo è vietare l’accesso ai bus turistici in tutto il territorio comunale della città: mi riferisco ai bus turistici giornalieri, che producono traffico e inquinamento e non portano valore aggiunto significativo al settore del turismo. Anche a Firenze il centro storico si è in gran parte svuotato di residenti a favore di affittanze turistiche. Non esiste la ricetta magica, ma come si può invertire la tendenza allo svuotamento dei centri storici, rendendoli ancora vivi e vitali? Già nel 2015 il Comune di Firenze è stato il primo Comune in tutta Italia a bloccare cambi di destinazione d’uso nel centro storico verso il turistico ricettivo e infatti negli ultimi 5 anni non hanno più aperto nuove strutture alberghiere dentro i confini del centro storico. Per attrarre altri tipi di investimenti in città la giunta comunale ha già annunciato che con l’approvazione del nuovo regolamento urbanistico (piano operativo) la regola che attualmente vieta il cambio di destinazione d’uso a turistico ricettivo all’interno dell’area UNESCO sarà estesa a tutta la città. In più, in molte trasformazioni urbanistiche in atto, per esempio nella valorizzazione del complesso di Santa Maria Novella e nella riqualificazione dell’immobile ex Poste di via Pietrapiana, entrambi nel centro storico, si prevede parte della metratura destinata ad alloggi per incentivare così la residenza. La cultura come motore della rinascita anche economica post Covid-19. Quali idee possono essere messe in campo per creare un sistema virtuoso tra città d’arte che finalmente creino una vera rete diffusa basata sull’offerta culturale e turistica? Le principali città d’arte italiane sono collegate da un sistema ferroviario che consente di muoversi da una all’altra in poche ore di viaggio e potrebbero davvero mettere ‘a sistema’ i loro patrimoni artistici. Da qualche mese a Firenze, con l’assessore alla cultura Tommaso Sacchi, abbiamo attivato la Card del fiorentino che al prezzo popolare di 10 euro consente ingressi illimitati per un anno nei nostri musei civici. Perché non pensare a un’iniziativa analoga ma spendibile in più città? Pensiamo poi ai grandi anniversari dei protagonisti culturali italiani, da Leonardo e Raffaello. Nel 2021 abbiamo le celebrazioni dantesche e Firenze sarà in prima linea con Ravenna e Verona. Solo così, unendo le forze e superando i campanili, l’Italia potrà risollevarsi. Fabio Marzari 5
SHORT TALKS
COME ABITARE IL TEMPO DI DOMANI
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Idee per ridefinire identità e funzioni delle città d’arte tra nuove residenzialità e un turismo da riprogettare. GIOVANNI MONTANARO MELANIA G. MAZZUCCO MASSIMO LAPUCCI LUISELLA PAVAN-WOOLFE PAOLO MOLESINI PAOLA SEVERINI MELOGRANI
GIOVANNI MONTANARO Scrittore
Io credo che Venezia possa essere la città del futuro. Basta guardare alla storia: a epoche di crisi sono sempre seguite epoche straordinarie. Perché Venezia ha saputo reinventarsi, non essere mai la stessa, dalla città dei marinai a quella dei commercianti, dalla potenza militare all’industria, anche dello spettacolo. Grazie all’acqua, Venezia nella storia è stata a lungo velocissima. Poi è venuta la ferrovia, poi è venuto il trasporto su gomma. E allora Venezia è diventata ancor più diversa da tutte le altre città, ancor più unica, ma forse meno competitiva nel Novecento, considerando l’epopea anche drammaticissima di Marghera. Ma adesso deve cambiare ancora. C’è da affrontare un nuovo futuro; il mondo è sempre più connesso e smart, si potrà lavorare anche senza muoversi sempre, serviranno città belle per vivere, e allora Venezia può tornare attrattiva ben oltre il turismo. Venezia ha una qualità della vita
potenzialmente senza pari, è in uno snodo cruciale tra Ovest ed Est, è già capitale di fatto di cultura e ambiente, appartiene a un’area economicamente sviluppatissima, interessa a tutti. Bisogna partire dal lavoro, attrarre nuovi investimenti e nuovi residenti. Soprattutto per la città d’acqua (dove portare 10.000, ma anche solo 5.000 giovani coppie potrebbe bastare per risolvere molti problemi e invertire una rotta), ma anche per tutta la terraferma, che deve essere il baricentro del Nordest. Con un po’ di attenzione, con qualche intervento e con molto buonsenso si potrebbe cominciare a riportare in equilibrio una città squilibrata dal turismo, che non va demonizzato, ma regolato. Ma che si regolerà solo se si offriranno diverse opportunità ai cittadini: per lavorare, per affittare le case di proprietà in modo vantaggioso. Dopo il dramma dell’acqua alta e quello del Covid-19, questa è anche un’occasione unica per creare consenso intorno a un nuovo progetto di città. Senza perdere questa chance, perché si era arrivati a un punto di non ritorno. Ma senza dimenticare i singoli cittadini, i servizi a tutti, soprattutto se ci sarà una grave crisi economica dopo l’estate, che potrebbe diventare l’emergenza più grande da affrontare.
MELANIA G. MAZZUCCO Scrittrice
Ad aprile, a Roma, un ciuffo di papaveri è cresciuto sul marciapiede di fronte ai Musei Vaticani, nell’interstizio fra la saracinesca e l’asfalto di un’agenzia di ‘servizi ai turisti’. Molti locali e sgabuzzini situati al pianterreno nelle strade di tutto il quartiere erano stati occupati da questi misteriosi e loschi intermediari, venditori di tour e biglietti maggiorati alle attrazioni artistiche limitrofe. Gli altri da minimarket, gelaterie, take away di pizza o kebab, negozi di chincaglieria
(medagliette, magliette, ciondoli a forma di Colosseo, ecc.) made in China. Questa istantanea poteva essere scattata in una qualunque strada di qualunque centro storico di una città d’arte italiana. Perché a questo commercio sordido di oggetti fasulli e servizi rapinosi avevamo prostituito le nostre più belle città. Uno spettacolo osceno quanto i quartieri a luci rosse. I papaveri sono sfioriti, ma nel frattempo sono cresciute le spighe di grano selvatico. E io spero che maturino. Ho usato la prima persona plurale, “avevamo prostituito”, ma in verità i cittadini italiani sono stati solo in parte responsabili di questo stupro – che per lo più hanno subìto indifesi. Oggi appare criminosa la liberalizzazione scriteriata delle licenze che ha desertificato di attività produttive e artigianali le città d’arte, trasformandole in orrendi empori del nulla, scenografie scolorite di paesaggi morti, in cui non si vive, non si crea, non si resta: si passa. Le proposte di una scrittrice sono, e devono essere, sempre radicali e ideali. Ma non impraticabili. I verbi sono pochi. Ripopolare, facilitare, restituire. Le città d’arte hanno disperatamente bisogno di abitanti. Meglio se giovani. Dunque Stato e governi locali attuino le politiche sociali della casa nei centri storici e non nelle periferie. Nelle centinaia di immobili sfitti di loro proprietà, o nei quali ospitano uffici resi inutili o svuotati dallo smart working, alloggino le famiglie in lista d’attesa di una casa popolare. Quindi facilitino la trasformazione delle migliaia di b&b – molti dei quali illegali – in case d’affitto, con incentivi e contratti a lungo termine detassabili e perciò appetibili per locatori e locatari. Tutelino le attività creative sopravvissute (librai, antiquari, orafi, fabbri, mosaicisti, che chiudevano o venivano sfrattati anche nel pre-Covid). Colleghino realmente i centri storici con le cosiddette periferie (nelle quali ormai risiede la maggior parte dei cittadini delle metropoli), creando sistemi di trasporto integrato, percorsi pedonali e ciclovie. Restituiscano l’estetica come bene civico. Lavorando con le scuole, le associazioni e le biglietterie stesse (se mai i turisti torneranno, urgono percorsi preferenziali e orari di apertura che tengano conto delle esigenze della vita normale di persone che lavorano, studiano, vivono e non vengono a vedere l’arte solo in vacanza). Insomma, bisogna ricreare un’intimità orgogliosa del patrimonio locale, restituendo a tutti il sentimento dell’appartenenza. Perché per viltà o avidità si prostituisce un’estranea, mai una madre.
MASSIMO LAPUCCI Segretario Generale di Fondazione CRTorino
«Il turismo a Venezia non sarà mai più lo stesso dopo il Covid. Potrebbe essere meglio»: così il «New York Times» del 2 luglio ha titolato un ampio reportage sul futuro della città da reinventare dopo la pandemia. Ne emerge il paradosso di una crisi che, nella sua drammaticità, ha messo a nudo le debolezze di un’eccessiva dipendenza da quella che in economia viene definita “monocultura turistica” – mutuando il termine dalla pratica agricola di coltivare in modo intensivo e rischioso una sola tipologia vegetale – ma, nello stesso tempo, ha reso più concreti percorsi alternativi di crescita e sviluppo. Una tendenza che accomuna Venezia ad altre destinazioni iconiche d’arte e cultura, italiane e non, sopraffatte da decenni di “overtourism”: parola divenuta così tanto popolare da essere stata eletta vocabolo 2018 nei dizionari Oxford e Collins. Mi riferisco al fenomeno per cui l’impatto del turismo su un centro urbano influenza eccessivamente (e negativamente) non solo la qualità della vita dei residenti, ma anche l’esperienza di fruizione dei visitatori, danneggiando l’intera comunità di riferimento. Accantonata per ora con il Covid l’era dei quasi 30 milioni di turisti all’anno, Venezia ha oggi l’opportunità per ripensare i propri spazi dell’abitare, la mobilità, i servizi, la valorizzazione del patrimonio artistico-culturale, l’attivazione di nuove filiere economiche, ponendo le basi per un neo-Rinascimento capace di attrarre investitori lungimiranti e viaggiatori responsabili, allargare l’impronta delle università sul tessuto urbano e sociale, trasformare gli edifici rimasti vuoti in alloggi per studenti, in centri di ricerca sul clima e sull’ambiente e persino in factory della creatività contemporanea per communi7
SHORT TALKS ty di artisti, designer, web producers, architetti, artigiani della “grande bellezza”. Simbolo di una delle principali sfide legate al climat change nel terzo millennio, Venezia è stata, ed è tuttora, la prima città resiliente al mondo, resistendo da secoli a fenomeni che minacciano il suo fragile ecosistema e la sua stessa esistenza. Ma questa sua storica capacità di adattamento non deve far dimenticare l’altra faccia della medaglia, ossia la “scarsità della risorsa Venezia”, da gestire prudentemente più che da promuovere esasperatamente, come avvenuto di recente con campagne internazionali quali “Veneto the land of Venice”, che hanno finito per lo più per calamitare sul capoluogo quasi tutto il flusso turistico della regione. Traendo magari ispirazione dal modello Amsterdam, il risultato può essere una nuova idea di smart city o, meglio ancora, di wise city, una città saggia, capace di utilizzare le leve dell’innovazione tecnologica e digitale come i Big Data per una pianificazione strategica che coniughi sviluppo sostenibile, crescita inclusiva e coesione sociale per un maggiore benessere della collettività. Riprogettare traiettorie di futuro più consapevoli e responsabili è diventata una issue su scala globale, in linea con gli SDG dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite: il grande piano d’azione per orientare il cambiamento a livello mondiale attraverso 17 macro-obiettivi, tra cui il numero 11 ci ricorda di «rendere le città e le comunità inclusive, sicure, durature e sostenibili», basate su un nuovo equilibrio fra risorse ambientali, sociali ed economiche. E l’ultimo, il numero 17, ci richiama tutti a «rilanciare e attuare partnership globali per lo sviluppo sostenibile». Come Fondazione CRT stiamo lavorando da tempo, attraverso l’investimento di ‘capitali pazienti’, alla realizzazione di operazioni di rigenerazione urbana capaci di coniugare creazione di valore economico ma anche valore sociale, come la grande rigenerazione e trasformazione realizzata alle OGR, le Officine Grandi Riparazioni di Torino, divenute oggi un hub per l’arte, la cultura, il tech e l’innovation e già presenti a Venezia con varie iniziative culturali durante le ultime edizioni della Biennale. Ed è proprio con riferimento al tema dell’importanza delle partnership globali richiamati dagli SDG che guardiamo a Venezia e agli attori del suo territorio come possibili interlocutori nel Paese per individuare principi e iniziative comuni utili a ridefinire le modalità di sviluppo e l’identità delle nostre città e territori 8
che richiedono approcci innovativi e decisioni non più rinviabili. È un’occasione che ora non possiamo più perdere.
LUISELLA PAVAN-WOOLFE Direttrice Ufficio di Venezia Consiglio d’Europa
La pandemia ci invita a ripensare relazioni sociali e culturali nelle città. A Venezia, forse più che altrove, il periodo di confinamento ha mostrato come faccia bene vivere in equilibrio con natura e ambiente. Sparite le orde di turisti, le acque dei canali sono ridiventate trasparenti e popolate da pesci, meduse e anatre. Le grandi metropoli, più duramente colpite dal Covid, dovranno ripensare come organizzare i luoghi pubblici, prevedere più spazi aperti, piazze e parchi, ma anche progettare nuove passerelle e legami con territori di minor concentrazione urbana che possano fungere da polmone verde per i tanti lavoratori che hanno iniziato a operare a distanza e che potrebbero desiderare di continuare a utilizzare opzioni di smart working in futuro. A Venezia molte di queste soluzioni sono improponibili, semplicemente perché l’impianto urbano della città è praticamente intoccabile. Il distanziamento sociale sarà quindi possibile solo se la città continuerà come ora a vedere un numero drasticamente ridotto di presenze. Attualmente anche nelle calli più strette non c’è ressa e anche nei mezzi pubblici si riesce, per lo più, a mantenere la distanza dalle altre persone. Non potendo ridisegnare i luoghi bisognerà cambiare i modi di abitare la città. Venezia non può più vivere di solo turismo di massa. Trenta
milioni di turisti all’anno esercitavano già prima della pandemia una pressione insostenibile in un ecosistema fragile come quello della città e della sua laguna. Come fare a passare a un altro modo di vivere la città? Tante proposte sono state fatte nel tempo. Le più ovvie alla luce di quanto è successo di recente, anche se non di certo le più originali, mi sembrano essere le seguenti: 1. Diminuire le presenze turistiche Limitare le entrate in città (grazie ad esempio a un sistema di prenotazione gratuita per regolare i flussi d’arrivi). Eliminare completamente passaggi e soggiorni delle grandi navi (non solo nel bacino di San Marco e nel canale della Giudecca, ma anche verso Marghera. Sono fonte di inquinamento, pericolose in caso di possibile incidente, e soprattutto fanno sbarcare migliaia di turisti in una città già sovraffollata). 2. Puntare su un turismo diverso, slow e sostenibile Sviluppare in regione Veneto un’offerta turistica che avvantaggi le mete meno gettonate, quali cammini, borghi, città minori, percorsi inediti (ad esempio la via della seta, gli itinerari di pellegrinaggio), puntando su un turismo slow e sostenibile che svii gli afflussi, soprattutto le gite giornaliere, da Venezia e Verona verso altre destinazioni. Passare dal turismo “mordi e fuggi” a forme di turismo esperienziale, quale il culturale, l’enogastronomico, il naturalistico, valorizzando ad esempio di più le isole minori della laguna, a tutt’oggi bacino di grande potenzialità. 3. Sviluppare attività economiche complementari al turismo Favorire a Venezia forme di residenze provvisorie, per chi sceglie di vivere magari lavorando a distanza e restando connesso via web con il resto del mondo. La risposta al Covid apre a questo riguardo nuove opportunità. Rilanciare le attività artigianali tradizionali, trovando loro una location di prestigio come l’Arsenale e facendo diventare Venezia un polo d’eccellenza a livello europeo in materia, capace d’attirare maestranze e attività anche d’insegnamento e formazione. Attirare iniziative di ricerca come sta facendo ad esempio Bologna per ultimo con il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine. Circola attualmente una proposta per un possibile centro di ricerca per il benessere degli sportivi, la cura del benessere e della salute, complementare al progetto, essenzialmente ricettivo, di Cassa Depositi e
Prestiti all’ex ospedale al Mare del Lido. Ma si parla anche da lungo tempo di ricerca ambientale ad esempio sui motori ibridi o elettrici per la navigazione, non dimenticando la presenza del Centro Nazionale delle Ricerche all’Arsenale.
PAOLO MOLESINI Presidente Fondazione Querini Stampalia
Vengo dal mondo della finanza, dove si dice che la buona moneta scaccia quella cattiva. Ecco, penso che anche per il turismo possa valere lo stesso concetto: mantenere le iniziative artistiche e culturali, le rassegne, le attività di musei e fondazioni consentirà di conquistare visitatori attenti, sofisticati, curiosi, capaci di apprezzare e valorizzare quanto viene proposto loro. Non parlo di un turismo di élite, né di un turismo ricco, ma di un turismo istruito e consapevole, capace di riconoscere e apprezzare l’eccezionalità di questo luogo meraviglioso.
PAOLA SEVERINI MELOGRANI
Giornalista, esperta di Terzo Settore
Penso che la chiave per sostenere e rilanciare sempre di più Venezia debba essere la promozione della sua cultura. La nostra città è un luogo magico e unico al mondo. Certamente per come è nato e si è sviluppato il paesaggio cittadino, per l’ambiente che lo circonda, ma anche e soprattutto per la sua storia di Repubblica Marinara, a cavallo fra Oriente ed Occidente, in contatto per secoli con le culture di tutto il bacino del Mediterraneo. Un’esperienza civile e sociale che tutto il mondo conosce e apprezza, insieme alla sua arte, al cibo, all’apertura verso i turisti, senza dimenticare quanto offre con i suoi teatri, i musei, le attività delle fondazioni, le mostre, la capacità di rappresentare un’oasi di “bel vivere” e di internazionalità. Per incrementare ancora di più il valore di questo mondo ritengo si debbano dirigere gli sforzi di tutti verso lo sviluppo di forme di turismo che non snaturino la città. Non si tratta di un’antica Disneyland sopravvissuta fino ai giorni nostri, verso cui approcciarsi con una visita “mordi e fuggi”; bisogna puntare su visitatori in grado di apprezzare la cultura, lo spirito della città, vivendola per più giorni e notti, ricercando e cogliendo le numerose opportunità che Venezia sa offrire.
Nonostante quello che a un primo superficiale sguardo potrebbe apparire, Venezia è una delle città in Europa con meno barriere architettoniche. Infatti gli ostacoli non sono rappresentati soltanto da gradini, si tratta di un tema più ampio che riguarda la concezione dell’accessibilità e della vivibilità di un territorio. Venezia – città d’arte unica e particolare a causa e per merito della sua assoluta fragilità e complessità – è una città più che vivibile (anche se purtroppo drammaticamente spopolatasi negli ultimi 50 anni) e un indicatore di questa vivibilità è la presenza di anziani e la loro lunga senescenza. Partendo da questo dato, si dovrebbe pensare di formulare un’offerta rivolta a un turismo super selezionato dal punto di vista dell’età matura dei possibili ospiti e delle loro difficoltà di movimento: Venezia potrebbe davvero essere considerata come una meta privilegiata rispetto anche a questa fetta di pubblico che cerca un’accessibilità totale. Chiaramente bi-
sognerebbe per esempio affrontare, laddove le strutture degli edifici lo consentissero, il problema degli ascensori nei piccoli alberghi, delle toilette e delle rampe – già peraltro oggi assai più diffuse. Per il resto, essendo una città molto vissuta nei suoi spazi all’aperto, nelle calli e nei campi, le carrozzine si muovono in modo sicuro. Puntare verso un turismo accessibile potrebbe rivelarsi una scelta intelligente, perché questo tipo di turismo, sia quello degli anziani che quello dei disabili, necessita di una fruizione lenta, con tempi più lunghi di permanenza, non mordi e fuggi, con un bacino di utenza mondiale tra l’altro con una capacità di spesa superiore alla media. Rammento che su questo tema erano state compiute varie ricerche fin dagli anni ‘90; si era cominciato a vedere la città anche in questa prospettiva, rivolgendosi a questo settore di pubblico. Poi è stato tutto quanto messo da parte e soprattutto è stato privilegiato il guadagno immediato, la pura rendita di posizione. Un secondo punto essenziale per Venezia riguarda la Città Metropolitana: credo che occorra pensare alle diverse “isole territoriali” e non solo all’isola centrale, lavorando naturalmente sul concetto esteso di area metropolitana, allargandolo e allungandolo il più possibile, quindi ampliando le possibili offerte di soggiorno e allungando i tempi di residenza, con una stagionalità estesa. Il tema della fragilità oggi è superabile perché i controlli, le attenzioni e anche la latenza del Covid impediscono flussi giganteschi di turisti dentro le chiese, nei musei, nelle gallerie, ma anche nelle zone della città più frequentate e nelle piccole aree a cielo aperto. Rovesciando il punto di vista, il cambio di abitudini che il Covid ha imposto, cioè quello di poter usufruire dei luoghi da visitare con tempi più controllati, con prenotazioni in anticipo e con un’idea di residenza allungata, diventa il punto di partenza per una nuova idea di Venezia. La città potrebbe diventare il simbolo europeo dell’accessibilità e questo andrebbe ad assecondare felicemente quella che è da sempre la sua identità storica, perché fino alla caduta della Repubblica Venezia è stata dal punto di vista della politica di integrazione la città più aperta al mondo, dove convivevano pacificamente etnie e religioni, dando vita e cittadinanza a una convivenza e integrazione che non si è mai realizzata in nessun’altra città, dalla fine del Medioevo all’inizio del Settecento, e questo è un modello da perseguire, da rivalorizzare oggi. 9
Venezia Secolo Ventuno
S
VISIONI
ergio Pascolo ha da poco pubblicato questo volume che interroga attraverso idee, visioni, ma soprattutto progetti concreti il futuro di Venezia. Il titolo è quanto mai diretto, senza scorciatoie cervellotiche: Venezia Secolo Ventuno. Qui e ora, ma anche qui e domani, perché rimanda immediatamente a una necessità, un’urgenza di pianificare a media, lunga scadenza un futuro che non sopporterebbe più soluzioni estemporanee e rabberciate a problemi di una complessità immane fattisi oramai cronici. Ridefinirsi in questo secolo, a partire da un suo momento, ora, vero crinale epocale nella trasformazione del nostro vivere questo pianeta, significa avviare un processo che richiede al contempo capacità operativa immediata e profonda lungimiranza nelle pianificazioni. Un libro che ci ha subito acceso il desiderio di aprire un dialogo vivo su temi che ci coinvolgono e ci preoccupano da sempre, oggi più di sempre. Abbiamo quindi incontrato l’autore, supportati dall’architetto Paolo Lucchetta, nostra prima firma sul fronte dell’architettura, cercando di entrare il più estesamente ed efficacemente possibile nel cuore di una città di rara complessità che nelle pagine di questo libro trova per tutte le sue declinazioni, vocazioni, destinazioni delle direzioni percorribili nel migliorarsi davvero.
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Massimo Bran: Questa è una città che non fa altro che produrre elaborati teorici attorno alla ridefinizione perenne di sé, correndo il rischio di cadere inevitabilmente nell’autoreferenzialità. Lo scheletro del tuo libro sembra invece sostanzialmente rifuggire questa tendenza, fornendo idee e progetti percorribili in maniera semplice e concreta. Qual è il vero, stringente obbiettivo dal punto di vista intellettuale e pragmatico che ti sei posto in questo tuo ultimo lavoro? Quale è stata l’urgenza che ti ha spinto a scriverlo e quale il senso primario che vorresti emergesse dalle sue pagine? Sergio Pascolo: Il punto di partenza è effettivamente molto semplice: io credo che questa città, nella straordinaria unicità che tutti le riconoscono, abbia la potenzialità di essere, come scrivo in uno degli ultimi capitoli del libro, «una delle migliori, più attrattive e più importanti piccole città del mondo». Tuttavia
questa potenzialità rimane tale in uno stato di frustrazione permanente, senza innescare alcun percorso solido che possa garantirle un futuro non per i prossimi anni o per il prossimo mandato elettorale, ma per l’intero secolo. Da qui il titolo Venezia Secolo Ventuno. Mi riferisco a questo secolo perché, nonostante vi siano spinte contraddittorie, è indubbio che il nostro sarà il secolo del ripristino ambientale, o perlomeno dell’impegno più o meno globale per tale ripristino, grazie a una nuova consapevolezza ambientale che riguarda tutto il pianeta. I cambiamenti climatici chiedono grandi sfide all’umanità che vanno esattamente nella direzione che Venezia ha sempre mostrato e insegnato al mondo per secoli. Nel libro una delle chiavi fondamentali di lettura della grande potenzialità di Venezia è rappresentata dal mix di tutte le qualità che la contraddistinguono, a partire dalla bellezza architettonica dei monumenti, dalla cultura, dalla storia, ma anche e soprattutto dal fatto che la città coincide con un modello, e quindi con determinati stili di vita, corrispondente ai criteri di sostenibilità che mezzo mondo oggi cerca di perseguire per garantirsi un futuro di migliore qualità. Tutte le città governate con intelligenza, da quelle grandissime ai piccoli centri, oggi si stanno muovendo in questa direzione. Ecco dunque l’urgenza, sì, di richiamare l’attenzione sul fatto che proprio Venezia, che possiede tutte le caratteristiche capaci di costruire uno stile di vita sostenibile oggi imitato e rincorso da tutti, può trovare il modo di rinascere e rifiorire in questo particolare momento storico a essa totalmente propizio. In questo senso il libro parla di rinascimento sostenibile. MB: È un’urgenza che credo noi tutti qui condividiamo e che emerge in maniera evidente nella tensione propositiva che il tuo lavoro restituisce, distanziandoti da enunciati da massimi sistemi, giocando la sponda solida della concretezza. Una disposizione conseguenza di un tuo lavoro decennale su vari fronti urbanistici e architettonici in particolare europei, luoghi in cui alla fine si sono rese tangibilmente praticabili soluzioni in chiave prospettica che a noi sembrano inafferrabili, come pensare la città da qui al 2040. È un
problema italiano, non ascrivibile soltanto al contesto veneziano, sia chiaro. Sappiamo che questo genere di visioni pianificate in Italia purtroppo rappresentano a tutt’oggi materia utopica. Non che manchino elaborati (come si diceva ve ne sono sin troppi), basti vedere come vengono architettate e scritte le leggi, e non mancano nemmeno urbanisti di primissimo livello internazionale, però di fatto la programmazione in questo Paese è sempre stata ed è tuttora un problema. Certamente a Venezia tale aspetto è ancor più eclatante per la particolarità della città e per la struttura che la definisce. Sono convinto che Venezia viva da tempo una crisi di carattere antropologico prima che politico. La cosiddetta venezianità del centro storico oggi viene rappresentata e vissuta pubblicamente, ma non solo, da una residenzialità che troppo spesso vive specchiandosi nella propria trincea, con visioni meccanicamente difensive che alla lunga
piedi per scommessa viene lasciato in balìa di perturbazioni oceaniche quotidiane di diversa forma e registro. In questa forbice devastante la città, i veneziani “classici”, mi si passi il termine non propriamente congruo, non sono di fatto in grado di produrre una borghesia moderna, con una mentalità aperta davvero, internazionale, con una vocazione ad assorbire, a includere il mondo che qui ancora continua nonostante tutto a scommettere, perlomeno nella cultura, vedi le decine di fondazioni che si stanno insediando negli ultimi anni in centro storico. In questa paralisi riformista è giocoforza che la deregulation prenda piede, si faccia regola. Con questa Amministrazione a vocazione fortemente ‘commerciale’, per dirla seccamente in breve, forse l’acceleratore ha spinto ancora di più in questa direzione, ma si badi bene che il problema è più che annoso, poiché, per l’appunto, solo in superficie esso è politico. Scavando solo poco
to, ma non solo, alla centralità internazionale della Biennale. Per questi protagonisti dei linguaggi della contemporaneità Venezia è pari a una New York o a una Londra, però questi stessi soggetti che vengono qui ad insediarsi, a investire sul terreno della purissima qualità, non vengono assolutamente percepiti come figure fondamentali nell’ottica di rendere davvero europea, internazionale la città. Io mi chiedo come sia possibile che una capitale del mondo delle arti sia governata da una giunta che non abbia un assessore alla cultura che parli, mastichi con totale naturalezza ed esperienza questi linguaggi. È semplicemente una follia! Com’è possibile che non si aprano le porte della politica dell’Amministrazione pubblica a questi nuovi soggetti attivi di livello internazionale che qui investono e scommettono sui loro progetti culturali? È davvero incredibile che una città di questo respiro storico e di questo magnetismo culturale contemporaneo continui a vivere una
creano una sostanziale impermeabilità verso le esperienze che vengono da fuori, da contesti più dinamici, più positivamente febbrili, diciamo così. Alla fine le decine e decine di associazioni, comitati e quant’altro, al netto di anche indubitabili buone proposte da essi espresse per difendere la città in particolare dal suo depauperamento sociale e dalla sua destinazione ormai pressoché esclusivamente turistica, finiscono per girare attorno al loro mero esistere in chiave puramente resistenziale, con grosse dosi di stucchevole narcisismo intellettuale. Sull’altro fronte, quello dell’amministrazione e della gestione del quotidiano, ossia della vita vera, tangibile della città, vige la totale deregulation, con una liberalizzazione anarchica, senza visioni urbanistiche che regolino questo caos ormai quasi fuori controllo, per cui un organismo fragile che sta in
poco sotto la superficie del discorso pubblico si capisce chiaramente che il baco vero sta nella mentalità della classe dirigente, intesa in senso esteso, che governa questo luogo complesso. Un microcosmo che come l’aria ha bisogno di iniezioni esperienziali provenienti da città, paesi, organismi che vivono quotidianamente la frontiera della ridefinizione contemporanea delle funzioni urbane, di persone che diano, anche con una certa verginità intellettuale, in sostanza un contributo vivo e radicale capace di rompere questa gabbia autoreferenziale in cui tutti noi, chi più chi meno, viviamo ovviamente lamentandoci, come in parte anche qui facciamo ancora. Venezia è una città che nonostante la devastazione che ineluttabilmente la deturpa sta attirando un sacco di esperienze vitali, in particolare come si diceva nel settore nodale della cultura, delle arti, grazie soprattut-
tale mediocrità mentale. Nonostante ciò produca una inevitabile forma di rassegnazione, continuo a essere tra quelli che perseverano a interrogarsi su come sia possibile scardinare questa porta chiusa a tripla mandata. Una chiusura mentale che produce molta frustrazione, che diventa poi un deterrente ad agire, a partecipare alla vita pubblica, il che è assolutamente sbagliato. Paolo Lucchetta: Quanto stai dicendo è perfettamente descritto in una frase di Helmut Schmidt nella postfazione di Nagel al volume di Sergio, quando racconta a proposito di Amburgo che ciò che fece scattare l’inerzia fu la lettera che lo stesso Schmidt scrisse a un quotidiano dal titolo Lettera a una bella addormentata. Una scossa che, partita dall’alto, fece del riscatto necessario della grande città portuale 11
VISIONI del nord un tema immediatamente nazionale, muovendo così delle dinamiche che accesero la città in tutti i suoi settori, partendo dal basso. Quando si dice avere un respiro sovraterritoriale e aperto sul mondo. Credo che al di là del tema antropologico, che trovo pertinente e che è certo un fattore chiave nello spiegare ciò che sto andando a dire, la considerazione di fondo da farsi è che probabilmente Venezia è una “bella addormentata” e noi stiamo continuando ad assecondare il suo felice torpore. È possibile scardinare questo pensiero come riuscì a fare Schmidt con la lettera che diede come esito il progetto in cui poi anche tu Sergio ti sei trovato coinvolto? Come si può svegliare una bella addormentata? Perché è una responsabilità che coinvolge noi come cittadini in primis, ma che su larga scala diviene globale nei confronti di un patrimonio dell’umanità di cui alla fine non ci si prende cura per davvero.
un traino per l’intero Paese. Parole che possiamo perfettamente trasporre cinquant’anni dopo a Venezia. Ovviamente questa città è Patrimonio dell’Umanità ma ciò sembra non avere nessun tipo di incidenza rilevante. Anche se a livello internazionale vi è stato qualche segnale di attenzione significativo, in particolare in Europa. La Presidente Von der Leyen, ad esempio, ha citato più volte Venezia nei suoi interventi. Per quanto riguarda il fattore antropologico, Massimo, la questione che poni è assolutamente centrale quanto difficile da affrontare e centrare. Visto che hai usato questa parola, “urgenza”, che trovo molto appropriata, quello che ho pensato di fare è stato proprio cercare di raccontare soprattutto il fatto che una città può essere pensata, progettata, trasformata in un motore di sviluppo positivo che va oltre i sogni e le visioni, concretizzandosi in pratiche che devono essere portate avanti con capacità,
caso, le città certo non stanno ferme, non si addormentano fisicamente, e noi ne siamo testimoni tutti i giorni; si trasformano sotto la spinta di altre forze, a partire da interessi economici privati molto concentrati, spesso aggressivi, che possono agire in direzione contraria al potenziale qualitativo delle città. E sono le forze prevalenti esattamente in atto oggi a Venezia. Noi qui abbiamo potuto osservarle macroscopicamente queste spinte negli ultimi decenni, determinando una condizione in cui per i cittadini i cambiamenti si rivelano alla fine per quello che sono, ossia un cumulo di errori scoperti troppo tardi, quando attuare un cambio di direzione risulta sempre più difficile.
Venezia, 1729
Venezia, 1857
Venezia, 1913
SP: Anch’io pensavo proprio alla postfazione e all’episodio raccontato da Nagel. Helmut Schmidt, che diventerà in seguito Cancelliere tedesco, scrive questa lettera in forma anonima – scopriranno solo dopo che ne era stato lui l’autore – con l’intenzione di dare uno scossone civile alla città. Nella lettera scrive infatti che i cittadini amburghesi sono fermi, sono seduti, ma accusa anche la politica nazionale di non accorgersi che Amburgo possiede il potenziale per essere una città trainante. Schmidt dà uno scossone a entrambi i lati, il local e il national, rivolgendosi ai suoi colleghi dell’SPD e ponendo l’attenzione sulla necessità di risvegliare i cittadini, in modo che prendano coscienza della città in cui vivono iniziando contestualmente a pensare a che tipo di città potrebbero vivere in futuro. Fa la stessa cosa con i politici nazionali, ai quali ricorda di non considerare Amburgo come un centro periferico, ma piuttosto come
competenza e volontà, specialmente politica. Ma sono comunque tutte pratiche possibili. Ora. Non stiamo parlando in maniera astratta; per questo motivo mi servo di numerosi esempi, alcuni li ho inseriti nel libro e tanti altri ancora sarebbero da citare. Mettendo insieme le esperienze presenti in questo volume ho voluto provare a trasmettere il fatto che tante cose sono possibili, molto, ma molto di più di quanto qui si è soliti immaginare e prevedere. Certo, si può anche pensare di continuare a vivere in uno stato da bella addormentata, ma, come scrivo nel libro, bisogna fare molta attenzione, perché le città si trasformano comunque. Se si trasformano attraverso una progettazione che punta a cogliere tutti i potenziali e a svilupparli in una maniera virtuosa, il cambiamento avviene in questa determinata direzione, e a riguardo abbiamo tutta una serie di esempi positivi in giro per il mondo. Altrimenti, in ogni
giovani che amano Venezia, accrescendo in loro la cognizione profonda della sua essenza, su cui poi lavorare al meglio per provare a rianimarla. Faccio sempre l’esempio di Porto in Portogallo: ci sono andata quindici anni prima e versava in condizioni peggiori di Venezia, meravigliosa ma assolutamente decadente, mentre tornandoci di recente ho trovato una città giovanissima, con un’energia pulsante incredibile. Secondo me la soluzione per svegliare la bella addormentata è proprio lavorare con le nuove generazioni per far sì che facciano loro una piena consapevolezza delle potenzialità vive di questo luogo. Mi rendo conto che al punto in cui oggi siamo arrivati, ossia prossimo al non ritorno, l’impresa appaia oggettivamente disperata. Io stessa, che durante l’emergenza Covid mi sono spostata in campagna, tornando mi sono trovata in difficoltà di fronte a una città immobile; mi sono ritrovata a chiedermi se
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Mariachiara Marzari: La cosa che tristemente emerge è che ai più manca la consapevolezza della specificità qualitativa di questa città. Per provare a scardinare questa diffusa disposizione è a mio avviso indispensabile lavorare sui
voglio davvero vivere qui, in questa immobilità. Bisogna davvero fare qualcosa che rappresenti un di più di un procedere progressivo. Quello è un obbligo che viene dopo. Dopo aver prodotto uno scarto. Di questo ora necessitiamo. MB: In maniera molto radicale penso che il dato su cui si debba prioritariamente lavorare sia esattamente quello di una ridefinizione della struttura residenziale, sociale di questo luogo complesso e sempre più ingessato. Non ripongo molta speranza su chi risiede in città oggi. Ovviamente le generalizzazioni sono sempre sbagliate, però a parte un’inevitabile e per fortuna vitale minoranza con la testa aperta, il grosso della società civile la vedo avvitata attorno a sé senza vie d’uscita prospettiche serie. No, io ritengo che il cambiamento non possa più venire da una spinta dal basso; troppo tardi, troppa poca energia tangibile nel cuore di una cittadinanza erosa nei numeri
Venezia, 2016
e nelle pulsioni da decenni di non-politiche. Inevitabilmente ci deve essere oggi in primis una scossa che proviene dall’alto, da una rinnovata lucidità istituzionale, non vedo altra possibilità. Ci vogliono delle visioni complesse, ambiziose e percorribili, per disegnare le quali sono necessari innesti esperienziali in termini di programmazione urbana da tutto il mondo: non è possibile che una città del genere non abbia dirigenti di livello europeo, è semplicemente ridicolo e drammatico. Solo ridefinendo l’idea di città da qui a un trentennio, affrontando prioritariamente il tema della nuova residenzialità connessa a nuove funzioni e insediamenti conseguenti a questa stessa nuova idea di città, solo così facendo, e ben facendolo, tra dieci anni il basso potrà di nuovo divenire protagonista vitale, attivo del futuro di una Venezia oggi senza un’anima, un’identità leggibili.
SP: Con tutto il rispetto delle proporzioni, ho sempre fatto un paragone tra Venezia e New York, o meglio Manhattan, perché al netto delle difformi dimensioni la vocazione delle due città è assolutamente identica. New York vive di persone che vengono da fuori ed è una città del mondo proprio per questo motivo. A mio avviso, tra i suoi tanti potenziali Venezia possiede anche questo. Che è più di un potenziale in realtà, perché già ora è un po’ New York, considerato che i veneziani di oggi sono, anzi direi siamo, in una buona loro parte residenti acquisiti. I ‘nativi’ veneziani che amano profondamente la città ci sono e tramandano tradizioni meravigliose che speriamo rimangano, come speriamo rimangano i loro figli e nipoti, ma parallelamente, in una prospettiva virtuosa e radiosa, bisogna non essere esclusivi: essere veneziani autoctoni orgogliosi è bellissimo ma non basta. Io auspico che, come già è successo negli ultimi decenni, ci siano tantissimi nuovi veneziani che arriveranno qui a insediarsi: il ripopolamento di un’identità civica attiva può avvenire solo così. MB: Ma quanto è permeabile la città dal tuo punto di vista? A dispetto della trita e comoda immagine di porta d’Oriente sempre aperta al mondo, quanto di fatto Venezia è davvero aperta a chi vuole venire qui con un progetto valido, contribuendo così attivamente e fattivamente a determinarne le sorti? È minimamente consapevole del suo stato di malattia per la cui gravità necessita di qualcuno che l’aiuti a diventare più forte? Personalmente credo di no, per cui ritengo che vi sia la necessità urgente di accendere una sorta di ‘conflitto’, mi si passi il termine un po’ deciso, di produrre uno scarto per andare da qualche parte: è necessario che decenni di incrostazioni mentali vengano scardinate da una scossa sin dalle fondamenta di istituzioni abitate sempre dai soliti noti, e per soliti noti intendo “tipi umani”. Per quanto la città fatichi per l’appunto ad essere attrattiva residenzialmente, il novanta per cento degli individui che personalmente frequento è gente proveniente da mille altri dove che ha scelto fortemente di vivere qui. Ciò nonostante in trentacinque anni che vivo a Venezia potrei contare sulle dita di una mano, se va bene di due…, il numero di questi nuovi residenti che hanno trovato le porte aperte per la loro competenza, intelligenza, resilienza (ebbene sì!) nelle stanze dei bottoni della città. È per questo che se non si produce un cambio di marcia nella selezione di nuove figure che escano dal
cliché della trita e ormai stucchevole “venezianità”, e lo si può fare solo scegliendo nuovi capitani di navigazione provenienti da altri mari, questo trend non si interromperà mai. SP: Dalla politica slittiamo verso la sociologia, ma quasi più nella psicologia direi, nel senso che sono d’accordo con quello che tu dici, però è anche vero che credo che la soluzione non sia quella di sfidare l’orgoglio, anche se di orgoglio ne è rimasto ben poco. Sopravvive tuttavia un orgoglio di resistenza che non va sfidato proponendo qualcuno da fuori, perché di solito questo genere di azioni, che assomigliano al commissariamento, non funzionano e non vengono accettate in nessuna comunità. La città deve trovare le forze al suo interno. MB: Quello a cui mi riferisco è una sana disposizione verso la permeabilità, avere una libertà mentale che permetta di rendersi conto che per rigenerarsi c’è bisogno di altre esperienze, capaci di dare una forte spinta andando anche a rivitalizzare l’orgoglio e le tradizioni. La difesa dei mestieri va benissimo, ma in sé e per sé è un’azione di mera, per quanto eroica, resistenzialità se non è accompagnata, supportata da una vera apertura mentale al mondo, al “di fuori” che divenga un “di dentro” con piena patente. E quale città italiana ha il mondo che gli arriva in casa quotidianamente come Venezia? È un paradosso che fa ammattire: ma come, hai fondazioni, singoli individui, potenziali mecenati più che fidelizzati, direi perdutamente innamorati di questa meraviglia urbana, e non riesci a coinvolgerne praticamente uno ad aiutarti a crescere, a cambiare! Trovo questo dato più che eloquente nel misurare il grado di coscienza di sé e del proprio senso di esistere futuro della classe dirigente e più estesamente della società civile veneziana. PL: Individuare chi, quando e da dove si possa davvero innescare la miccia del cambiamento è impresa sempre ardua e certo connessa alla specificità di ogni singolo contesto, qui da noi per definizione unico. Il tema sicuramente è quello che investe la capacità di una società, di una comunità di assorbire in maniera virtuosa e partecipata l’innovazione. Ne abbiamo accennato prima intorno alla tua esperienza di Amburgo. Quando fu realizzata HafenCity, il processo si innescò in una zona industriale, più precisamente in un porto, quindi seguendo una visione più complessiva della città che andava ben oltre il classico centro storico. Furono 13
VISIONI attuate delle precise politiche di accoglienza con residenze a basso costo destinate a nuovi cittadini, circa 40mila o forse qualcosa in più, che sono poi divenuti nel loro insieme la popolazione di HafenCity, che con la propria vitalità ha dato il là alla rinascita di Amburgo. Noi continuiamo in questo gioco di pensare che siano necessarie nuove generazioni di residenti, di persone che comprendano lo spirito della città, entrando a far parte di un progetto principalmente dedicato al centro storico al fine di proteggere esclusivamente l’identità del passato. Ma vi è anche, e verrebbe da dire soprattutto, da giocare la carta dell’innovazione che va ben oltre la mera, per quanto imprescindibile, difesa del patrimonio artistico e storico. La questione su cui riflettere è quindi che Venezia non è solo il suo centro storico, ma piuttosto un organismo estesissimo e composito che comprende anche la Laguna nella sua interezza, Marghera, Mestre. Quando
necessariamente collocati tutti nella città storica: quel progetto esemplificativo di cui parlo su Marghera potrebbe essere a mio avviso una delle possibilità aggiuntive per creare nuovi interscambi, perché se si riuscisse a compiere un’azione di tale spessore su una parte di Marghera, ciò comporterebbe la creazione di nuovi posti di lavoro per persone che potrebbero trovare residenza lì come nella città insulare. Viceversa anche persone che non trovano abitazioni adeguate a un prezzo ragionevole potrebbero trovare casa a Marghera e continuare a lavorare a Venezia. È fondamentale questa interazione tra le parti di questo complesso urbano polifonico, peraltro tutte di grandissima qualità. Se si riuscisse a dare seguito tangibile a quello che a me piace definire il progetto della città delle acque, perché questa è sempre stata la città non dell’acqua, ma delle acque, con la terraferma più prossima, ossia Mestre e Marghera, anch’essa collegata in pochi minuti
Marghera città dell’innovazione (Laboratorio IUAV)
Marghera città dell’innovazione, masterplan (Laboratorio IUAV)
tu illustri nel libro i progetti su Marghera forse pensi che dentro a questa ricerca di innovazione ci sia anche, e necessariamente, un territorio che esula dall’esclusiva immagine iconografica di Venezia. SP: Assolutamente sì. Il punto da centrare credo sia proprio questo. Un progetto simile a quello realizzato ad Amburgo è esattamente quello che ho portato avanti con gli studenti dello IUAV in un laboratorio di progettazione su Marghera. Un’area industriale, e ancor più oggi postindustriale, con tutta una serie di nodi irrisolti che potrebbe essere uno dei motori di richiamo cruciali per aziende di diversi settori tecnici, innovativi e produttivi, e per soggetti attivi nella produzione culturale. Il che, conseguentemente, porterebbe nuova residenzialità attiva, nuova linfa vitale anche in termini generazionali. I nuovi residenti non devono essere 14
di vaporetto alle Zattere o alle Fondamenta Nuove, con un’eccellenza di progettazione in termini di sostenibilità ambientale e di qualità architettonica come io propongo, anche quella parte di città del Novecento guadagnerebbe una attrattività straordinaria non solo per sé, ma anche e soprattutto per Venezia nel suo complesso. MM: Nel mettere a posto le carte di mio padre ho trovato delle foto pazzesche dei primi del Novecento dove si vede che il sistema fluviale penetrava incredibilmente il territorio arrivando fino a Portogruaro e a Padova, permettendo di spostarsi con le barche tra le città. Avevamo una penetrazione simile a quella che c’è in Olanda! SP: La Venezia insulare è una città super compatta, ma tale compattezza, che è uno dei
principi fondamentali della sostenibilità della città, funziona quando si ha una compensazione nel suo senso contrario e Venezia ha 550 chilometri quadrati d’acqua attorno a sé: un parco d’acqua straordinario! Allora perché questa città ha una eccezionale qualità insediativa? Proprio per la sua compattezza e la sua espansione naturale. Una senza l’altra non esprimerebbe la stessa qualità. La stessa cosa vale per Mestre e per Marghera, che conta oggi duemila ettari di area industriale di cui 1.850 devono essere ristrutturati e trasformati in sintonia con i programmi del Green Deal europeo in una green economy complessiva come area industriale. Anche questo è un patrimonio immenso che dobbiamo saper sfruttare. Una piccola parte di questo territorio, come abbiamo proposto con i nostri laboratori, potrebbe essere trasformata per integrare quella che dovrebbe essere una istituzione importante per Venezia come il Parco scientifico e tecnologico VEGA, oggi periferico, agganciato a un pezzo di autostrada. Così avrebbe l’occasione di diventare un vero polo d’innovazione inserito in una parte di città viva, dove ci sono abitazioni, uffici, locali e ristoranti, e assumere un ruolo molto più centrale nell’articolato urbano. Una parte di città che sarebbe legata oltre che all’autostrada e alla ferrovia anche all’acqua e dunque raggiungibile con il vaporetto. Questi sono i meccanismi attraverso i quali svelare il potenziale della città nella sua complessità trasformandolo in realtà. Per rispondere al tema della città d’acqua: nel libro affermo con forza che il centro di questa città non è l’isola principale, l’erroneamente cosiddetto “centro storico”, ma è l’acqua, è la laguna. Un ecosistema in cui si affacciano l’isola principale, le altre isole, Murano, Burano, il Lido, Pellestrina, le isole minori, magari un giorno potrebbe rinascere anche Poveglia: una vera e propria costellazione di terre emerse in questo grande specchio lagunare. Quindi abbiamo la città insulare nel suo complesso, l’acqua che la connette e la città di terraferma che è anch’essa completamente penetrata dalle acque. In questo contesto anche Mestre ha un potenziale enorme con l’acqua e con il verde: i grandi progetti dei boschi sono frutto di una bellissima intuizione in parte iniziata che sarebbe assolutamente delittuoso non portare avanti a dovere. Ci sono anche degli strumenti istituzionali utilizzabili, vedi il Contratto di Fiume. L’acqua è la vera matrice connettiva di questo organismo complesso, sì.
MM: Credo che anche il Lido rappresenti una di quelle entità della città delle acque che meriti finalmente di essere ripensata valorizzandone radici storiche, architettoniche, naturalistiche che costituiscono un insieme senza eguali nel nostro litorale e non solo. SP: Eccome! Come accenno nel libro, il Lido è una città e un’isola straordinaria grazie alla profondità storica e culturale di Venezia, che tra le sue tante ‘resistenze’ è riuscita a farsi virtuosa nell’opporsi a un tipo di sviluppo standardizzato e omologato. Ciò ha fatto sì che questa lingua di terra tra mare e laguna non diventasse una Malaga, una Torre Molinas o una Jesolo, ossia una classica città turistica balneare di massa, preservandosi quale perla della natura e della cultura architettonica pre-boom con un patrimonio liberty di rara fattura, espressione di una città che a cavallo tra ‘800 e ‘900 sapeva ancora pensarsi bene e in grande, e per grande
Marghera Via dell’Elettricità (Workshop IUAV)
intendo perseverante tensione verso la qualità. Ma proprio questo tratto alto meriterebbe un’altrettanta tensione verso la valorizzazione futura di un tale patrimonio così ottimamente preservato, tensione che è praticamente evaporata da decenni. Pochi ancora conoscono davvero cosa sia il Lido, un mix di qualità storico-architettonica e di natura di straordinario pregio e di rara originalità. MB: È riuscito a resistere così grazie a una visione, a una scelta mirata, oppure anche per un’incapacità di tenere alto il livello attrattivo di quest’isola oggettivamente meravigliosa? Quesito che pongo in termini puramente retorici, poiché la risposta è nelle cose, lì. Perché il Lido è un altro di quei luoghi ‘assurdi’, fantastici di questa città dalle mille entità, con i suoi vuoti e i suoi pieni. In tutta onestà conosci qualcuno che ha la percezione di venire a Venezia per
andare al mare? Io non ho un solo amico che viene da fuori pensando che a Venezia si possa andare in spiaggia. È una fortuna che non ci sia quel tipo di turismo di massa che così spaventosamente deturpa il centro storico, però la crisi degli alberghi, con il Des Bains chiuso e via dicendo, l’incapacità da decenni in qua, pure qui, di elaborare uno straccio di progetto programmatico per un turismo di alta qualità, tra mare e Biennale, è pura follia! O forse, più prosaicamente, mera insipienza. SP: Il Lido è un’occasione unica, perché oggi, così come a Marghera si può pensare di creare un quartiere innovativo a livello europeo con ventimila abitanti e magari trentamila posti di lavoro, al Lido si può invece provare a progettare e realizzare un’eccellenza di tipo ambientale proprio perché non vi è stato il massacro architettonico e urbanistico degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Che sia stata una visione o meno poco importa ora; di fatto oggi è così e questo aspetto lo possiamo considerare come un valore aggiunto straordinario. Venezia isola, Marghera, Mestre, Lido, Murano, Burano, le altre piccole e grandi isole, le vie d’acqua, molte purtroppo nel tempo interrate, che entra(va)no profondamente nell’entroterra: questa la sequenza di potenzialità che dovremmo poter cogliere in un piano ambizioso quanto percorribile. PL: Mi è capitato recentemente di leggere Countryside, l’ultima pubblicazione di Rem Koolhaas, che come sempre è un personaggio controverso e un po’ divisivo, ma in ogni caso grandissimo teorico. Il tratto connotante che io ho colto del libro è la riflessione su come noi riusciamo a dimenticare che metà del nostro pianeta è un indefinito, per l’appunto, countryside, mentre la nostra presunzione negli ultimi decenni ci ha portato a occuparci prevalentemente, se non proprio esclusivamente, della crescita delle città e del costruito, senza pensare che nel tema del countryside ci sono delle direzioni nodali del nostro vivere il pianeta Terra oggi e, soprattutto, domani. Aggiungo a questo dato il fatto che il post-Covid ha sicuramente evidenziato il bisogno di avere una società e città in cui la salute pubblica divenga elemento centrale del nostro vivere insieme, il che significa mangiar meglio, il che comporta non soltanto un uso della natura che ci circonda più generalmente corretto, ma anche e soprattutto un utilizzo intelligente e proficuo dell’agricoltura locale. Senza consi-
derare la valorizzazione qualitativa in termini assoluti del tempo del nostro vissuto e dello spazio pubblico. Restiamo un momento sul tema della salute. Venezia aveva delle isole dedicate alla produzione agricola in maniera assai intensiva: Sant’Erasmo, il Lido stesso. Qualcosa ancora resiste. Ci sono degli agriturismi che noi con le nostre sanpierote andiamo regolarmente a frequentare, a Lio Piccolo per esempio ce n’è uno meraviglioso dove si possono trovare i carciofi violetti di Sant’Erasmo; o come non andare ad assaggiare le sparesee delle Garzette del Lido? Solo due tra le svariate opportunità territoriali che la laguna sa ancora offrire. Mi ha fatto quindi molto piacere notare che nel tuo libro affronti il tema rurale di cui si parla ancora purtroppo molto poco. Dobbiamo ricordare che durante la Serenissima vi era l’autosufficienza anche alimentare, che sembra solo a dirsi quasi incredibile oggi. È un argomento che anche grazie al libro di Koolhaas sta diventando molto interessante nel nostro presente: non soltanto costruito e natura, ma agricoltura come modificazione della natura ai fini legati alla produzione locale. Su questo tema, che qui da noi necessariamente investe le nuove isole, le isole litoranee, Pellestrina e via discorrendo, hai posto una certa attenzione nel tuo lavoro congiuntamente, va da sé, al tema della pesca lagunare. Le risorse del futuro anche in questo senso sembrano mostrare un’attualità di Venezia che altri contesti non possiedono. MM: Aggiungo una cosa a corollario di questo: il problema del Mercato di Rialto. Ma come, in tutte le città i mercati sono ridivenuti luoghi di aggregazione delle comunità, con una crescente valorizzazione dei prodotti territoriali, e qui, nel pieno di questo ecosistema lagunare con prodotti di terra e di acqua peculiarissimi, non riusciamo a rilanciare un mercato di una profondità storica e di una bellezza architettonica senza eguali? SP: Sono questioni legate. Il sistema insediativo Venezia è fatto proprio di questo equilibrio, che non è solo il risultato storicamente armonico tra opera dell’uomo e natura, tra artificiale e naturale, come sottolineo più volte nel libro, ma è precisamente un equilibrio nel senso che intendi tu, poiché c’è la possibilità – senza voler per questo arrivare a immaginare oggi una oggettivamente utopica autonomia e indipendenza alimentare – di una produzione intrinseca nel sistema, che sia di pesca o di eccellenze 15
VISIONI agricole, vedi i carciofi di Sant’Erasmo o le sparesee delle Garzette come dicevi. Ma non solo, in Laguna si sta ricominciando a produrre il vino e anche le produzioni nell’immediato entroterra che possono essere integrate. Tant’è che ci sono i mercati rionali, come quello che si tiene ogni lunedì a Santa Marta; io addirittura auspico che questi mercati vengano distribuiti in molte parti della città, portati in giro utilizzando i ferryboat. Lo scopo di tutto l’insieme di queste idee è rendere questa città ancora più confortevole e attraente per viverci. Il punto nodale è che Venezia, come tutti sanno, è stata una città densamente abitata per secoli e solo in questo nostro tempo, in questi ultimi decenni, i più progressivamente sono arrivati a concludere, chi più apertamente chi tacitamente, che essa non corrisponda più ai canoni della modernità. Il che è certamente ben corroborato dai numeri deprimenti che conosciamo in termini di resi-
zione, utilizzare un mezzo di spostamento che coincide con il nostro organismo fisico, quindi fare movimento adempiendo alle incombenze quotidiane e non per meramente provare a buttare giù i chili di troppo, otteniamo uno stile di vita salutare. In relazione al tema Covid, poi, mi sembra che anche in una situazione così emergenziale, dal lockdown alla ripartenza, per l’ennesima volta gli spazi della città abbiano dimostrato di essere talmente flessibili da riuscire ad affrontare condizioni di tale criticità meglio di molti altri spazi urbani.
Ferry Cinema
Ferry Mercato
denzialità. Ma è proprio questo il paradigma da ribaltare, perché è un ragionamento sbagliato, come dimostrano le cose che stiamo dicendo, ossia che Venezia è, per concretissime caratteristiche di vivibilità, una città del futuro. Importantissimo è quello che diceva Paolo. Il discorso comodità/scomodità, ovvero: è più comodo avere i carciofi portati con la barca da Sant’Erasmo o andare nei centri commerciali della terraferma con la station wagon e far spesa per tre settimane acquistando mucchi di cose da stipare nei freezer? Sono stili di vita diversi. Il grande potenziale della città ha assolutamente a che fare anche con la salute. A un certo punto nel libro parlo proprio del fatto che nella vita quotidiana camminare è una delle principali attività per mantenere una durevole salute fisica, tant’è che qui vi è una longevità piuttosto elevata. Se si mettono insieme tutti questi fattori, ossia avere una produzione agricola sana a disposi-
al massimo un quarto d’ora per muoversi e raggiungere i luoghi e i servizi necessari per la sua vita quotidiana, a piedi o in bicicletta. Una realtà di questo genere, nel mondo, trova solo un esempio così concepito fin dalle sue origini: Venezia. Ecco allora che il tema della comunità diventa un tema dell’architettura, visto che probabilmente noi architetti verremo chiamati a disegnare cose per comunità più piccole. Quali potrebbero quindi essere a tuo modo di vedere a Venezia i progetti più urgenti a riguardo?
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PL: Recentemente ho letto la visione post Covid di un sindaco che mi piace molto, Anne Hidalgo, prima cittadina di Parigi, rieletta in queste settimane con l’appoggio fondamentale dei nuovi gruppi ambientalisti francesi, da lei definita la “città a 15 minuti”: una città policentrica costituita da quartieri autosufficienti nella quale ogni residente impiega per l’appunto
SP: Magari può risultare difficile credere, parlando della città insulare, che le zone di Rialto o di San Marco possano tornare a essere riabitate in termini di comunità, ma altri sestieri, come ad esempio Dorsoduro, anch’esso però colpito negli anni da una grossa perdita di residenzialità, o Cannaregio e la Giudecca, hanno visto aumenta-
re questo senso di comunità o addirittura, in alcune loro circoscritte aree, aumentare i residenti, soprattutto nel caso della Giudecca. Anche Castello, San Polo e Santa Croce vantano uno spiccato senso della comunità. Quindi, come si vede, non tutto è perduto: la base per ri-cementare una residenzialità viva, non parcheggiata, se così si può dire, c’è ed è forte e resiliente. Ovvio che le onde di corrente contraria a cui la città è crescentemente sottoposta la stanno logorando. Però c’è ancora questa base, eccome. Nel libro parlo della possibilità di trasformare il porto in una nuova zona abitata della città, in una sorta di nuovo sestiere in sostanza, con caratteristiche fortemente proprie, altre rispetto agli altri sestieri storici. Potrebbe essere una zona a forte connotazione verde, capace di vivere della propria profonda vocazione nautica al meglio, assecondandola non necessariamente da un punto di vista meramente tecnologico, bensì offrendo servizi e nuove opportunità insediative a basso costo a favore di nuovi residenti e della produzione artigianale. Abbiamo portato avanti due laboratori su questo argomento: il primo, Un ponte tra la città e il porto, dedicato alla zona del Canale della Scomenzera; il secondo incentrato invece sulla conferma del porto come fulcro di una crocieristica compatibile con quelle che sono le necessità della vita lagunare, con esempi che in Europa e nel mondo già si sono felicemente imposti, caratterizzati da imbarchi più veloci di gruppi di persone più limitati, con transennature provvisorie che occupano le fondamenta solo durante le procedure di imbarco, lasciandole poi libere per ogni altro tipo di fruizione sociale, ludica o di servizio che sia. Un’altra zona ancora del porto potrebbe poi essere destinata ai luoghi per il divertimento dei giovani, rappresentando il compromesso ideale per fare in modo che il contesto cittadino offra occasioni di svago senza perdere alcune delle proprie più apprezzabili prerogative, vale a dire il silenzio e la tranquillità. PL: Bellissimo a questo riguardo il progetto relativo all’uso dei ferry boat, da poter periodicamente utilizzare anche come sale cinematografiche o come mercati, in giro per la laguna. SP: Nel libro parlo anche della possibilità di utilizzare i ferry boat per ospitare ambulatori medici, non limitando il discorso al semplice svago, ma allargandolo alla possibilità di rendere queste piattaforme mobili il più possibili funzionali alla vita cittadina in termini di servizi.
MM: La zona del porto si presterebbe in maniera davvero calzante a ospitare concretamente il concetto di smart city. SP: Assolutamente, con tanto di hub per poterci arrivare in bicicletta direttamente dalla terraferma. PL: Si tratterebbe di un luogo in cui potrebbe trovare la scintilla decisiva una comunità che per certi versi si sta già formando. MB: Il tema dei temi è proprio questo intreccio di politica della residenzialità, politica del turismo e politica del commercio e delle attività economiche, la commistione equilibrata di tutte queste nodali componenti in gioco. Come si può delineare l’insieme coordinato di queste diverse vocazioni? Ci dimostriamo sempre pronti a esprimere disprezzo per un turismo di massa invasivo nei modi e nei tempi, ma siamo ben consapevoli di come esso non possa sparire dall’oggi al domani. Ma neanche debba, perché è pura utopia anche discriminatoria immaginare di selezionare chi più ci piace come visitatore ideale. La selezione, o meglio, la distribuzione dei grandi numeri che compongono questa quotidiana massa di turisti che ci travolge richiede una programmazione forte, nuova, che preveda non ticket ma forme di prenotazione, che preveda una migliore comunicazione concentrata sull’intensità alta della qualità dell’offerta turistica della città, oltre la mera logica dell’itinerario due ore e via. L’emergenza sanitaria ha concesso opportunità ulteriori di riflessione a riguardo, che tuttavia rischiano di durare solo fino a quando l’onda emotiva non si sarà placata senza conseguenti, mirati interventi guidati da visioni a lungo termine. Come produrre allora questo scarto netto di visione sul rapporto tra turismo di massa e abitabilità? Quanti, e soprattutto quali spazi in città si prestano a fare da chiave di volta per una rivoluzione abitativa, residenziale? SP: Il primo, fondamentale passaggio è riconoscere come tutte queste componenti siano indissolubilmente legate tra di loro. Sono convinto che la residenzialità non si ottenga semplicemente mettendo a disposizione abitazioni, cosa peraltro auspicabile, ma portando in città attività economiche che abbiano come logica, necessaria conseguenza l’arrivo di nuovi abitanti. Vedo questo come un processo doverosamente circolare, che potrebbe interessare non solo le zone di Marghera o della Scomen-
zera, per rimanere a due aree su cui ci siamo prima soffermati, ma tutti, in diverse forme e modalità, i sestieri e i quartieri. Che so, penso ad esempio alla Giudecca o a Murano, luoghi ideali in cui sarebbe possibile insediare start up di significativo interesse e sinergiche con altre attività produttive. L’obiettivo dovrebbe essere quello di legare assieme nuove tecnologie e abilità artigiane, impulso che in certi ambiti si sta già dando, a volte con maggior fortuna, altre volte più faticosamente, investendo anche e soprattutto nell’ambito della formazione universitaria, ma non solo. La combinazione di questi fattori, se opportunamente equilibrata e sviluppata, potrebbe allora sì regalare una nuova attrattività residenziale alla città. Ritornando ancora un attimo ad Amburgo, mi vengono in mente le discussioni portate avanti nel 1994/95 dall’allora Oberbaudirektor Egbert Kossak. Come affermava spesso anche nei
popolati e con alte concentrazioni di talenti e di diverse professionalità: Venezia potrebbe tornare a essere considerata tra le migliori piccole città al mondo se ai giovani venisse data la possibilità di eccellere nei propri ambiti professionali, divenendo calamita per aziende in cerca di soggetti qualificati ai massimi livelli. Dopo aver raggiunto un alto livello di attrattività ci si potrebbe dedicare alle soluzioni, e ve ne sono infinite, per la nuova residenzialità. MB: Una cosa che mi ha sempre colpito è l’oggettiva difficoltà di restituire a persone, amici che vengono a trovarci in questa città altra, il dato della straordinaria vivibilità che Venezia offre a chi qui è nato o vi si è insediato. Accanto allo stupore rapito leggi sempre negli occhi, ma lo senti poi anche direttamente dalle voci, questa sorta di straniamento, di difficoltà
Marittima, parco e porto abitato (Laboratori IUAV)
Scomenzera: un ponte tra la città e il porto (Laboratorio IUAV)
dibattiti pubblici, Kossak era fermamente convinto che se una grossa azienda avesse voluto stabilire un proprio quartier generale in Europa la scelta sarebbe caduta tra grandi città portuali come Rotterdam, Amburgo o Marsiglia, su quelle che più di altre si fossero dotate di aree verdi, attrezzature sportive, offerta culturale, buone scuole, case di alto livello per i dirigenti che si sarebbero dovuti stabilire lì e alloggi a costi sostenibili per gli impiegati e gli operai che in quelle aziende si sarebbero poi trovati a lavorare. Un ragionamento semplice quanto efficace. A Venezia non sembra mancare niente, anzi abbiamo molto di più: la bellezza, la qualità architettonica e naturale, il verde e l’acqua, l’arte e una programmazione culturale di livello mondiale. Manca però il lavoro. Nel libro spiego come ai giorni nostri non siano più le persone a spostarsi verso le aziende, ma piuttosto le aziende a spostarsi nei luoghi densamente
di lettura di un possibile, risolto quotidiano in questo luogo di acqua, di pedonalità, di gradini, ponti, di pesi da spostare a mano. Alla fine, al netto di una corposa minoranza che riesce immediatamente a leggere diversamente anche in questo senso la città, rimane in queste persone una disposizione contrastata, a forbice aperta: estasi estetica, estraneità e diffidenza per il vissuto quotidiano, il cui tratto che rimane impresso è quello della difficoltà, degli ostacoli alla comodità che questa città porrebbe incessantemente. È molto difficile far capire loro davvero quanto le difficoltà, indubitabili anch’esse nella loro unicità, siano nettamente inferiori rispetto a ciò che questa città sa regalare in termini di socialità, di piacere visivo continuo, di bellezza irriducibile e vivibile corporeamente a cui non ci si può mai, proprio mai, abituare. La minoranza che comprende ciò, tra cui molti adulti da vari dove che qui 17
VISIONI decidono di venire a passare l’ultima parte della loro vita, conclude quasi sempre che non vi sia città migliore al mondo in cui vivere giorno per giorno. Eppure rimane il dato della difficoltà forte nel trasmettere ciò a una larga maggioranza diffidente, per quanto comunque estasiata dalla visione di questa meraviglia. SP: A Venezia c’è “l’assenza della bruttezza” e “l’assenza del superfluo” a rappresentare l’autentico valore aggiunto. Basterebbe anche solo lavorare su questo dato oggettivo per attrarre anche in termini di vivibilità più persone. PL: Un bellissimo passaggio del libro è il parallelo che tracci tra un tragitto di 20 minuti nel centro di Venezia e uno, di uguale durata, all’aeroporto di Francoforte che dall’entrata ti permette di raggiungere il gate. Il tempo è lo stesso, l’immersione nella vita sideralmente altra. SP: Mi fa piacere che lo ricordi perché questa della misura è una questione interessante che ha a che fare con gli stereotipi della modernità, spesso malintesa; se Venezia è “inadeguata” al vivere moderno perché pedonale, come mai un grande aeroporto dove si è costretti a camminare altrettanto è considerato invece un tempio della modernità? In termini di vivibilità è anche emblematico il rapporto che i bambini instaurano con questa città. Crescere qui per un bambino è un’autentica fortuna, un’esperienza impareggiabile. La possibilità di andare a giocare in campo in maniera autonoma, senza per forza essere scarrozzati dai genitori o comunque dover prendere diversi mezzi di trasporto per raggiungere uno spazio adatto al gioco, è qualcosa di impagabile, che pochissime altre città al mondo sono in grado di offrire. È solo uno dei tanti esempi utili a comprendere come sia proprio la vivibilità il vero, inimitabile valore aggiunto di questa città. Il tema peraltro andrebbe, eccome, sviluppato anche nella direzione del turismo di qualità, perché esaltare il dato della vivibilità non serve solo ad attrarre nuova residenzialità, ma anche e in maggior misura a comunicare delle modalità corrette e assai più intriganti di vivere la città da visitatori attenti e più consapevoli di tutta la sua complessa e variegata ricchezza. Il ragionamento che porto avanti potrebbe essere considerato per certi aspetti addirittura utopico: considerando questo territorio e le sue destinazioni e funzioni come un grande puzzle, in cui appunto, ogni tessera deve necessariamente combaciare con mille altre, penso sia 18
necessario esaltare ai massimi livelli le diverse vocazioni della città e soprattutto comunicarle al mondo in maniera efficace, a partire per esempio dal simbiotico rapporto con l’acqua, di cui Venezia potrebbe ambire a pieno titolo a essere considerata capitale mondiale. È necessario creare una “narrazione contemporanea” di Venezia, vista l’immanenza di un passato che nessuno può toglierci. È il contemporaneo che deve essere comunicato al resto del mondo, oggi più che mai. Una delle tesi centrali del libro è che questa città potrebbe rappresentare nel mondo un Patrimonio dell’Umanità non solo grazie ai propri meri per quanto ineguagliabili monumenti, ma per lo stile di vita sostenibile che induce e promuove, quindi come modello ed esempio concreto di sistema insediativo sostenibile. Questo nuovo paradigma potrebbe essere un motore di rara efficacia nel promuovere nel mondo Venezia attraverso una comunicazione
te, un contesto in cui posso decidere da che punto del percorso partire per esempio, magari spingendomi con la macchina oltre il punto di partenza del circuito, dove vi sono le biglietterie, perché giustamente oggi anche sulle piste di fondo preparate si paga un biglietto seppur di modica entità. In questo secondo caso, lo sciatore percepisce consapevolmente di poter godere di questi lunghi percorsi sciistici grazie al lavoro di chi quelle piste le ha battute con il gatto delle nevi, curandone la manutenzione. Scatta in questo modo un meccanismo inclusivo, in cui lo sciatore si responsabilizza, si sente parte di una comunità, magari per poco tempo ma in maniera totale e partecipata, sentendosi a proprio agio nell’andare in paese dopo la sciata pagando l’utilizzo della pista su cui si è divertito e trattenendosi lì per il pranzo o la cena, facendo girare l’economia di un piccolo o medio centro di montagna che di questo vive. Padroneggiare un meccanismo di questo tipo
Aeroporto di Francoforte - percorso a piedi di 20 minuti
Venezia - percorso a piedi di 20 minuti
forte, capace di parlare a tutti di futuro con la sola lingua della qualità. I turisti non devono solo sentirsi liberi di visitare Venezia, semplici fruitori in velocità di una bellezza fine a sé stessa, ma considerarsi componente fondamentale di un più ampio processo di tutela della città. Solo questo potrebbe garantire a Venezia un futuro come città vivibile, oltre che sostenibile. Ragionando su queste dinamiche si potrebbe pensare alla limitazione dei visitatori secondo una politica che io definirei dei “non tornelli”. Prendiamo come esempio un impianto sciistico di discesa: pago un biglietto, mi metto in fila ai tornelli e salgo con la funivia. Se invece pensiamo ai comprensori di sci nordico, con percorsi di 50 e più chilometri, entriamo in contatto con una logica differen-
rappresenterebbe una sfida civica che Venezia potrebbe oggi, con una comunicazione efficace, incominciare a vincere. PL: Magari partendo proprio dalle modalità di accesso alla città, che come tutti dicono andrebbero riviste ma che di fatto rimangono le stesse da sempre. Lo schema Ferrovia/Piazzale Roma-vaporetto-Piazza San Marco rimane un dogma inscalfibile, quando in realtà esisterebbero, esistono!, molti altri punti di accesso alla città che permetterebbero di decongestionare i soliti itinerari e di distribuire più sensatamente le persone tra i vari sestieri. Si dovrebbe avere il coraggio di porre i concetti di mobilità e accessibilità al centro di ogni progetto relativo al presente e al futuro della città, non secondo
una chiave protezionistica ma come comprensione del concetto di “approdo”. Chi dal vaporetto mette piede a Venezia sbarcando a San Zaccaria si è in realtà perso un consistente pezzo della città ignorando il quale non è possibile una comprensione piena, autentica della stessa. In quest’ottica si inserisce naturalmente anche il macroproblema, da anni irrisolto, delle Grandi Navi, l’arrivo delle quali andrebbe riconsiderato non solo per una questione paesaggistica, anche se questo è il tema prioritario, ma per via di un approccio culturale sbagliato alla città di cui la stessa certamente non beneficia. SP: Sulla questione Grandi Navi ho un approccio radicale e perentorio per due ragioni fondamentali: le considero incompatibili ambientalmente e fisicamente con Venezia perché producono danno e non servono alla città, o meglio non sono necessarie a un’economia sana della città. L’ho scritto in questo libro e già mi ero espresso in tal senso in un articolo dell’estate scorsa: sarebbe come avere un bel giardino in terraferma e invitare un amico a farci un giro dentro con il suo Tir. Una cosa semplicemente insensata, anche se si trattasse del migliore amico! E la questione non deve certo essere ridotta alla mera inconciliabilità estetica e alla questione ambientale: ricordiamoci bene del danno ai fondali, del pericolo per le fondazioni degli edifici e degli incidenti capitati la scorsa estate, che solo per circostanze fortuite non hanno causato vittime e danni devastanti al Patrimonio monumentale. Personalmente ero rimasto basito dal quesito referendario che interrogava proprio su dove far passare queste navi, senza contemplare l’opzione “da nessuna parte”, come se fossero una “entità ineluttabile”! Dico da nessuna parte perché, escludendo a prescindere la Marittima e Marghera poiché significherebbe la definitiva devastazione dell’ecosistema lagunare, anche se so che in città molta gente la pensa diversamente, sono fermamente contrario anche alla soluzione delle bocche di porto. Bisogna infatti considerare che le Grandi Navi che conosciamo oggi verranno nel giro di dieci anni soppiantate da navi da crociera ancora più grandi in grado di accogliere ancora più persone, colossi da 180.000 a 220.000 tonnellate: come è possibile anche solo immaginare di poter far stazionare quattro di queste “grandi città galleggianti” a Punta Sabbioni o a San Nicolò? E, visto che finora le Grandi Navi sono sempre state almeno otto in ogni weekend, come si può pensare che a
fronte di ingenti investimenti per costruire i nuovi terminal poi potrebbero essere tutti soddisfatti con ‘solo’ quattro navi? Nel caso delle bocche di Porto il problema cruciale è che ognuna di queste navi richiederebbe l’imbarco e lo sbarco di 6.000 passeggeri e di un migliaio di persone di equipaggio che dovrebbero essere imbarcati e sbarcati separatamente tramite decine e decine di lancioni, che seppur eventualmente ecologici, provocherebbero un traffico devastante in pieno bacino di San Marco e davanti a Murano per raggiungere l’aeroporto. Il trasporto dei bagagli, dei rifornimenti alimentari e di combustibile, le operazioni di manutenzione, genererebbero un ulteriore traffico di chiatte altrettanto insostenibile per l’intera Laguna. Credo sia inconcepibile anche solo immaginare situazioni del genere, anche se chi le appoggia continua a sostenere come il progetto abbia superato la Valutazione di Impatto Ambientale. Anche il MO.S.E evidentemente aveva superato tutte le valutazioni e
Sergio Pascolo, gruppo di lavoro IUAV
ottenuto tutti i permessi! Eppure dopo 6 miliardi spesi forse non funzionerà mai. Venezia deve essere una città-porto con una crocieristica sostenibile e compatibile con la città e con la Laguna. Non deve subire la crocieristica degli oceani, fuori misura: la crocieristica va resa compatibile, sostenibile, con imbarcazioni adatte sia dimensionalmente che ambientalmente. È una croceristica riorganizzata e adeguata che servirà alla città e alla sua economia. MM: Per concludere, un tema prosaico ma ineludibile: il denaro. A livello economico quali risorse richiederebbe la messa in pratica complessiva delle politiche che tu auspichi? SP: Non sono un economista e quindi qui le risposte andrebbero trovate collegialmente con
chi è assai più competente a riguardo. Sono però convinto di due aspetti cruciali ineludibili. Da un lato è necessario costruire una comunicazione che riesca a spiegare al mondo che Venezia è una città viva e abitata, meravigliosa e fragile, aperta al mondo, che può essere visitata da tutti ma a determinate condizioni. Ritengo sia plausibile e fattibile che la visita a Venezia venga programmata mesi prima, non improvvisata, per fare in modo che ogni singola visita rappresenti un gesto di autentico rispetto verso una città tanto bella quanto delicata. Da un altro lato ritengo sia necessario restituire la vitalità, la contemporaneità della città per attrarre aziende, risorse e persone, giovani in particolare, che la ri-abitino. Per quanto riguarda più specificatamente il tema delle risorse, sappiamo che la nostra è una società caratterizzata da un modello economico molto aggressivo e spregiudicato. Basti pensare alla crisi del 2008 con tutte le sue ferite ancora aperte. Ma esiste anche un mondo economico che sta diventando sempre più rilevante e che si fa portatore degli stessi valori di cui Venezia potrebbe e dovrebbe farsi emblema. I cosiddetti millennials sono ormai soggetti titolari di una carriera lavorativa avviata, a volte già come membri della classe dirigente, e investono nella stragrande maggioranza dei casi in progetti caratterizzati da una spiccata sostenibilità e responsabilità. Investimenti ormai noti come SRI, Socially Responsible Investing, con molte aziende che in questi progetti impegnano decine, centinaia di miliardi, garantendo ai propri investitori uguaglianza economica e sociale nei processi di governance. Cosa vuol dire tutto questo? Che se noi cogliamo a dovere queste evoluzioni di mentalità sempre più rapidi, realizzeremo che le generazioni successive ai millennials, a partire dalla cosiddetta “Generazione Z”, o post-millennials, comprendente i nati tra la seconda metà degli anni ‘90 e il 2010, vivranno questo impegno più ampio denominato fattore ESG, che sta per Environmental, Social, Governance, come dato assolutamente naturale, scontato, non prendendo neppure in considerazione progetti non caratterizzati da prerogative di questo tipo. In prospettiva, per concludere, la vera sfida è concretizzare nei fatti una narrazione contemporanea di Venezia, creare le sinergie e le interazioni necessarie per attirare quelli che nel libro chiamo “investimenti eticamente sintonizzati”, che potrebbero essere sorprendentemente significativi. Sintonizzati con la città e con il suo futuro rinascimento sostenibile. 19
Foto © Matteo De Fina
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