Sardonia Aprile 2023

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Da Gairo a Taquisara

Ricostruiamo Osini Vecchio

Riqualificazione Quarta Regia

Maestro Salvatore Atzeni

Le uova d’Arte di Walter Musco

Antonio Bisaccia AFAM Sassari

Piero Sartogo Architetto

Il Futuro di FS nell’Arte

Michelangelo falsario ed altre burle

La morte di ITSART

La Sardegna e l’aereo

Caterina Ghisu e Viviana Fernandez

Caterina Ghisu e Tiziana Contu

Dolores Demurtas

SARDONIA
Foto doloresmancosu
Trentesimo anno/Trentième année Aprile 2023 / Avril 2023 https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia

Cagliari Je T’aime

Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche

nella città di Cagliari a cura di

Marie-Amélie Anquetil

Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue

“Ici, Là bas et Ailleurs”

Espace d’exposition

Centre d’Art

Ici, là bas et ailleurs

98 avenue de la République 93300 Aubervilliers

marieamelieanquetil@ gmail.com

https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs

Vittorio E. Pisu

Fondateur et Président des associations

SARDONIA France

SARDONIA Italia

créée en 1993

domiciliée c/o

UNISVERS

Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari

vittorio.e.pisu@email.it

http://www.facebook.com/ sardonia italia

https://vimeo.com/groups/ sardonia

https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime

SARDONIA

Pubblicazione

dell’associazione omonima

Direttore della Pubblicazione

Vittorio E. Pisu

Redattrice Luisanna Napoli

Ange Gardien

Prof.ssa Dolores Mancosu

Maquette, Conception Graphique et Mise en Page

L’Expérience du Futur une production

UNISVERS

Commission Paritaire

ISSN en cours

Diffusion digitale

Anche questo numero di Sardonia accusa un certo ritardo dovuto al numero di iniziative che cerchiamo di promuovere, forse a torto, vista la difficoltà di far apparire l’Arte, sopratutto quando è esercitata da personaggi ancora in vita utile e necessaria.

Finalmente l’apprezzamento delle opere d’Arte si nota solo quando i loro autori ci hanno lasciato e spesso da qualche centinaio d’anni, solo allora, forse, grazie alla naturale scrematura che il tempo opera, consentiamo a riconoscere il talento di personaggi che spesso durante la loro esistenza non hanno trovato lo stesso genere di apprezzazione nei loro contemporanei.

Questa domanda potrebbe essere assolutamente oziosa in un paese che contiene più della metà delle opere d’Arte riconosciute come capitale dell’umanità intera. ma forse non si appliccano in un luogo che, grazie ad un dominio spagnuolo prima e sabaudo in seguito, non ha conosciuto opere architettoniche o plastiche di grande valore.

Per di più la storia stessa della Sardegna é completamente ignorata se non addirittura negata.

E ci si perde in congetture su chi fossero esattamente i nostri antenati e se li possiamo ricongiungere ai mitici Shardana. Eppure non mancano le opere ciclopiche che sono ben anteriori non dico neanche Roma ma finanche alle pietre di Stonehenge, che i Britannici hanno comunque saputo ben sfruttare e farle conoscere nel mondo intero.

Qui in Sardegna niente di tutto questo, e fino alle statue dei famosi Giganti di Mont’e Prama, resuscitate dopo un lungo oblio ed oggetto al giorno d’oggi delle dispute che possiamo definire feroci, non solo sul loro significato intrinseco, ma fino al luogo dove dovrebbero essere esposte per permettere ad un pubblico interessato di poter immaginare delle interpretazioni plausibili lasciando agli addetti ai lavori la possibilità di continuare ad invettivarsi sulla loro esatta destinazione e significato.

Nel frattempo e più attualmente, un certo numero di Artisti cerca, più o meno facilmente, di sopravvivere esercitando la loro Arte che per facilità chiamiamo contemporanea. Mentre assistiamo con piacere ad un ritorno in grazia dell’Arte figurativa, ostracizzata per decenni a profitto di un astrattismo che in mezzo agli anni sessanta conquistò fino alla Biennale di Venezia, altre manifestazioni non meno interessanti cercano di attirare la nostra attenzione.

A Sardonia cerchiamo di essere attenti non solo a queste manifestazioni, ma anche a proporne certe come ultimamente la Collettiva di Fotografia che aveva invitato anche degli artisti francesi, ed attualmente durante la Settimana Santa le opere molto classiche del maestro Salvatore Atzeni, incisore, pittore ed anche musicista che animò inoltre durante 39 anni, un Festival d’Arte Pittorica e Musicale a Dijon (Francia) il famoso Festival de la Chouette, et di cui potete ammirare alcune delle opere di arte Sacra al Chiostro di San Domenico fino a Pasquetta. Buona Pasqua. Vittorio E: Pisu

Era il 16 novembre 1893 quando il fischio della vaporiera spezzò per la prima volta il silenzio dei tonneri ogliastrini.

Si realizzava il sogno di Nicolò Businco, capo politico dell’amministrazione di Ierzu, e di pochi intellettuali dei paesi vicini che per dieci anni avevano lottato per avere la ferrovia.

Prima con incontri tra i sindaci di Ierzu, Seui, Mandas; poi fondando un giornale, “L’eco dell’ogliastra”, che uscì dal 1881 al 1883, in cui si lottava per la ferrovia e contro le oligarchie corrotte; poi con comizi, le “parlate” dei nostri nonni, che si tenevano a Ierzu nel cimitero di San Sebastiano, unico spazio pianeggiante dell’abitato sorto mille anni prima sul costone che degradava verso la valle del Pardu.

La ferrovia fu una rivoluzione.

La distanza da Cagliari si copriva in otto ore, mentre prima ci volevano tre giorni di cavallo; e l’esportazione di derrate verso la capitale ebbe un impulso moltiplicatore sull’economia ierzese.

La stazione di Ierzu, posta in territorio di Ulassai al confine tra i due paesi, distava tre km da Ierzu, che vagheggiò l’idea di prolungare il tracciato verso Foghesu, ma il progetto del 1926 non fu mai realizzato.

Oggi la ferrovia non esiste più.

Il primo novembre 1956 la tratta Ierzu-Gairo Tacu-

A GAIRO TAQUISARA

isara fu chiuso, perché era economicamente un ramo secco da tagliare, e sostituito con le corriere. Poi il tracciato fu smantellato, i binari rimossi; e la boscaglia si impossessò di vasti tratti della vecchia ferrovia.

Ricordo l’ira di Ierzu. Dovette venire il senatore Mannironi a convincerci, ma mio padre quando lo sentiva nominare imprecava: “Su batticorru ki t’hat nasciu”.

Intraducibile per gli italiani.

Non esiste più neppure la Stazione di Ierzu, cancellata anche nella vecchia insegna per lasciare spazio al Museo che conserva le opere di Maria Lai. Museo bellissimo, che non sarebbe certo deturpato se in un angolino venissero messe una locomotiva storica e una targa in ricordo di quanti si batterono per la ferrovia.

Io spero che ciò avvenga. Sono ottimista per natura e nonostante gli ulassesi. Decido di allenarmi per Santiago percorrendo il vecchio tracciato ferroviario Ierzu-Gairo, oggi sostituito da una strada percorribile in macchina. Zaino in spalla, due coccoi prena, tre arance e un gel per il tallone che fa le bizze.

Sono, andata e ritorno, 17 km, 25 mila passi e 700 calorie bruciate.

Ne vale la pena, perché la strada si sviluppa senza dislivelli e con piccole curve lungo il costone incoronato(segue pagina 4)

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Foto giovannideligios
DA
IERZU

(segue dalla pagina 3) dalle dolomie e regala panorami bellissimi. È primavera e qui è una distesa di ciliegi in fiore, bianchissimi alla luce del sole oggi mite.

A monte, una foresta di querce ininterrotta, con alte barriere di ginestre in fiore e di erica, che alternano il giallo vivo al bianco sfumato; e macchie di ciclamini e viole sparse nel sottobosco curatissimo.

Peccato non conoscere i nomi dei fiori e delle piante, ma ne sono affascinato.

La strada ferroviaria silenziosa...non incontro un’auto...ricorda la fatica dei nostri padri.

Il tratto che dalla stazione di Ierzu porta al casello di Ulassai in Is Montis Longus, che attraversa la Provinciale, è scavata nella roccia scistosa o protetta a monte da muri ciclopici coperti di muschio.

Il silenzio è interrotto dal chiocchiolio dell’acqua nei canali o in piccoli torrenti coperti dalla boscaglia.

Qui c’era l’orto di nonno Costantino, che a ottant’anni saliva ancora su un fico gigantesco e tornava a casa con frutti dolcissimi, che a quelli di Cartagine gli facevano un baffo.

Sorgono ovunque case nuove, che disturbano un paesaggio intatto fino a pochi anni fa.

Non so se questi scavi deprimenti abbiano salvato il muro a camicia che nel

1820 fu costruito dagli ulassesi per evitare che il bestiame entrasse nel prato delle vigne.

Un lavoro immane, compiuto da tutta la popolazione, bambini compresi, che partiva da Funtana Ursa e arrivava a Nuragi, poi stazione di Ierzu e oggi “Stazione dell’arte”.

Ne trovai una trentina di metri vent’anni fa. Sarebbe bello se fosse scampata alla rovina.

A valle, la strada si affaccia sulla valle del Pardu, che poi diventa Pelau e sfocia a Museddu, vicino al mare di Ierzu.

Sì, si, lo so che Ierzu non ha sbocco al mare, ma si chiamava così perché per un mese gli ierzesi ne occupavano la spiaggia con baracche costruite sapientemente.

Erano le seconde case di allora.

E ricordano anni di festa, di riposo, di amori segreti. Da questo loggione privilegiato vedo i vecchi abitati di Osini e Gairo, abbandonati dopo l’alluvione del 1951: case in rovina, finestre vuote come le orbite spente di un cranio.

In fondo, Monti ‘e Ferru, monte Astili, le antenne di Tricoli; e il mare. Ovunque ciliegi in fiore.

Forse il Giappone è così, in questi giorni.

Attraverso la provinciale per entrare nel tracciato ferroviario, che è un viottolo stretto in leggera salita or-

Foto francescophotography

mai coperto dalla vegetazione. Il ponte su cui passava il treno é intatto, coperto di muschio e da qualche fico selvatico.

Poche decine di metri e sono nell’abitato di Osini, che nel 1893 era più a valle.

Dopo il 1951 si formò Osini nuovo, intorno alla stazione Ulassai-Osini, come si legge nella facciata dell’edificio ben conservato e testimone di una storia importante per lo sviluppo della zona.

Anche qui case alte, vaste, quando si poteva scegliere una tipologia diversa, con case più raccolte, più umane.

Il trionfo del “mal della pietra”, costruire comunque e ovunque, e male.

Peccato, perché Osini nuovo ha angoli suggestivi, ben curati, con alberi oggi di un verde tenero.

Bello e pieno di quiete il giardino che ci accompagna alla vecchia Stazione con sedili originali che ricordano antiche forme preistoriche, e la scultura di un mostro simil dinosauro ingentilito da occhi allegri. Come le strade nazionali avevano le cantoniere, dove i viaggiatori trovavano assistenza e ristoro e abitavano i cantonieri che si curavano della manutenzione del fondo stradale, anche la strada ferrata aveva i caselli, a distanza di circa un km l’uno dall’altro. Sorrido pensando a quel mio amico politico, perse-

guitato da sa giustissia, che peró non aveva perso la sua proverbiale ironia. Aveva rubato per il Partito, mentre altri rubavano per sé, e mi diceva che aveva paura di andare in autostrada “per non incontrare Caselli”.

Fino a Taquisara ne ho contato cinque, tre ben conservati e due in rovina.

Erano abitazioni di servizio quasi lussuose. Dall’ampia ferita che ne deturpa la facciata, posso vedere come erano fatte: a piano terra, col pavimento in blocchi di pietra lavorata con perizia, un caminetto che, con il calore della canna fumaria, riscaldava anche il piano superiore cui si saliva con una scala sospesa di pietra.

Vicino al camino c’era anche il forno, che si sviluppava all’esterno dell’edificio dove, mi pare di capire, c’era anche il gabinetto.

Di questi edifici resta ben poco: la traccia del camino annerito dal fumo di tanti lustri, la bocca del forno distrutto, qualche pezzo del pavimento e monconi dei gradini della scala interna.

L’uomo costruisce, ma è l’animale che distrugge per il solo piacere di sedersi e ridere sulle macerie.

Fatevi guidare nella camminata proprio dai caselli, costruiti a picco sulla vallata e visibili a distanza.

Non potete sbagliare. (segue pagina 6)

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Tonino Serra Contu

(segue dalla pagina 5)

Ci sono molte stradette secondarie, ma sono in cemento e non pianeggianti.

Potete anche non portarvi da bere, perché incontrate almeno tre sorgenti di acqua gelida.

E camminate piano. Questo é il regno dei cinghiali e delle donnole. Rispettateli.

La strada ferrata segue ad un certo punto la provinciale per Ussassai.

La vedi tra le querce.

Gairo Taquisara appare all’improvviso dopo una curva, con le sue case dai tetti rossi e il tonneri sullo sfondo.

Mi accoglie un coro di cani alla catena e una fuga di gatti impauriti.

Ed ecco i binari, che hanno resistito al tempo e all’uomo.

Arrugginiti, tra l’erba alta, portano alla stazione, preceduta dal casello che vigilava sul passaggio a livello.

Tutto ben curato, anche la chiesa che ricordavo di aver visto in una bellissima foto in cui un gruppo di persone e alcuni bambini posava vicino alla locomotiva.

Quando ero sindaco le Ferrovie mi offersero una locomotiva d’epoca da mettere a Ierzu in ricordo di una battaglia vinta contro l’isolamento.

Non sapevo dove metterla, presi tempo e persi l’occasione.

Me ne pento ancora.

Tacu Isara, forse chiamato così da un tempio di Ishar, l’Astarte fenicia,

Tonino Serra Contu, Ierzese con ascendenti di Tertenia e Ulassai, medico fisiatra, vive e lavora a Cagliari dal 1975. Sindaco del suo paese negli anni ´80, è stato consigliere provinciale e comunale di Cagliari dal 1990 al 1998.

Ha pubblicato Ierzu, storia di un paese contadino, Ierzu, la gente, i luoghi, la memoria, e alcuni saggi su Quaderni Ogliastrini. Con vari autori ha curato il libro monografico Ogliastra. Sta ultimando la monografia Ulassai, i percorsi della memoria.

ha oggi meno di duecento abitanti. Nessuno in giro, solo due persone che mi guardano curiosi ma senza invadenza.

Il più anziano mi sorride quando gli dico il mio nome: ha letto i miei libri e sa che mi piace ascoltare. Appare divertito quando gli dico che vengo a piedi da Ierzu.

Lui quella strada la faceva ogni giorno per frequentare le scuole medie di Ierzu.

Anche in inverno, quando la foresta si chinava sotto il peso della neve e i binari erano morsi dal gelo. Si offre di accompagnarmi al nuraghe Serbissi, il più monumentale della zona:

“Sa, prima lo vedevo dalla finestra, oggi non più perché i pini sono cresciuti e lo nascondono alla vista”. In realtà vorrei vedere il villaggio nuragico scoperto pochi anni fa. Sarà la prossima volta.

Vorrei sentire sotto i piedi i binari morti, ma devo visitare un paziente alle sei e io sono puntualissimo. Molti non lo sono e non li sopporto.

Torno indietro e vado incontro al vento gelido che viene da Gairo nuovo.

È da sempre così, per Gairo. Quando a Ierzu vogliamo sapere se fa freddo guardiamo verso Gairo: se le sue montagne sono bianche di neve allora fa sicuramente freddo e ci sentiamo autorizzati a sentirlo.

Foto wikiloc

Devo coprirmi, ma mi piace ripercorrere la strada di ritorno perché vedo lo stesso paesaggio sotto una luce diversa.

Abituati a guardare per terra, dimentichiamo che essa è lo specchio del cielo e riverbera lo splendore del sole e le sue ombre, quando le nuvole si muovono lente spinte dal vento.

Buongiorno Vittorio .

Ecco un racconto che potrebbe piacerti , di Tonino Serra CONTU .

Se servono foto le cerco

Sono affascinata dalla tenacia e dall’amore con cui Luciana Cannas sta cercando di ricostruire la storia di Osini, il paese distrutto dall’alluvione del 1951.

Raccoglie foto, racconti, oggetti.

E, con altre osinesi, promuove iniziative culturali che possano far rivivere il paese perduto e recuperare in parte il vecchio abitato.

Sono sicuro che, con l’aiuto dell’amministrazione e delle sua gente, vincerà questa sfida contro il tempo: ogni ora che passa muore un frammento di Osini vecchio.

Per onorare il suo lavoro, ripropongo un racconto dell’aprile 2021 su Osini.

n cuore di vetro che ovunque riflette un cuore di marmo.

Ritornando a Osini Vecchio, ho trovato un cuoricino di vetro, uno dei tanti che Virginia posa tra i ruderi, uno di quei cuori che “metteinognidove” a farci riflettere sull’importanza di sensibilizzarci a trovare urgente rimedio al borgo in rovina.

Ho raccolto il cuoricino di vetro e l’ho posato in tanti angoli che riflettono il declino, quell’inesorabile declino al quale giorno per giorno va incontro. Ovunque crolli,nuovi e recenti che si sommano a quelli degli anni passati.

Non ho fatto una sola foto stavolta, perché ne avrei potuto scattare infinite,ma una più triste dell’altra e fa’ male guardarle.

Il cuoricino di vetro riflette il disastro creato da cuori di pietra che hanno permesso che tutto questo avvenisse.

Mai troverò perdono per loro.

E il tempo inclemente, ma senza colpe,facendo parte della natura, non posso, considerarlo colpevole.

Pareti dipinte crollano a terra come quadri appesi al cielo di nuvole minacciose.

Il sole illumina gli angoli bui,infondendo calore a ciò che vorrebbe preservare; basterebbe scaldare i cuori gelidi di chi avrebbe (segue pagina 7)

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U RICOSTRUIAMO
OSINI VECCHIO

(segue dalla pagina 7) voluto e potrebbe ancora coprire con teche e rinforzi ciò che domani il cuoricino di vetro non potrà più riflettere. Amarezza infinita e impotenza davanti a uno scenario che ogni volta mi riporta alla stessa domanda:

”Cosa posso fare io?”. Alla fine,la risposta sta nell’evidenza:sto a guardare e ahimé...a sospirare.

Io parlo con le pietre e loro mi rispondono che le buone intenzioni non sono sufficienti a impedirle di cadere.

Se però posso rendermi utile, io ci sono. Sono belli gli eventi in chiesa di Santa Susanna per ricordare gli anniversari dell’alluvione del ‘51,ma il risveglio non sta’ solo lì......

Dipendesse da me riinviterei gli stessi artisti che negli anni si sono esibiti, a riesibirsi in spettacoli solidaristici di beneficenza destinando i proventi al recupero materiale del borgo visto che i nostri mezzi sono inesistenti anche alla sola pulizia dai rovi e arbusti che lo soffocano.

Sarebbe una concreta corsa contro il tempo. Ricordiamoci di quando il tetto della chiesa collassò sull’altare che per sempre ne conserva i segni ma il tetto è stato riedificato, le ruspe hanno scavato fino alle fondamenta umide e rinforzato in muri stabili su un pavimento nuovo

che riaccoglie i fedeli e gli ospiti festanti. Sono felice di aver contribuito (non è un vanto ma un mio preciso dovere da cittadina) a ricollocare il tabernacolo dentro il quale...

C’è un detto in paese che dice:”Finia sa missa, acabàda sa festa “.(Finita la Messa,terminata la festa). Come dire che dopo un un’evento,tutto torna come prima.

Un po’ di cenere sparpagliata dal vento,rimane del falò che ha illuminato a festa la piazza della chiesa,poco tempo fa’,per ricordare i 70 anni dall’alluvione. Per non dimenticare e con la speranza di ricominciare ma non saprei da dove.

È impossibile rinascere dalle ceneri nel nostro borgo desolato perché alla distruzione non c’è rimedio. Una parvenza di quadro antico forse per salvare il salvabile ma con tinte tenui che conservino proprio quel fascino d’altri tempi che da sempre ci incanta ,altrimenti è meglio lasciare tutto così per non stravolgere ciò che dovremmo preservare.

L’inverno è la stagione migliore per scoprire ciò che il verde nasconde.

Gli alberi si sfogliano così le abitazioni e i ruderi si lasciano ammirare fin negli angoli più intimi. Non abbiamo imparato niente dall’architettura del nostro passato.

Foto lucianacannas

Gli archi di pietra in tantissimi magazzini ancora reggono solidi aggiungendo bellezza così come gli altri manufatti.

Se si potesse liberare il verde infestante, la visuale del borgo ne gioverebbe agli occhi dei visitatori. Sparsi ovunque alberi di fico dormienti ma insieme ai mandorli, noci, ciliegi e altri da frutto utili, sono gli unici di cui vorrei rivedere in primavera schiudersi le gemme perché da sempre parte del paesaggio. Se dipendesse da me,comincerei da lì; pulizia, ordine e decoro = rispetto.

Facciamo in modo che la festa continui. Qualcuno lassù ci dia la forza di ridare lustro a ciò che i nostri avi hanno creato e le cui ossa sono tornate alla luce in grandi e minuscoli frammenti rimossi da quei luoghi sacri (camposanto e sotto pavimento chiesa).

C’era una volta Osini Vecchio e c’è ancora. Avvolto in un velo di nebbia,il borgo si veste ancora di più di fascino misterioso.

Nel centro della via Principe Aimone che scende da Perdedu,e inizio via Cavallotti verso la chiesa e il camposanto,si regge ancora l’unico portico (su porci) di tutto il paese.(Gli altri tutti demoliti.)

Dal suo interno,traspare tutta la storia di un vicinato,impegnato nei comuni spazi condivisi nelle quotidiane molteplici attività.

Ormai, in una stanzetta attigua (sa stansia de forru), solo qualche traccia testimonia la presenza di un antico forno usato dall’intero parentado e in forma di cortese concessione, utilizzato anche da tutto il vicinato.

Archi e muretti di pietra si affacciano sugli orticelli coltivati oggi come allora.

Da essi si ricavavano i prodotti che lavorati e trasformati nello stesso cortile, fornivano il sostentamento a intere famiglie, dal sapore dolce e salato.

Dal grano lavato e steso al sole nei paraggi,ripulito dai setacci e frantumato dalle macine di pietra,trainate in tondo dall’asinello, continuava il laborioso lavoro delle donne nella panificazione che fornivano le dispense di ogni ben di Dio.

Le massaie del portico sapevano impegnare bene la lunga giornata,dalle prime luci dell’alba al tramonto.

Quel forno acceso il mattino presto,sfornava le fragranti delizie che facevano accorrere i bambini che scorrazzavano felici e spensierati nei dintorni. Fresco d’estate e soleggiato d’inverno,il portico ospitava le giovani donne intente a ricamarsi il corredo prima e il vestiario poi,per la famigliola.Anziane chine a rammendare,a filare e a tessere nel telaio di legno.

Uomini anziani a intrecciare canestri .

(segue pagina 10)

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(egue dalla pagina 9)

Al rientro dai campi intenti a scaricare il pesante quanto fruttuoso carico dei cavalli e degli asini,prima di legarli ai ganci ancora oggi infissi nei muri dell’uscio o ricoverati nei magazzini in nottate fredde per il meritato riposo,prima di essere di nuovo sellati(sa sèdda) e caricati della bisaccia (sa bèrtula)la mattina successiva per un altra giornata di lavoro. Nel portico,anche la capretta e la pecora per il prezioso latte ,trovavano alloggio nella stanzetta del forno insieme al maiale e le galline che di giorno razzolavano nell’aia.

Le fascine di legna sempre pronte lì all’occorrenza per la prossima infornata con le pale(is paliasa de forru e is furconisi cun is iscovissasa po mundai su forru)e tutti gli accessori utili per ripulire il forno da braci e cenere prima di infornare pane e quant’altro. I contenitori di cereali nella mangiatoia degli indispensabilei animali domestici.

Il bucato fatto nella vicina fontanella della piazza di chiesa,steso al sole sui cespugli intorno alle case.

E come in tutti gli altri angoli del paese,anche sotto questo portico,il solito stuolo dei bambini in crescita, accoccolati intorno alle gonnelle delle anziane donne che con tutta la maliziosa fantasia li tenevano affascinati ad ascoltare quei raccon-

ti che ancora è bello ascoltare. Osini Vecchio;la mia bella addormentata. Per forza dobbiamo aspettare il principe che la risvegli con un bacio?

Forse noi donne dovremmo imparare a svegliarci da sole. Aspettative vane.

Quanto vorrei organizzare la sagra delle ciliegie proprio lì, dove le ciliegie abbondano.

Creerei il giorno del recupero ; un giorno a settimana da dedicare a pulizia e recupero del borgo, in forma di volontariato.

Un volontariato responsabile e tutelativo.

Troppe piante invadenti che sradicano le case;motosega in mano farei dei suoi rami qualcosa di utile a costo zero di materiale per creare staccionate a protezione delle aperture prive di porte.

Con le canne in abbondanza organizzerei dei corsi di cestini per utilizzare il legname spontaneo.

Potremmo utilizzare le canne palustri per realizzare il nostro strumento più arcaico ; le lioneddas e imparando a usare bene il nostro fiato potremmo produrre quel suono magico in un concerto da destare il borgo sopito.

Ripulirei le pietre degli archi possenti che mani operose e menti abili sono riuscite a realizzare e far arrivare fino a noi;uno scenario ideale per la nostra sagra. Si,lo so,fantastico. Luciana Cannas

Foto lucianacannas

Via alla gara d’appalto per la realizzazione del Parco urbano della Quarta Regia a Cagliari. Il compendio, in località Sa Scafa e attualmente in stato di abbandono, verrà riqualificato e valorizzato per tornare a disposizione dei cittadini. L’intervento, di circa 2 milioni di euro, prevede la totale sistemazione del complesso, risalente alla metà del XIV secolo e utilizzato fino a qualche anno fa come luogo di rimessaggio delle reti ed osteria.

Il nome si riferisce alla quarta parte del pescato che i pescatori lagunari versavano alle casse regie sotto forma di dazio fino al 1956

Due, nel dettaglio, gli interventi relativi.

DOPPIO INTERVENTO – Il primo, recentemente completato con una spesa di circa 520mila euro, ha interessato il rifiorimento della scogliera frangiflutti a contenimento delle mareggiate e a protezione della torre e dell’area circostante.

Il secondo, i cui lavori dureranno 270 giorni, prevede opere di vera e propria riqualificazione e valorizzazione storico-paesaggistica del compendio di 11mila metri quadri, che diventerà un vero e proprio parco inclusivo (la metodologia progettuale è quella della Design for All stabilita dalla convenzione ONU), accessibile tutto l’anno, con percorsi diversificati, illustrati con pannelli didattici ed informativi che raccontano la storia del ples-

RIQUALIFICAZION E QUARTA REGIA

so e dell’habitat naturale circostante.

IL PROGETTO – Diversi gli ambiti attorno ai quali si sviluppa l’iniziativa dell’AdSP: l’Arena Torre Quarta Regia, l’Arena Belvedere, le Aree eventi, i percorsi e l’area ingresso con i relativi corpi servizi. Per la prima, a protezione e tutela del bene architettonico, è prevista la realizzazione di un’area pavimentata delimitata da muri bassi e concentrici che, oltre alla mera protezione dagli allagamenti, potranno essere utilizzati come sedute continue dai visitatori.

L’Arena belvedere, anch’essa dalla forma ovale, circondata da massi e panchine, diventerà la prima area pic-nic del lungomare cagliaritano, all’interno della quale sarà possibile degustare i prodotti del mare provenienti dai vicini allevamenti in concessione.

Il parco si integrerà perfettamente con la laguna attraverso tre piattaforme a portale, i miradouros, che, adagiandosi sugli scogli, creeranno un affaccio direttamente sull’acqua con vista su tre lati: una verso i monti di Capoterra, l’altra verso Castello e una sulle Torri di San Pacrazio e dell’Elefante.

Alle spalle del belvedere sarà, invece, realizzata un’area eventi pavimentata ed attrezzata, che consentirà l’installazione temporanea di gazebo e strutture rimovibili.

L’intero complesso sarà dotato (segue pagina 12)

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(segue dalla pagina 11) di servizi, scandito da percorsi e accessibile, da via dei Calafati, attraverso una viabilità riqualificata e dotata di adeguata illuminazione ed impianti di videosorveglianza, che costeggerà il canale interno. Lungo i margini stradali sarà inserita un’area parcheggi schermata da piante di essenze autoctone. Le essenze arboree scelte - proprie dell’ambiente lagunare e marino - consentiranno di concretizzare anche un vero e proprio “restauro naturalistico” della zona, rinvigorendo alcune specie autoctone ancora presenti in misura residuale, pienamente compatibile con le esigenze di fruizione del parco.

«La riqualificazione del complesso della Quarta Regia, che entro qualche mese diventerà un vero e proprio parco urbano storico naturalistico sul mare, si aggiunge in continuità, accrescendone ulteriormente il valore, al nostro ampio e complesso processo di riqualificazione del lungomare di Cagliari, spiega Massimo Deiana, Presidente dell’AdSP del Mare di Sardegna.

Un compendio di particolare pregio che, una volta riqualificato, verrà restituito alla collettività per la libera fruizione e, soprattutto, per la riscoperta di un passato, conservato tra le mura della torre che ritornerà ad assumere il giusto peso nella storia e nelle tradizioni della città».

(Unioneonline/v.l.)

Conosco Salvatore Atzeni per averlo incontrato a Parigi nel lontano 1970, ma l’ho ritrovato solo nel 2018 all’occasione della sua mostra al Lazaretto di Cagliari.

Confesso che non lo riconobbi subito ma gli proposi di riornare a trovarlo per realizzare un’intervista filmata e documentare la sua esposizione particolarmente interessante che si svolse dal 2 al 17 maggio 2018. Solo quando constatai sul web che era non solo diplomato del Liceo Artistico ma anche del Conservatorio di Musica che capii che si trattava del pittore ed incisore incontrato anni prima in Francia e che suonava così bene Bach alla chitarra.

Approfittai della sua grande pratica dell’incisione e del suo torchio che construi lui stesso, per far stampare le linoleografie che avevo ripreso a produrre dopo quasi lo stesso tempo durante il quale l’avevo perso di vista.

Così quando Silvana Belvisi, presso il cui Salotto dell’Arte avevo esposto, mi propose di esporre le mie linoleografie nello spazio dell’Agenzia Onali, pretestai che non erano abbastanza per i 200 m2 che lo costituivano e gli proposi di esporre Salvatore Atzeni, come in effetti avvenne dal 2 al 14 luglio 2018.

Quasi contemporaneamente ebbi l’occasione di documentare una delle manifestazioni che organizzava nel suo terreno a Monastir, chiamate “Il Giardino dell’arte”, dove presenta-

Foto vittorio e.pisu

va non solo le sue opere pittoriche ma anche delle incisioni sia sue che di altri artisti quali Salvador Dali, per non citarne que uno solo tra tanti famosi della sua collezione. In seguito ci siamo frequentati assiduamente perché stampava tutte le mie produzioni lonoleografiche, ma l’epidemia ben nota mise fine a tante manifestazioni artistiche ed esposizioni.

Finalmente nel dicembre del 2021 filmai e documentai l’esposizione d’Arte Sacra che realizzò nei locali dell’associazione Remo Branca di Iglesias, Organizzando regolarmente delle mostre ad Oristano all’Arrubiu Art Gallery Cafè di Chiara Cossu, gli proposi di esporre le sue Caffettiere (segue pagina 2)

(segue dalla pagina 1)

Antropomorfe dal 16 ottobre al 13 novembre 2022. Esposizione che fu un vero successo non solo di critica ma anche di pubblico che manifestò la sua approvazione acquistando un certo numero di opere.

Ultimamente ho documentato l’esposizione delle opere realizzate per la cupola della basilica di Bonaria, mostra che realizzò nella chiesa della Madonna di Fatima dal 21 gennaio al 4 febbraio 2023 a Monastir stessa.

Nella mia ricerca di uno spazio espositivo a Cagliari, dove avrei voluto vedere finalmente presentate al pubblico cagliaritano le otto tele, che hanno come dimensioni 3,60 x 6,50 metri. e disperando di poterlo fare nella cappella sconsa-

crata che si trova al n.°107 della via San Giacomo, oggi utilizzata dalla Fondazione Scuola Carlo Felice e dalla AltaFormazione e Sviluppo, struttura educativa specializzata, mi sono rivolto al Chiostro di San Domenico, dove il padre Antonio Idda, ha accolto favorevolmente la mia domanda.

Putroppo le cappelle del chiostro sono troppo piccole per poter ospitare le opere sudescritte, e così Salvatore ha proposto, in concomitanza con la Settimana Santa, di esporre alcune delle sue numerose opere di Arte Sacra, di cui alcune, e non le minori, ornano non solo la sacrestia della basilica di Bonaria a Cagliari, ma anche numerose chiese in Francia, dove ha animato per trentanove anni il “Festival de la Chouette” a Dijon.

In più delle sue abilità nonj solo pittoriche ma sopratutto incisorie, Salvatore Atzeni, che é stato inoltre docente per numerosi anni, é un eccellente musicista e con la sua chitarra suonerà durante il periodo della mostra i temi che gli sono cari, e cioé molte partizioni del ‘600 e del ‘700.

Tra i musicisti che ebbe il piacere di invitare a Dijon e con i quali si produsse, c’è anche il noto violoncellista Andrea Pettinau, già al teatro Lirico di Cagliari, oggi con l’orschestra del Teatro degli Champ Elysés di Parigi, speriamo che riesca a trovare il tempo per venire a suonare insieme al Maestro Atzeni, come lo fece al Festival de la Chouette, cosa possiamo chiedere di più? Vittorio E.Pisu

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MAESTRO SALVATORE ATZENI

e di solito per trovare la sorpresa bisogna rompere le uova di cioccolato, nel caso delle proposte pasquali di Walter Musco è sufficiente guardare le uova per rimanerne sorpresi.

Da molti anni l’ex gallerista convertitosi alla pasticceria allestisce una mostra di creazioni pasquali che si ispirano all’arte, e stavolta i punti di riferimento sono gli artisti viventi che più si avvicinano alla sua sensibilità.

Ecco allora che Musco interpreta con il cioccolato i lavori di Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Yayoi Kusama, Takashi Murakami, Banksy, Michelangelo Pistoletto, Damien Hirst e tanti altri, dal momento che le opere prodotte (tutti pezzi unici) sono circa 50. Ma si possono mangiare questi capolavori dolci?

Volendo sì, anche se ormai chi li acquista lo fa soprattutto per collezionarli, tanto più che il pasticcere ha introdotto tra gli “ingredienti” anche alcune componenti non commestibili.

La mostra “! – impressioni dall’arte”, visitabile nella pasticceria di Largo Bompiani a Roma fino all’8 aprile, è la massima espressione della vocazione di Musco, esercitata durante tutto l’anno con autentiche delizie per il palato: preparare dolci con lo scopo di divulgare, tra chi frequenta la sua pasticceria, la conoscenza dell’arte contemporanea e non solo.

Marta Santacatterina

LE UOVA D’ARTE DI WALTER MUSCO

e la primavera è rinascita e la Pasqua è Resurrezione, per un professionista che sta rivoluzionando il mondo delle torte in Italia questo mese di marzo è rebranding: la pasticceria Bompiani di Roma ha cessato di esistere e, come una mitologica fenice, è rinata sotto il nome del suo fondatore, Walter Musco.

Ma perché una rivista che si occupa d’arte dovrebbe pubblicare un articolo su torte e dolci di ogni tipo sfornati da un laboratorio che lavora con farina, burro, cioccolato e uova?

Perché l’anima di questo formidabile luogo dei sensi ha deciso di aggiungere un ingrediente in più alle sue ricette: l’arte contemporanea.

Da ben dieci anni Walter Musco produce uova pasquali e torte ispirate ai grandi maestri pittori, ma non solo: i suoi omaggi sono dedicati spesso alla musica, alla letteratura, alla moda, al cinema.

Una prospettiva a 360 gradi che gli ha consentito di imporsi nel mondo della pasticceria con originalità e creatività, conquistando clienti già sensibili ai linguaggi del contemporaneo (“Mi dai una torta Bauhaus?” gli chiedono spesso gli architetti) o quantomeno curiosi e disposti ad assaggiare, oltre a nuovi sapori, anche un delizioso boccone al gusto arte. opo anni di ricerche sen-

Foto artribune.it
S S

soriali, cromatiche e tematiche Walter Musco ha deciso di divertirsi con omaggi agli artisti “simultanei”, viventi e più riconoscibili, componendo così una galleria pop di contesto internazionale.

Saranno presenti artisti che sono diventati iconici, che hanno rappresentato e rappresentano idee sociali, che hanno rivoluzionato il concetto di forma, mezzo e gusto: Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Yayoi Kusama, Takashi Murakami, Banksy e Damien Hirst solo per citarne alcuni.

“! – impressioni dall’arte” è il titolo della mostra dedicata alla Pasqua del 2023 realizzata da Walter Musco e dal suo laboratorio di Pasticceria.

L’intento è quello di rendere omaggio all’arte contemporanea e agli artisti viventi che più si avvicinano alla sensibilità ed urgenza comunicativa di Walter.

L’arte oggi ruota, tra le sue mille sfumature, intorno a due concetti che sono specchio della società che viviamo:

l’individualismo del gesto e del significato artistico, fenomeno dovuto alla quasi totale sparizione delle correnti e Scuole, che cerca di rappresentare e coinvolgere, con la sua unicità, l’universalità del pubblico; la comprensione del “media” che si usa per comunicare il proprio concetto, che sia esso il classico supporto materico

DELLE

o una più avveniristica installazione informatica. L’obiettivo – degli artisti ma non solo – è quello di riuscire ad arrivare alla notorietà presso un numero più ampio possibile di persone, invadere il mercato globale e divenire fenomeni di culto e, con il proprio istinto artistico, riuscire a lasciare una traccia di sé a livello mondiale.

Affermarsi, essere compresi e riconosciuti in tutto il mondo.

Perché proprio grazie alla digitalizzazione dell’informazione e della comunicazione l’arte sembra dover assolvere al difficile compito di dover essere “popolare” ad ogni latitudine, “spinta” ad ogni costo e “comprensibile” a tutti se vuole effettivamente far arrivare il proprio concetto.

TORNA ANCHE NEL 2023

L’APPUNTAMENTO CON LE

UOVA DI PASQUA DEL

PASTICCERE ROMANO

ED EX GALLERISTA CHE

ESPONE LA NUOVA

COLLEZIONE.

ANCHE STA VOLTA

DEDICATA ALL’ARTE

CONTEMPORANEA

Largo Benedetto Bompiani, 8-9-10

00147 – Roma

+39 06 512 4103

info@pasticceriawaltermusco.it

Ma essere “universalmente validi” comporta spesso la necessità di doversi appiattire o adeguare ad una forma, ad uno stile, che “gli utenti” riconoscano ed apprezzino.

Stesso meccanismo, non a caso, che investe il marketing.

Le uova di cioccolato sono esemplari unici realizzati a mano e sono in esposizione fino al giorno di Pasqua nella Pasticceria di Roma e saranno acquistabili in esclusiva in negozio.

La Pasticceria produrrà come ogni anno anche i classici della tradizione Pasquale: le uova di cioccolato gourmet ai gusti pralinato alle arachidi, (segue alla pagina 16)

15 Foto quadriennaleroma.org
LA MOSTRA
UOVA D’ARTE DI WALTER MUSCO

(segue dalla pagina 15) pralinato pistacchio e lampone, gelèe alla fragola, pralinato nocciola; la colomba (classica, al cioccolato, con ciliegie e semi di papavero); il casatiello; la pizza al formaggio e l’immancabile pastiera.

A questi si aggiungeranno altre uova artistiche, considerate fuori mostra, che sono omaggio ai nostri preferiti di tutti i tempi: Lucio Fontana, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Roy Lichtenstein e Jackson Pollock tra gli altri.

Ma è nel periodo di Pasqua che Walter Musco dà il meglio di sé: come ogni anno presenta una mostra di uova in cioccolato e ora, per celebrare il decennale dell’apertura della pasticceria, ha scelto come tema il percepire, l’interiorizzare l’esperienza estetica che si manifesta nella sensibilità dell’oggi.

Ecco che il passato – le uova che più hanno emozionato il loro creatore nel corso degli anni – viene ripreso e aggiornato, mentre i sensi vengono amplificati attraverso le opere: ci saranno quindi uova “da ascoltare, da odorare e da toccare, mettendo in secondo piano sia il gusto che la vista, i due sensi ‘canonici’ più legati al mangiare”.

Ripercorriamo questa storia, che nasce in una galleria e pian piano si trasforma, mantenendo però le radici affondate nell’arte. www.artribune.com/arti-visive/ arte-contemporanea/2023/03/ pasticcere-gallerista-walter-musco-uova-arte-contemporanea/

ANTONIO BISACCIA AFAM SASSARI

Quando arrivai per la prima volta all’Accademia di Sassari, nel gennaio 2015, per assumere l’incarico di Estetica, ero stato messo in guardia da alcuni colleghi: quell’Accademia era piena di conflitti, mi dicevano, e molti di questi si accendevano intorno alla figura del direttore, Antonio Bisaccia.

Era dunque un sollievo essere accolto con cordialità da lui.

E abbiamo sempre collaborato bene, su vari progetti. Certo, non eravamo necessariamente fatti per intenderci: io diffido sempre delle istituzioni, mentre lui viveva dentro e per le istituzioni dell’AFAM.

Non lo faceva però da burocrate, ma con passione: come se fosse un’arte, o una missione.

Dirigeva la sua Accademia come direttore, e per un breve periodo come vice-direttore, dal 2010.

Era venuto dalla Sicilia, aveva studiato al Dams di Bologna e aveva ottenuto la cattedra di Teoria dei mass media all’Accademia di Sassari, da poco fondata (nel 1989, la più giovane Accademia statale d’Italia).

Ma diversamente da quasi tutti i docenti “continentali”, che presto o tardi abbandonano l’isola, lui vi si era radicato, pur avendo ormai ufficialmente la cattedra a Torino. Evidentemente, preferiva essere il primo in un “villaggio” piuttosto che il secondo a Roma.

Foto artribune.it

La gestione quotidiana dell’Accademia non era il suo interesse principale, ma si batteva con successo per aprire nuovi corsi, soprattutto un biennio in cinema documentario, il primo in Italia, per ottenere degli spazi molto più vasti in vari luoghi di Sassari e per aprire delle filiali in altre città della Sardegna (una delle rare iniziative sue non andate a buon fine).

Non si limitava però alla sua Accademia: si fece eleggere prima Presidente della conferenza nazionale dei direttori di Accademie e Conservatori e in seguito Presidente del Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale (Cnam).

Un’attività che lo portava spesso nelle sfere ministeriali, e tra colleghi ci dicemmo che un giorno lui stesso sarebbe diventato ministro o sottosegretario.

Si impegnava soprattutto per l’effettiva equiparazione tra il riparto AFAM e l’università, avviata negli Anni Novanta e mai portata a termine.

La creazione di dottorati di ricerca, l’instaurazione di concorsi nazionali di abilitazione, l’aumento dell’organico e l’equiparazione degli stipendi tra università e AFAM erano tra le sue battaglie principali, spesso vinte o almeno ben avviate.

Lui espose queste tematiche anche a un pubblico più vasto con articoli regolari su Il Sole 24 Ore, Artribune e altri media.

Non si sa come, ma riusciva nel frattempo pure a continuare la sua attività di studioso, pubblicando vari libri sul cinema e intervenendo su giornali come il manifesto a proposito della sugar tax, abbandonata a suo tempo dal governo benché dovesse servire a finanziare la cultura, o con recensioni di libri.

Allo stesso tempo dirigeva anche la rivista “Parol – Quaderni d’arte e di epistemologia”, fondata nel 1985 dal suo maestro Luciano Nanni all’università di Bologna e che Bisaccia si era portato dietro a Sassari, dove continuava a uscire, fatto notevole, in formato cartaceo. Bisaccia aveva il progetto di farla diventare una casa editrice.

La sua attività instancabile e la sua energia prodigiosa erano tanto più notevoli considerando che la sua salute era compromessa da vari anni e non lo nascondeva.

La sua qualità principale era la tenacia: non si scoraggiava mai.

Quando gli dissi: “Sei un bulldog, una volta che hai azzannato la preda non molli più”, lo prese come un bel complimento!

Stancare l’avversario (il ministero, il comune, la regione…) era, mi disse, la sua tattica.

Pur conoscendo bene i meccanismi del potere, non aveva i vizi tipici di quell’ambiente: rispondeva quasi sempre immediatamente a ogni messaggio o chiamata, e la porta (segue pagina 18)

17

(segue da pagina 17) del suo ufficio era sempre aperta.

Affabile e mai arrogante, era però poco portato alle confidenze, e le sue motivazioni profonde erano difficili da indovinare.

Avevo capito che doveva avere un lato diverso da quello “ufficiale” quando mi raccontò che aveva invitato all’Accademia, purtroppo prima del mio arrivo!, il cantautore bolognese Claudio Lolli, espressione dell’anima dolente dei movimenti degli Anni Settanta.

Questa doppia anima si ritrova anche in certi suoi scritti come “Burocrazzismo e arte (Castelvecchi 2020”, recensito su queste pagine da chi scrive), dove si alternano passaggi assai tecnici con altri “più fluidi, molto spesso brillanti, cosparsi di citazioni letterarie congrue e funzionali al discorso”.

Più volte Bisaccia e io ci siamo recensiti le nostre pubblicazioni a vicenda, abbiamo discusso dei suoi articoli, e la nostra collaborazione non è finita quando mi sono trasferito all’Accademia di Roma.

Sono tornato varie volte a Sassari, anche perché era un piacere collaborare con l’Accademia da lui diretta.

L’ho visto l’ultima volta a febbraio 2023: ci accordammo perché io scrivessi una recensione del suo prossimo libro per Artribune.

Un mese dopo mi trovo a scrivere il suo necrologio sempre per Artribune.

Anselm Jappe

DAL FUTURISMO

AL METAVERSO, LE

ULTIME RIFLESSIONI

DELL’ARCHITETTO

PIERO SARTOGO, DA SEMPRE

VICINO AL MONDO

DELL’ARTE

CONTEMPORANEA, MORTO POCHI

GIORNI DOPO AVER

RILASCIATO QUESTA

INTERVISTA

Piero Sartogo (Roma, 1934-2023), dopo il tirocinio nello studio di Walter Gropius, nel 1971 realizzò a Roma la sede dell’Ordine dei medici. Dal 1981, con “Italian Re-Evolution ‒ Il design degli anni ottanta”, una esposizione itinerante ospitata in vari musei d’Europa e America, iniziò il percorso professionale con Nathalie Grenon, che li portò a partecipare a vari eventi, fra cui l’Expo 1985 a Tsukuba, l’Expo 1992 a Siviglia, le Colombiadi del 1992, Imaginaire Scientifique al Parc de la Villette di Parigi, Telecom di Ginevra del 1991 e del 1994, Eureka d’Italie a Parigi e Madrid.

Tra le sue opere architettoniche più note figurano l’Ambasciata d’Italia a Washington (2001) e la Chiesa del Santo Volto di Gesù a Roma (2006).

INTERVISTA A PIERO SARTOGO

Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte? Il Futurismo è il movimento internazionale che preferisco, e in particolare Giacomo Balla, il mio artista preferito.

Perché? Primo perché ha fatto il “funerale” della sua fase precedente, non futurista; secondo perché il suo lavoro è molto sperimentale.

Lo ammiro soprattutto per il coraggio che ha avuto nell’abbandonare la sua fase post-impressionista, quindi la lezione di Cézanne e degli impressionisti, che ri-

Foto wikipedia.org

guardava il secolo precedente. La rappresentazione che fa Balla della velocità è un’invenzione. La velocità è un termine, Balla la trasforma in una pura invenzione. E che dire della Ricostruzione futurista dell’Universo?

Con Depero gli artisti hanno immaginato una società totalmente futurista.

Qual è il progetto che ti rappresenta di più?

Puoi raccontarci la sua genesi?

Il progetto che più rappresenta lo Studio Sartogo-Grenon è senz’altro l’Ambasciata d’Italia a Washington, negli States.

Durante uno dei tanti sopralluoghi ci accorgemmo che, tra l’Ambasciata del Brasile (progettata da Oscar Niemeyer) e la Cancelleria si poteva traguardare un punto elevato del parco, dal quale l’obelisco del Mall appariva in tutta la sua maestosità.

Detto questo, sul piano della dislocazione, una volta stabilito il nuovo asse di riferimento, tutto è stato progettato di conseguenza, l’edificio si presenta con la facciata principale parallela alla Massachusetts Avenue, come tutte le altre ambasciate, e di spigolo rispetto alla Whitehaven Street (che porta al Campus degli Hellenic Studies della Harvard University), dove si trovano le residenze di personaggi di spicco come Paul Mellon.

Questa è la genesi del progetto: pertanto il volume dell’Ambasciata è disposto in diagonale rispetto alla

SARTOGO ARCHITETTO

strada.

Lo avevi immaginato così?

Una volta stabilito il nuovo asse dell’edificio, diventava logico impiantare un taglio all’interno del volume che separa la parte diplomatica e quella militare, connesse da una piazza interna, coperta da uno skyline vetrato, che permette alla luce naturale di invadere l’intero organismo.

Un cubo tagliato a metà, come il fiume Potomac taglia il territorio della città di Washington.

Allora ci fu un grande problema relativo alla scelta della pietra di tutto l’edificio: noi volevamo il Rosa Asiago, mentre l’impresa americana voleva imporre il Limestone, con il quale sono fatti tutti gli edifici più importanti della città. Ricordo che per il concorso dell’Ambasciata era stato interpellato il Gotha dell’architettura italiana, composto dai seguenti nomi: Carlo Aymonino, Guido Canella, Vittorio de Feo, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Renzo Piano, Giancarlo de Carlo, Gae Aulenti, Vico Magistretti e il sottoscritto, che risultò vincitore del concorso. Nel 1992 iniziò la costruzione, e nel 2000 venne inaugurata e premiata con la medaglia dell’American Institute of Architecture. Che importanza ha il Genius Loci all’interno del tuo lavoro?

Il Genius Loci è fondamentale nel fare architettura, inteso come “il progetto del vuoto”, che lega l’edificio (segue pagina 20)

19 PIERO

(segue dalla pagina 19) al luogo dove dev’essere costruito.

Un esempio è la cantina per i Marchesi Frescobaldi (realizzata nel 2011), che hanno un mio schizzo come emblema per le etichette.

La terra che abbiamo scavato per le fondamenta è stata riportata sulla copertura del tetto, che riproduce, in piccolo, un “segno” del territorio. Quando si cammina sulla copertura si nota la continuità morfologica tra il paesaggio circostante e la cantina, cioè tra “intorno” e manufatto.

Non solo: l’Ammiraglia è una soluzione assolutamente ecologica per i seguenti motivi: a) la terra tolta per le fondazioni ritorna in copertura; b) la barricaia è in cemento armato, come la foresteria, mentre le parti restanti sono in legno lamellare con i gocciolatoi a vista, che trasudano gran parte dell’anno.

Il modello per la cantina è stato ripreso da Antinori cinque anni più tardi, per la loro sede al Bargino. Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro?

Sicuramente il passato e il futuro sono connessi: a mio avviso senza passato non può esistere il futuro.

La Storia è particolarmente necessaria in Italia, dove esiste una stratificazione unica al mondo.

Quali consigli daresti a un giovane che voglia intraprendere tua strada?

Lascia perdere, è troppo

complicato.

In un’epoca definita della post verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?

Il concetto di sacro è completamente scomparso, mentre sarebbe importante la continuità con il presente; invece è sparito almeno per quanto riguarda l’architettura. Non è un caso che alla Biennale di Venezia, dove il Vaticano ha cercato di far disegnare agli architetti una serie di cappelle che alludono al sacro, il risultato sia stato fallimentare, in quanto molte di queste cappelle assomigliano più a stabilimenti balneari.

Per me l’architettura nasce quando il modello viene distorto per qualche motivo.

Lo studio Sartogo-Grenon ha costruito una chiesa alla Magliana, il Santo Volto di Gesù, che ha una caratteristica peculiare: il sagrato si apre in prospettiva sulla croce.

Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?

Le tre idee che posso dare per il futuro hanno solo un nome: metaverso.

Nel prefigurare il futuro, c’è un qualcosa che mi sembra vincente.

La parola metaverso contiene questo aspetto: secondo me i prossimi anni saranno dominati dal metaverso. Ludovico Pratesi

Foto corriere.it chiesaallaMagliana Sartogo/Grenon

opera degli artisti Jonathan Calugi (Una casetta piccola così), Luca Font e Alkanoids (Il gigante tatuato e La mano), e Parisi 1876 (Light design Il fiore di luce).

Nei luoghi delle installazioni si trova il QR Code attraverso il quale è possibile ascoltare il brano dedicato al Polo Urbano composto dalla pianista Roberta Di Mario.

Quello di oggi, per il Gruppo Ferrovie dello Stato, rappresenta un nuovo modo di vivere i territori e il rapporto con i cittadini”, ha sottolineato Luca Torchia, Chief Communication Officer del Gruppo FS.

Un nuovo piano industriale, contraddistinto da quattro Poli di business (Infrastrutture, Passeggeri, Logistica, Urbano), il cui racconto è stato affidato all’arte contemporanea: è questo il nuovo corso che Ferrovie dello Stato ha intrapreso con Take Your Time, progetto realizzato con il supporto del Gruppo Hdrà e del curatore Renato Fontana che vede protagonisti dodici artisti impegnati nella creazione di opere, artwork speciali, installazioni con la realtà aumentata negli spazi messi a disposizione dai Poli da Nord a Sud d’Italia. Raccontati attraverso i linguaggi dell’arte contemporanea, i quattro Poli hanno “un ruolo cruciale per sviluppare un sistema di infrastrutture e di mobilità sempre più integrati e sostenibili a beneficio del Paese”, sottolinea FS sul proprio sito web.

Nello specifico, il Polo Infrastrutture si occupa dello sviluppo economico e sociale del territorio, Passeggeri della mobilità delle persone sostenibile per l’ambiente, Logistica della rivoluzione digitale del trasporto delle merci, il Polo Urbano della rigenerazione delle aree urbane di proprietà.

Ed è proprio quest’ultimo a essere stato inaugurato a Milano, allo Scalo Farini, all’interno del quale quattro installazioni interpretano il tema della rigenerazione urbana e della sostenibilità delle città del futuro, a

RIGENERAZIONE URBANA, SOSTENIBILITÀ, MOBILITÀ

E DIGITALE SONO ALCUNI DEI PUNTI

SU CUI POGGIA LA

NUOVA VISIONE DEL GRUPPO, CUI FS HA

DECISO DI DARE VOCE

ATTRAVERSO PROGETTI

D’ARTE CONTEMPORANEA CHE, DA MILANO, SI

SVILUPPERANNO POI IN

TUTTA ITALIA

I QUATTRO POLI

DI FERROVIE E

IL “POLO URBANO”

INAUGURATO

ALLO SCALO FARINI A MILANO

Qui si parla di arte che rigenera, così come noi, attraverso l’attività del Polo Urbano, rigeneriamo i nostri territori, in particolare le aree non più funzionali all’esercizio ferroviario.

L’arte rappresenta il modo migliore per approcciarsi alla rigenerazione urbana poiché essa stessa è rigenerazione. Qui abbiamo di fronte dei bellissimi esempi messi a disposizione dei cittadini, nuove espressioni di arte moderna che rappresentano un nuovo modo di collocarsi rispetto al territorio che rinasce.

Vogliamo fare da cerniera tra l’arte e i cittadini per renderla fruibile anche a chi in altri modi non potrebbe averla a disposizione”.

“Vogliamo rimettere a disposizione delle città i nostri (segue pagina 22)

21

(segue dalla pagina 21) immobili che sono presenti in 2200 località su tutta la rete nazionale e quindi restituire alla città questi vuoti urbani”, ha dichiarato Umberto Lebruto, Amministratore Delegato di FS Sistemi Urbani, società capofila del Polo Urbano di FS Italiane.

“Con quale modalità?

Soprattutto quella che rigenera urbanisticamente il quartiere, attraverso un benessere di tipo sociale, economico e soprattutto ambientale.

Ciò che vorremmo lasciare a Milano è un segno evidente di mobilità integrata fra quella urbana e quella ferroviaria ricucendo la frattura storica rappresentata dalle infrastrutture ferroviarie non più utilizzate, lasciando funzioni ai cittadini di benessere sociale e soprattutto di sostenibilità ambientale.

Quest’anno cercheremo un investitore che, insieme a noi, vorrà investire su questo scalo.

Nascerà”, conclude Lebruto, “un nuovo quartiere residenziale, direzionale e ricettivo oltre che favorire lo sviluppo del social housing, con più del 65% destinato a verde pubblico”.

Desirée Maida

Le Ferrovie dello Stato raccontano il proprio futuro aziendale attraverso l’arte www.fsitaliane.it

www.artribune.com/arti-visive/2023/03/ferrovie-stato-take-your-time/

MICHELANGELO FALSARIO E ALTRE BURLE

Anche il mondo dell’arte non è immune agli scherzi, con autori che si sono lasciati andare a burle e giochetti anche parecchio ironici, nonostante poi siano passati alla storia per essere stati artisti tra i più importanti e influenti di tutti i tempi.

Una bischerata diventata nota nel Rinascimento fu quella di Michelangelo che, in giovane età, realizzò un Cupido dormiente spacciandolo per reperto archeologico; e poi l’Autoritratto di Giorgione in realtà opera di Antonio Canova.

Insomma, aneddoti e storie che rendono ancora più interessante il mondo dell’arte, e che noi di Artribune abbiamo deciso di raccontarvi per celebrare, come sempre a modo nostro, questo Pesce d’aprile 2023. Sappiamo cosa state pensando: e il ritrovamento delle teste di Modigliani realizzate da un gruppo di simpatici studenti livornesi?

Vi raccontiamo anche quello!

Una delle truffe più celebri della storia dell’arte è stata architettata da uno dei suoi autori più noti e influenti di tutti i tempi, Michelangelo Buonarroti.

Poco più che ventenne, il genio rinascimentale realizzò un Cupido dormiente che, attraverso diversi espedienti, dava l’impressione di essere un’opera risalente all’antichità.

Foto artribune.it

Per farla apparire più antica, Michelangelo seppellì l’opera, operazione che conferì alla scultura una patina e un’aurea “archeologica”.

Il Cupido venne inserito così nel mercato romano delle antichità, ed ebbe anche un acquirente: il cardinale di San Giorgio Raffaele Riario.

Accortosi del raggiro, il cardinale chiese il rimborso da parte del mercante con cui aveva chiuso l’affare, non chiedendo però alcun rimborso a Michelangelo per via dell’illusione che era riuscito a creare con la sua maestria.

Addirittura Riario commissionò un’opera allo scultore, la statua di un Bacco, che però non piacque al cardinale e venne poi acquisita da Jacopo Gallo.

Il “falso” autoritratto di Giorgione

Nasce come una burla per ridere alle spalle della crème de la crème romana la storia che vede protagonisti l’artista Antonio Canova, il mecenate Abbondio Rezzonico e – suo malgrado – Giorgione.

Intorno alla fine del Settecento Canova realizzò, su idea condivisa con il principe romano, un dipinto passato alla storia come Autoritratto di Giorgione. Nel corso di un ricevimento presso la sua dimora, in cui erano presenti artisti e storici dell’arte, Rezzonico tirò fuori il dipinto, presentandolo come un autoritratto di Giorgione rimasto inedito fino a quel momento.

La perizia con cui Canova realizzò l’opera e la presenza di cornici d’epoca ingannarono i presenti, e l’inganno si è perpetuato fino a qualche anno fa, quando, arrivato alla fiera TEFAF, ci si è resi conto che l’opera non è di Giorgione ma di Canova, andando venduta.

Le fantomatiche teste di Modigliani a Livorno. Per un breve periodo è stata una delle scoperte più sensazionali della storia dell’arte, salvo poi rivelarsi una bischerata congegnata “ad arte”, è il caso di dirlo, da un gruppo di studenti livornesi.

Secondo una leggenda, Amedeo Modigliani prima del suo viaggio a Parigi avrebbe realizzato e poi gettato nei fossi livornesi alcune sue sculture, vero cruccio di non pochi storici e critici d’arte, anelanti di ritrovare queste misteriosissime opere di Modigliani.

E il desiderio, nel 1984, anno in cui decorreva il centenario dalla nascita dell’artista, si è avverato: in un canale a Livorno vengono ripescate tre teste scultoree, che autorevolissimi critici tra cui Giulio Carlo Argan e Bruno Zevi non esitano ad attribuire a Modigliani.

La notizia fa il giro del mondo fino a quando, a un mese e mezzo dalla “scoperta”, gli studenti livornesi Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pierfrancesco Ferrucci (segue pagina 24)

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vedi il video https://youtu.be/ gaV4KmSQ8uI

(segue dalla pagina 23) confessano in un’intervista a Panorama di essere stati loro a realizzate le teste ritrovate.

Visto che non trovavano niente, abbiamo deciso noi di fargli trovare qualcosa!”, hanno dichiarato i tre artisti per caso nei tanti programmi televisivi in cui sono stati ospitati, tra tutti quello in cui è avvenuta la prova del nove, uno Speciale TG1 in cui è stato chiesto loro di riprodurre una “testa”. Manuale di storia dell’arte alla mano, i ragazzi davanti al pubblico di tutto il Paese hanno dato vita a un’opera di Modì. Successivamente, è emerso che i ragazzi hanno in realtà realizzato una sola testa, mentre le altre due erano opere di Angelo Froglia, artista livornese che ha poi dichiarato, attraverso il suo gesto, di aver voluto “evidenziare come attraverso un processo di persuasione collettiva, attraverso la Rai, i giornali, le chiacchiere tra persone, si potevano condizionare le convinzioni della gente. Inoltre io sono un artista, mi muovo nei canali dell’arte, volevo suscitare un dibattito sui modi dell’arte e questo mi è riuscito in pieno”. Insomma, dalla burla alla performance il passo qui è stato davvero breve.

Desirée Maida

www.artribune.com/arti-visive/arte-moderna/2023/03/ dal-falsario-michelangelo-alle-teste-di-modigliani-le-burle-piu-celebri-del-mondo-dellarte/

Agrigento è la Capitale Italiana della Cultura 2025. La città siciliana è stata proclamata dal Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, durante la cerimonia tenutasi venerdì 31 marzo 2023nella Sala Spadolini del Ministero della Cultura.

Agrigento è stata selezionata da una rosa di dieci città finaliste composta da Aosta, Assisi (Perugia), Asti, Bagnoregio (Viterbo), Monte Sant’Angelo (Foggia), Orvieto (Terni), Pescina (L’Aquila), Roccasecca (Frosinone) e Spoleto (Perugia).

Ad aprire la conferenza è stato Davide Maria Desario, Presidente della Giuria che ha valutato i dossier di candidatura delle città finaliste: “li abbiamo valutati, confrontati a 360 gradi, seguendo con attenzione le linee guida previste dal bando.

È sui progetti presentati che siamo stati chiamati a scegliere e non per la bellezza delle città.

Il momento più emozionate sono state le audizioni delle città finaliste, che con i loro progetti hanno mostrato capacità organizzativa, visione, e con serietà e responsabilità non hanno voluto nascondere le loro fragilità.

Abbiamo visto e sentito professionalità e passione, un grande senso di squadra in grado di unire campanili e ideologie”.

Foto artribune.it
AGRIGENTO CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2025 LA CITTÀ SICILIANA SI AGGIUDICA IL TITOLO PER “I TEMI DELL’ACCOGLIENZA E DELLA MOBILITÀ E PER IL RICCO PATRIMONIO CULTURALE DEL TERRITORIO”

Desario inoltre lancia un invito al Ministro Sangiuliano: “i progetti delle città che non si aggiudicheranno il titolo non meritano di essere dispersi, ma di essere supportati nella maniera che il Ministero riterrà più opportuno”.

“L’Italia è una super potenza culturale perché, in questo, la storia ci ha baciato: abbiamo avuto in migliaia di anni di storia un unicum nella sovrapposizione di diverse civiltà che si sono sedimentate sul nostro territorio”, ha dichiarato il Ministro Sangiuliano.

“Dobbiamo essere orgogliosi delle nostre città e del nostro territorio.

Anche per le città non Capitali troveremo il modo affinché anche i loro progetti possano trovare un momento di realizzazione”.

Nel corso della conferenza, Sangiuliano ha inoltre annunciato la nascita di un nuovo titolo che andrà ad aggiungersi a quello di Capitale Italiana della Cultura e di Capitale Italiana del Libro: dal prossimo anno sarà proclamata anche la Capitale Italiana dell’arte contemporanea.

Desirée Maida

https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-amministrazione/2023/03/ agrigento-capitale-italiana-cultura-2025/

MACCA – Museo D’Arte Contemporanea a Cielo Aperto di Peccioli dà ufficialmente il via alle sue attività nel cuore della Valdera, tra Pisa e Volterra.

Inaugurato il 25 marzo, quando sono state svelate al pubblico le tre nuove opere d’arte di Vittorio Corsini, Marcella Del Signore, Maria Perbellini-Christian Pongratz e ha inoltre avuto luogo la riapertura del Museo Archeologico, riconosciuto da poco dal Ministero della Cultura come struttura di livello nazionale, con il nuovo allestimento.

Il MACCA ospita oltre 70 opere d’arte contemporanea, frutto di un lavoro trentennale con artisti italiani e internazionali invitati a sviluppare nel tempo progetti in sintonia con il territorio pecciolese.

E nello stesso tempo, è un’istituzione che raccoglie sotto un’unica direzione le progettualità artistiche disseminate sul territorio di Peccioli e le sue frazioni. Così, questa data rappresenterà uno dei punti cardine della programmazione del Comune, della Fondazione Peccioli per e di Belvedere Spa.

Da oltre trent’anni, la cittadina incastonata in un paesaggio collinare porta avanti Cantiere Peccioli, un ambizioso progetto che interseca l’arte contemporanea(segue è 26)

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(segue dalla pagina 25) con il territorio e la sua identità.

L’idea di un parco d’arte contemporanea nasce nel 1991, sulla base di due esigenze molto sentite dall’amministrazione comunale: creare un cammino culturale incentrato sull’arte e farlo in maniera da lasciare un segno durevole.

Prima l’idea di rendere le opere di arte contemporanea a cielo aperto un vero e proprio museo pubblico. Poi l’annuncio nel luglio 2022 della scelta del nome e l’inizio dei lavori per rendere il Macca, acronimo di museo di arte contemporanea a cielo aperto (e diffuso nel territorio), realtà.

Mesi di lavoro, di catalogazione certosina, di preparazione di una sezione specifica nell’app Sistema Peccioli. L’allestimento di nuove opere e di un percorso che permetterà a Peccioli di avere un museo unico nel suo genere in tutto il panorama nazionale.

Il 25 marzo, il Macca di Peccioli ha aperto ufficialmente le sue porte. L’evento di lancio ha visto come cuore pulsante il portico di piazza del Popolo. Oggetto di un restyling, già in programma da tempo da parte dell’amministrazione comunale, e che restituisce, ora, un vero e proprio nuovo salotto pubblico ai cittadini pecciolesi e ai turisti. Questo luogo rappresenta al meglio la centralità simbolica del Macca, il

MACCA UN MUSEO A CIELO APERTO

punto di ritrovo e relazione della comunità in cui sarà possibile incontrarsi e discutere di arte e cultura nel tempo libero.

Gli uffici tecnici del Comune di Peccioli hanno lavorato al rifacimento degli intonaci e alle tinteggiature tradizionali di questo spazio, in accordo con la Soprintendenza di Pisa.

Lo spazio è stato arredato come un vero e proprio salotto e sarà il fulcro dal quale, dal centro storico e verso tutte le frazioni, si irradieranno i vari percorsi artistici nel territorio comunale.

Ma cos’è, dunque, il Macca? È un’istituzione del Comune di Peccioli, sostenuta anche da Fondazione Peccioliper e Belvedere spa, in grado di raccogliere sotto un’unica direzione le progettualità artistiche disseminate sul territorio di Peccioli e le sue frazioni.

Il museo ospita una moltitudine di opere d’arte contemporanea, frutto di un lavoro trentennale in relazione con artisti e artiste che nel tempo sono stati invitati a sviluppare progetti in sintonia con il territorio pecciolese.

Il tutto non attraverso un calendario di mostre a tema, ma con l’idea di commissionare a vari artisti un intervento pensato ad hoc per la città e il territorio, creando nel tempo un vero e proprio museo a cielo aperto, perfettamente integrato con l’abitato e la natura circostante.

Foto progettoblio.com

Per questo motivo, la collezione del MACCA, che oggi conta più di 70 opere, prevalentemente installazioni di grandi dimensioni, è in continuo incremento, permettendo al tempo stesso il recupero degli spazi pubblici, che ricostruiscono anche il rapporto intergenerazionale, di comunità.

“Il museo diventa diffuso, da indagare, da ricercare: a cielo aperto”, si legge nel testo introduttivo della brochure del MACCA.

“L’arte diventa strumento per visitare il territorio e i suoi luoghi più nascosti, girare per le frazioni di Ghizzano, Legoli, Montecchio e Fabbrica; arrivare all’Impianto di smaltimento e trattamento dei rifiuti e comprendere che una discarica può coesistere con opere d’arte e un teatro – anch’esso opera; e ancora, avere la possibilità di parcheggiare al Parcheggio Multipiano e poter camminare su una passerella colorata, una spirale che porta alla visione del panorama sulla vallata e scoprire che dal lato opposto la stessa vista panoramica è offerta dalla terrazza del Palazzo Senza Tempo, altro punto cardine del processo di rigenerazione del paese”.

Non resta che andare alla ricerca delle opere d’arte contemporanea sparse per Peccioli e dintorni e, nel farlo, scoprire il territorio e la sua comunità.

Messa in liquidazione lo scorso 29 dicembre da Cassa Depositi e Prestiti, ITsArt, piattaforma italiana per contenuti video voluta dall’ex ministro della Cultura Dario Franceschini come “Netflix della cultura”, si avvia a essere cancellata dal registro delle imprese nel prossimo futuro.

IL PRIMO ESEMPIO DI ISTITUZIONE DIFFUSA

SUL TERRITORIO, IN CONTINUA CRESCITA

ED ESPANSIONE

NEL PISANO, DÀ IL VIA ALLE SUE

TRE NUOVE OPERE

DI ARTE PUBBLICA

E RIAPRENDO IL SUO

MUSEO ARCHEOLOGICO

E ora c’è anche la data che sancirà la messa offline del sito ancora raggiungibile all’indirizzo www.itsart.tv: 12 maggio 2023. Lo spegnimento definitivo della piattaforma, che il ministro Gennaro Sangiuliano ha deciso di non rifinanziare stanti i quasi 7,5 milioni di euro persi dalla stessa in meno di un anno, si concretizza così a poco meno di due anni dal lancio dell’iniziativa: ideata durante il primo lockdown (con l’ufficializzazione da parte dell’ex ministro Franceschini nel luglio 2020) per compensare il mancato accesso allo spettacolo dal vivo e allo stesso tempo raggiungere un bacino di utenti nazionale e internazionale anche dopo l’emergenza, infatti, la piattaforma era stata attivata il 2 giugno 2021, live e on demand, con contenuti esclusivi disponibili in Italia e all’estero per “celebrare e raccontare il patrimonio(segue pagina 28)

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ATTIVITÀ SVELANDO
MUSEO
CIELO APERTO IN CONTINUO INCREMENTO
MACCA UN
A

(segue dalla pagina 27) culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”.

Il progetto promosso dall’allora Mibact (oggi MiC) insieme a Cdp, aveva dato il via alla costituzione della nuova società partecipata al 51% da Cdp e al 49% da CHILI Spa, partner industriale selezionata attraverso una procedura competitiva aperta, con la collaborazione della Rai e di altre istituzioni e soggetti del settore culturale, pubblici o privati.

Nonostante l’arco di vita relativamente breve, ITsArt non ha mancato di suscitare polemiche, ottenendo risultati ben sotto le aspettative, gli appena 141mila utenti registrati e i voucher hanno permesso di raggiungere solo 246mila euro di entrate contro i 7,5 milioni di uscite nel 2021, a fronte di un investimento pubblico iniziale pari a 10 milioni di euro, e cumulando alcuni significative mancanze, dall’incapacità di rendere le procedure di registrazione e profilazione intuitive e user-friendly alla scarsa appetibilità dei contenuti (con eccezioni come il documentario visibile gratuitamente Eterna Pompei, dedicato al restauro della Casa dei Vettii, una produzione originale ITsArt realizzata da Except, il documentario “Bene!

ITSART CHIUDE

IL 12 MAGGIO 2023

IDEATA NEL 2020

DURANTE IL PRIMO LOCKDOWN E ONLINE DA GIUGNO 2021, LA PIATTAFORMA ERA

STATA MESSA IN LIQUIDAZIONE ALLA FINE DEL 2022, PER LA DECISIONE DEL MINISTRO SANGIULIANO

DI NON RIFINANZIARE IL PROGETTO.

SARÀ OFFLINE

DAL 12 MAGGIO 2023

Vita di Carmelo”, la macchina attoriale, prodotto da Echivisivi e ITsArt per il ventennale della morte dell’artista, o il film “Franco Battiato – La Voce del Padrone”, coproduzione RS productions e ITsArt), ai prezzi fuori mercato (talvolta per fruire di contenuti già visibili gratuitamente altrove, per esempio su RaiPlay).

Una gestione turbolente, che ha portato all’avvicendarsi, nel corso di un solo anno, di ben tre amministratori delegati.

Attualmente in fase di attendere “a tutti gli adempimenti legalmente richiesti in questa fase liquidatoria”, la società (oggi registrata come ITsART S.p.A. in liquidazione) continua a presentarsi nella sua piena operatività, pur sempre priva di qualsivoglia indirizzo editoriale o artistico (circostanza che ha pesato al pari dell’assenza di un piano industriale), come purtroppo è stato chiaro dall’inizio. Tra poco più di un mese, però, l’iniziativa sarà solo un ricordo, proprio come successo non troppi anni fa a Verybello.

Livia Montagnoli

https://www.artribune.com/progettazione/ new-media/2023/03/itsart-chiude-piattaforma-offline-2023-netflix-cultura/

Foto drcommodore.it

Di come collegare per via aerea la Sardegna con la penisola si è parlato e scritto fin dal tempo delle ascensioni aerostatiche, nell’Ottocento, quando vennero tentate tutte le strade per poter rendere dirigibili i palloni gonfiati con gas ad idrogeno.

Di fatto, non si approdò a nulla, mentre altrove i servizi aerei cominciarono presto: in Germania, tra il 1912 ed il 1913, i primi Zeppelin trasportarono 19.100 passeggeri, percorrendo centomila chilometri senza un solo inconveniente.

Negli Stati Uniti, dal gennaio 1914, per 5 dollari si poteva andare in volo da San Petersburg a Tampa, in Florida.

Finita la guerra mondiale, tutti i paesi aprirono rotte commerciali o sperimentarono con i raid la possibilità di realizzare collegamenti col nuovo mezzo.

In Italia, le prime linee furono inaugurate soltanto nel 1926: iniziative private (Cosulich, Fiat) che godevano di lauti finanziamenti pubblici.

Stando così le cose, l’allora ministro dell’aria Italo Balbo decise che lo Stato le dovesse gestire da sé e fondò la Società Aerea Mediterranea (Sam), cui furono assegnate due tratte: inizialmente per l’Albania e successivamente, su pressione di ambienti economici e politici isolani, anche per la Sardegna.

LA SARDEGNA E L’AEREONAUTICA

Balbo nominò il famoso aviatore Francesco De Pinedo presidente della neonata società e “Franzetiello”, come veniva chiamato De Pinedo per sottolinearne la napoletanità ed anche la modesta statura, accettò di partecipare al primo volo.

Idroscalo di Elmas, 13 febbraio 1927: il Savoia Marchetti S55 “Santa Maria” prima del decollo per il volo transoceanico verso le Americhe Si avverava così un sogno lungamente perseguito.

Già nella seconda metà dell’Ottocento, padre Vittorio Angius aveva cercato di risolvere il problema del trasporto aereo dei passeggeri dalla penisola alla Sardegna e viceversa, progettando due dirigibili caratterizzati da alcune originali soluzioni, che sarebbero state riprese più tardi. Dopo di lui, altri tentarono senza fortuna la strada dell’aria.

Nel 1917, la Banca commerciale italiana e la fabbrica di idrovolanti Savoia Marchetti idearono di costituire una società per il collegamento aereo con le isole, ma l’iniziativa cadde nel vuoto per l’opposizione del governo.

L’anno seguente fu la volta dello scultore sardo Pietrino Soro, che varò un progetto analogo e si diede da fare per ottenere l’indispensabile finanziamento.

Raccolse soltanto 18 mila lire e finì per rimetterci (segue pagina 30)

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Foto sardegnaindustriale elmas 1929

(segue dalla pagina 29 la sua quota e quella del cavaliere Enrico Costa e del maggiore Vittorio Demuro, che era stato il primo pilota sardo.

Soro venne anche trascinato in giudizio e, dopo l’infelice esperienza, dichiarò solennemente di non voler più sentir parlare d’aviazione.

Negli anni Venti, la necessità di un regolare servizio di trasporto aereo tra la terraferma e le due isole maggiori venne sostenuta da Umberto Nobile, il primo trasvolatore del polo Nord.

Ma, anche questa volta, non si andò oltre le intenzioni.

All’importante traguardo si giunse solo nel 1926, quando venne inaugurata la linea Torino-Trieste, che peraltro non interessava le isole.

I motivi di questo ritardo furono molteplici, ma il principale andava ricercato nello spirito di smobilitazione che pervase l’Italia all’indomani della grande guerra e che portò alla dispersione sia dei velivoli che dei piloti e degli specialisti.

Solo più tardi si corse ai ripari, grazie all’appassionata e tenace opera di Italo Balbo, che in pochi anni riuscì non solo a recuperare il tempo perduto, ma a portare l’aviazione italiana all’avanguardia nel mondo.

Ed ecco rispuntare Pietrino Soro: aveva fondato una società che portava il suo nome, la Soro, ed a cui era in qualche modo

Idroscalo di Elmas, 13 febbraio 1927: il Savoia

Marchetti S55 “Santa Maria” prima del decollo per il volo transoceanico verso le Americhe

legato anche l’oristanese Ernesto Campanelli, che durante la guerra 1914- 18 era stato motorista di Francesco De Pinedo in una squadriglia di idrovolanti che operava nel basso Adriatico.

Ad effettuare il collegamento con la Sardegna avrebbe dovuto essere un velivolo con scafo centrale in costruzione alla Macchi di Varese e capace di trasportare, oltre al pilota ed al motorista, otto passeggeri e mille chili di merce.

Venne anche fissato il prezzo del biglietto: 200 lire, poco più del viaggio per mare in prima classe.

Il volo inaugurale fu annunciato più volte dalla stampa, ma l’aereo non giunse mai.

Amareggiato e deluso, Pietrino Soro scomparve per sempre dalle cronache aeronautiche.

Il Dornier X “Umberto Maddalena” ormeggiato nel porto di Cagliari nel 1933, in occasione di una visita in città del Principe di Piemonte.

Di fabbricazione tedesca, il Dornier X (48 metri di apertura alare!) fu acquistato dalla Regia Aeronautica in due esemplari

Il 21 aprile del 1928, data del primo collegamento aereo tra la Sardegna e la penisola, tutto questo era ormai dimenticato.

In quel giorno, infatti, dopo che se n’era parlato per qualche anno, tra anticipazioni e rinvii, venne final-

Foto ibolli.it

mente inaugurato il primo collegamento Ostia-Elmas, in contemporanea alla linea Brindisi-Valona.

Lo gestiva la citata società Sam, di cui era presidente, ricordiamo, il napoletano De Pinedo.

L’aereo del primo volo, un idrovolante Savoia Marchetti 55, poteva trasportare, oltre all’equipaggio, 8 passeggeri con 15 chili di bagaglio ciascuno. In pratica, quando capitò, trasportò anche il doppio delle persone consentite.

Il velivolo si alzò su una folla di persone in festa, compì un largo giro e puntò sul mare verso Olbia, che allora si chiamava Terranova.

Faceva da battistrada, con un più veloce S 59, lo stesso De Pinedo.

Un’ora dopo, i piloti Salminci e Berardi compirono l’ammaraggio ad Olbia.

Fatto rifornimento, dopo altri novanta minuti il velivolo sorvolava Cagliari ed ammarava nello stagno, ormeggiandosi a Cala Imbarcadroxiu.

Con degli autobus, i passeggeri raggiunsero il capoluogo. La tariffa del viaggio intero era di 300 lire; la prima tratta costava 180 lire, la seconda, quella da Olbia a Cagliari, 130.

Allo sviluppo del trasporto aereo fra Ostia e lo scalo cagliaritano contribuirono senz’altro, oltre alla “voglia di volare” dei sardi, il senso di sicurezza dato dal-

Lido di Ostia, 1928: l’idrovolante Savoia Marchetti

S55 si prepara al decollo per l’idroscalo di Cagliari .

la regolarità dei voli del Savoia Marchetti S55, che inalberava sugli scafi una vistosa scritta “Linea aerea Ostia Cagliari” ed il comfort che offriva anche grazie ai piloti, che fornivano cuscini ai passeggeri ansiosi.

Rassicurava anche il fatto, come raccontano le cronache dell’epoca, che, per tutto il viaggio, il radiotelegrafista si tenesse in contatto con le basi per «fornire informazioni sul volo e scambiare saluti». Il volo si svolgeva spesso a 300 metri di quota, seguendo la rotta della costa orientale della Sardegna orientale e compiendo il balzo sul mare da Olbia.

Pochi mesi dopo il volo inaugurale, da Sesto Calende giunse l’idrovolante I-AABF, che avrebbe assicurato per molti anni il regolare collegamento tra la Sardegna ed Ostia. Una puntualità così perfetta da indurre l’Unione Sarda a scrivere che i cagliaritani regolavano l’orologio al passaggio dell’aereo di linea alle 8,30 ed alle 11 del mattino.

ll successo fu immediato. Già al primo viaggio di ritorno, 14 persone si presentarono per occupare gli otto posti disponibili: furono imbarcate lo stesso.

L’aereo partì ed a Terranova accolse addirittura altri tre passeggeri, portando a destinazione più del doppio del carico previsto.

(segue pagina 32)

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(segue dalla pagina 31) Tanto fu il consenso che, appena sette mesi dopo quel 21 aprile, la linea da bisettimanale si trasformò in trisettimanale, per diventare giornaliera entro il primo anno di esercizio.

Nel 1929, lo scalo di Terranova fu soppresso, mentre la linea, due volte alla settimana, fu estesa a Tunisi.

Otto anni dopo, la Cagliari-Ostia ebbe di nuovo una tappa intermedia, rappresentata dalla vasta e sicura rada di Porto Conte presso Alghero.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1934, gli “S 55” lasciarono il posto ai più veloci e capienti trimotori “S 66”.

Ottime macchine che, peraltro, non raggiunsero mai l’affidabilità e la sicurezza dei benemeriti “S 55”, alle cui doti di stabilità e di robustezza si deve se i sardi accettarono subito di volare.

Macchine che, con gli uomini che le guidavano, resero possibile una regolarità di voli pari al 97 per cento, impensabile anche ai giorni nostri.

Da aprile a dicembre del 1928, si contarono 140 voli con 1.055 passeggeri; nel 1929, i voli furono 657 ed i viaggiatori oltre cinquemila.

Negli anni seguenti, l’aviolinea fu sempre più frequentata.

Nel 1937, per esempio, si registrarono ben 9.748 presenze, che misero la tratta al primo posto assoluto in Italia (la Ro-

Anno 1938: una coppia di biplani militari I-RO della Regia Aeronautica sorvola la laguna di Elmas. L’aereo in primo piano è pilotato dal generale Aldo Costa, allora giovane tenente

ma-Milano seguiva con 8.958 passeggeri e tutte le altre stavano molto più indietro).

Fino alle soglie del conflitto 1939-45, sulla Cagliari-Ostia volarono mediamente diecimila passeggeri all’anno.

Si era compiuto il miracolo: mentre le onde del Tirreno scivolavano via velocemente sotto le ali degli idrovolanti Savoia Marchetti, i sardi superavano in volo la distanza millenaria tra la costa laziale e l’isole dei nuraghi.

Improvvisamente, piroscafi e velieri apparivano decisamente superati.

Basti pensare che, in quello storico 1928, per andare via mare da Cagliari a Roma, passando per Terranova, occorrevano 20 ore, che diventavano addirittura 22 con la linea trisettimanale Cagliari-Civitavecchia. Senza dire dei disagi cui, tranne qualche raro giorno di bonaccia, andava incontro chi intendeva raggiungere la penisola: notti insonni nei cameroni comuni di terza classe e snervanti dondolamenti, che provocavano un terribile mal di mare, con relativi annessi e connessi.

Poi giunse la guerra. Elmas si allargò, diventando aeroporto di prima linea, luogo di stazione o passaggio di stormi e squadriglie. I voli civili si diradarono, poi vennero effettuati solo da Olbia, in ore notturne, ed

Foto sardegnaindustriale

infine cessarono.

Dalla Sardegna si operò contro Gibilterra e contro le navi inglesi e si tentò di contrastare lo sbarco alleato in Tunisia e Sicilia.

In tre anni passarono nell’aeroporto cagliaritano, partendo per azioni di guerra, personaggi i cui nomi sono entrati nella storia.

Dall’alba al tramonto era un alveare di motori e velivoli che andavano, combattevano, tornavano, venivano rappezzati alla meglio e ripartivano con le bombe o con i siluri agganciati nella parte inferiore.

Anno 1946: solo macerie e rottami in un’Italia devastata dalla guerra.

I porti impraticabili per le decine di scafi semisommersi, rovesciati.

I mari infestati dalle mine vaganti sradicate dai campi minati e mosse da un’insidiosa deriva. Buona parte degli aeroporti ridotti a spiazzi inutilizzabili, disseminati di buche.

In questo quadro, quasi tutti i collegamenti regolari con l’isola furono inevitabilmente cancellati, con gravissime conseguenze.

La mancanza di un tessuto industriale e l’interruzione dei collegamenti ricacciano la Sardegna in una sorta di età della pietra: si fabbrica il sapone coi fichidindia, si chiodano le scarpe di pelle non conciata con spine e

Aeroporto di Monserrato, Scuola di volo della Runa (Regia Unione nazionale aeronautica), anno 1938: accanto a un Caproni 100 si riconoscono, da sinistra, Marino Cao (il primo), Vittorio Minio Paluello (terzo), Aldo Costa (ultimo, a destra)

punte di legno, si accende il fuoco con l’acciarino, si riparano gli strappi sugli abiti con fili stramati dai tessuti e con fibre vegetali.

In quel tragico palcoscenico ci fu chi pensò alla resurrezione e avviò due progetti apparentemente assurdi: creare una compagnia di trasporti aerei ed una società per la navigazione marittima. Nacquero così, con i soldi “raccattati” su una piazza entusiasta, la Sardamar e l’Airone.

Vennero vendute cinquantamila azioni, tutte da mille lire.

Fra i promotori, ricordiamo Vittorio Minio Paluello, già direttore delle saline Contivecchi e contitolare della Micopori, appassionato aviatore; Marino Cao, industriale del legno, Andrea Borghesan e Sante Boscaro, tutti aviatori dell’Aero Club.

E ancora: Mario Azzera, Sebastiano Pani, Enrico Pernis e Giorgio Sisini, fondatore della “Settimana Enigmistica”.

L’Airone fu la prima compagnia aerea italiana del dopoguerra.

Nata sull’aeroporto di Monserrato, derivava il suo nome dagli eleganti volatili migratori che sin da allora popolavano lo stagno di Molentargius. Un capitolo importante, che si sarebbe rivelato decisivo per la vita della società, fu quello della scelta dei velivoli.

Dopo un primo, infruttuoso (segue pagina 34)

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Foto sardegnaindustriale.ie

(segue dalla pagina 33) tentativo di ottenere dall’Inghilterra velivoli De Havilland ad otto posti (i britannici pretendevano soldi contanti), giunse l’offerta di uno stock di Douglas DC3 residuati bellici.

Questi aerei, noti come Dakota, durante tutto il conflitto ed in ogni condizione di impiego e di carico, si erano comportati in maniera così eccellente che i loro equipaggi li idolatravano.

Più di una volta erano riusciti a stare per aria con le ali spezzate o lesionate e ad atterrare su fazzoletti di terra sconvolti dalle cannonate.

La bontà delle macchine non era, dunque, in discussione.

Ogni velivolo veniva offerto per sole cinquecentomila lire.

Occorreva, però, riadattarlo all’impiego civile, revisionarlo, irrobustirne i longheroni delle ali, affaticati da migliaia di voli con ogni tempo.

Alla fine, il prezzo dell’aereo sarebbe risultato triplicato, forse anche di più, ma sarebbe sempre stato un ottimo affare.

Era scritto, però, che l’Airone non potesse disporre dei DC3.

L’opzione che li riguardava venne, infatti, a cadere.

Vediamo il perché.

Circa un anno e mezzo dopo la creazione della compagnia, in Italia si costituì una grossa società finanziata dagli americani – la Lai – che

L’aeromobile I-AIRN “Gallura”, uno dei quattro Fiat G12 acquistati dalla Compagnia trasporti aerei “Airone”

intendeva gestire il trasporto aereo nel nostro paese. Gli inglesi chiesero di parteciparvi ma, non essendo stati accettati, diedero vita ad un altro forte gruppo: l’Alitalia.

Per non essere schiacciata dalle due società, che erano in grado di esercitare pesanti pressioni politiche, la compagnia sarda si risolse ad investire oltre la metà del suo capitale (30 milioni) nell’acquisto di azioni dell’Alitalia.

Di conseguenza, l’Airone si trovò nell’impossibilità di comprare i Dakota dagli americani e dovette ripiegare su alcuni trimotori Fiat G 12 L.

Si trattava di macchine robuste e sicure, ma dispendiose nei consumi e nella manutenzione.

Pochi mesi più tardi, infatti, si rese necessario sostituire i motori Fiat con i Pratt Withney americani, più affidabili e più economici nel consumo del carburante.

Ma il colpo mortale all’Airone era stato vibrato già prima dell’inizio del servizio, avviato il 15 aprile 1947.

La compagnia aerea aveva ricevuto una comunicazione dal ministero dell’Aviazione civile in cui si chiariva che la concessione della linea Cagliari-Roma dovesse intendersi come Cagliari-Alghero-Roma.

Il provvedimento, adottato per evitare la concorrenza della Lai, cui era stata assegnata la tratta diretta,

Foto sardegnaindustriale.it

comportò per l’Airone gravi problemi: tempi di volo allungati, maggiori consumi, un atterraggio ed un decollo in più, personale anche nello scalo di Alghero.

Le tariffe, però, non subirono alcuna modifica. In tal modo, ad onta del suo lungo collo, l’Airone sardo fu strangolato. Inoltre, mentre gli aerei della Lai erano costati due soldi, i Fiat in dotazione all’Airone costavano più di un’intera flotta di DC3: 28 milioni e mezzo.

Malgrado tutto questo, alla fine del primo anno, l’Airone aveva trasportato oltre 12 mila passeggeri senza il minimo inconveniente.

Il servizio era iniziato “ereditando” i passeggeri dei “corrieri militari”, ai quali si chiedeva il passaggio da e per l’isola.

La flotta era costituita, come detto, da quattro Fiat G 12 da 20 posti, acquistati dalla fabbrica torinese ed immatricolati con le siglie I-AIRE “Barbagia”, I-AIRO “Logudoro”, I-AIRN “Gallura” e I-SASS, che collegavano il capoluogo sardo con Roma in 90 minuti e con Milano in 180 minuti.

La compagnia sarda attivò anche altre linee, estendendo la sua rete fino a quasi 5 mila chilometri, ma ciò non bastò per portare il bilancio in attivo.

La sede di Milano pesava eccessivamente sulle spese della piccola compagnia: spese di rappresentanza

ed una serie di noleggi di aerei, per trasporti di merce tra Milano e diverse località europee, decisi con iniziativa personale del responsabile di quell’ufficio ed al di fuori da qualsiasi preventiva autorizzazione del consiglio di amministrazione. Ci fu un altro errore di partenza e Marino Cao lo puntalizzò in un articolo pubblicato su un quotidiano locale: l’appartenenza a “continentali” della maggior parte del capitale.

Più esattamente, gli azionisti della Sardegna rappresentavano 11 milioni e 765 mila lire; gli azionisti della penisola detenevano azioni per 38 milioni e 235 mila.

Poco dopo, davanti all’estendersi delle due grandi compagnie Alitalia e Lai (ambedue erano al 40% Iri ed al 20% di privati, mentre il restante 40% era, per la prima, della Boac inglese e, per la seconda, della Twa statunitense), quattro società minori decisero di riunirsi per reggere meglio alle spallate della concorrenza. Oltre all’Airone, erano la Sisa, la Transadriatica e la Ali del gruppo Fiat.

In realtà, fu quest’ultima ad assorbire le altre tre, in una nuova società che si chiamò Ali Flotte Riunite.

Un anno dopo, un suo G 12 incorse nella tragedia di Superga, dove persero la vita i giocatori del Torino; (seguepagina36)

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(segue dalla pagina 35) poi, attraversò una crisi finanziaria che la indusse a chiudere alcune linee internazionali.

Alla fine del 1949 fu posta in liquidazione.

I quattro G 12 dell’Airone, ai quali si era aggiunto il nuovissimo G 12 LP, finirono i loro giorni come aule volanti dell’aeronautica militare, e della compagnia sarda non si parlò più.

Negli anni Cinquanta i collegamenti furono garantiti dalla “triade” Alitalia, Ati ed Itavia, che videro comparire all’orizzonte del decennio successivo un nuovo vettore: l’Alisarda. Compagnia aerea a capitale interamente privato, fu costituita nel marzo del 1963 per iniziativa del principe Aga Khan, con lo scopo iniziale di favorire lo sviluppo dell’attività turistica in Costa Smeralda, nella Sardegna nord-orientale, fino ad allora servita solo via mare.

Un anno dopo, la compagnia iniziò la sua attività dall’aeroporto di Olbia-Venafiorita, operando con aeromobili Beechcraft C-45 ad otto posti e nel primo anno trasportò 186 passeggeri. Nel 1966, acquistati due Nord 262 a 26 posti, Alisarda inaugurò i collegamenti da Roma e da Milano per Olbia, trasportando 5.640 passeggeri. Nel 1968, fu superata la soglia dei 20 mila passeggeri trasportati. Con il progressivo au-

Foto ebookspy.com

Un Fokker 28 dell’Itavia sulla pista di Elmas, nei primi anni Settanta.

mento del traffico turistico verso la Sardegna, Alisarda effettuò nuovi investimenti: i Nord 262 furono sostituiti con i Fokker 27 e la pista di Venafiorita, fino ad allora in terra battuta, fu adeguata alle nuove esigenze e ricoperta in cemento e bitume. Nello stesso tempo, venne ampliata anche la rete dei servizi, che si estendeva ad altri scali quali Cagliari, Genova, Torino, Bologna e Pisa.

Nel 1974, i Fokker 27 furono sostituiti con due DC914, che entrarono in linea contestualmente all’apertura del nuovo aeroporto di Olbia-Costa Smeralda. Nell’ambito delle nuove strutture aeroportuali, Alisarda realizzò un grande hangar con sofisticate attrezzature, che consentirono alla Compagnia di attuare autonomamente l’assistenza tecnica – con tecnici in maggioranza sardi – ai propri aerei.

Negli anni a seguire, la flotta aerea aumentò progressivamente e nuove rotte furono via via concesse.

Nel 1989 fu resa operativa la Geasar spa (Gestione aeroporti sardi), la società che tuttora gestisce l’aeroporto di Olbia e della quale la Compagnia, attualmente, detiene il 79,79% del capitale.

Nel maggio di due anni dopo, l’assemblea straordinaria degli azionisti, tenuto conto della nuova realtà che vedeva l’Alisarda ormai impegnata anche in ambito europeo, deliberò il cambiamento della ragione socia-

le in Meridiana spa.

Fu rinnovata anche l’immagine grafica, adottando il nuovo simbolo societario, e sottoscritta una convenzione con il ministero dei Trasporti, grazie alla quale la neonata società vide ulteriormente consolidata la propria posizione in ambito nazionale ed europeo. Pochi anni prima aveva fatto la sua comparsa, nel panorama aereo regionale, l’Air Sardinia di Corrado Corrias.

Il 18 giugno 1987 si svolse il viaggio inaugurale da Tortolì a Cagliari, una linea che registrò un successo insperato.

In un solo mese furono trasportate 1.500 persone, entro la fine dell’anno i passeggeri ammontarono a più di 5.000.

Con queste premesse, a meno di un anno dalla nascita, la Compagnia sarda raggiunse una serie di traguardi importanti: l’inizio dei collegamenti trigiornalieri Cagliari-Tortolì, i collegamenti bigiornalieri Cagliari-Alghero e Cagliari-Olbia, il completamento dell’organico piloti e copiloti, lo staff degli impiegati di scalo e delle hostess, l’acquisizione dei locali biglietteria e centraggio nell’aerostazione di Elmas, l’apertura di un ufficio operativo e di rappresentanza nel capoluogo cagliaritano. Parallelamente, nella base di armamento di Tortolì,

Un aereo Islander della Compagnia Air Sardinia sulla pista di Tortolì

dopo aver acquisito l’aeroporto della Cartiera di Arbatax, l’Air Sardinia provvide alla realizzazione degli impianti per le radiocomunicazioni, per l’illuminazione della pista e per il radiofaro, acquistò i mezzi antincendio ed allestì l’officina di manutenzione, con un fornito magazzino ricambi.

Un lavoro organizzativo ed un impegno finanziario non indifferenti, anche perché sostenuti direttamente dai soci, senza alcun intervento di danaro pubblico.

Finchè operò, la Compagnia proseguì nel programma di rafforzamento delle linee aeree sarde interne, per consentire ad un’ampia fascia di utenza di raggiungere i maggiori aeroporti sardi in coincidenza con i voli Alitalia-Ati-Alisarda per altre destinazioni, per effettuare voli charter per conto di organizzazioni turistiche internazionali interessate a dirigere la propria clientela in Sardegna e, infine, per collegare altre località, la cui potenzialità di traffico non appariva tale da richiamare i velivoli di maggiore capacità.

Sempre negli anni Ottanta, per conquistare maggiori fasce di utenza, l’Ati concesse una riduzione sulle tariffe per le linee con la Sardegna che arrivò al 30 per cento.

L’impegno si rivelò talmente oneroso che, per ripianare il deficit, la (segue pagina 38)

37 Foto sardegnaindustriale.it

(segue dalla pagina 37) Compagnia di bandiera chiese, e la Sardegna rispose positivamente, di eliminare lo sconto per i non residenti, salvaguardando il trattamento privilegiato soltanto per coloro che abitavano nell’isola e per gli emigrati.

Ma il decennio successivo segnò la fine delle agevolazioni anche per i sardi.

Infatti l’Ati, non ricevendo più sovvenzioni, avviò un graduale piano di rientro, che prevedeva la progressiva eliminazione dello sconto per i residenti.

Un taglio graduale: il dieci per cento in meno nel ’92, il doppio nel ’93, il triplo (cioè l’intero sconto) nel ’94.

La decisione fu presa anche a causa dell’entrata in vigore della norma che faceva divieto agli stati membri della Cee di elargire sovvenzioni finanziarie ai vettori.

La revisione del regime non fu mai formalmente comunicata alla Regione, perché esprimesse il parere previsto dalla legge: le fu solo chiesto se intendesse farsi carico delle sovvenzioni non più erogate dallo Stato. La risposta fu “no”, seguita dalla richiesta all’Ati di una dilazione nella cancellazione del prezzo di favore.

Da allora, le tariffe applicate nei trasporti aerei da e per la Sardegna non previdero più differenze rispetto a quelle delle al-

Un cargo Lockeed 200 della Compagnia francese ICS e un DC 9 Alitalia sulla pista di Elmas, in occasione dei campionati del mondo di calcio del 1990

tre regioni. I sardi, insomma, non solo non avevano la continuità territoriale, ma per spostarsi erano costretti a prendere l’aereo a prezzi da capogiro.

Come per un paradosso, la causa di quella situazione risiedeva nella deregulation aerea, che avrebbe dovuto favorire la nostra isola e che, invece, l’aveva vieppiù allontanata dal mercato dei cieli. Era infatti successo che la Comunità europea, con l’emanazione del Regolamento 2.408 del 1992, aveva dettato le norme per i servizi di trasporto aereo nell’area dei paesi membri, on lo scopo di eliminare il monopolio sulle tratte interne esercitato dalle compagnie di bandiera.

Così, con quel Regolamento, nacque il principio secondo cui a ciascuna compagnia aerea operante nella Comunità era consentito coprire qualsiasi tratta all’interno dell’area comunitaria.

Tuttavia, come detto, la deregulation dei servizi di trasporto aereo, entrata in vigore nell’aprile del 1997, non ebbe in Sardegna gli attesi benefici: la concorrenza tra i vettori non produsse infatti il miglioramento dei servizi, né il ribasso delle tariffe che ci si aspettava e che avrebbe dovuto bilanciare la scomparsa dello sconto per i residenti. I due vettori che effettuavano i collegamenti tra l’isola e le principali città della penisola, lungi dal farsi concorrenza, si spartirono semplicemente le tratte: dove era presente

Foto sardegnaindustriale.it

l’uno, era assente l’altro. Perciò, di fatto, Meridiana ed Alitalia finirono per esercitare un potere di monopolio, ciascuna nel proprio ambito, ostacolando l’ingresso di altri concorrenti.In questa situazione furono accolti con grande favore, nel 1999, i primi passi compiuti verso la realizzazione di un sogno antico: la continuità territoriale. Per iniziativa di alcuni deputati della Sinistra, in accordo con l’assessorato regionale dei Trasporti, venne presentato in Parlamento un disegno di legge sulla continuità territoriale Sardegna-Continente. Il 12 maggio la proposta, già approvata dalla Camera dei Deputati, fu approvata in via definitiva anche dal Senato e divenne pertanto, a tutti gli effetti, legge dello Stato.

Dalle compagnie aeree, per tutta risposta, altri rincari. E, penalizzazione estrema per la Sardegna, lo spostamento dei voli da e per Milano all’aeroporto di Malpensa. Sul fronte prezzi, particolarmente pesante la mazzata degli aumenti per il trasporto merci in tutte le fasce commerciali, senza tener conto, ancora una volta, dell’insularità della Sardegna.

Le tariffe furono infatti fissate in maniera identica su tutto il territorio nazionale e vennero anche meno alcune corsie preferenziali che privilegiavano i rapporti commerciali tra Sud e Nord Italia.

Aeroporto Olbia-Costa

Smeralda, giugno 1990: un DC 9 dell’Alisarda e un ATR 42 dell’Avianova, parcheggiati nell’air side

Tutto questo mentre la Sardegna si presentava sempre più tagliata fuori dalle reti transeuropee, concepite per avvicinare le periferie del Vecchio Continente e divenute nei fatti un agente di emarginazione.

Una situazione paradossale, che vedeva l’aeroporto di Malpensa 2000 (bestia nera dei passeggeri sardi e odiatissimo successore dello scalo di Linate) catalizzare i finanziamenti europei che avrebbero dovuto avvicinare l’isola alla terraferma.

Così paradossale da spingere il consigliere regionale diessino Paolo Fois a scrivere al Parlamento europeo, chiedendo l’intervento dell’Assemblea per sanare uno stato di cose «incompatibile con i principi ispiratori del diritto comunitario». Un’eurobeffa in piena regola, alla quale Fois chiedeva(su carta intestata del Consiglio regionale) una pronta riparazione. Il legislatore, spiegava il documento, aveva come stella polare«la necessità di collegare alle regioni centrali della Comunità quelle insulari, prive di sbocchi al mare e periferiche. Il suindicato obiettivo, totalmente da condividere, non ha purtroppo impedito che, paradossalmente, proprio a seguito dell’apertura di Malpensa 2000, si sia delineato un progressivo peggioramento nei collegamenti aerei da (segue pag 40)

39

(segue dalla pagina 39) e per la Sardegna, con conseguenti gravi disagi per i moltissimi cittadini residenti od operanti nell’isola che devono utilizzare frequentemente il mezzo aereo».

In quello stesso periodo, alla faccia del principio di coesione (quello che dovrebbe fare della Comunità un contrappeso degli svantaggi strutturali di alcune aree)i sardi inghiottirono una sfilza di rospi: si cominciò con l’anticipo del primo volo da Alghero per Milano e per Roma, si proseguì con la dilatazione di un’ora del tempo necessario per arrivare al capoluogo lombardo e si finì con la sostituzione degli MD 80 di Fertilia con gli Atr- 42.

Per Paolo Fois, quest’ultimo episodio puzzava non solo di ingiustizia, ma anche di tranello: «Appare fondamentale configurare la citata recente decisione come uno degli ultimi anelli di una strategia che, attraverso il ricorso ad intese o pratiche concordate vietate dal diritto comunitario, tenderebbe a concentrare il traffico aereo sui due altri aeroporti dell’isola (Cagliari e Olbia), dando così vita a una “ripartizione del mercato” tra le due compagnie aeree (Alitalia e Meridiana) che detengono oggi una posizione dominante nei collegamenti aerei da e per la Sardegna». Mentre in Europa si predicavano coesione e con-

correnza, i sardi continuavano a galleggiare fra emarginazione e monopolismo.

Ma le proteste che quasi quotidianamente si levavano dall’isola non furono ascoltate con grande attenzione dalle compagnie aeree. Come dire: prendere o lasciare.

I primi segnali che qualcosa stava iniziando a cambiare si ebbero con l’anticipo di liberalizzazione dei cieli scattata nel mese di maggio di quello stesso 1999, con la presentazione del piano di collegamento della giovane compagnia aerea “Volare Airlines”, una società nata su iniziativa di un gruppo di imprenditori veneti, partecipata per il 34 per cento dalla Swissair. A due “Airbus A 320”, capaci di trasportare 180 passeggeri, fu affidato il compito di rompere il monopolio dell’Alitalia sulla rotta Cagliari-Roma, considerata la gallina dalle uova d’oro. Una sfida all’insegna del risparmio per le tasche dei sardi, che potevano acquistare biglietti pagandoli il 23% in meno.

«Per la prima volta in Sardegna – dichiarò l’allora assessore ai Trasporti, Gonario Lorrai – arriva il fascino della concorrenza, il privilegio di poter scegliere, la possibilità di un risparmio concreto».

Nella grande sfida che iniziava, a cinque anni di distanza dalla liberalizzazione dei cieli, fu determinante il ruolo della Banca Cis, come riconobbe il presidente

Foto sardegnaindustriale.it
Aeroporto di Elmas, settembre 2003: il tunnel aereo di collegamento fra autosilos e nuova aerostazione

di Volare, Gino Zoccai.

L’Istituto si era infatti reso disponibile per il finanziamento a condizioni del tutto particolari (128 miliardi in 15 anni) e, quando l’operazione era partita, aveva chiamato come secondo partner il Banco di Sardegna.

L’arrivo di una nuova compagnia segnò indubbiamente un’epoca nuova per i cieli sardi, che videro progressivamente aumentare le possibilità di scegliere fra diversi vettori che, in ragione del mercato, andavano facendo proposte sempre più interessanti. Ma il nuovo corso non avrebbe portato al rallentamento della vertenza che puntava ad imporre gli “oneri di servizio pubblico”.

In sostanza, quel meccanismo che doveva assicurare, con la conquista della tanto agognata continuità territoriale, uguaglianza e pari dignità tra i sardi e gli altri italiani.

Ornella Demuru

Fonti:

M. Brigaglia Cronologia della Sardegna Sardegnaindustriale.it

http://www.sardegnaindustriale.it/article.asp?id=999&IDmagazine=2003004&fbclid=IwAR35ut7gqPEqi608zyZvMtGAWnSQTHbwAecqVCAfBkTYd9H5LGXrHNX8vOI

CATERINA GHISU & VIVIANA FERNANDEZ

llo Spazio (In) Visibile la mostra “Tempo di Carta” di Viviana Fernandez. Le opere esposte sono piccole sculture realizzate tramite il riciclo del cartone. Si pone l’attenzione sul potere del materiale e sulla padronanza tecnica.

È iniziata ieri a Cagliari la mostra “Tempo di Carta” della scultrice argentina Viviana Fernandez, a cura di Caterina Ghisu, ospite allo Spazio (In)Visibile di via Barcellona n. 75, Cagliari.

«La serie di opere “Tempo di Carta”, della scultrice argentina Viviana Fernandez Nicola, nasce dall’esigenza di coniugare il riciclo del cartone da imballaggio con la ricerca maturata nel corso di un’attività pluridecennale nel campo delle arti plastiche», scrive la curatrice Ghisu.

Continua affermando:

«Questo equilibrio tra etica e estetica trova il suo compimento nella serie di piccole sculture, alcune montate su piedistalli, altre senza basamento, altre ancora sospese, attraverso le quali Viviana indaga sulle potenzialità di un materiale umile e deperibile come il cartone riciclato e una profonda padronanza tecnica della dimensione plastica della materia, che declina in forme organiche ispirate sia al mondo naturale, le rocce modellate dagli agentI, (segue pagina 42)

41
A
Foto angelopili grupp

(segue dalla pagina 41) atmosferici sia alla lezione dei maestri del XX secolo come Henry Moore, Jacques Lipchitz o il suo connazionale Lucio Fontana.

L’esito porta a uno spaesamento della materia, cui conferisce un peso e una consistenza spaziale che si capovolgono al tatto: quel che sembra pesante diventa leggero, ciò che è liscio ruvido, che è solido tenero, con un effetto opposto alla prima impressione retinica».

Viviana Fernandez

è nata in Argentina nel 1960, vive e lavora tra il suo paese di origine, la Svizzera e l’Italia.

Nel 1984 si è laureata docente di Scultura alla Scuola Nazionale di Belle Arti Prilidiano Pueyrredón di Buenos Aires. Ha completato la sua formazione frequentando i laboratori dei maestri di scultura Enrique Valderrey ed Antonio Pujia e Leo Tavella per la ceramica. Ha partecipato a diverse mostre collettive e concorsi, ricevendo il Primo Premio di Scultura del XX Salone Annuale di Ceramica Artistica di Argentina. Dal 2013 al 2017 ha esposto le sue opere alla manifestazione Puertas abiertas del quartiere di San Isidro di Buenos Aires.

Accompagna la sua ricerca artistica all’attività di docente, in corsi di formazione e in diversi istituti di Belle Arti di Buenos Aires.

In Italia segue da anni un progetto di Laboratori di Ceramica per disabili visivi.

CATERINA GHISU & TIZIANA CONTU

Caterina Ghisu scriveva a proposito della mostra “Parole in scatola” che ebbe luogo a Venezia nello spazio VISIONI ALTRE a Campo del Ghetto Novo , 2918, il cui vernissage ebbe liogo 12 Novembre 2022, Autore Tiziana Contu Curatori Adolfina de Stefani & Margherita Campanini di cui fu l’Autore testo critico: “E se gli oggetti smettessero di essere solo dei beni di consumo - la felicità del capitalismo - ma interrompessero la loro consunzione per iniziare a raccontarci delle storie, le loro e le nostre?

Siamo capaci di ascoltare quel vecchio Nokia che conserviamo per ogni evenienza (tanto non ci entrerebbe la SIM), quei collant smagliati, quell’apribottiglie a forma di civetta?

Siamo (forse) capaci di parlare di quegli oggetti, ma non sono sicura che riusciremmo a far parlare loro. Tiziana Contu sì, ne è capace.

Lei conosce l’arte di dare voce agli oggetti che giacciono indisturbati negli abissi delle borsette femminili, nei fondali dei cassetti o nascosti sotto la sabbia della spiaggia del Poetto come una tracina.

E conosce l’arte di far parlare questi oggetti mescolando serietà e ironia in dosi che solo lei sa. Come scrive Massimo Cacciari “il concetto di ironia per l’interpretazione dell’arte contemporanea non

Foto exibart.it

sarà mai a sufficienza indagata”. Il fatto sta che funziona, perché Tiziana ci fa sorridere ma soprattutto riflettere, che non è poco. Come quando in “Due addii, due arrivederc”i, prende quattro lettere - Virginia Woolf al marito prima di suicidarsi, Georges Simenon e Antonio Gramsci alle proprie madri, Albert Camus al maestro delle elementari dopo il Nobel per la letteratura - e le espande in strisce verticali che creano uno spazio nelle sue gabbie metalliche, facendole diventare intrecci e fili che ci contengono, per poi comprimerle in spazi lillipuziani eppure sovrumani.

Tiziana Contu lavora sulla compressione ed espansione degli oggetti che trovano una loro dimensione nello spazio che viene loro assegnato nelle scatole, per espandersi invece nel nostro pensiero attraverso la vista e gli altri sensi.

L’ elenco di alcuni degli oggetti che vedete qui alla mostra della Galleria VisioniAltre di Venezia comprende: alcune foto di Tiziana bambina / una forchetta / una scatola di Cibalgina / una scheggia di legno / frammenti di piastrelle / un mozzicone di matita / due lenti di occhiali / cinque pennini / una vite arrugginita / un galleggiante / un pennello / ritagli di quotidiani / una pietra. A ciascun oggetto corrisponde la sua voce, il suo racconto.

La scatola di Cibalgina bisbiglia la sua complicità di oblii ovattati, la scheggia di legno ricorda il profumo di mare e di vento, quando era il nido di vacanze in famiglia, è tutto ciò che rimane di un cabanon estivo colorato, distrutto da una ruspa, i pennini in disuso conservano la memoria di parole graffianti, il triciclo rosso di Tiziana bambina il sogno di spiegare ipotetiche ali per volare lontano.

Mentre guardiamo questi oggetti racchiusi nelle loro scatole e leggiamo le loro storie, ci chiediamo quante voci inascoltate possiedono gli oggetti dimenticati che ci circondano, se solo fossimo capaci di fermarci ad ascoltarli, e che suono avrebbe una matita o una pietra parlante.

Viene in mente “Il Museo dell’Innocenza” a Istanbul, ispirato al romanzo di Orhan Pamuk che racconta un’infelice storia d’amore attraverso degli oggetti di uso comune, tra cui i 4.213 mozziconi di sigaretta fumate dalla donna amata da Kemal, il protagonista. “Il trauma, lo shock va allegorizzato, va trasformato, per la forza dell’allegoria, in storia-e-destino.

È necessario che la metamorfosi avvenga senza tradire in alcun modo la potenza di quel colpo, è necessario, anzi, che l’allegoria lo renda ancora più indimenticabile ”(2), (segue pagina 44)

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(segue dalla pagina 43)

è ciò che accade nell’opera “I piedi”, in cui Tiziana Contu, nella foto che la ritrae con il padre, scomparso quando era giovanissima, gli taglia i piedi perché lui non possa più andare via. Quando gli tagliò i piedi/perché erano troppo grandi/non poteva sapere che,/anche senza piedi,/ se ne sarebbe andato via presto, recitano i versi di accompagnamento, scritti, come le altre didascalie, con una vecchia Olivetti Lettera 22. Che sia un trauma personale come la morte prematura di un padre, o collettivo, come in Non voglio più sapere niente, che parla dell’overdose di informazioni sulla pandemia da Covid-19, l’allegoria ha la forza di renderlo indimenticabile perché non smorza la potenza e la portata di quel dolore, ma lo rende tangibile attraverso il gesto del ritaglio di una foto o dell’accumulo compulsivo e inutile di notizie. Chiedo scusa se in questa breve introduzione alle “Parole in scatola” di Tiziana Contu non ho fatto riferimenti ai ready made di Marcel Duchamp o agli object trouvee di Arman, o ai New Dada e agli artisti concettuali del secondo dopoguerra:

è chiaro che la ricerca artistica di Tiziana Contu ha radici lunghe e ben ramificate.

Il lavoro sulla parola è stato portato avanti da artiste come Jenny Hol-

zer e i suoi Truism, da Barbara Kruger con le sue riflessioni su temi politici e sociali e sui luoghi comuni della società moderna, e dalla nostra Maria Lai con i suoi libri cuciti.

Il senso della mostra “Parole in scatola” si avvicina piuttosto a una Spoon River degli oggetti dimenticati, in cui, con pochi versi, li si riconnette saldamente al filo della memoria.

Caterina Ghisu

(1) M. Cacciari, Il produttore malinconico, prefazione a W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 2011, IX

(2) M. Cacciari, cit., XXVII

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-tempo-di-carta-mostra-di-viviana-fernandez-a-cura-di-caterina-ghisu

https://www.artribune.com/curatore-critico-arte/caterina-ghisu/

https://www.artribune.com/mostre-evento-arte/viviana-fernandez-tempo-di-carta/

https://www.exibart.com/evento-arte/parole-in-scatola/

Foto sowfood

Dolores Demurtas ha occhi piccoli, vispi e intelligenti.

A ottantuno anni, ha lasciato la Sardegna una sola volta, quando nel 1985 volò a New York, da sola e senza conoscere una parola in inglese, per partecipare a una mostra delle proprie ceramiche.

A Taormina, Aristotele Onassis acquistò un suo rosario per regalarlo a Jacqueline Kennedy.

Un collezionista americano arrivò fin al suo laboratorio-bottega di Sant’Avendrace, a Cagliari, per incontrarla e acquistarne una brocca.

Sessantacinque centimetri di ceramica, decorati con decine di migliaia di roselline e pallini, e destinata a essere il pezzo forte di un nuovo museo sull’arte italiana contemporanea a New York.

Eppure, in Sardegna in pochi la conoscono.

Tutto cominciò per caso settantasei anni fa.

Dolores ha cinque anni e a Lanusei (il paese dell’Ogliastra dove viveva con i genitori, le sorelle e il fratello) piove così tanto da allagare case e strade.

Dal monte scendono fiumi di cerobica, «ludu coxiu si chiamava», spiega Dolores.

Con le strade asciutte, bambini e ragazzini cominciano a giocare con l’argilla rossa.

Anche Dolores è tra loro.

DOLORES DEMURTAS

Modella pupazzetti e palline e li mette ad asciugare vicino al caminetto. Ha scoperto da sola che in questo modo asciugano prima.

«L’argilla però, ancora piena d’acqua, esplodeva ed erano sculaccioni a nastro».

Dolores ride al ricordo di quei primi esperimenti. Con la pensione del babbo, nel ‘53, la famiglia si trasferisce ad Assemini, il paese di mamma Adelina.

Per Dolores è l’inizio della svolta.

Continua a lavorare l’argilla («ad Assemini la chiamano terra strexiu») e può cuocerla nella fornace del paese.

Ricorda quando, andando al forno, era additata per i suoi giochiteddus (come gli assiminesi ne chiamavano i primi lavori con un certo disprezzo).

«Pensavo che se mi si fossero avvicinati, glieli avrei spaccati in testa». Nel paese della ceramica, dei vasi e delle civeddas, questa ragazzina è considerata strana.

La fama di Dolores arriva così alle orecchie di Ubaldo Badas, l’architetto cagliaritano tra i principali promotori di I.S.O.L.A. (Istituto sardo organizzazione lavoro artigianale). Grazie a questo incontro, nel ‘56, le sue terrecotte sono esposte alla Prima Mostra dell’Artigianato sardo di Sassari.

Da quel momento è un susseguirsi di esposizioni: Sassari, Firenze, Taormina,(segue pagina 46)

45
Fotocostasmeraklda.it

(segue dalla pagina 45)

Rimini, Bruxelles, Strasburgo, Ginevra, Singapore.

Le sue opere viaggiano, ma Dolores non le segue.

«A quei tempi per una ragazza non c’erano né le libertà né le possibilità economiche che ci sono ora», commenta. Nel ’57 si trasferisce a Cagliari, «a Villa Garzia, al 115 di Sant’Avendrace».

Nel giardino costruisce con le proprie mani un fornetto a legna.

«In casa nessuno mi aiutava, facevo tutto da sola con una fatica immensa. Ed ero sempre sporca», ricorda ridendo. Ma un brutto acquazzone, nel ‘59, lo distrugge. Dolores conserva ancora alcuni pezzi di quella infornata rovinata dalla pioggia, che la costrinse per qualche mese a smettere di lavorare.

Poi, «l’undici maggio 1960, grazie a un prestito di 500 mila lire della Regione Sardegna, arriva a casa un fornetto elettrico» e tutto cambia: i colori sono brillanti e non c’è più la fatica del forno a legna.

Le ceramiche di Dolores piacciono anche oltre mare, in un momento in cui pochissimi artisti sardi (men che meno donne) riescono ad avere successo fuori dall’isola. Negli anni saranno accolte a Palazzo Pitti a Firenze, negli spazi della Biennale di Venezia e della Triennale di Milano, nei musei di Londra, Parigi,

Sidney, Tokyo, Montreal.

Non convincono, invece, Eugenio Tavolara, l’artista sassarese che negli anni Sessanta aveva sostituito Badas nell’organizzazione della Mostra mercato di Cagliari.

In un primo momento, a Dolores viene addirittura chiesto di portar via i suoi lavori dalla mostra, ma in pochi giorni sono tutti venduti e c’è bisogno di nuovi pezzi.

«Quando me li chiesero, mi presentai a Tavolara, che era già anziano, e gli dissi che non gli avrei fatto avere niente, che io sarei andata avanti e che lui non avrebbe fatto in tempo a vedere quello che avrei fatto».

Dolores fu profetica: nel 1985 i suoi lavori e quelli di altri dieci artigiani e artigiane sarde - con cui era entrata a far parte di un consorzio- sono esposti prima a Miami e poi a New York, al palazzo ICE (l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane).

«Siccome non arrivavano i soldi delle vendite di Miami», racconta Dolores «mi insospettii e partii per New York, da sola e senza conoscere l’inglese».

Alla mostra andò persino Mr. Bloomingdale, il proprietario dell’omonima grande catena americana di negozi d’abbigliamento.

Foto blogspot

Avrebbe voluto acquistare dei pezzi, ma anche lui non comprò nulla. Non si trovavano le fatture di accompagnamento, nessuno sembrava sapere dove fossero finite.

Al riento a Cagliari, Dolores si rivolge a un avvocato. «Riuscimmo ad avere i fogli di spedizione della dogana, ma i prezzi non corrispondevano a quelli che avevamo indicato.

Per una mia brocca che sarebbe dovuta costare due milioni e mezzo di lire risultava un prezzo di appena 25.000 lire. In più scoprimmo che c’erano stati dei prestiti in banca a nome del consorzio e per questi ho rischiato il pignoramento della casa, del terreno e

del laboratorio.

Allora, anche se mi davano della matta, ho fatto dieci giorni di sciopero della fame, e nonostante il processo sia stato più volte archiviato, siamo andati avanti sino alla Corte di Strasburgo, che ha fatto riaprire la causa. Dopo vent’anni i responsabili sono stati condannati in Cassazione.

Il reato era però andato in prescrizione.

Per questo non hanno fatto i due anni di galera, ma hanno pagato i debiti».

La forza di Dolores, in quegli anni, sono state le due figlie avute dal pittore e vignettista Aurelio Demontis, con cui si era sposata nel ‘67, dopo averlo conosciuto a una

mostra.

Per anni la loro casa è stata un punto d’incontro di artisti.

Dolores era una delle poche donne in un mondo di pittori e scultori, e può ancora oggi vantare uno stile unico: ceramiche decorate bianco su bianco, dove fiori e foglie spiccano come pizzi delicati.

La vita di questa artista è ricca di aneddoti: la scultura di Gigi Riva osannata per strada dai tifosi nell’anno dello scudetto del Cagliari, la visita fugace del latitante Antonio Mesina (affacciatosi per un attimo in bottega, per vedere la scultura che lo rappresentava, senza che Dolores avesse tempo di realizzare chi fosse), la conoscenza con Pinuccio

Sciola (a cui cuoceva i primi lavori nel fornetto elettrico), l’incontro con Papa Giovanni Paolo II, in visita a Cagliari nel 1985.

Dolores gli regalò un piatto in terracotta lavorato a bassorilievo, decorato con le insegne papali in platino e oro.

Con in mano una foto del monumento di Sant’Antonio Ruinas

Da settantasei anni le sue mani lavorano la ceramica, dipingono quadri e costruiscono monumenti, come quello ai caduti di Sant’Antonio Ruinas: quasi due tonnellate di argilla per un’altezza di 3 metri e mezzo.

In occasione della sua inaugurazione, nei primi anni ‘80, un generale dell’esercito si rifiutò di credere che erano state quelle mani così piccole a crearlo.

L’artefice doveva essere per forza stato il marito. Oggi, a ottantun anni quelle mani continuano a lavorare, a ricreare nella ceramica la pianta e il frutto del mirto.

«Perché io sono Demurtas e, come dice il mio cognome, vengo dal luogo di questa pianta».

9 novembre 2016

Donne sarde.

Ieri e oggi in immagini.

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