Voci - Numero 4 Anno 1 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee

OTTOBRE 2015

NUMERO 4 - ANNO 1

«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)

ACCOGLIENZA


VOCI Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

IN QUESTO NUMERO Campi di volontariato e formazione

3

L’Indice di eccellenza sociale

4

Diritti Umani ed affari in America latina: senza denaro non c’è giustizia

7

Obama chiude Guantanamo. Ma per ora c’è poco da applaudire

9

di Liliana Maniscalco

di Giuseppe Provenza

di Paola Ramello - Coord. America Latina

COMITATO DI REDAZIONE Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International Daniela Conte Responsabile del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Emanuele Maria Marino Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia Silvia Intravaia Grafica e D.T.P.

COLLABORANO Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Giovanna Cernigliaro, Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina - Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez, Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo

www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Via Benedetto d’Acquisto 30 90141 Palermo

di Bruno Schivo

Cronaca del Pride 2015 a Palermo

11

Armi italiane fuori controllo

14

Hot-Spot. Centri di primo soccorso ed accoglienza o centri di detenzione?

17

Taxi Teheran

19

Diritti di tutti, nessuno escluso!

21

Buone notizie

23

di Daniela Tomasino di Giorgio Beretta

di Fulvio Vassallo Paleologo di Francesco Castracane di Daniela Conte

di Giuseppe Provenza

TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti della presente senza preavviso. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International.

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


Editoriale

CAMPI DI VOLONTARIATO E FORMAZIONE di Liliana Maniscalco

Sembrano di gran moda, eppure rappresentano una maniera per fare una vacanza davvero intelligente e trasformare uno spazio di puro divertimento in un vero e proprio investimento per sé e per gli altri.

Agesci, Altrodiritto, Arci Palermo, Centro Danilo Dolci, Laboratorio Zen, Famiglia Comboniana, il Centro Santa Chiara.

Parliamo della partecipazione ai Campi di volontariato che negli anni delle prime realizzazioni, furono più di natura pratica, per poi diventare invece di alto valore formativo.

Esso si è sostanziato in una serie di attività che basandosi sui metodi di Emmaus, ha provveduto al sostegno ai migranti, attraverso la realizzazione di un mercatino molto partecipato dalla cittadinanza, di attività sportive e di attivazione per giovani.

In Italia Amnesty ormai li realizza davvero da tanto tempo.

Amnesty International ha invece impegnato uno spazio formativo, con tre formatori.

Si tratta in questo caso di campi di attivismo, perché non implicano azioni pratiche e dirette volte al sostegno di una o più categorie di titolari di diritti non rientrando queste nelle modalità di lavoro dell’organizzazione.

In questa occasione ha presentato i reali numeri della migrazione, sfatando una serie di preconcetti a riguardo del fenomeno e ha animato il modulo presentato con il gioco della valigia avente l’obiettivo di fare calare i partecipanti nella logica di perdita delle proprie radici da parte di chi, per ragioni di sicurezza, per la guerra, per la discriminazione o anche per la fame è costretto a lasciare il proprio paese.

Nel corso dell’estate del 2015 se ne sono svolti tre. A Lampedusa, Monte Sole e Passignano sul Trasimeno: qui si sono svolti da giugno ad agosto i campi per i diritti umani dell’organizzazione dedicati a diversi temi, tra cui la discriminazione, la tortura, i diritti di migranti e rifugiati. Attraverso laboratori, workshop, incontri con esperti, testimonial, approfondimenti e confronti, i partecipanti hanno ragionato sugli strumenti per poter incidere in prima persona sulla realtà che li circonda, per migliorarla, per rendere il mondo in cui viviamo sempre più libero e giusto, in base al concetto chiave per cui da un campo si torna a casa sapendo che il cambiamento dipende soprattutto da ciascuno di noi. In Sicilia Amnesty è stata invitata a partecipare, in qualità di relatrice, anche a una iniziativa realizzata a Palermo, presso la Fiera del Mediterraneo. Si è trattato del campo internazionale Emmaus, cui hanno collaborato diverse associazioni, tra cui AddioPizzo, 3

Poiché per Amnesty è fondamentale mostrare come mediante piccoli gesti è semplice innescare il cambiamento, i ragazzi del campo Emmaus sono stati infine invitati ad attivarsi per una piccola foto action da diffondere via social network per animare le proprie bacheche con messaggi di accoglienza e di giustizia. Perché se è vero che i diritti sono frutto di una teoria elaborata dalla mente, l’indignazione per le violazioni deve passare dalla pancia, e finire giù verso ai piedi per alzarsi e rivendicarli per sé e per gli altri.

Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


Attualità

L’INDICE DI ECCELLENZA SOCIALE (S.E.I.) di Giuseppe Provenza

Fin dal 1990 il Programma di Sviluppo Umano dell’ONU rileva per ogni paese l’Indice di Sviluppo Umano (HDI Human Developpement Index) così come ideato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq e dall’economista indiano Amartya Sen (Premio Nobel per l’Economia 1998, Harvard University). Dal 2010 l’HDI è dato dalla media geometrica: ff dell’indice di reddito, ottenuto dal PIL pro-capite a parità del potere d’acquisto: [(Reddito pro-capite – minimo mondiale)/(massimo mondiale – minimo mondiale)], ff dell’indice di aspettativa di vita alla nascita: [(aspettativa di vita – 20)/(massimo mondiale – 20)], ff e dell’indice del livello di alfabetizzazione (dato dalla media geometrica fra gli anni attesi di scuola di un bambino di 5 anni e gli anni medi di istruzione della popolazione oltre i 25 anni): {media geom.[(anni medi istr./13,2)*(anni previsti/20,6)]/0,951} (vedi http://hdr.undp.org/en/data). Dal 2010, inoltre, vengono pubblicati sia l’indice corretto dalla diseguaglianza di reddito, sia l’indice corretto dalla diseguaglianza di genere. Tuttavia non sembra che questi soli parametri siano sufficienti per valutare la condizione in cui vive la popolazione di un paese. Indubbiamente è stato un passo avanti introdurre i due indici corretti in primo luogo perché il solo reddito pro-capite medio non è significativo se non si tiene conto della distribuzione del reddito. A parità di reddito pro-capite medio, ben diverse sono infatti le condizioni di vita della popolazione se il reddito nazionale è ben distribuito, o se è fortemente concentrato in poche mani. Analoga considerazione vale per l’eguaglianza fra i due generi. Ove, infatti, esista una forte disuguaglianza di genere, metà della popolazione vive in condizioni di sottomissione che sviliscono il valore degli altri parametri. Apprezzabile quindi la correzione dell’HDI, pur sottolineando che in atto vengono effettuate due distinte correzioni, là dove, in realtà le due disuguaglianze concorrono insieme ad una riformulazione dell’indice stesso.

Ma queste due correzioni, sono sufficienti a fornire un’indicazione esauriente delle condizioni in cui vive l’intera società di un paese? Certamente mancano ancora due importanti parametri di grande valore sociale: ff il rispetto dei diritti umani, ossia dei diritti civili e delle libertà politiche, un indice fondamentale per valutare il benessere sociale poiché riguarda la dignità dell’uomo anche nella vita di ogni giorno, che si concretizza nella libertà di esprimersi liberamente, di muoversi nel territorio, di scegliere i propri rappresentanti, permettendo ad ognuno di vivere, in sostanza, da uomo libero; ff la correttezza della vita pubblica, ovvero la presenza o meno della corruzione che condiziona pesantemente la vita di una società, sottraendo ad ogni cittadino disponibilità che avrebbero dovuto avere una destinazione sociale ed avrebbero, quindi, portato benefici alla vita quotidiana di ogni cittadino. In considerazione di quanto detto si è concepito un nuovo indice che, ai parametri classici dell’HDI aggiunga: ff L’INDICE DI DISTRIBUZIONE DEL REDDITO; ff l’INDICE DI DISUGUAGLIANZA DI GENERE, (entrambi così come formulati dall’UNDP - United Nations Developement Programme) (http://hdr.undp.org/en/data); ff un INDICE DEI DIRITTI UMANI, utilizzando la media fra due indici pubblicati annualmente da Freedom House, ossia l’INDICE DEI DIRITTI CIVILI e l’INDICE DELLA LIBERTÀ POLITICA (https://freedomhouse.org/sites/default/files/01152015_FIW_2015_final.pdf); ff un INDICE DI CORRUZIONE, utilizzando l’indice annualmente pubblicato da Trasparency International (https://www.transparency.org/cpi2014/results). Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

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Attualità

Perché sia possibile procedere al calcolo di un unico indice, è necessario che si rendano confrontabili i dati utilizzati. Per far ciò il dato di ogni paese viene rapportato alla media mondiale dello stesso dato, ottenendo un parametro che è uguale ad uno nel caso in cui il dato del paese sia uguale alla media mondiale, è minore di uno qualora sia inferiore e maggiore di uno nel caso in cui sia superiore alla media mondiale, o l’inverso qualora il dato abbia un significato positivo quanto più basso sia (è il caso dell’indice di disuguaglianza di reddito, dell’indice di disuguaglianza di genere e dell’indice di rispetto dei diritti umani). A titolo di esempio consideriamo il caso dell’Italia, per ogni parametro.

media italiana

media mondiale

indice per l’Italia

Aspettativa di vita

82,4

70,8

1,1638

Scolarizzazione degli adulti

10,10

7,7

1,3117

Aspettativa di scolarizzazione

16,3

12,2

1,3361

32,669

13,723

2,3806

Indice di disuguaglianza di redd.

11,6

22,8

1,1451

Indice di disuguagl. di genere

0,067

0,45

1,696

Indice dei diritti umani

1,00

3,36

1,36

43

43,6

0,986

Reddito pro-capite

Indice di corruzione

Da questi parametri si ottiene l’indice globale, al quale è stato dato il nome di S.E.I (Social excellence Index) o Indice di Eccellenza Sociale.

Quali gli effetti sul posizionamento di un paese nella graduatoria in base al SEI rispetto all’indice di sviluppo Umano? Bisogna considerare che è stato possibile calcolare il SEI per 126 paesi, rispetto ai 187 paesi per i quali l’UNDP ha calcolato l’HDI. I paesi mancanti, infatti, non forniscono o l’indice di disuguaglianza di reddito, o l’ndice di disuguaglianza di genere. Il confronto di posizione si è quindi effettuato depurando la graduatoria dell’HDI dei paesi per i quali non si è potuto calcolare il SEI. Ad esempio l’Italia, che in base al suo HDI si trova al 26° posto, togliendo i paesi non classificati col SEI, passa al 22° posto. Nella graduatoria degli indici SEI l’Italia occupa il 26° posto, quindi in base al nuovo indice, ha perduto 4 posti. Lo scostamento è sostanzialmente dovuto ad un indice di percezione della corruzione piuttosto negativo.

Quali scostamenti di maggior rilievo si riscontrano per gli altri paesi? Abbastanza comprensibile è la perdita di posizioni di alcuni paesi, tristemente noti per lo stato dei loro diritti umani: La Korea del sud dal 13° al 38° posto Il Libano dal 46° al 63° posto Il Venezuela dal 54° al 76° posto L’Iran dal 54° al 76° posto La Siria dal 79° al 95° posto L’Yemen dal 104° al 116° posto

Giuseppe Provenza Responsabile Gruppo Italia 243 di Amnesty International Sezione Italiana Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana

5

mentre hanno guadagnato, soprattutto per il basso livello di corruzione: La Danimarca dall’8° al 4° posto La Finlandia dal 20° al 10° posto L’Austria dal 17° al 13° posto Il Belgio dal 18° al 14° posto L’Estonia dal 27° al 22° posto Il Portogallo dal 33° al 29° posto Il Costarica dal 49° al 43° posto

La tabella riportata alla pagina seguente mostra in dettaglio i parametri di ogni paese.

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


6

Country

1,70137 1,64111 1,61362 1,61035 1,59984 1,59116 1,58773 1,57682 1,55781 1,54747 1,54379 1,53363 1,52805 1,52454 1,51880 1,50213 1,49498 1,49306 1,43847 1,43138 1,41394 1,40011 1,38551 1,38453 1,37887 1,37278 1,35595 1,34102 1,33989 1,32987 1,29401 1,29311 1,28822 1,28456 1,28454 1,25761 1,24534 1,23636

Social excellence index

1,972 1,972 1,834 2,110 1,903 1,812 1,995 1,880 1,857 2,041 1,697 1,812 1,651 1,743 1,697 1,789 1,743 1,582 1,330 1,376 1,376 1,582 1,169 1,445 1,330 0,986 1,399 1,147 1,445 1,261 0,986 1,261 1,674 1,238 1,628 1,101 1,674 1,261

Corruption perception index 2014 (CPI)

43,61

86 86 80 92 83 79 87 82 81 89 74 79 72 76 74 78 76 69 58 60 60 69 51 63 58 43 61 50 63 55 43 55 73 54 71 48 73 55

Freedom House index 2014 (HRI)

1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,28 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,36 1,21 1,21 1,36 1,21 1,36 1,28 1,36 0,45

Gender inequality index 2013 (GII)

3,36

1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,50 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 2,00 2,00 1,00 2,00 1,00 1,50 1,00 7,00

Human inequality index 2013 (HII)

1,695 1,764 1,613 1,716 1,715 1,735 1,720 1,538 1,571 1,682 1,342 1,658 1,716 1,695 1,609 1,467 1,567 1,673 1,780 1,635 1,636 1,538 1,660 1,571 1,607 1,696 1,565 1,520 1,607 1,418 1,553 1,415 1,173 1,369 1,244 1,505 1,156 1,635

Gross national income (GNI) per capita (2011 PPP $)

0,45

0,068 0,030 0,113 0,056 0,057 0,046 0,054 0,154 0,136 0,075 0,262 0,088 0,056 0,068 0,115 0,193 0,138 0,080 0,021 0,101 0,100 0,154 0,087 0,136 0,116 0,067 0,139 0,164 0,116 0,220 0,146 0,222 0,355 0,247 0,316 0,172 0,364 0,101

Expected years of schooling (EYS) (years), 2012 a

1,2241 1,1969 1,1982 1,2073 1,2098 1,2047 1,2124 1,1982 1,1982 1,2241 1,0855 1,2228 1,2034 1,1852 1,1995 1,1839 1,1373 1,1801 1,2215 1,1606 1,1593 1,1852 1,2241 1,1541 1,1606 1,1451 1,1697 1,2150 1,1684 1,1891 1,1593 1,1619 1,0557 1,2008 1,1140 1,1516 1,0920 1,0777

Mean years of schooling (MYS) (years), 2012 a

22,8

5,50 7,60 7,50 6,80 6,60 7,00 6,40 7,50 7,50 5,50 16,20 5,60 7,10 8,50 7,40 8,60 12,20 8,90 5,70 10,40 10,50 8,50 5,50 10,90 10,40 11,60 9,70 6,20 9,80 8,20 10,50 10,30 18,50 7,30 14,00 11,10 15,70 16,80

Life expectancy at birth (LE) (years), 2013

4,6571 3,9177 3,0259 3,1247 3,0895 3,1370 3,1481 4,2771 3,0523 2,7229 3,8117 2,5589 3,1283 2,8763 2,4349 2,5506 2,6778 2,6692 1,9536 2,1836 2,2270 1,7042 1,7879 1,9508 1,7299 2,3806 1,5658 1,8462 1,7584 1,9691 1,7968 1,6167 1,5160 1,5477 1,5604 1,3864 1,3195 2,2113

media geometrica degli indici parametrizzati

13,723

63,909 53,762 41,524 42,880 42,397 43,049 43,201 58,695 41,887 37,366 52,308 35,116 42,930 39,471 33,414 35,002 36,747 36,629 26,809 29,966 30,561 23,387 24,535 26,771 23,740 32,669 21,487 25,336 24,130 27,022 24,658 22,186 20,804 21,239 21,414 19,025 18,108 30,345

CPI / CPI.WORLD

1,4426 1,2869 1,6311 1,3852 1,4672 1,3361 1,2951 1,1393 1,3033 1,3934 1,3525 1,5328 1,2787 1,3279 1,5246 1,3279 1,2541 1,3115 1,3770 1,2869 1,4016 1,3525 1,3443 1,1475 1,3689 1,3361 1,2705 1,2295 1,3361 1,1885 1,3525 1,2705 1,2377 1,2623 1,0328 1,1885 1,2705 1,3934

(10-HRI) / (10-HRI.WORLD)

12,2

17,6 15,7 19,9 16,9 17,9 16,3 15,8 13,9 15,9 17,0 16,5 18,7 15,6 16,2 18,6 16,2 15,3 16,0 16,8 15,7 17,1 16,5 16,4 14,0 16,7 16,3 15,5 15,0 16,3 14,5 16,5 15,5 15,1 15,4 12,6 14,5 15,5 17,0

(1-GII) / (1-GII.WORLD)

1,6364 1,5844 1,6623 1,5714 1,5455 1,6753 1,5195 1,4675 1,5974 1,3377 1,6753 1,3506 1,4026 1,4156 1,5065 1,5974 1,4935 1,4416 1,5455 1,6234 1,2468 1,5584 1,5974 1,5065 1,6104 1,3117 1,5325 1,5065 1,0649 1,2857 1,3247 1,4935 1,2727 1,4675 1,4156 1,4286 1,1039 1,5325

(100-HII) / (100-HII.WORLD)

7,70

12,60 12,20 12,80 12,10 11,90 12,90 11,70 11,30 12,30 10,30 12,90 10,40 10,80 10,90 11,60 12,30 11,50 11,10 11,90 12,50 9,60 12,00 12,30 11,60 12,40 10,10 11,80 11,60 8,20 9,90 10,20 11,50 9,80 11,30 10,90 11,00 8,50 11,80

GNI / GNI.WORLD

1,1511 1,1667 1,1653 1,1215 1,1441 1,1398 1,1554 1,1370 1,1511 1,1370 1,1144 1,1596 1,1455 1,1370 1,1398 1,1370 1,1808 1,1554 1,1243 1,1554 1,1596 1,0508 1,0975 1,1271 1,0184 1,1638 1,0791 1,0650 1,1285 1,1271 1,1412 1,0198 1,1299 1,0537 1,0621 1,0876 1,0904 1,1511

EYS / EYS.WORLD

81,50 82,60 82,50 79,40 81,00 80,70 81,80 80,50 81,50 80,50 78,90 82,10 81,10 80,50 80,70 80,50 83,60 81,80 79,60 81,80 82,10 74,40 77,70 79,80 72,10 82,40 76,40 75,40 79,90 79,80 80,80 72,20 80,00 74,60 75,20 77,00 77,20 81,50

MYS / MYS.WORLD

Norway Switzerland Australia Denmark Netherlands Germany Sweden Luxembourg Canada Finland United States Iceland Austria Belgium Ireland United Kingdom Japan France Slovenia Israel Spain Estonia Czech Republic Cyprus Lithuania Italy Poland Slovakia Portugal Malta Greece Latvia Chile Hungary Bahamas Croatia Uruguay Korea (Republic of) 70,80

LE. / LE.WORLD

World

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38

G S r E a I d

1 3 2 8 4 6 10 19 7 20 5 11 17 18 9 12 14 16 21 15 23 27 24 26 28 22 29 30 33 31 25 36 32 34 39 35 38 13

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AttualitĂ

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Approfondimenti

America Latina

DIRITTI UMANI ED AFFARI IN AMERICA LATINA: SENZA DENARO NON C’È GIUSTIZIA di Paola Ramello - Coord. America Latina

Nel maggio scorso Salil Shetty, Segretario Generale di Amnesty International, ha partecipato al Forum Economico Mondiale per l’America Latina, svoltosi a Cancún. Prendiamo spunto da un articolo da lui scritto in questa occasione per una riflessione sulla situazione dei diritti economici e sociali e del rapporto fra diritti umani e affari nei paesi di quella regione. Secondo Salil Shetty non si può fare a meno di constatare i notevoli progressi che sono stati fatti nel continente negli ultimi anni. Milioni di persone sono uscite dalla povertà nell’ultimo decennio, sono riuscite ad accedere a un lavoro, a farsi visitare da un medico quando ne hanno avuto bisogno e a mandare i propri figli a scuola. Per molti aspetti, lo sviluppo è stato positivo, ma quando avviene, come nel caso delle Americhe, senza che vi sia un piano a lungo termine che benefici tutti quanti, i problemi non tardano a presentarsi. Nelle Americhe, accanto ai grattacieli scintillanti e all’industria in crescita, le scuole e gli ospedali raccontano un’altra storia, molto diversa. Nel continente continuano a esserci 10 dei 15 paesi con maggiori disuguaglianze al mondo. L’enorme divario dei redditi significa che in tutti gli angoli di questa vasta regione vibrante e ricca di risorse, milioni di persone continuano ad affrontare una realtà terribile. Una massa relativamente invisibile di persone lotta per sopravvivere in mezzo alla povertà e alla violenza, la brutalità della polizia e alti tassi di discriminazione. E sono vittima di un sistema di giustizia corrotto che non dispone dei mezzi necessari per funzionare efficacemente, che nel migliore dei casi li ignora e nel peggiore li incolpa di tutti problemi della società.

tentativo per obbligarli ad andarsene dalle terre in cui vivono. Nel mese di febbraio scorso, l’avvocato di Máxima ha denunciato che almeno 200 agenti di polizia sono entrati nei loro terreni e hanno demolito un ampliamento che stavano costruendo per la loro casa. Non risulta che sia stata avviata un’indagine al riguardo. Le violenze sono continuate con l’uccisione, in varie riprese, degli animali da pastorizia. Maxima Acuña è divenuta il simbolo della lotta del popolo di Cajamarca e di tutti i popoli autoctoni che si battono per la difesa dell’ambiente contro le multinazionali minerarie. Nel 2014 è stata nominata “Defensora del Año” dalla Rete Latinoamericana delle Donne (ULAM). Questa storia di terrore, purtroppo, non è per nulla eccezionale. La mancanza di sicurezza di chi si oppone a progetti di sfruttamento territoriale è diffusa in tutta l’America Latina. Dal Brasile alla Colombia, dal Nicaragua fino alla Bolivia, milioni di persone subiscono le terribili conseguenze della disuguaglianza che perdura a

Le storie delle persone dietro i numeri sono rivelatrici. Máxima Acuña de Chaupe e la sua famiglia, agricoltori nel nord del Perù, hanno un contenzioso con la multinazionale Yanacocha riguardo la proprietà della terra, che la società rivendica per ampliare il proprio progetto minerario nella regione di Cajamarca. Nel dicembre del 2014 un tribunale ha stabilito che la famiglia non era colpevole di occupazione illegale della terra, come affermava invece l’impresa, la quale ha presentato appello contro la decisione. Pur avendo vinto la causa legale, da allora Máxima e la famiglia hanno denunciato di aver subìto ripetuti attacchi e intimidazioni da parte della polizia e di aver ricevuto minacce di morte. Ritengono che questi siano un 7

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America Latina

causa di sistemi di giustizia corrotti e dotati di scarse risorse. Le comunità indigene e afrodiscendenti vengono espulse in modo violento delle loro terre quando potenti interessi economici decidono che lo “sviluppo” e i guadagni devono predominare. In Colombia, il sanguinoso conflitto armato interno che va avanti da 40 anni ha coinvolto milioni di persone in tutto il paese, provocando decine di migliaia di uccisioni, torture e sparizioni di civili. E ha causato un altissimo numero di sfollati interni: dal 1985 ad oggi circa sei milioni di persone (il 13% della popolazione) sono state obbligate a lasciare le loro terre, principalmente dai paramilitari e dalle forze di sicurezza. Si stima che otto milioni di ettari di terre - un’area più vasta del Costa Rica - siano stati sottratti illegalmente a contadini, comunità indigene e afrodiscendenti, spesso a beneficio di forti interessi economici. Per far fronte a questo grave problema il governo colombiano ha emanato una legge, entrata in vigore nel 2012, che avrebbe dovuto favorire la restituzione delle terre ai loro legittimi proprietari, attraverso appositi procedimenti giudiziari. In realtà, a causa delle costanti minacce di violenza e della lentezza delle pratiche burocratiche, la Legge 1448 non sta riuscendo a dare una risposta a gran parte delle persone che avrebbero dovuto tornare a casa. Il pesante clima d’intimidazione presente nel paese (sono state aperte indagini su 35 omicidi di persone che avevano avviato la procedura per riottenere le loro terre) unito all’inadeguata attuazione di una legislazione carente, impediscono che si realizzi la promessa del governo colombiano di restituire milioni di ettari di terra: all’inizio del 2015 ne erano stati assegnati soltanto 30.000. Inoltre, in molti paesi dell’area migliaia di uomini, donne, bambini e bambine vivono in balìa di terribili bande criminali che mirano a detenere il controllo. Molte persone sono messe al bando e trattate come cittadini di seconda classe a causa dell’orientamento sessuale. Coraggiosi attivisti per i diritti umani e giornalisti sono puniti per la diffusione di un messaggio che poche persone vogliono ascoltare. Questi sono solo alcuni esempi. Con troppa frequenza il messaggio sembra essere: “se sei povero la giustizia è fuori dalla tua portata”. Senza denaro, non c’è giustizia. I governi sono responsabili di gran parte di questi problemi. Ma non sono soli. In tutto il continente americano le imprese, grandi e piccole, sono state responsabili per azione o omissione in molte

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delle violazioni che fanno sì che vivere sia quasi impossibile per milioni di persone. Una volta che gli abusi sono stati compiuti, spesso i tribunali sembrano essere disponibili solo per chi può pagare e milione di persone si vedono obbligate a convertirsi in cittadini di seconda classe. La forza della legge, requisito essenziale affinché qualsiasi paese funzioni correttamente, si svuota, rendendo le società insicure per tutti. Si potrebbe obiettare che sono i governi ad avere il dovere fondamentale di garantire ai propri cittadini di vivere in pace e di godere dei propri diritti. Ma la verità è che le imprese non operano nel vuoto, i loro guadagni provengono dalle società nelle quali decidono di operare e di cui far parte e, come tali, hanno il dovere di garantire che le loro azioni non pregiudichino la vita della gente che ci vive. Ogni giorno, le imprese decidono tra il rispetto dei diritti delle comunità in cui operano - attraverso la consultazione e la protezione dei loro interessi - o di privarle del loro potere, spesso fino al punto di minacciarne l’esistenza. Quando decidono di seguire la prima strada tutti ne guadagnano. Perché quando i diritti umani sono rispettati e la giustizia non è solo una mera illusione, e comunità sono sicure e le aziende prosperano. E se anche si verificasse il caso che alcune mele marce causino la perdita di fiducia nel mondo economico, è tuttavia responsabilità dei governi e delle imprese far fronte a ciò prima che sia troppo tardi. La lotta contro la disuguaglianza sostenuta da misure concrete è l’unica strada praticabile affinché il continente faccia davvero dei passi avanti. Non c’è una soluzione rapida per la disuguaglianza ma ci sono alcune azioni che i governi e le imprese nelle Americhe potrebbero e dovrebbero intraprendere. Un rafforzamento del sistema di giustizia penale che affronti i legami fra politici e reti criminali e l’attuazione di controlli con la dovuta diligenza sarebbe già un buon inizio. Paradossalmente, l’instabilità e il conflitto causati dalla discriminazione, dalla disuguaglianza e dal carente sistema giudiziario, mettono in pericolo la stessa prosperità che i governi e il settore privato cercano di raggiungere. Le Americhe non possono più prendersi il lusso di ignorare il prezzo che dovranno pagare se non vengono adottate misure urgenti.

Paola Ramello Coord. America Latina di Amnesty International Sezione Italiana

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Approfondimenti

Nord America

OBAMA CHIUDE GUANTANAMO. MA PER ORA C’È POCO DA APPLAUDIRE di Bruno Schivo

Il 22 luglio scorso l’addetto stampa della Casa Bianca ha dichiarato che l’amministrazione era ormai alle battute finali dell’elaborazione di un piano, da sottoporre al Congresso, per chiudere la prigione di Guantanamo Bay. Una bella notizia dunque. Non proprio. A parte il fatto che la chiusura di Guantanamo era già stata annunciata da Barack Obama al momento del suo primo insediamento, ma a distanza di anni non se ne è fatto nulla. Ci sono altri motivi che preoccupano seriamente. Il piano prevede infatti la ricollocazione in detenzione a tempo indeterminato presso strutture militari o carceri di massima sicurezza sul territorio USA di quei prigionieri che gli Stati Uniti si rifiutano di rilasciare o di perseguire, il cui numero finale risulta al momento sconosciuto. Secondo l’assistente del Presidente per la sicurezza e l’antiterrorismo, questo numero sarebbe stato ridotto fino ad un “minimo irriducibile”, ma comunque non azzerato. Come è noto la struttura di Guantanamo fu aperta nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore” scatenata dal Presidente Bush dopo l’attentato dell’11 settembre, che ha portato ad un generale indebolimento della situazione dei diritti umani a livello globale. Per il Dipartimento di Giustizia Guantanamo Bay, sull’isola di Cuba, non si trova in territorio statunitense ed è quindi fuori dalla giurisdizione delle corti americane, anche per l’eventuale accoglimento di richieste di habeas corpus. I primi detenuti, provenienti dall’Afghanistan vi furono portati l’11 gennaio 2002.

basa non tanto sui principi dei diritti umani, ma sulla linea errata della “legge di guerra” e sul concetto limitativo dell’interesse nazionale. Pertanto la chiusura di Guantanamo in modo “sicuro e responsabile”, da quanto emerge, non avverrà (sempre ammesso che avvenga) perché gli USA intendono rispettare i loro obblighi in tema di diritti umani. Se il Presidente Obama è interessato a lasciare un’eredità sul piano dei diritti umani, deve una volta per tutte abbandonare questo paradigma di guerra, a cui il suo predecessore diede il nome di “guerra globale contro il terrore” e che l’attuale amministrazione ha di fatto adottato in tutto, tranne proprio nel nome. Come parte integrante della chiusura di Guantanamo, egli dovrebbe assicurare il ritorno degli Stati Uniti al sistema ordinario di giustizia penale con i processi nelle corti civili, assicurando il rilascio certo e legittimo, anche all’interno degli USA, se necessario, di tutti i prigionieri di Guantanamo che non intende perseguire. Pare invece che nel piano in fase di elaborazione le commissioni militari resteranno in vigore. Queste commissioni sono in contrasto con gli standard internazionali di un processo equo. Nel suo briefing del 22 luglio l’addetto stampa della Casa Bianca ha affermato che “noi dobbiamo essere capaci di continuare a portare a termine i processi di quei detenuti che possono essere accusati secondo il

Quando, circa sei anni e mezzo fa, il Presidente Barack Obama ordinò alla sua amministrazione di chiudere Guantanamo nel più breve tempo possibile e comunque, al più tardi, entro il 22 gennaio 2010, Amnesty, in un comunicato precisò chiaramente la sua posizione al riguardo: “Amnesty International ha sostenuto per anni che la chiusura di Guantanamo non deve avere come conseguenza il trasferimento delle violazioni dei diritti umani altrove. L’assoluta illegalità delle detenzioni a Guantanamo non deve essere ricreata né altrove né sotto altro nome”. Il governo degli Stati Uniti non sembra perseguire questo obiettivo con il presente piano che, come quando fu concepita l’apertura di questa struttura, si

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Nord America

sistema che prevede le commissioni militari”. Sei detenuti stanno al momento affrontando un processo, che, in caso di condanna, prevede anche la pena capitale, dinanzi ad una corte militare. Un’eventuale condanna a morte comminata da un tribunale che non rispetta gli standard internazionali per un processo equo, sarebbe una violazione della proibizione assoluta, prevista dalle norme internazionali, di privare arbitrariamente qualcuno della vita. Amnesty International chiede con forza che i processi abbiano luogo davanti a corti civili e non militari e si oppone al fatto che dei civili possano essere processati da queste ultime. Mentre il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite non ha ancora stabilito che processare civili dinanzi a corti militari è proibito in ogni caso, ha però stabilito, sulla base del diritto ad un processo equo, come previsto dall’art.14 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ratificato dagli USA nel 1992), che il processo di civili (ovvero di chiunque non faccia parte di forze armate dello stato) da parte di tribunali speciali o militari, debba essere strettamente limitato a casi eccezionali e temporanei, per i quali il governo deve evidenziare che il ricorso a tali misure è “necessario e giustificato da motivazioni serie ed oggettive”, e che “in relazione alla specifica tipologia di individui e di crimini, i normali tribunali civili non siano in grado di portare avanti il procedimento”. Il governo americano non può sostenere alcuna di queste ragioni, ma soltanto questioni di politica interna. Le commissioni militari non rappresentano una necessità legittimamente dimostrabile, ma soltanto il frutto di una scelta politica. Devono quindi essere abbandonate. Dopo l’ordine di chiusura emanato dal Presidente Obama nel 2009, Amnesty affermò che “l’ordine lascia aperta la possibilità che i detenuti possano restare ancora a Guantanamo, senza accusa, per un anno ancora. Questo sarebbe inaccettabile”. In realtà di anni ne sono passati altri sei e ormai quasi 14 anni dall’apertura di Guantanamo. Ogni giorno in cui la detenzione a tempo indeterminato continua è un altro giorno di profonda ingiustizia, per i prigionieri, le loro famiglie e per il sistema dei diritti umani. Di questi giorni ne sono ormai passati più di 5000. Per chi è detenuto senza accusa e senza un’idea su quando potrà essere processato o rilasciato è un’eternità. ma lo sarebbe anche se fossero la metà, un quarto o un cinquantesimo. il piano dell’amministrazione oltre tutto dovrà essere presentato al Congresso, dove non mancheranno le opposizioni. Troppo a lungo tensioni e disaccordo tra le diverse istituzioni sono state usate per giustificare ciò che non può essere giustificato. Per le leggi internazionali tutti gli organi di governo sono vincolati Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

ad assicurare che il paese rispetti gli obblighi in materia di rispetto dei diritti umani. Questi  obblighi non prevedono soltanto che la risoluzione della detenzione avvenga nel rispetto dei diritti umani, ma anche che, durante la detenzione, siano rispettati gli standard internazionali e sia garantita la possibilità di ottenere un giusto risarcimento per le eventuali violazioni subite. Come Amnesty International ha già evidenziato anche quest’anno, almeno 29 dei 116 prigionieri ancora presenti a Guantanamo, sono stati detenuti in custodia segreta da parte della CIA prima di essere trasferiti nella base navale sull’isola di Cuba. Alcuni di loro sono stati vittime di sparizioni forzate, di tecniche di interrogatorio e di condizioni di detenzioni in contrasto con la proibizione della tortura e di trattamenti crudeli,disumani e degradanti. Un caso emblematico è ad esempio quello di Mustafa Ahmed al-Hawsawi, di nazionalità saudita , sottoposto a tre anni e mezzo di sparizione forzata, prima di essere portato a Guantanamo nel 2006. Attualmente deve comparire dinanzi ad una commissione militare con accuse che prevedono la pena di morte. Il 7 luglio scorso la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani ha richiamato gli USA ad esaminare il suo caso, per quanto riguarda le condizioni di detenzione e i trattamenti medici, investigando anche sulle violazioni dei diritti umani perpetrate contro di lui. I suoi avvocati hanno riferito che è stato tenuto in isolamento senza ricevere le cure mediche necessarie per i suoi cronici problemi di salute, alcuni dei quali conseguenza delle torture e dei maltrattamenti subiti durante il periodo di detenzione in mano alla CIA. Secondo il rapporto di una commissione istituita dal Senato, i suoi gravi problemi di salute risalgono al 2006, quando si trovava in un centro di detenzione segreta della CIA, presumibilmente in Lituania. Guantanamo infatti è soltanto uno dei “buchi neri”, siti segreti gestiti appunto dalla CIA in diversi paesi del mondo, Europa compresa. Da quando è uscito il rapporto, nel dicembre dello scorso anno, nulla è cambiato in modo significativo. E nel frattempo gli USA continuano a muovere critiche in materia di diritti umani ad altri paesi. La notizia del nuovo piano per chiudere Guantanamo si inserisce nel cambiamento generale di linea di Obama, verso un maggiore rispetto dei diritti umani e degli standard internazionali, ma il momento di applaudire sembra ancora lontano. Bruno Schivo Resp. del Coord. Nord America della Sezione Italiana di Amnesty. Insegnante di scuola media superiore.

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Approfondimenti

LGBTI

CRONACA DEL PRIDE 2015 A PALERMO di Daniela Tomasino

La stagione del Palermo pride 2015, il sesto organizzato in città, è iniziata il 23 aprile, con “Raices” (“Radici”), una performance di Regina Galindo, acclamata artista guatemalteca, all’Orto Botanico di Palermo. Una riflessione amara sulle radici e sullo sradicamento, sulla migrazione e sulla precarietà, sul rapporto tra esseri umani e natura, su Palermo come crocevia di popoli, culture, storie in cui le comunità straniere presenti in città entrano in connessione, attraverso le radici con le piante presenti nell’Orto Botanico, che nel passato venivano sradicate e trasportate spesso illegalmente, come succede sempre più frequentemente con gli esseri umani Alla performance è seguita una mostra, la più grande antologica dell’artista mai realizzata, ospitata nel padiglione ZAC – Zisa Arti Contemporanee, un bell’esempio di valorizzazione di architettura industriale. La mostra Estoy Viva, articolata in 5 sezioni (Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte) e ha raccolto oltre 60 lavori, tra foto, video di performance e alcuni oggetti, illustrando i temi cari all’arte di Galindo: ingiustizie sociali connesse con le discriminazioni di razza e di genere, la violenza, la tortura, la prigionia, il genocidio, la guerra, le relazioni di potere nelle società contemporanee. La performance e la mostra sono state un’iniziativa del Comune di Palermo e di Arcigay Palermo, in collaborazione con l’Assessorato alla cultura di Milano, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea , Orto Botanico dell’Università degli Studi di Palermo, Musei UniPa, Galleria d’Arte Moderna Palermo.

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L’arte di Galindo ha costituito un’eccellente introduzione ai temi ed al punto di vista che il Palermo pride, ancora una volta, ha sviluppato. Un Pride che, partendo dalla rivendicazione dei diritti LGBT e dai topoi della cultura LGBT internazionale, illustra, esplora e rivendica i diritti umani nel senso più ampio possibile. È stato proprio allo ZAC, all’interno della straordinaria mostra di Regina Galindo, che Amnesty Sicilia, insieme ad Arcigay Palermo, ha deciso di presentare la campagna internazionale “My body my rights, il mio corpo i miei diritti”. Prendere decisioni sulla propria salute, il proprio corpo, la propria sessualità e la propria vita riproduttiva senza paura, coercizione, violenza o discriminazione è un diritto umano. Ed è proprio dalla difesa di questo diritto che è nato il movimento per i diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans, che ancora oggi diversi Paesi si scontra con leggi e sanzioni penali che limitano questo diritto o ne investono stati, operatori sanitari, religiosi e famiglie. Tema di quest’anno, una riflessione sugli “Spazi pubblici/Spazi di rivolta”, nella convinzione che l’appropriazione (o ri-appropriazione) degli spazi comuni, insieme alla riappropriazione del proprio corpo e della propria sessualità, sia una tappa fondamentale per la difesa dei diritti umani di ogni individuo. Il Palermo pride, dal 24 aprile fino al 27 giugno, si è snodato attraverso un fitto itinerario di luoghi e di eventi, tra rassegne di film, pièce teatrali (tra gli altri,

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LGBTI

Joele Anastasi e Massimo Verdastro), presentazioni di libri, aperitivi, dibattiti, assemblee cittadine, mostre fotografiche (come la sorprendente “Transmongolian” di Alvaro Laiz, curata da Antonio Leone per il Sicilia Queer Film Festival) e workshop oltre alla consueta, e attesissima, parata finale. Per la prima volta gli spettacoli teatrali sono stati ospitati dai due principali teatri cittadini: il Teatro Biondo e il Teatro Massimo, il monumento simbolo della città, che come di consueto, nei giorni del pride, si è illuminato con i colori dell’arcobaleno. Degno di nota il workshop creativo “Queer Maps”, realizzato dal collettivo Stay Queer Stay Rebel, che si proponeva l’obiettivo di mappare la geografia delle sessualità, analizzare le relazioni esistenti tra spazio e genere, scoprire come lo spazio pubblico influenza i comportamenti sessuali e come le norme che attualmente lo regolano siano un limite per la libera espressione. Il collettivo Zarra Bonheur (ovvero Rachele Borghi e Slavina) ha curato “Corpi, performance e spazio pubblico tra arte della militanza e pornoattivismo”, un incontro performativo che iva dal presuppostolo spazio pubblico non sia in realtà di tutt*, e non sia neutro, ma costituisca invece un potente dispositivo di controllo sociale, capace di condizionare, limitare e regolare comportamenti sociali, atteggiamenti, comportamenti, usi. “Ma è proprio nello spazio pubblico che hanno luogo le forme di resistenza, protesta, proposta: i corpi considerati socialmente “fuori luogo” possiedono un enorme potenziale di sovversione, soprattutto quando irrompono nello spazio pubblico. È per questo che sempre di più “si moltiplicano e si diffondo le riflessioni, le azioni e le iniziative di collettivi e singolarità queer, si moltiplicano le forme di resistenza che vedono corpi freak, corpi de-generi, favolosi, militanti, riot, ribelli, arrabbiati affermarsi nello spazio pubblico con la volontà di intervenire, utilizzare,

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sconvolgere e ribaltare lo spazio pubblico e le norme che lo attraversano. Questi corpi producono spazi di resistenza creativa, abbattono i muri, superano limiti imposti!” Altro evento significativo l’incontro con Gethin Roberts, uno dei leader del LGSM (Lesbians and Gay Men Support the Miners), il gruppo inglese che cambiò la storia del movimento LGBT inglese, legandosi negli anni ‘80 alle istanze dei minatori in sciopero, aprendosi cioè a vertenze e battaglie differenti. La storia del LGSM ha ispirato il film “Pride”, vincitore della Queer Palm al Festival di Cannes nel 2014. La parata finale, il 27 giugno, ha visto l’ormai consueta folla colorata che si è riversata nelle strade del centro. Con i suoi quasi 50.000 partecipanti, il Palermo pride si conferma la manifestazione più grande della città, oltre che una delle pride parade più grandi d’Europa. La parata viene attesa per un intero anno, e nemmeno la minore pubblicizzazione di quest’anno ha ostacolato la partecipazione appassionata di una città che si riconosce nei valori dell’orgoglio di essere ciò che si è, nei valori e nei principi del Palermo pride. Il bilancio conclusivo è quello di una manifestazione che ormai fa parte del patrimonio culturale della città, aperta e multiforme per vocazione e storia. Una manifestazione che attrae turisti da tutta Italia ed Europa, e che ha i connotati di un vero e proprio festival, realizzato grazie ad interventi estremamente limitati da parte della pubblica amministrazione e senza grandi sponsor, che poggia sulla buona volontà e sull’enorme lavoro fatto gratuitamente dai volontari. Allo stesso modo l’Onda pride, il movimento dei Pride italiani di cui il Palermo pride fa parte, ha portato in strada centinaia di migliaia di persone in tutta Italia, confermando l’interesse e la voglia di partecipazione per la lotta per i diritti della comunità LGBT.

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LGBTI

Ma qual è il contesto generale in cui si inseriscono il Palermo pride e i pride italiani? Purtroppo, anche quest’anno, la risposta alle istanze LGBT da parte della poltica è scarsa, se non nulla. Malgrado sentenze di tribunali, Cassazione, Corte Costituzionale e CEDU, malgrado i ripetuti richiami dell’Unione Europea, l’Italia è priva di una legge contro le discriminazioni e di misure positive contro omofobia e transfobia; le persone trans sono obbligate alla sterilizzazione; i matrimoni contratti all’estero vengono trascritti solo da pochi sindaci che sfidano coraggiosamente le ire di un ministro dell’interno palesemente omofobo, i politici eletti sono legittimati a discorsi d’odio; gli intersessuati sono assenti da agenda e temi della politica e del movimento; non esiste nessun riconoscimento delle coppie LGBT o delle famiglie omogenitoriali. L’Italia è ferma, e ci sono segnali preoccupanti di una retrocessione della cultura dei diritti, anche di quelli di lesbiche, gay, bisessuali e trans.

prevenzione e riduzione del bullismo nelle scuole. L’UNAR, l’ufficio nazionale anti discriminazioni è sempre più debole: privato di risorse umane e materiali, è continuamente sotto minaccia da parte del governo, da cui, contrariamente alle regole europee, dipende. La strategia LGBT dell’UNAR è scaduta pochi giorni fa, ha realizzato solo in parte gli obiettivi che si era proposta, e non vi è cenno di rilancio. Se la politica è sorda, parte della colpa è anche del movimento LGBT, spesso troppo sfiduciato e diviso, con un’Arcigay, l’associazione più grande e radicata nel territorio, ripiegata su sé stessa e assente persino dai media. È proprio partendo dai pride, dallo slancio di orgoglio, dalla produzione di cultura, dalla propaganda di valori positivi che può e deve ripartire una nuova stagione della lotta per i diritti LGBT. E può farlo solo se, come appunto nel Palermo pride, si collega con le altre lotte per i diritti e con altre istanze di libertà.

Una vasta campagna d’odio, basata sulla manipolazione della realtà, quella dei cosidetti “no gender”, sta accendendo ovunque focolai d’odio organizzato rendendo difficile le attività contro omofobia e transfobia, e in particolare quelle per la

Daniela Tomasino Attivista per i diritti LGBTI e volontaria della Croce Rossa

MANIFESTO 1

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AFFERMIAMO CHE:

i rapporti sessuali consensuali non sono mai un crimine - qualunque sia il nostro sesso, la nostra sessualità, la nostra identità di genere o il nostro stato civile;

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l’educazione e le informazioni sui rapporti sessuali e sulle relazioni devono basarsi su dati scientifici ed essere a disposizione di tutti;

i servizi sanitari di qualità, a costi sostenibili e nel rispetto della riservatezza, compreso l'accesso alla contraccezione, non sono un lusso - sono un diritto umano;

cercare di abortire - o aiutare qualcuno a farlo NON ci rende criminali;

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abbiamo il diritto di vivere liberi da ogni forma di violenza, compreso lo stupro;

Sottoscrivi il manifesto e scopri di più: appelli.amnesty.it/manifesto amnesty.it/mybodymyrights #MyBodyMyRights

abbiamo il diritto di dire la nostra su leggi, politiche e programmi che riguardano i nostri corpi e le nostre vite;

se le nostre scelte sessuali e riproduttive ci sono negate, abbiamo il diritto di denunciare, ottenere indagini e pretendere giustizia.

ACT 30/006/2015

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Approfondimenti

Armi e conflitti

ARMI ITALIANE (E PROFUGHI) FUORI CONTROLLO di Giorgio Beretta

L’ultimo caso è quello delle bombe inviate in Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Un ampio arsenale di quasi 100 milioni di euro tra bombe MK82, MK83, MK84 e BLU 109 prodotte nel nostro paese dall’azienda tedesca RWM Italia e spedite negli ultimi anni alle monarchie saudite che non hanno esitato ad impiegarle nel conflitto in Yemen. Conflitto che – stando ai dati delle agenzie dell’Onu – ha già causato più di 4000 morti e 20mila feriti, di cui circa la metà tra i civili, oltre un milione di sfollati interni e che oggi registra 21 milioni di persone (più di tre quarti della popolazione) che necessitano di aiuti urgenti. Una vera e propria “catastrofe umanitaria”, beatamente ignorata da gran parte dei nostri media nazionali, che si è acuita dal marzo scorso con l’intervento militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita per contrastare l’avanzata del movimento sciita zaydita houthi. E’ vero: l’intervento militare è stato messo in atto su richiesta del presidente Rabbo Mansur Hadi, deposto dagli houthi con un colpo di stato ma tuttora riconosciuto dalla comunità internazionale. L’azione militare non ha però ricevuto alcun mandato né giustificazione da parte delle Nazioni Unite. Così nel conflitto si stanno consumando, giorno dopo giorno “gravi violazioni del diritto umanitario”: lo ha denunciato Amnesty International in un rapporto diffuso lo scorso agosto che documenta le conseguenze dei bombardamenti della coalizione a guida saudita contro zone residenziali densamente abitate e degli attacchi da terra, indiscriminati e sproporzionati, compiuti dalle forze pro-houti e da quelle anti-houti. Insieme ad altre 22 organizzazioni non governative per i diritti umani Amnesty ha perciò sollecitato il Consiglio per i diritti umani dell’Onu Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

(UNHRC) ad istituire una commissione d’inchiesta al fine di indagare, in modo indipendente e imparziale, i “crimini di guerra” commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto dello Yemen. Tra le bombe impiegate nel conflitto sono state ritrovate anche le micidiali “bombe a grappolo” e un’ampia serie di bombe aeree che hanno pesantemente colpito obiettivi e infrastrutture civili tra cui scuole e centri educativi. Bombe che l’Arabia Saudita ha ricevuto negli anni scorsi dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, ma anche dall’Italia. L’ho documentato in una ricerca per l’Osservatorio OPAL di Brescia (qui in .pdf) e in due articoli pubblicati sul sito Unimondo. Particolarmente rilevante è un’autorizzazione nel 2013 all’esportazione dall’Italia per l’Arabia Saudita relativa a 3.650 bombe da mille libbre MK83 attive della RWM Italia per un valore di oltre 62 milioni di euro. Ma soprattutto, lo scorso maggio sono state esportate dall’Italia agli Emirati Arabi Uniti “armi e munizioni” (tra cui bombe) per un valore di oltre 21 milioni di euro. Da diverse associazioni presenti in Yemen sappiamo che ordigni inesplosi del tipo di quelli inviati dall’Italia all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, come le bombe MK84 e Blu109, sono stati ritrovati in varie città bombardate dalla coalizione saudita ed è quindi altamente probabile che questa coalizione stia impiegando anche bombe inviate dal nostro paese. Nonostante l’aggravarsi del conflitto in Yemen non risulta però che il governo italiano abbia sospeso l’invio di sistemi militari e per questo Amnesty Italia, Rete disarmo e l’Osservatorio OPAL hanno chiesto al governo italiano di sospendere l’invio di bombe e armamenti ai paesi della coalizione saudita.

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Armi e conflitti

Bombe che non avrebbero mai dovuto essere spedite in Arabia Saudita: la legge n. 185 del 1990 proibirebbe infatti l’esportazione di materiali militari “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. E che l’Arabia Saudita sia un paese in cui le violazioni dei diritti umani sono gravi e reiterate non lo si sa da oggi: da anni Amnesty International documenta come la tortura e la pena di morte siano ampiamente utilizzate dalle autorità saudite a seguito di processi sommari e per reati minori. Ma la legge italiana permette un ampio margine di discrezionalità: al testo del succitato articolo qualche anno fa è stato infatti aggiunto “accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa”. E così, se non vi è uno dei “competenti organi” che le accerti, è come se le violazioni non esistessero. Tutto questo ha contribuito a promuovere l’esportazioni di armi e di sistemi militari italiani verso alcuni dei regimi più autoritari del mondo (Grafico 1) e, soprattutto, nelle zone di maggior tensione del pianeta come il Medio Oriente (Grafici 2 e 3). L’ho documentato in una infografica (qui in pdf) che ho presentato lo scorso 9 luglio in una conferenza stampa promossa dalla Rete disarmo alla Camera dei Deputati (qui il video).

L’Italia negli anni scorsi era stata tra i maggiori esportatori nell’UE di sistemi militari alla la Siria e alla Libia: prima dei conflitti nei due paesi, non vi erano infatti specifici divieti internazionali, ma le violazioni dei diritti umani e la situazione interna era nota. Cosa sia successo in Siria e Libia, e cosa stia tuttora succedendo, è altrettanto noto. Per questo prima di chiederci da dove arrivano i profughi potremmo cominciare a chiederci dove spediamo i sistemi militari “made in Italy”. Potrebbe cominciare a farlo anche il parlamento visto che per sette anni la corposa relazione che il governo ha inviato alle Camere è rimasta intonsa. Lo scorso febbraio le Commissioni Difesa e Esteri della Camera – dopo anni di pressioni della Rete Disarmo – sono tornate ad esaminare la Relazione governativa: ma la seduta è durata meno di un’ora e al momento non si ha notizia di ulteriori iniziative in Parlamento. Il business delle armi può continuare indisturbato.

Giorgio Beretta Sociologo, membro della Rete Italiana per il Disarmo

Grafico 1

ESPORTAZIONI DI ARMI E DEMOCRAZIA

Autorizzazioni all’esportazione di armamenti italiani nel quinquennio 2010-14: i primi 15 Paesi destinatari AUTORIZZAZIONI (Valori in milioni di euro costanti)

TIPO DI DEMOCRAZIA (Tipo e Posizione su 167 paesi)

Arabia Saudita

1.205,3

Regime Autoritario (160)

Stati Uniti

1.167,9

Democrazia Completa (19)

Emirati Arabi Uniti

1.128,5

Regime Autoritario (152)

Gran Bretagna

808,2

Democrazia Completa (14)

Germania

633,0

Democrazia Completa (15)

Singapore

632,1

Regime Ibrido (80)

India

631,8

Democrazia Imperfetta (33)

Israele

483,5

Democrazia Imperfetta (39)

Francia

467,4

Democrazia Imperfetta (27)

Turkmenistan

433,2

Regime Autoritario (162)

Polonia

412,8

Democrazia Imperfetta (44)

Turchia

404,3

Regime Ibrido (93)

Oman

301,8

Regime Autoritario (136)

Australia

261,8

Democrazia Completa (6)

PAESE DESTINATARIO

Elaborazione di Giorgio Beretta (OPAL Brescia) dalle Relazioni del Governo italiano e EIU “Democracy Index 2013”

15

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


Armi e conflitti

Grafico 2

Esportazioni italiane di armamenti: Autorizzazioni per Zone geopolitiche Confronto tra il quinquennio 2005-9 e il quinquennio 2010-14 (Valori in miliardi di euro costanti rivalutati al 2014)

6

5

4

3

2

1

0 Unione Europea

Medio Oriente Nord Africa

Asia

Nord America

Altri Europei

America Latina

Oceania

Africa Subsahariana

Anni 2005-9

5871,6

3741

2204,3

1393,7

1828,6

380,6

397,3

310,8

Anni 2010-14

3446,1

4977,7

2277,4

1338,4

783,8

723,5

294

196,7

Elaborazione di Giorgio Beretta per OPAL Brescia dalle Relazioni della Presidenza del Consiglio

Grafico 3

Esportazioni italiane di armamenti: Autorizzazioni per Zone geopolitiche Confronto tra quinquennio 2005-9 (cerchio interno) e quinquennio 2010-14 (cerchio esterno) (Valori in miliardi di euro costanti rivalutati al 2014) Africa Subsahariana Oceania

America Latina

Altri Europei

2,1%

1,4%

Unione Europea

5,6%

Nord America

2,4%

2,5%

1,9%

5,2%

24,5%

Unione Europea

11,3%

Medio Oriente Nord Africa

9,5%

Asia

36,4%

Nord America 8,6%

Altri Europei America Latina Oceania Africa Subsahariana

Asia

16,2%

13,7%

23,2%

35,5%

Medio Oriente Nord Africa

Elaborazione di Giorgio Beretta per OPAL Brescia dalle Relazioni della Presidenza del Consiglio

Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

16


Approfondimenti

Rifugiati e migranti

HOT-SPOT. CENTRI DI PRIMO SOCCORSO ED ACCOGLIENZA O CENTRI DI DETENZIONE? di Fulvio Vassallo Paleologo

La recente risposta del Commissario Europeo all’immigrazione Avramopoulos ad una interrogazione di Barbara Spinelli sulle presunte violenze verificatesi all’interno del Centro di primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Pozzallo, nel mese di aprile, durante le procedure di identificazione di alcuni gruppi familiari, lascia aperti molti interrogativi, anche alla luce della persistente chiusura della struttura, nella quale vengono negati ingressi di associazioni, già autorizzate dal Ministero dell’interno, proprio perché si starebbero svolgendo “procedure di identificazione” di persone trattenute al suo interno. Non sembra del resto maggiormente accessibile il CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa nel quale da tempo si registrano trattenimenti prolungati di minori e potenziali richiedenti asilo in assenza di un qualsiasi provvedimento dell’autorità giudiziaria. Casi che sono stati recentemente sanzionati da una condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Il primo dell’uomo “illegale” settembre 17

settembre la Corte europea dei diritti ha condannato l’Italia per la detenzione di tre migranti tunisini avvenuta nel del 2011 nel Centro di prima accoglienza

di Lampedusa e poi su due navi traghetto a Palermo. Per la Corte di Strasburgo la loro detenzione da parte delle autorità italiane è stata «irregolare», «ha leso la loro dignità» e ha violato diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ( 3, 5 e 13). La detenzione amministrativa realizzata all’interno di un centro di primo soccorso ed accoglienza era «priva di base legale», i motivi della reclusione erano rimasti «sconosciuti» ai tre ricorrenti che «non hanno nemmeno potuto contestarli» rivolgendosi a un giudice italiano. La Corte ha infine stabilito che l’Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive di stranieri perché ha rimpatriato in Tunisia i tre migranti senza aver prima fatto un’analisi sulla situazione specifica di ciascuno di loro, violando così l’articolo 4 del protocollo 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che dice: «Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate». La sentenza della Corte, sebbene ancora appellabile dal governo italiano, fa leva su una cospicua mole di precedenti giurisprudenziali che sono evidentemente sono ignoti al Commissario Europeo Avramopoulos ed alla Commissione, ai quali, subito dopo la diffusione di un video che documentava la detenzione amministrativa all’interno del Cpsa di Pozzallo, era stato indirizzato un esposto. OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


Rifugiati e migranti

Il Commissario Avramopoulos e la Commissione Europea, senza neppure accertare i fatti, non hanno evidentemente considerato che i diversi motivi degli esposti presentati, che, oltre a riferire delle violenze già documentate in video e testimonianze diffuse in rete, lamentavano il prolungato trattenimento amministrativo, con totale privazione della libertà personale, dei migranti, alcuni dei quali visibilmente minori, appena sbarcati, in una condizione di grande promiscuità, in quelli che, al massimo per 48-72 ore, dovrebbero essere soltanto centri di primo soccorso ed accoglienza, e non Centri di identificazione ed espulsione (CIE), come quelli previsti e disciplinati dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione. Si tratta di questioni cruciali, sia per l’indirizzo, riconfermato dall’Unione Europea nei suoi numerosi vertici, di aprire degli Hot Spot nelle regioni di frontiera, se ne prevedevano ben cinque in Sicilia, dove identificare i migranti subito dopo lo sbarco, anche con il prelievo delle impronte digitali, che per le recenti dichiarazioni dei leader europei che annunciano l’intenzione di rafforzare le procedure di identificazione, al fine di distinguere e separare i cd. migranti economici, per i quali attivare immediatamente le procedure di respingimento, dandone avviso alle relative rappresentanze consolari, ed i profughi o potenziali richiedenti asilo, quasi come se l’Italia avesse già adottato una lista di “paesi terzi sicuri”, verso i quali allontanare senza formalità i migranti “irregolari” appena dopo lo sbarco. Una forzatura politica priva di basi legali. In una riunione del governo italiano, nel mese di maggio, si era approvato uno schema di decreto legislativo che prevedeva il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo, in un numero di casi maggiore di quanto non si verifichi oggi, il prossimo 30 settembre quel provvedimento entrerà in vigore e si dovrà verificare come potrà applicarsi se nello stesso tempo si dovranno aprire ben cinque hot spot soltanto in Sicilia. Di fatto cinque centri di detenzione per persone appena sbarcate, mentre altra detenzione nei CIE sembra riservata a chi fa domanda di asilo senza avere i documenti o rifiuta di farsi identificare. Le regole di trattenimento in centri chiusi delle persone appena sbarcate rimangono affidate alla più totale discrezionalità delle forze di polizia, a fronte della evidente impossibilità di adottare misure di accoglienza/detenzione a decine di migliaia di persone alle quali non si riesce a garantire neppure un tetto ed una accoglienza dignitosa, come dimostra lo scandalo della tendopoli al Pala Nebiolo di Messina, neppure nel caso di donne, minori non accompagnati e vittime di tortura, oltre un terzo di tutti i migranti che vengono sbarcati nei porti italiani.

Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

Di fronte a questa ulteriore involuzione del sistema italiano di prima accoglienza, ed alla sua trasformazione progressiva in un sistema di detenzione temporanea, una responsabilità sempre più grande incomberà sulle associazioni e su tutti coloro che, operando anche all’interno di strutture e servizi pubblici, saranno coinvolti nelle attività di prima accoglienza. In tutte le città portuali di arrivo e nei centri dove saranno istituiti HOT SPOTS occorrerà vigilanza e capacità di pronto intervento, attraverso reti indipendenti di operatori sociali, esperti legali, giornalisti e medici. Ancora il 17 luglio scorso giungevano a Lampedusa numerose cittadine nigeriane, potenziali vittime di tratta, alle quali è stato notificato un provvedimento di respingimento differito adottato dalla Questura di Agrigento e che, dopo alcuni giorni di trattenimento nel CPSA di Contrada Inbriacola, sono state trasferite nel CIE di Ponte Galeria, a Roma, ai fini del rimpatrio. Soltanto un forte impegno della società civile ha bloccato il rimpatrio immediato, ottenendo la liberazione delle prime quattro ragazze, mentre si stanno preparando i ricorsi per ottenere la liberazione di quelle altre per le quali la Commissione territoriale di Roma ha respinto la richiesta di protezione internazionale. Nel loro caso, oltre al trattenimento arbitrario a Lampedusa si è aggiunto l’internamento in un centro di identificazione ed espulsione. E poi il 17 settembre è arrivata, per venti di loro, la deportazione in Nigeria, malgrado fossero arrivate le prime sospensive da parte del giudice di Roma. Un caso sul quale riflettere per comprendere quale potrebbe essere in futuro la valenza espulsiva, senza alcuna possibilità di un ricorso effettivo o di fare valere una richiesta di asilo, dei nuovi Hot Spot che il governo italiano, su spinta delle autorità europee, dovrebbe attivare entro l’anno. Quanto avviene ancora oggi nei centri di prima accoglienza e soccorso, quando il trattenimento amministrativo si protrae oltre le 96 ore, magari allo scopo di ottenere il prelievo delle impronte digitali, corrisponde ad una eclatante violazione dell’art. 13 della Costituzione italiana e delle norme che regolano in Italia il trattenimento amministrativo. Anche le deportazioni effettuate dopo l’internamento nei centri di detenzione ed espulsione nei confronti di soggetti vulnerabili come le giovani donne nigeriane conferma oltre ad una serie di gravi irregolarità, il più totale dispregio della dignità umana e dei diritti delle donne.

Fulvio Vassallo Paleologo Docente di Diritto d’Asilo e Statuto Costituzionale dello Straniero

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Approfondimenti

Cinema

TAXI TEHERAN (Taxi) di Jafar Panahi di Francesco Castracane

Nonostante l’arresto nel 2010, per la sua partecipazione alle manifestazioni di protesta contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad e il successivo intervento delle autorità iraniane che lo hanno liberato, ma gli hanno imposto di non realizzare più film, di non rilasciare interviste a giornali stranieri e di non lasciare l’Iran, il grande regista Panahi, continua a raccontare il proprio paese così come si mostra quotidianamente. Il suo ultimo lavoro è realizzato all’interno di un taxi che gira per Teheran e racconta, con empatia e sensibilità, i personaggi che vi salgono sopra. Una piccola camera fissata sul cruscotto mostra ciò che avviene all’interno dell’abitacolo. Con questo semplice lavoro, senza fronzoli ma pieno di vita, il regista ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2015. Il premio è stato ritirato da una delle nipoti che vive fuori dall’Iran. Nonostante il governo gli abbia imposto di non dirigere, nel frattempo Panahi aveva girato altri due film. Nel primo, “This is not a film” del 2011, raccontava la sua esperienza di persona che non poteva uscire dal proprio appartamento. La maggior parte delle immagini sono realizzate con un telefonino e si fa aiutare nelle riprese da un grande documentarista iraniano, Mojtaba Mirtahmasb. Il film uscì dall’Iran attraverso una chiavetta usb e fu presentato fuori concorso a Cannes. In quell’occasione il regista dichiarò: “Da tempo avevo intenzione di girare un documentario su un film che non ha ottenuto l’autorizzazione dal governo di essere realizzato. Così abbiamo fatto come i parrucchieri che, quando non hanno i clienti, si aggiustano l’un l’altro i capelli. Vogliamo dimostrare che tra il film su ordinazione o il divieto di esprimersi con la propria opera, esiste una terza via: fare film ugualmente. Quando non è possibile orientare la cinepresa fuori, rivolgiamola verso noi stessi, che riflettiamo quello che accade nella società.” Successivamente realizza “Pardè (2013)”, lavoro autobiografico girato all’interno di un appartamento, nel quale il regista mette allo scoperto tutte le sue ossessioni e paure. Questi due lavori, risentono molto della cupezza e del pessimismo che in quel momento sta vivendo Panahi.

Nel film, Panahi interpreta il ruolo principale, impersonando un tassista che accoglie nella sua vettura diversi clienti. Un borseggiatore che si mette a litigare con un’altra passeggera del taxi; una insegnante; un venditore di DVD occidentali che ritiene di avere un ruolo sociale, perché fa vedere i film di Woody Allen e “C’era una volta in Anatolia”; un’avvocata; due vecchie e scorbutiche signore con dei pesci rossi; un uomo ferito in un incidente con sua moglie che lo sta accompagnando all’ospedale dei poveri. L’abitacolo della vettura diviene il luogo dove le persone possono raccontarsi per quello che sono, lontano da orecchie indiscrete. In questo lavoro, il regista attua anche una riflessione sulla moltiplicazione dei punti di vista e sul senso della democratizzazione delle immagini attuata dallo sviluppo tecnologico. Oltre alla camera fissa sul cruscotto, ad un certo punto compare un cellulare il cui scopo è quello di raccogliere il testamento dell’uomo ferito, e c’è la videocamera della nipote che riprende lo zio che riprende l’abitacolo della vettura. Un gioco di rimandi e di citazioni dei suoi stessi film (Oro rosso, Offside, Lo specchio).

Invece, questo suo ultimo film, è deliziato da una piacevole sensazione di libertà interiore, di ironia e di tenerezza. Ciò è la dimostrazione che questo regista dà il meglio di sé quando può raccontare la vita, le storie delle persone che incontra, il mondo e le sue contraddizioni. 19

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


Cinema

Sul taxi si discute di pena di morte, giustizia, vendetta, copie pirata, amore, paura della morte, ma con una leggerezza, levità ed ironia e autoironia che stupiscono lo spettatore. E si gioca anche sulla forma documentario. Panahi fa finta di girare un documentario, ma fa capire perfettamente che i personaggi sono veri ma recitano una parte. E anche coloro che partecipano al lavoro giocano dicendo che hanno capito che lui sta girando un film. Ma c’è un momento preciso dell’opera dove la dicotomia falso/vero salta: sul taxi sale l’avvocata e militante dei diritti umani Nasrin Sotudeh che interpreta se stessa. Anche lei impossibilitata ad esercitare la sua professione dal 2011. Racconta la sua esperienza con il sorriso, ironica e indomita. La donna scende dal taxi dicendo: “bisogna andare avanti”. La cosa che colpisce sempre nei lavori di Panahi è la naturalezza con la quale tratteggia la vita degli iraniani. Li descrive così come sono, con gli stessi problemi e difficoltà che si incontrano in occidente. Nel suo primo film “Il palloncino bianco”, con macchina ad altezza di bambina descriveva la vita quotidiana di Teheran e la presenza dell’immigrazione afghana, ghettizzata all’interno della società iraniana. L’altra cosa che colpisce di questo film è la città che si vede passare attraverso i vetri della macchina. Una città bellissima, che si intravede piena di vita e di gente indaffarata. Una città che sembra non avere nulla di orientale e dove le uniche insegne occidentali sono quelle del lusso. Non a caso, una scena del film si svolge davanti ad una concessionaria di macchine occidentali che mostrano il proprio marchio. Durante il viaggio, il regista deve andare a prendere la nipote, che lo aspetta davanti alla scuola. Questa è forse la parte più debole del film, una fanciulla troppo saccente, troppo precisina per essere vera. Ma la bambina chiede consiglio allo zio su come realizzare il compito che le hanno dato a scuola: un film che per avere distribuzione deve seguire i dettami islamici:

Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

no al torbido realismo; il personaggio buono non deve avere la cravatta; il personaggio buono deve avere la barba; il personaggio buono deve avere un nome del Corano. Ma a un certo punto, il “torbido realismo” irrompe nel film: mentre la bimba parla la camera indugia sull’esterno e mostra una giovane coppia che si sta sposando, mentre un bambino fruga nel bidone della spazzatura e poi ruba dei soldi ai giovani sposi. In questo modo di raccontare la realtà, Panahi dimostra di avere imparato molto dal grande regista Kiarostami, del quale è stato aiuto regista. Prima dell’arresto Panahi aveva girato il suo film forse più ironico: “Offside”, la storia di una ragazza che si traveste da uomo per entrare allo stadio e vedere una partita di calcio della nazionale iraniana. Nel cinema di Panahi, c’è una costante attenzione verso il ruolo della donna, ma anche un grande amore per il proprio popolo e la propria cultura, che egli non rinnega mai. La fine, apparentemente pessimista, è invece, a mio parere, un omaggio alla inevitabilità del processo creativo, che nessuna censura può spezzare o interrompere. Il film si conclude senza i titoli di coda, sostituiti con la seguente didascalia: “Il ministero dell’orientamento islamico dà l’autorizzazione per i titoli di coda dei film che vengono distribuiti. Con mio grande rammarico questo film non ha quindi titoli di coda. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non avrebbe visto la luce.” E’ ancora possibile vedere questo interessantissimo film nelle sale, che è presentato in due versioni: una doppiata in italiano e l’altra in Parsi con sottotitoli in italiano. Mi permetto di suggerire la visione del film in lingua originale, per apprezzare la bellezza e l’armonia della lingua persiana.

Francesco Castracane Educatore professionale nell’ambito delle dipendenze patologiche

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Biblioteca

EDU

DIRITTI DI TUTTI, NESSUNO ESCLUSO! “Diritti Lgbti, diritti umani” - Scuole Attive contro l’omofobia e la transfobia di Daniela Conte

Nel mese di marzo del 2014 ha visto la sua prima attuazione all’interno di quattro scuole superiori del territorio italiano il progetto educativo intitolato “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”, attraverso due modalità: il sito web scuole-lgbti.amnesty.it e la guida per i docenti dal titolo “Diritti Lgbti, diritti umani”. L’obiettivo è quello di sensibilizzare studenti e docenti su tematiche affrontate di solito marginalmente negli istituti scolastici, ed è anche quello di fornire strumenti, proposte e azioni per accompagnare la crescita e la formazione umana e culturale dei componenti la comunità scolastica, che è poi principalmente comunità sociale che vive spesso nel suo interno conflittualità dovute a differenze caratteriali o a difformità nel substrato culturale di appartenenza, e che nel contempo è proiettata verso l’esterno. La scuola in ogni modo rimane il luogo privilegiato in cui poter veicolare contenuti e valori di civiltà e di inclusione, che altrimenti rischierebbero di essere disattesi dalla maggior parte della comunità scolastica, e sostenere comportamenti corretti e rispettosi delle uguaglianze e della dignità della persona. È anche il luogo in cui purtroppo si verificano episodi di discriminazione e di intolleranza e, in alcuni casi estremi, anche forme di violenza fisica e verbale nei confronti dei più deboli o di chi è considerato “diverso”.

l’identità di genere, al pari dell’origine etnica, del sesso o della nazionalità, fanno parte dei caratteri fondamentali dell’individuo”. (cit. dalla guida per docenti “Diritti LGBTI, Diritti Umani”). Contestualmente, Amnesty International si rivolge alle scuole dove, attraverso l’Educazione ai Diritti Umani, studenti e docenti vengano coinvolti in percorsi culturali orientati alla lotta agli stereotipi, ai pregiudizi, che sono spesso alla base di episodi di discriminazione e di violenza. La seconda parte della guida si rivolge a quei docenti che non sono soliti utilizzare altro se non le metodologie tradizionali di insegnamento, intendendo con il termine “tradizionali” la lezione frontale, la mera trasmissione di contenuti, il processo di indottrinamento. Essa presenta, infatti, una esaustiva spiegazione del “cos’è l’Educazione ai diritti umani” secondo quanto riportato nella “Strategia internazionale EDU, 2005” (“una pratica volontaria e partecipativa volta all’empowerment delle persone, dei gruppi e delle comunità attraverso la promozione di conoscenze, capacità e comportamenti

L’Ufficio Educazione e Formazione di Amnesty International Italia propone quindi un testo di studio e di approfondimento sui Diritti LGBTI da promuovere nelle scuole secondarie di secondo grado. Si tratta di una risorsa didattica rivolta a quei docenti che intendono affrontare, nelle loro classi, tematiche relative ai diritti umani e in particolare ai diritti di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuati, persone che vivono quotidianamente atteggiamenti di discriminazione, esclusione, violenza e sopraffazione. La guida si compone di più parti. La prima, di introduzione al percorso educativo, in cui vengono esplicitate la vision e la mission di Amnesty International rispetto alle violazioni dei diritti per l’orientamento sessuale e l’identità di genere. “Nel Rapporto annuale 2013 sulla situazione dei diritti umani nel mondo, Amnesty International ha denunciato violazioni dei diritti umani, aggressioni, intimidazioni e discriminazioni nei confronti di persone LGBTI in più di 40 paesi. Amnesty International chiede a tutti gli stati un impegno effettivo affinché le persone LGBTI non siano vittime di discriminazione nelle proprie comunità, possano godere degli stessi diritti di ogni altro cittadino ed esprimere liberamente e pacificamente la propria identità, sottolineando che l’orientamento sessuale e 21

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


EDU coerenti con i principi internazionalmente riconosciuti in materia di diritti umani”) e perché essa prediliga le metodologie partecipative, con uno sguardo ai contesti educativi in cui attivare l’educazione formale, non formale, informale. La terza parte, infine, costituisce il fulcro stesso del testo, cioè la proposta educativa sui Diritti LGBTI. Essa è strutturata in dieci unità consecutive, ognuna delle quali enucleata in schede informative contenenti: finalità, metodi e strumenti, tempi, obiettivi in termini di conoscenze competenze e attitudini, elenco di materiali, programma da svolgere con istruzioni e consigli. Ogni unità si chiude con la sezione “Attivarsi”, in cui i docenti possono trovare suggerimenti utili per attivarsi o far attivare gli studenti in buone pratiche dopo aver svolto il percorso, e con la sezione “Bibliografia” in cui trovare riferimenti bibliografici e i siti utilizzati e citati. Il percorso completo comprende le seguenti unità: 1. Percorso introduttivo “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”; 2. Identità e diversità; 3. Ti sto ascoltando; 4. Generi, ruoli e aspettative; 5. Un glossario LGBTI; 6. Diritti LGBTI, diritti umani; 7. Una scuola attiva contro la transfobia. La storia di Michi; 8. Parole d’odio o libertà di parola?; 9. Amori invisibili; 10. Sentirsi al sicuro; Attivarsi.

altre. Nella fattispecie, la guida didattica propone ai docenti due altre soluzioni in un Percorso B, suddiviso in 7 incontri, e in un Percorso C, suddiviso in 5 incontri. L’aspetto funzionale della struttura delle unità proposte consiste, infatti, nella possibilità di modulare il percorso secondo le necessità del contesto o di svolgere solo alcune sezioni, per necessità di tempo, ad esempio, o perché alcuni temi risultano già trattati precedentemente, e di approfondire questioni e contenuti che sono propedeutici alla fase conclusiva di attivazione e/o di sviluppo di buone pratiche. In conclusione, il programma formativo fin qui descritto rappresenta, nella sua interezza e nella sua composizione così ben strutturata, una specifica guida per docenti interessati a trattare il tema dei Diritti LGBTI, ma anche uno strumento di indagine emotiva e cognitiva, di analisi di comportamenti e di atteggiamenti individuali e collettivi, oltre che un esempio pratico di metodologie partecipative che attivano processi e non misurano risultati, concorrono alla formazione di soggetti attivi e promuovono in essi il cambiamento.

È possibile comunque decidere di procedere in maniera differente, sviluppando solo alcune unità o approfondendone

Daniela Conte Resp. del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

CONTRO L’OMOFOBIA E LA TRANSFOBIA Voci - OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1

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Buone notizie

BUONE NOTIZIE Il 30 luglio due sposi della città di Kilis, nel sud della Turchia, hanno deciso di festeggiare la loro unione offrendo ad oltre quattromila rifugiati siriani cibo che hanno distribuito personalmente.

seguito al quale il 62,2 per cento dei votanti ha votato SI al quesito che proponeva di inserire nella Costituzione Irlandese il principio che “Il matrimonio può essere contratto per legge da due persone, senza distinzione di sesso“. L’Irlanda si aggiunge ai 21 paesi del mondo (di cui 13 europei) che hanno legalizzato i matrimoni dello stesso sesso. Paesi europei: Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Galles, Inghilterra, Islanda, Norvegia, Olanda, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia.

La città di Kilis si trova nella zona della Turchia al confine con la Siria nella quale si è rifugiata una gran quantità di profughi siriani.

Paesi extraeuropei: Argentina, Brasile, Canada, Messico (in 5 dei 31 stati), Nuova Zelanda, Sudafrica, Uruguay, USA (in 38 dei 50 stati).

Secondo l’ACNUR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a fine agosto 2015, dei 4 milioni di profughi dalla Siria, 2 milioni si trovavano nel sud della Turchia.

Un passo avanti, sia pure piccolo e sofferto (per il ritardo con cui è arrivato), si prospetta nel futuro delle donne dell’Arabia Saudita.

In seguito all’appello lanciato dalla scrittrice Bryndis Bjorgvinsdottir, 12.600 famiglie islandesi hanno chiesto al proprio governo di ospitare nelle proprie case profughi siriani. Molte di queste famiglia hanno anche offerto di pagare i biglietti aerei. In seguito a tali richieste il governo islandese (che aveva originariamente previsto di accogliere 50 profughi) ha dichiarato che sta considerando di chiedere un aumento del numero di profughi siriani da accogliere.

Il 23 maggio 2015 l’Irlanda ha legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso. La decisione è stata affidata al popolo mediante referendum, in 23

Re Abdullah ha infatti deciso che, a partire dalla elezioni amministrative del 2019, le donne potranno votare e candidarsi. In Arabia Saudita non si svolgono elezioni politiche poiché il potere legislativo è detenuto dal re. Già dal 2013 le donne sono entrate a far parte della Shura, il consiglio consultivo del re. Tuttavia esse devo accedere da un ingresso a loro riservato, devo sedere in un settore distinto da quello degli uomini ed indossare l’hijab, il copricapo arabo.

famiglia, non possono lavorare nel settore petrolifero (come si sa il principale del paese).

A fine agosto 2015 un giudice federale degli Stati Uniti ha accolto l’istanza di tre detenuti dello stato del Mississippi che, appellandosi all’ottavo emendamento della Costituzione Americana, avevano sostenuto che l’iniezione letale non garantisce una morte senza sofferenza. Il giudice, in attesa di chiarire se le sostanze attualmente usate rendano disumana l’iniezione letale, ha quindi sospeso le esecuzioni in Mississippi.

In Connecticut (uno dei 19 stati abolizionisti degli USA, a cui si devono aggiungere gli 8 in cui vige la moratoria) la pena di morte fu abolita nel 2012 con una legge che non aveva valore retroattivo. Erano quindi rimasti nel braccio della morte 11 detenuti. A fine agosto 2015, una sentenza della Corte Suprema del Connecticut, accogliendo il ricorso di uno di quei detenuti, ha stabilito che la pena di morte in quello stato è incostituzionale. La pena di morte di questi ultimi condannati a morte del Connecticut è stata quindi revocata. La pena di morte rimane pienamente in vigore in 23 dei 50 stati degli USA.

In Arabia Saudita le donne non possono guidare l’auto, possono essere costrette dalla polizia religiosa a rispettare le regole islamiche sull’abbigliamento, non possono viaggiare da sole fino a 45 anni se non autorizzate dal capo OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.it

VOCI

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI

i fatti e le idee


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