Voci - Numero 4 Anno 1 - Amnesty International in Sicilia

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Approfondimenti

Cinema

TAXI TEHERAN (Taxi) di Jafar Panahi di Francesco Castracane

Nonostante l’arresto nel 2010, per la sua partecipazione alle manifestazioni di protesta contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad e il successivo intervento delle autorità iraniane che lo hanno liberato, ma gli hanno imposto di non realizzare più film, di non rilasciare interviste a giornali stranieri e di non lasciare l’Iran, il grande regista Panahi, continua a raccontare il proprio paese così come si mostra quotidianamente. Il suo ultimo lavoro è realizzato all’interno di un taxi che gira per Teheran e racconta, con empatia e sensibilità, i personaggi che vi salgono sopra. Una piccola camera fissata sul cruscotto mostra ciò che avviene all’interno dell’abitacolo. Con questo semplice lavoro, senza fronzoli ma pieno di vita, il regista ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2015. Il premio è stato ritirato da una delle nipoti che vive fuori dall’Iran. Nonostante il governo gli abbia imposto di non dirigere, nel frattempo Panahi aveva girato altri due film. Nel primo, “This is not a film” del 2011, raccontava la sua esperienza di persona che non poteva uscire dal proprio appartamento. La maggior parte delle immagini sono realizzate con un telefonino e si fa aiutare nelle riprese da un grande documentarista iraniano, Mojtaba Mirtahmasb. Il film uscì dall’Iran attraverso una chiavetta usb e fu presentato fuori concorso a Cannes. In quell’occasione il regista dichiarò: “Da tempo avevo intenzione di girare un documentario su un film che non ha ottenuto l’autorizzazione dal governo di essere realizzato. Così abbiamo fatto come i parrucchieri che, quando non hanno i clienti, si aggiustano l’un l’altro i capelli. Vogliamo dimostrare che tra il film su ordinazione o il divieto di esprimersi con la propria opera, esiste una terza via: fare film ugualmente. Quando non è possibile orientare la cinepresa fuori, rivolgiamola verso noi stessi, che riflettiamo quello che accade nella società.” Successivamente realizza “Pardè (2013)”, lavoro autobiografico girato all’interno di un appartamento, nel quale il regista mette allo scoperto tutte le sue ossessioni e paure. Questi due lavori, risentono molto della cupezza e del pessimismo che in quel momento sta vivendo Panahi.

Nel film, Panahi interpreta il ruolo principale, impersonando un tassista che accoglie nella sua vettura diversi clienti. Un borseggiatore che si mette a litigare con un’altra passeggera del taxi; una insegnante; un venditore di DVD occidentali che ritiene di avere un ruolo sociale, perché fa vedere i film di Woody Allen e “C’era una volta in Anatolia”; un’avvocata; due vecchie e scorbutiche signore con dei pesci rossi; un uomo ferito in un incidente con sua moglie che lo sta accompagnando all’ospedale dei poveri. L’abitacolo della vettura diviene il luogo dove le persone possono raccontarsi per quello che sono, lontano da orecchie indiscrete. In questo lavoro, il regista attua anche una riflessione sulla moltiplicazione dei punti di vista e sul senso della democratizzazione delle immagini attuata dallo sviluppo tecnologico. Oltre alla camera fissa sul cruscotto, ad un certo punto compare un cellulare il cui scopo è quello di raccogliere il testamento dell’uomo ferito, e c’è la videocamera della nipote che riprende lo zio che riprende l’abitacolo della vettura. Un gioco di rimandi e di citazioni dei suoi stessi film (Oro rosso, Offside, Lo specchio).

Invece, questo suo ultimo film, è deliziato da una piacevole sensazione di libertà interiore, di ironia e di tenerezza. Ciò è la dimostrazione che questo regista dà il meglio di sé quando può raccontare la vita, le storie delle persone che incontra, il mondo e le sue contraddizioni. 19

OTTOBRE 2015 N. 4 / A.1 - Voci


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