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Capitolo terzo
Da quella sera in poi, dormii nel letto che una volta era stato di mio padre. La prima notte, avevo appena chiuso gli occhi quando sentii dei passi lungo il corridoio che si fermavano nella mia cameretta.
Aprii appena le palpebre e vidi nonna Cecilia e nonno Bartolomeo che mi guardavano con infinito amore, c’erano ancora zia Alice con zio Umberto, mio cugino Matteo, tutti i vicini di casa e alcuni ragazzini della mia età.
– Domani sarà un giorno speciale – mi preannunciò il nonno, sorridendo.
– Ora dormi e fai tanti bei sogni, mio caro angioletto – disse la nonna, dandomi il bacio della buonanotte.
– Ha bisogno di vitamine, è così pallido e fragile – diceva zia Alice, rivolgendosi alla nonna.
– Il latte di Guendalina gli darà subito forza e vigore – rispondeva il nonno.
– Bevendo le uova di Carlotta si riprenderà alla grande – ribadiva nonna Cecilia.
Poi, sentii alcuni suoni indistinti e finalmente mi addormentai.
Mi svegliai al canto del gallo. Filiberto, il re del pollaio, aveva cantato già tre volte per annunciare il sorgere del sole, mentre io invece, gli avrei volentieri staccato le corde vocali, perché stavo dormendo saporitamente e stavo sognando prati e vallate verdi punteggiati di fiori colorati.
Poi sentii la voce del nonno che già trafficava in giardino: – Ti torcerei volentieri il becco. Smettila di cantare.
Marcolino ha bisogno di riposare ancora.
Mi riaddormentai, assaporando il profumo dei fiori e l’aria fresca del mattino.
Appena sveglio, aprii la finestra e rimasi incantato: c’erano campi, alberi in fiore, cespugli di ginestre luminose, tetti rossi su case bianche.
Laggiù si scorgeva il bosco, in fondo le montagne e in alto il cielo turchino dove gli uccelli volavano spensierati. Il mio cuore all’improvviso si riempì di gioia e la felicità mi esplose dentro.
Poi sentii la voce dei vicini di casa, riconobbi i loro figli, quelli che erano venuti nella cameretta la sera precedente per salutarmi e che si erano messi ai piedi del mio letto, come se stessero a piangere un morto.
– È ritornato a casa con la camicia strappata così gli ho dato cinque ceffoni – diceva una donna.
– Io gliene ho dati dieci, perché si è macchiato i pantaloni di more – diceva un’altra.
“Sarebbe stato meglio che i due sventurati si fossero rotti l’osso del collo piuttosto che ritornare a casa con i vestiti sporchi” mi dissi.
Mentre pensavo queste cose, vidi alle mie spalle nonna Cecilia: – La colazione è pronta – e mi appioppò un bacio.
In cucina c’era un profumo di cose buone: la marmellata di pere fatta dalla nonna, i suoi gustosi biscotti, il latte della mucca Guendalina e l’ovetto sodo di Carlotta; non mi lasciai pregare e mangiai tutto. Dopo un po’, sentii squillare il telefono: era la mia mamma.
– Tutto bene? Come stai? Ti piace stare con i nonni? Hai fatto colazione? Mi raccomando, mangia tutto e non cacciarti nei guai. Ora ti passo il babbo – e si allontanò, con la voce rotta dal pianto. E io per tranquillizzarli dissi alla mamma e al babbo che stavo benissimo, che avrei mangiato tutto e che mi sarei divertito un mondo, senza cacciarmi nei guai.
Appena abbassai il ricevitore, però, scoppiai a piangere. Mi mancava tanto la mamma; anche il babbo e persino le sue stranezze: sbuffare per un nonnulla, buttarmi giù dal letto o scaricarmi sul divano, come un sacco di patate.
Quella mattina feci amicizia con Mario, Angelo e Bettina, tre ragazzini della mia stessa età.
Bettina se ne stava in giardino, seduta a cavalcioni sul tronco orizzontale di un vecchio albero.
Era stato reciso pochi giorni prima da suo nonno: – L’albero era malato, perciò il nonno ha deciso di ricavare la legna per il camino –mi disse, guardandomi con gli occhi scuri e muovendo le treccine rosse.
Era davvero buffa, per via delle lentiggini, che le costellavano il viso e per i denti un po’ lunghi, che notai quando mi sorrise.
Mario e Angelo, il primo alto e magro, il secondo, basso e tarchiato, formavano una coppia davvero ridicola.
Mi portarono dietro la loro casa.
Ognuno aveva una piccola fattoria, un orto e un frutteto.
– Quando entrai nelle rispettive stalle, un forte odore di letame mi fece tossire; subito mi tappai il naso e corsi all’aperto.
– Prima o poi ti abituerai – mi disse Angelo, sorridendo.
– E farai meno lo schizzinoso – precisò dopo un po’ Mario, uscendo dal suo pollaio e regalandomi un uovo di papera gigantesco, completamente sporco.
Quello stesso giorno ai mie amici venne voglia di assaporare le fragole di bosco.
– Ti piacciono? – mi domandarono. Io feci cenno di sì con la testa, ma non rivelai la paura che provavo per quel luogo, così pieno di insidie.
– Vengo anch’io – disse Bettina, raggiungendoci con un mini cagnetto dal pelo arruffato. L’invisibile quadrupede mi venne vicino, mosse la coda e le orecchie e poi ringhiò, fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
Allora pensai a Rudi, al gran bestione che mi aveva spaventato non poco e che avevo conosciuto nella casa del signor Piero e così scoppiai in un fragorosa risata.