Il Calciatore Novembre 2020

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secondo tempo

di Claudio Sottile

La seconda vita dell’ex difensore

Guarda (il mare) come Dondo “Nella vita non sempre puoi chiederti come mai, ci sono delle scelte che fai e altre che arrivano. Ho seguito il corso da allenatore e ho iniziato ad allenare. Promozione, Prima categoria, sempre in Liguria, ma non c’è un gran mercato dalle mie parti. C’è bisogno di tempo per fare l’allenatore, e devi conciliare con le entrate di un altro lavoro, altrimenti con gli introiti di quelle categorie non campi. Allora mi è arrivata la proposta di un amico, che mi ha chiesto di dargli una mano con la direzione di un ristorante. Ora sono alla terza esperienza nel settore”. Luciano Dondo, dal prato al bagnasciuga, difendendo con la stessa passione l’area di rigore e quella ristoro. “Ho iniziato in un ristorante con albergo, una situazione assimilabile a quella attuale. È durata un anno e mezzo. Poi con un altro amico chef abbiamo preso in gestione un ristorante sempre a Borgio Verezzi, per 5 anni. Dal 2015 gestisco il ‘Rivamare’, nel mio paese in provincia di Savona. C’è il bed and breakfast con quattro camere, un ristorante, tutto attorno la spiaggia con un bar, quindi in più d’estate si lavora con cabine e ombrelloni. Il ristorante è abbastanza grande, ma anche l’albergo e la spiaggia dicono la loro. È sabbia, mista a ciottoli, dipende da cosa decide il mare. Quello ligure è sempre pulito e sa essere molto bello”. Di cosa ti occupi, nello specifico? “Sono responsabile della gestione. In cucina lascio fare ai cuochi perché so preparare qualcosa, ma non ho mai svolto professionalmente questa attività, mi ci dedico solo a casa per far da mangiare ai miei o a me stesso”. L’hotellerie è nel tuo destino. “I miei genitori gestiscono tuttora un albergo a Pietra Ligure, vengo da una famiglia di albergatori, so di cosa si tratta. A 14 anni, in estate, aiutavo in sala e nelle impellenze quotidiane.

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Quando ho iniziato a giocare non ero più tanto libero per farlo”. Quando eri ancora in campo, pensavi già al dopo? “Sì, ci pensi quando inizi ad avere l’età per smettere. Ho giocato fino a 37 anni in categorie minori, e il pensiero talvolta mi sfiorava. Mi sono dato da fare, ho preso l’Uefa B quando ancora ero a Pavia. Mi sono, inoltre, laureato col massimo dei voti in Scienze Motorie, avevo fatto l’Isef e mi è bastato aggiungere il quarto anno integrativo. Pensavo di rimanere nel calcio, mi piaceva stare in questo ambito e mi piace tutto lo sport, ma ti scontri con una realtà diversa. Qui in Liguria non ci sono tante occasioni, che permettono di sfruttare quello per cui ti sei speso, non siamo in Lombardia o in Veneto”. Che calciatore sei stato? “Sono arrivato fino alla Serie B col Pisa. Ho in cascina parecchi anni di professionismo. La maggior parte della carriera l’ho trascorsa in C. Ho girato quasi tutto il nord ovest, Pavia, Pisa, Fiorenzuola, Livorno, Varese, Cuneo. Ho macinato anche la mia trafila nelle nazionali minori di C, fino a sbarcare appunto nei cadetti, due anni e mezzo col Pisa, compreso il fallimento dell’ottobre 1994. Sono riuscito a togliermi delle soddisfazioni, e come diceva un mio vecchio compagno ognuno ha ciò che si merita. A 15-16 anni ho esordito in Promozione, dopo le giovanili in parrocchia. Questo mi ha fatto acquisire più malizia, ma mi mancava un po’ di tecnica, perché non avevo una base di scuola calcio giovanile. Feci un provino col Genoa, non ho mai capito se non mi hanno voluto dare o non mi hanno preso loro, avevo 14 anni e non saprò mai come può essere andata. Ho svolto per tanti anni sicuramente il lavoro che piacerebbe a chiunque”. Sei tifoso del Grifone? “Sono juventino, simpatizzante genoa-

no. Mi piace il pallone, adoro la competizione, di tutti gli sport. A sette anni, eravamo alla fine degli anni ‘70, mio zio mi portò al vecchio Comunale di Torino a vedere qualche partita dei bianconeri allenati da Giovanni Trapattoni, quella Juve aveva il blocco della Nazionale, perciò mi sono legato”. Nella tua struttura transitano addetti ai lavori? “Negli anni sono passati. Parecchi miei ex compagni, in primis. È venuto Evaristo Beccalossi, poi Gigi Maifredi. La mia non è proprio una zona da calciatori, non sono in Sardegna o in centro a Milano (sorride, ndr). Però sono vicino di Claudio Marchisio, che ha uno stabilimento nei pressi del mio, gestito dallo zio”. Com’è andata l’estate 2020, costretta tra la prima e la seconda ondata pandemica? “Eravamo preoccupati a maggio in vista della stagione, perché abbiamo rivisitato le distanze, togliendo molti ombrelloni, in una spiaggia non grande già di per sé. Qui in Liguria i mesi lavorativi da giugno a settembre sono fondamentali. Gente ce n’è stata, anche in Toscana mi hanno detto, pure la montagna ha avuto un buon successo, in tanti non sono andati all’estero. Hanno sofferto le grandi città, lì c’è stata una ripercussione maggiore. Speriamo di risolvere in fretta la situazione che ci attanaglia, non si può andare avanti così a lungo, fermo restando il rispetto della salute”. Cosa hai percepito nel momento in cui hai deciso di guardare oltre, smettendo con l’agonismo? “Può capitare di fare nella vita ciò che ti piace, come può essere lo stare nel ramo sportivo. Altre volte non si riesce a combinare il tutto, nella vita servono fortuna, capacità, voglia di impegnarsi anche in cose che non riguardano aspetti sui quali hai studiato o lavorato fino ad allora. Capita di cambiare total-


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