OLTRE L’INDUSTRIA DELLA NEVE
La montagna non si consuma. Si vive Le risposte che il Club alpino ha riassunto nel documento sul futuro dell'industria della neve forniscono un’alternativa al vecchio modello di sviluppo montano di Erminio Quartiani*
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uando un amico, non sempre concorde con le mie posizioni sui temi legati allo sviluppo sostenibile in montagna, mi ha scritto apprezzando il documento di posizionamento del Cai su “i cambiamenti climatici, la neve e il futuro dell’industria dello sci”, considerandolo finalmente una condivisibile e concreta proposta per la montagna invernale, auspicando che altrettanto sia possibile progettare per la montagna estiva, ho pensato che non abbiamo sbagliato, ma abbiamo provato a dare risposte praticabili, alternative al vecchio modello di sviluppo montano incentrato sulla monocultura dello sci di discesa. Non ho avuto ripensamenti neanche dopo le copiose nevicate del dicembre scorso. Le tendenze si misurano in decenni. Non in giorni o mesi. Il 2019 è stato l’anno che ha chiuso il decennio più caldo mai registrato in Italia dal periodo 19611990 (+ 1,56°C). 1600 sono stati gli eventi estremi tra il 2008 e il 2019 (cresciuti di 10 volte sul periodo precedente), molti dei quali verificatisi in territori montuosi. Infatti, la tendenza scientificamente dimostrata è alla diminuzione dei fenomeni di precipitazione nevosa alle quote medio basse della montagna europea, particolarmente della montagna alpina e appenninica. Fenomeni estremi, come copiose nevicate, piogge torrentizie, lunghi periodi di siccità e di assenza di precipitazioni, cicloni e tempeste come quella nota di Vaia, sono tutti interni alla più generale tendenza di un percorso climatico di cambiamento di un pianeta sottoposto a stress.
A noi interessa una montagna vissuta e abitata, in cui l’alpinista non sia estraneo al montanaro. In cui l’uomo viva in equilibrio con l’ambiente 16 / Montagne360 / febbraio 2021
RIPENSARE LA VITA A questi fenomeni, quando non ci si può opporre, ci si deve adattare. La vita come l’economia di intere comunità e territori devono essere ripensate, progettando nuove opportunità di sviluppo con solerte e intelligente mano pubblica e adesione di finanza e capitali privati orientati alla sostenibilità. Non dunque per astratta ideologia ambientalistica, ma per necessità oggettiva a difesa di un futuro vivibile, in particolare nelle aree montane. Per noi che amiamo le montagne, il sentiero che porta verso una nuova economia montana rappresenta l’unica strada da percorrere perché le Terre alte non siano preda del rinselvatichimento, dell’abbandono e della speculazione, tutti fattori di degrado del territorio montano e della qualità della vita di chi vi risiede. I fattori di rischio indotti dai cambiamenti climatici e dalle cattive scelte di programmazione del territorio, tuttavia possono generare una reazione positiva, capace di invertire la tendenza al declino, ancora in atto, salvo rare eccezioni, nella gran parte dei borghi e degli insediamenti umani sulle Alpi e in Appennino. Questa potenzialità di reazione va colta e sostenuta con chiare politiche pubbliche che investano sulla montagna grandi risorse umane, economiche e finanziarie, per mettere a valore un patrimonio inestimabile di paesaggio, ambiente, biodiversità e cultura custodito in questi territori. LA MONTAGNA CHE DÀ LAVORO A noi interessa una montagna vissuta e abitata, in cui l’alpinista non sia estraneo al montanaro. In cui l’uomo viva in equilibrio con l’ambiente e la sua diversità biologica, da preservare come valore da consegnare al futuro dell’umanità intatta e in grado di riprodursi. Soprattutto a noi piace che la montagna possa vivere di un turismo responsabile, purché non sia l’unico ambito