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IL RACCONTO

IL RACCONTO

GLI ALBERI

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ALBA DAL FORNO

A lei piacevano gli alberi e ne aveva piantati nel pezzo di terra intorno a casa. Due betulle prima della porta di entrata, due abeti uno che guardava il balcone della sala, l’altro il balcone della cucina, in un fianco un caco, nell’altro un albero di fichi. Di più non poteva, anche se sul retro se ne potevano piantare altri.

Ma il fondo era del marito e del suo orto e dove c’è un orto non possono stare ombre di alberi, neanche una pianta di rose al lato aveva voluto. Anche quella, diceva, faceva ombra e portava via ai pomodori.

E così, per il buon vivere il retro fu del marito, il resto dei suoi alberi. Scelse la betulla per l’eleganza e per la grazia, l’abete per la forza, il caco perché colorava il cielo d’autunno e il fico per i suoi frutti piccoli e dolci. Scelse e li amò fin dal primo giorno. Amò la betulla perché accoglieva con gentilezza e amò gli abeti, forse più quello che dava sul balcone della cucina perché diceva le facesse più compagnia.

La macchina da cucire era vicino alla porta finestra e anche l’acquaio, pur se distanziato, stava poco oltre e così tutte le volte che alzava gli occhi dalle stoffe che correvano sotto il piedino della macchina e tutte le volte che lavava piatti incontrava i suoi rami e sui rami vedeva merli, passerotti, pettirossi. Lo vedeva accogliere e lo vedeva crescere anche se sminuiva la sua forza

col marito, sempre preoccupato di una crescita che poteva rovinare il tetto della casa.

Li amava e li proteggeva, così come si ama e si protegge qualcosa che ci fa star bene e soprattutto qualcosa che regalava bene senza chiedere niente in cambio. Per questo si inorgogliva della crescita sminuendola al marito e per questo pativa tutte le volte che il cielo oscurava e tutte le volte che il vento cominciava a prendere forza o che la neve appesantiva. Pativa l’impossibilità di proteggerli. Avrebbe voluto ombrelli immensi e teche grandi perché non scuotessero fino ad abbassarsi, avrebbe voluto per non sentire quei suoni che le parevano lamenti che lei non poteva lenire. Passata la tempesta, li osservava uno ad uno. Lentamente, senza fretta. Accarezzava il tronco bagnato e fresco, guardava in alto la treccia dei rami. Se tutto era in ordine, se non trovava ferite la vedevi contenta ma di quella contentezza leggera e nascosta, forse la contentezza più piena. In estate, quando il caldo seccava anche le pietre la sentivi dar acqua la mattina prima ancora del sole, anche se il sindaco diceva di razionare, anche se suo marito diceva ti starebbe bene una multa salata anche e anche lei lo stesso, senza sprecare, senza esagerare, bagnava le radici anche solo per inumidirle, per dare un po’ di sollievo a tutta quella calura. Quasi una sorta di riconoscenza, loro regalavano riparo, ombra e la regalavano anche a suo marito e anche al sindaco. Se così era nelle stagioni così era nelle potature. Sapeva che erano necessarie, lo sapeva ma le temeva, temeva l’errore e aveva paura che sentissero dolore. Anche lontanamente, molto probabilmente diversamente da noi, pensava, cosa ne sappiamo. Non lo confessava, forse neanche a sé stessa ma mai una volta rimase a guardare quando tagliavano. Rimaneva in casa e usciva solo finito il lavoro. Pagava gli operai, toccava i tronchi e solo dopo si metteva a riunire la legna. Lo faceva lentamente, con rispetto. Rispettava chi aveva dato e che ancora dava.

E così stagione dopo stagione, potature dopo potature, rimbrotti dopo rimbrotti, un giorno la casa fu venduta e venduti gli alberi. Le due betulle, gli abeti, il caco e il fico. I nuovi dovevano rimodernare tutto e i nuovi volevano sul tetto pannelli solari e non possono esserci alberi a far ombra se si mettono pannelli solari e poi non c’era più lei a sminuire che in fondo crescevano poco e che non avrebbero poi dato tanto fastidio. Li tagliarono tutti e sradicarono.

Non so se qualcuno rimase a guardare ma mi dicono che anche per i nuovi non fu una scelta facile. Quasi gli alberi conservassero una memoria e uno sguardo.

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