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Fondamentali in Chirurgia
Il rapporto complesso e ambivalente, che sussiste tra medici e società, costituisce un vero e proprio capitolo della sociologia, forse non a caso denominato “sociologia medica”. Negli anni la storia di questo rapporto ha dimostrato che già alle origini dell’attività medica se ne è delineata l’ambivalenza di fondo, connotata da un lato per un sentimento fortemente positivo dei singoli e della società nei confronti della Medicina e dei medici, da cui si è sempre atteso, e ancor più oggi si attende, il miracolo della salute e del prolungamento della vita; dall’altro, per un opposto sentimento negativo di riprovazione e risentimento per le delusioni causate dall’insuccesso del trattamento medico e, ancor più, dal danno attribuito a cause iatrogene.
Attualmente si assiste a un incremento enorme e parallelo dei due contrapposti atteggiamenti, quello della grande e fiduciosa attesa da un lato, e quello della cocente e reattiva delusione dall’altro, che sfocia nelle azioni giudiziarie.
Non v’è dubbio che, sul versante delle attese di salute e di vita migliore e protratta, siano condizionanti i potenti strumenti che sono il prodotto degli enormi progressi della Medicina e della Chirurgia compiuti con l’ausilio della tecnologia. Ad aumentare le speranze e le pretese sempre maggiori di benessere e salute contribuisce anche la complessa macchina dell’informazione e della pubblicità, con l’insieme di messaggi promozionali di singoli medici, Società Scientifiche, industrie produttrici o distributrici di farmaci, presidii e materiale sanitario, che vengono riversati sui cittadini con mezzi straordinariamente persuasivi della comunicazione di massa.
Sull’altro versante – quello della delusione per l’insuccesso – si colgono altrettanti fattori causali, il primo dei quali, ovviamente, è proporzionale all’entità delle attese talora giustificate, altre volte infondate o eccessive. E anche su questo aspetto assume un ruolo centrale l’informazione di massa che, in Italia, ha coniato il termine scandalistico e abusato di “malasanità”, che compare quasi quotidianamente nella stampa anche se spesso a torto. Nè sulla stampa, nè nelle aule di giustizia viene dato il giusto rilievo al fatto che molte malattie non sono suscettibili di una diagnosi compiuta o di un’efficace terapia, molti trattamenti medico-chirurgici necessari od opportuni sono gravati da una rischiosità difficilmente prospettabile. Molti rischi sono connessi a carenze organizzative e strutturali degli enti, assolutamente sottovalutate.
A un lungo, secolare periodo di consapevolezza e accettazione dei limiti della Medicina, si è sostituito uno stato d’animo confuso, nel quale il profano non riesce più a distinguere quelle condizioni morbose che lasciano poche speranze di guarigione o addirittura di sopravvivenza, dalle altre suscettibili di cure efficaci in molti casi, ma purtroppo non in tutti. Infatti, la malattia può assumere un andamento diverso da individuo a individuo, con varianti cliniche e decorsi a volte refrattari alle cure o non benigni. Senza dire dei limiti delle indagini diagnostiche strumentali invasive o meno.
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Tutte queste mutate condizioni e i rilevanti interessi economici implicati sono all’origine della stupefacente e patologica dimensione del contenzioso giudiziario legato al problema del risarcimento del danno in una società in cui il denaro ha assunto un ruolo progressivamente dominante a scapito di altri valori. Vi sono coinvolti sia le vittime e i loro congiunti che gli avvocati che ne curano i diritti, nonchè le compagnie di assicurazione, chiamate a tutelare in primo luogo i loro propri interessi a elevato contenuto economico.
L’analisi delle possibili ragioni della crescente e aspra conflittualità tra medici e molti pazienti e/o le loro famiglie, con la partecipazione sempre più frequente dell’opinione pubblica, può dunque rendere ragione anche degli sviluppi del “diritto vivente”. I magistrati – responsabili delle evoluzioni giurisprudenziali – costituiscono un’interfaccia solo apparentemente ”asettica” ed equidistante tra i “contendenti”, mentre in realtà essi, nell’inscindibile veste di giudici ma anche di membri della società che li chiama a giudicare, non possono non essere partecipi degli stessi sentimenti che animano la comunità intera nei confronti dei medici e della Medicina. Sono sentimenti in cui oggi, come si è detto, domina l’attesa, spesso esagerata e tramutata in pretesa di risultati impossibili e di salute a tutti i costi, irraggiungibile con trattamenti sanitari, cure e impiego di farmaci, spesso con potenziale di effetti collaterali di varia gravità.
Il sistema dei valori è cambiato, concentrandosi sullo stile di vita, sull’autorealizzazione, sulla longevità. In tale contesto il medico diventa la chiave per accedere al benessere e a un futuro migliore, senza accettazione del minimo insuccesso. Il medico è controllato da una generazione di “consumatori” a quali è stato insegnato come dubitare, informarsi e far valere i propri diritti e per i quali la guarigione da una malattia viene considerata come un diritto indipendente dalle circostanze e dalle reali e concrete possibilità. Tale situazione sociale è contestuale all’avvento della “cultura vittimistica”, nella quale le vittime sono rese popolari dalla televisione e dai giornali con dovizia di particolari e ricostruzioni ingigantite e fuorvianti. A fronte di questo contesto, la dottrina e la giurisprudenza sono evolute facendosi interpreti delle mutate esigenze dei cittadini verso la migliore tutela della salute e una più lunga sopravvivenza.
L’inevitabile, a volte, inconsapevole partecipazione dei magistrati al sentimento collettivo e le loro frequenti attuali posizioni schierate in favore della massima tutela del paziente spiegano il progressivo abbandono, negli anni, di un orientamento generalmente più comprensivo nei confronti dei medici, dovuto anche al tradizionale “rispetto” nei confronti della categoria e anche all’accettazione dell’ineluttabilità della malattia e della morte. Spiegano il passaggio progressivo a quella giurisprudenza severa, a volte eccessiva, dei tempi attuali, nei quali le nuove generazioni dei giudici, specie nei tribunali del merito, sembrano aver fatte proprie le istanze, spesso acriticamente ottimistiche, della moderna società industriale nei confronti della medicina, giungendo al fatidico in dubio contra medicum in sostituzione, per questa sola categoria di imputati, del noto brocardo in dubio pro reo.
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L’impressione che si ricava dal partecipare alle fasi delle indagini giudiziarie e ai dibattimenti nonché dalla lettura delle denunce e delle sentenze di merito e di Cassazione, è quella di un frequente atteggiamento di pregiudizio, di sfiducia e di riprovazione nei confronti dei medici, cui si attribuiscono, in modo spesso infondato, responsabilità per insuccessi e danni che spesso non sono loro addebitabili o non sono a rilevanza penale, in buona parte correlate alla rischiosità della Medicina connaturate ai limiti delle possibilità medico-chirurgiche, dovute a un ambiente di lavoro inadeguato e carente di presidi e di organizzazione, la cui responsabilità non può farsi gravare sul medico.
La disciplina della responsabilità medico-sanitaria è ormai da anni oggetto di particolare studio e attenzione da parte della Dottrina e della Giurisprudenza con un eco e un risalto particolare sia per l’alto valore etico e sociale dell’attività medica, sia per le aspettative sempre maggiori in termini di guarigione e di risarcimento del danno, quando la guarigione non è conseguita.
L’evento avverso, un tempo vissuto come un qualcosa di inevitabile, insito in una professione irta di incertezze e soggetta all’umana fallibilità, oggi non è più tollerato e il turbamento esistenziale per la malattia si tramuta in motivo di risentimento e caccia al “colpevole”, quasi a voler ridurre l’impatto di quella malattia non accettata. Molte volte si ha la sensazione che il paziente voglia trasferire sul medico la responsabilità della malattia che lo ha colpito e che gli procura dolore e disagio psico-fisico.
Ecco perché in tanti processi il risentimento non si placa né con la condanna del medico, né con il risarcimento. Quanto più la medicina è progredita, tanto più si assiste a un incremento del contenzioso in ambito sanitario. Molti giuristi hanno evidenziato che i progressi nelle diagnosi e cure paradossalmente sono destinati a far aumentare le ipotesi di richiesta di risarcimento di danni per la convinzione, nell’inconscio collettivo, di una medicina onnipotente, che sempre guarisce, che ha sempre successo, che non ha limiti né confini. Forse, collateralmente al tentativo di ridurre gli errori, occorrerebbe trovare modalità idonee a farli accettare... I medici si interrogano sui motivi di questo cambiamento di rotta verso una professione un tempo molto rispettata e oggi molto denigrata e attaccata. Tutti i professionisti sentono, come profonda ingiustizia, le continue critiche al loro operato, i lunghi anni di vicende giudiziarie vissute con patemi e nocumento economico, cioè con un prezzo altissimo anche quando il medico ingiustamente coinvolto venga assolto.
Le informazioni errate, la spettacolarizzazione di una medicina “infallibile” per i traguardi diagnostici e terapeutici sempre più brillanti, creando aspettative miracolistiche nei pazienti, incentivano il contenzioso anche quando queste aspettative sono deluse senza colpa del medico. La crisi della professione è una crisi di fiducia verso un’attività caratterizzata dalla spiccata rilevanza sociale per l’indiscusso valore che l’ordinamento giuridico tradizionalmente riconosce ai beni personali della vita e della salute.
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La complessità della tematica deriva senza dubbio dalla natura stessa dell’attività medica che, essendo finalizzata alla diagnosi e cura delle malattie, anche attraverso il ricorso a trattamenti potenzialmente lesivi e dall’esito incerto, costituisce quella che viene definita come “attività rischiosa giuridicamente autorizzata”, nel cui espletamento l’agente è tenuto alla diligente gestione del “rischio consentito” dall’ordinamento, ossia entro limiti predeterminati alla luce dei risultati raggiunti dalle leggi scientifiche universali e di settore. Ciò pur nella consapevolezza che ogni opzione diagnostica e terapeutica, anche osservante della leges artis, lascia margini di discrezionalità tecnica e margini di complicanze, non necessariamente derivanti da “errore” e da “colpa”. Il vasto repertorio giurisprudenziale in materia di responsabilità medica, gli articoli e le pubblicazioni della dottrina vanno di pari passo con il clamore delle vicende cliniche di eventi avversi, amplificate dalla stampa e troppo spesso etichettate a torto e in modo approssimativo come “malasanità”.
Anche se l’opinione pubblica, nella spinta emotiva della comprensibile solidarietà con il dolore della “vittima”, invochi sanzioni esemplari, il metro di valutazione del giudice, nell’accertamento della responsabilità penale, non può che rimanere saldamente ancorato ai principi costituzionali della legalità e della prova della responsabilità personale. Diversamente, si sconfina in un’ingiustificata criminalizzazione della categoria professionale medica e di quelle specialistiche più esposte a rischio, per la delicatezza e complessità del loro lavoro, quotidianamente svolto con sacrificio, al servizio della collettività, per la tutela del diritto alla salute.
La diffusa tendenza a trasformare ogni fallimento terapeutico in un addebito di colpa, oltre a causare un ingiusto trauma sul versante psicologico e professionale per il Sanitario coinvolto, incide inevitabilmente sulla qualità del servizio offerto, anche alimentando il tanto criticato fenomeno della “medicina difensiva” nelle due differenti forme in cui si atteggia: l’una negativa, consistente nell’evitare di affrontare i casi più complessi e rischiosi; l’altra positiva, consistente nel cautelarsi in misura eccessiva attraverso prescrizioni ed effettuazioni di accertamenti diagnostici o trattamenti terapeutici superflui, finalizzati solo a precostituirsi “prove di diligenza”. La “medicina difensiva” spreca enormi quantità di risorse in una Sanità a riserve limitate, gli effetti negativi si ripercuotono anche sull’ordinamento giudiziario inflazionato dai processi. Non può omettersi di segnalare che se è vero che l’80% dei medici nel corso della carriera riceve un atto giudiziario, o va sotto processo per un sinistro, è altrettanto vero che nell’80-90% dei casi si accerta che nessuna colpa del Sanitario poteva essere riscontrata.
La Magistratura, costituita da persone che vivono in un contesto sociale, che avvertono il cambiamento di atteggiamento dei pazienti verso i medici, che non di rado hanno a loro volta subìto o creduto di subire conseguenze di errori medici su di sé o su familiari, continua a manifestare un atteggiamento in senso sempre più sfavorevole al medico, spesso aprioristicamente
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severo o incline a pregiudizi, perdendo di vista che la condanna del medico, singolo o in équipe, non migliora il sistema che genera l’evento avverso per le sue disfunzioni e disorganizzazioni, mentre lievitano i costi per le coperture assicurative e non si approntano rimedi per ridurre il rischio clinico e per fornire ai pazienti equi indennizzi quando sono vittime di quella che è “l’alea terapeutica”. In Italia, l’esigenza di riportare al centro del dibattito politico-istituzionale la persona umana e i suoi diritti, valorizzando la tutela costituzionale della salute, non può tradursi in una politica o attività giudiziaria incentrata solo sulla ricerca del “colpevole”, senza affrontare i problemi procedurali e strutturali, senza una politica di promozione della clinical governance, del risk management e della comunicazione.
Non v’è dubbio, allora, che il dibattito sulla responsabilità medica sia di rilievo multidisciplinare, coinvolgendo diverse aree del “sapere”, dal diritto privato, al diritto sanitario, all’economia, al diritto penale, alla medicina legale e specialistica di settore, al diritto costituzionale. Ma v’è di più: viene in gioco la responsabilità delle Aziende ospedaliere e delle Regioni, connessa alla funzionalità dell’assetto organizzativo e strutturale dell’assistenza sanitaria. È necessario innanzitutto porsi in un’ottica di studio interdisciplinare e inoltre liberarsi da quei condizionamenti del passato che, nati all’insegna di un modello di responsabilità professionale singolo, incentrato sulla figura del professionista intellettuale di tradizione ottocentesca, hanno influito nelle diverse aree professionali, imponendo un paradigma generale di disciplina di responsabilità medica applicata oggi, sia alle prestazioni sanitarie rese dal medico dipendente di struttura sanitaria pubblica, sia al libero professionista; è invece doveroso differenziarla.
Senza dubbio la modificazione dell’attività sanitaria ha fatto sorgere nuove problematiche giuridiche relativamente all’attribuzione delle responsabilità per eventi avversi in caso di diversi partecipanti al trattamento medico. In passato la responsabilità per colpa, nell’ambito del diritto penale, si è per molti anni sviluppata sul modello del singolo soggetto che agisce isolatamente e l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in tema di responsabilità medica, si è molto concentrata sui tradizionali problemi della condotta di un unico operatore. Studiosi e giudici hanno fatto fatica a confrontarsi con lo sviluppo del fenomeno della divisione tecnica del lavoro sanitario e i problemi a esso connessi.
Le diverse situazioni di cooperazione tra Sanitari, hanno determinato una generale incertezza nella trattazione della materia che si è riverberata nelle decisioni spesso contraddittorie dei giudici di merito e di legittimità, incapaci di fornire indicazioni univoche e definitive.
Ancora oggi nelle situazioni di divisione tecnica del lavoro in ambito sanitario e di assistenza e cure del paziente erogate in équipe, l’istituto della cooperazione colposa previsto dall’art. 113 c.p. non trova indirizzi omogenei e la materia attende una sistemazione coerente e principi guida applicabili a tutte le situazioni collaborative.
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All’interno della struttura sanitaria il lavoro di équipe è ormai la regola. È un dato di fatto che, oggigiorno, a fronte di una sempre maggiore efficienza e professionalità, per fornire un servizio adeguato al progresso scientifico, le prestazioni medico-chirurgiche non sono più eseguite da un solo professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e personale sanitario, secondo il principio della divisione del lavoro.
La complessità dell’organizzazione di cura ha fatto sorgere delicate problematiche inerenti all’attività collegata di più partecipanti ed è maturata l’esigenza di una definizione della prestazione professionale collettiva, in ragione delle sue implicazioni.
Per attività medico-chirurgica in équipe si intende quella caratterizzata dall’intervento e dalla cooperazione di più sanitari, che interagiscono tra loro per il conseguimento di un fine comune. In relazione a essa, si pongono interessanti e controverse questioni relativamente all’individuazione del dovere di diligenza che grava su ciascun componente l’équipe medica. Si pone, in particolare, il problema di accertamento fino a che punto si estenda il dovere di diligenza, prudenza e perizia che incombe sul medico che partecipa ad attività terapeutica insieme ad altri professionisti.
In altre parole, occorre stabilire se ciascun medico facente parte dell’équipe, oltre al rispetto delle leges artis proprie del suo ambito di competenza e di specializzazione, sia tenuto a osservare un più ampio e generale obbligo cautelare, avente come oggetto il controllo e la vigilanza dell’altrui operato e, conseguentemente, se risponda di eventuali comportamenti colposi che abbiano causato o contribuito a causare l’evento lesivo, riferibili ad altri componenti dell’équipe. Se il dovere di diligenza gravante sui singoli partecipanti al trattamento medico di gruppo si estenda fino a comprendere l’obbligo di prevedere e prevenire il comportamento negligente o imperito dei colleghi, ovvero se ciascuno possa fare affidamento sull’osservanza delle leges artis da parte degli altri. Nelle ipotesi di esito infausto del trattamento terapeutico, infatti, è necessario individuare un criterio di distribuzione della responsabilità penale fra i medici componenti l’équipe.
Occorre un approccio che, confrontandosi con i cambiamenti che in quest’ultimo ventennio si sono registrati in ambito socio-sanitario, ponga al centro del dibattito sulla responsabilità medica non più la figura del libero professionista (medico) che aveva ispirato il legislatore del 1942 nè il conseguente approdo a quel paradigma di colpa professionale, bensì l’équipe e, inoltre, il fondamentale ruolo della struttura sanitaria, quale soggetto che, per legge, deve adeguarsi a quelle regole di efficienza ed economicità che reggono le attività organizzate.
Le richieste di cura da parte del cittadino debbono fare i conti, oltre che con le disposizioni provenienti dallo Stato e dalle Regioni, anche con l’organizzazione, l’efficienza e l’efficacia dei servizi delle Aziende. Luogo privilegiato per l’accadimento di episodi di medical malpractice è una struttura organizzata, dove l’attività sanitaria viene tradotta in servizio. Tuttavia raramente, nella
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ricostruzione di una vicenda giudiziaria, viene posto l’accento su un disservizio o comunque su una disfunzione organizzativa della struttura sanitaria, imputandosi sempre la colpa all’operatore sanitario. Ne sono conferma quelle pronunce (specie dei giudici di legittimità) che, nel motivare, vanno sempre alla ricerca di una condotta “colpevole” del medico come presupposto necessario per l’affermazione della responsabilità della struttura, anche nei casi in cui risulta chiaramente il condizionamento del disservizio della struttura sulla produzione dell’evento avverso. Un tale atteggiamento della Giurisprudenza, se posto a confronto con i nuovi modelli strutturali e organizzativi di gestione dei servizi sanitari, che rivendicano alla struttura (e non più al medico) un ruolo centrale nell’erogazione del servizio sanitario, si rivela anacronistico: in ciò denunciando l’inderogabile esigenza di un cambiamento. Pare opportuno abbandonare la precedente impostazione per cui si rendeva necessario individuare il “fatto illecito” del medico per risalire all’inadempimento della struttura e, diversamente, partire dall’accertamento del disservizio della struttura per individuare l’apporto causale dei singoli fattori imputabili alla disorganizzazione che hanno determinato l’erogazione del servizio “difettoso” e l’evento avverso.
Studi che hanno affrontato il problema degli eventi avversi in chiave di gestione del rischio clinico, avvalendosi del supporto di statistiche estremamente significative, hanno evidenziato la stretta correlazione causale tra il verificarsi di eventi avversi e l’organizzazione sanitaria, per carenze strutturali e organizzative (protocolli e procedure, mancato apprestamento delle sicurezze, manutenzione e allestimento delle sale operatorie, turnazione del personale, gestione e formazione delle risorse umane). Per la mancanza di mezzi terapeutici più complessi o di mezzi tecnicamente avanzati, ovvero per la carenza di organico, a causa della mancata autorizzazione all’assunzione, dovranno invece essere valutate eventualmente le responsabilità degli amministratori regionali e centrali.
Queste diverse responsabilità raramente sono venute alla ribalta nei casi giudiziari, chiamando in causa i funzionari delle Aziende sanitarie, come responsabili di quei disservizi e di quelle disfunzioni organizzative che abbiano cagionato danni ai pazienti. La tendenza prevalente è sempre stata quella di risalire a una condotta medica colposa, senza soffermarsi ad analizzare il nesso tra errata prestazione medica e disfunzioni nel reparto e/o nella struttura. Tanto meno si è valutato in che percentuale la condotta del medico sia stata condizionata dalla disfunzione addebitabile alla struttura. In base al rapporto di immedesimazione organica, è stata eretta la responsabilità (solidale) della struttura come speculare a quella del medico. L’ospedale entra in gioco solo dopo la condanna del medico, come suo datore di lavoro, con ciò evitando di vagliare la responsabilità di quanti presiedono all’organizzazione e all’efficienza del servizio.
Il settore sanitario è diventato oggetto di attenzione crescente anche da parte delle Istituzioni Europee (Corte di Giustizia, Parlamento Europeo, Commissione Europea). Nell’ambito dell’attuale quadro normativo europeo,
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che assegna agli Stati nazionali, in linea con il principio di sussidiarietà, competenze in merito all’organizzazione e al finanziamento dei sistemi sanitari, le Istituzioni della UE hanno avviato una riflessione su un ruolo più attivo da poter assumere. Secondo analisi recenti, negli episodi di “malasanità” in Italia l’85% dei problemi dipende da fattori organizzativi e non da incompetenze degli operatori sanitari.
Da un raffronto con gli altri sistemi emerge come, nei Paesi dell’Europa Occidentale, la responsabilità della struttura sanitaria – sia per “difetto di organizzazione» (Germania), sia per «mancanza di predisposizione della sicurezza delle cure» (Belgio), sia per “faute dans l’organisation du service” o per “infezioni nosocomiali” (Francia) – si sia attestata su un piano di completa autonomia rispetto alle responsabilità per condotte colpose dei sanitari. Solo assumendo l’obbligo di garantire la sicurezza delle cure, non come obbligo accessorio di protezione della salute, ma come obbligo che fonda il contenuto stesso della prestazione di assistenza sanitaria, sarà possibile, nella definizione della responsabilità delle strutture, valutare il ruolo assunto da tale fattore nell’inesatta esecuzione della prestazione di assistenza sanitaria.
Inseguendo, dunque, una logica di differenziazione più che di omologazione, appare opportuno distinguere tra prestazioni sanitarie rese in forma individuale dal singolo professionista e prestazioni rese in équipe e nell’ambito di strutture organizzate. Ciò per evitare di trasferire quelle che sono le regole, in origine ritagliate sulla figura del singolo professionista intellettuale, alla disciplina dell’attività erogata all’interno di strutture sanitarie e in équipe. Dall’evoluzione degli indirizzi della Dottrina e Giurisprudenza si coglie il senso della ricerca di una disciplina che, avendo come referente non più il singolo professionista bensì più medici e sanitari impegnati in “un’attività organizzata”, ambisca a far sì che il rischio, connesso all’organizzazione di un’attività che traduce tutte le prestazioni professionali in servizio, non debba ricadere sul paziente, ma nemmeno solo sul singolo medico (ultimo anello della catena), coinvolgendo invece chi esercita, amministra, governa tale attività in quanto soggetto che è in grado di prevenire la ricorrenza degli eventi avversi, con adeguate politiche di risk management, e di controllare, … nonché col ricorso a meccanismi assicurativi di assorbire nei costi il rischio creato dall’organizzazione stessa.
L’individuazione di un obbligo a carico delle strutture sanitarie, come l’obbligo di garantire uno standard organizzativo adeguato alle esigenze di tutela della salute, chiama in gioco la responsabilità delle Aziende sanitarie e del personale che presiede alla gestione e all’organizzazione dei servizi sanitari, ossia i responsabili di quelle scelte organizzative e/o gestionali che, nell’erogazione del servizio e nell’assistenza sanitaria, abbiano causato o possano causare danni al paziente.
Alcuni pregevoli sforzi giurisprudenziali e il recente impegno del legislatore tentano di mettere ordine in una materia tanto complessa come quella della responsabilità medico-sanitaria nei suoi molteplici e rilevanti aspetti.
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Gli obiettivi della legge 24/2017 (L. Gelli)
La Legge Gelli ha avuto il pregio di aver voluto operare un cambio di prospettiva nell’affrontare le gravi problematiche ricorrenti in Sanità. La ricerca, finora fortemente incentrata sulla preoccupazione di sanzionare le condotte scorrette dei sanitari e assicurare il dovuto risarcimento dei danni ai pazienti lesi, si è spostata al momento antecedente e cioè alla “prevenzione” prima della “sanzione”, nella raggiunta consapevolezza che monitorare i rischi, identificare le cause, adottare presidi e procedure per evitare che detti rischi si tramutino in danni, consente di ovviare tanto alla compromissione della salute dei pazienti quanto alle conseguenze afflittive per gli operatori sanitari i quali vengono chiamati a rispondere delle lesioni del diritto alla salute in sede civile e penale.
Orbene la legge 24/2017 ha avuto il pregio di ampliare l’orizzonte della ricerca e dell’azione, passando dalla (mera) preoccupazione di punire le condotte censurabili ed erogare indennizzi ai pazienti lesi al richiamo di attenzione innanzitutto sulla doverosità di prevenire i guasti di procedure errate nei trattamenti sanitari, evitando tanto i danni ai pazienti quanto conseguenze onerose a carico degli operatori e in particolare le condanne penali.
“Prevenzione” è la parola chiave del nuovo linguaggio della legge, nella consapevolezza che un sistema di indagine, allerta e monitoraggio degli eventi avversi, sarà a vantaggio sia degli operatori sanitari che dei pazienti, scongiurando nefaste conseguenze sia in capo agli uni che agli altri.
Le Aziende sanitarie, mediante “unità” a ciò dedicate, devono necessariamente fare riferimento al criterio del rischio, correlato all’organizzazione di un’attività di servizi alla persona, al fine della prevenzione dei possibili danni alla salute dei pazienti nell’erogazione delle cure. La struttura infatti, risponde ben oltre la prestazione alberghiera poiché, assieme a tutti gli operatori sanitari, ha l’obbligo di garantire la sicurezza delle cure predisponendo la dovuta organizzazione di mezzi e di persone potendosi rinvenire anche collegamenti causali tra organizzazione deficitaria e danni ai pazienti per inosservanza degli standard di sicurezza imposti dalla legge (colpa specifica) o dal generale dovere di diligenza, prudenza, perizia (colpa generica).
All’Ente deve essere richiesta l’adozione di modelli comportamentali specificatamente calibrati sulla prevenzione del rischio sanitario, cioè volti a impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta e di monitoraggio dei rischi e degli eventi avversi, possibili danni ai pazienti e ingiustificati processi al personale sanitario.
Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a risolvere la problematica. Una volta suscitata la “cultura della sicurezza” nelle Aziende, queste non possono essere lasciate sole a garantire l’impegnativo compito della gestione del rischio sanitario, ma devono essere incluse in un “sistema”, quale prima fase del processo di gestione.
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Per elevare il livello di appropriatezza e sicurezza delle cure erogate ai pazienti e far lavorare in tranquillità gli operatori sanitari, preservando non solo la loro reputazione ma anche quella di tutto il SSN, l’impegno non può essere intrapreso con esperimenti spontanei che, pur apprezzabili in alcune realtà territoriali, finora sono restati facoltativi e disomogenei e non hanno colmato le disparità e le disuguaglianze di trattamento. Già da tempo gli esperti hanno indicato la necessità di un “sistema” di gestione del rischio clinico, organizzato e omogeneo per tutto il SSN, distinguendo un “doppio binario di responsabilità” che coinvolgesse gli amministratori delle strutture, o loro delegati, in caso di deficit organizzativo.
Solo un Servizio Sanitario che contempli diversi profili di responsabilità e inclusivo di un vero e proprio “sistema nazionale-regionale-locale di gestione del rischio clinico”, consente più ampie garanzie di sicurezza per i pazienti e tranquillità di lavoro per gli operatori sanitari. L’istituzione di un vero e proprio “sistema” postulava il raccordo delle unità di gestione del rischio a livello aziendale, da rendere obbligatorie, con agenzie o centri regionali e con un Osservatorio Nazionale.
Solo istituendo i tre livelli raccordati si dà vita a un “sistema” e se ne assicura l’efficacia. Il 1° livello contempla il monitoraggio dei rischi e degli eventi avversi nelle strutture ospedaliere e permette di individuare le fonti-cause dei danni ai pazienti per approntare la gestione e adottare presidii che scongiurino la reiterazione degli eventi avversi ricorrenti. La raccolta e la funzione dei dati, a livello regionale, costituisce il 2° livello e le Regioni, nel loro ruolo di “collettore”, ne curano la trasmissione al 3° livello. Il Coordinamento Nazionale, assicurato dall’Osservatorio Nazionale allocato presso l’AGENAS, acquisisce i dati regionali sui rischi e sugli eventi avversi (e contenzioso medico legale) e con l’ausilio delle Società Scientifiche e altri enti erogatori ufficiali delle linee guida, emette linee di indirizzo e raccomandazioni, favorendo modelli omogenei e cure sicure ed efficienti nelle realtà locali, evitando ingiuste disparità di trattamento ai pazienti, i costi della medicina difensiva e i defatiganti contenziosi, il cui esito dopo lunghi anni, quasi sempre ha distrutto la reputazione dei Sanitari ma non li ha sanzionati, ha illuso i pazienti ma non li ha risarciti. Le Aziende sanitarie non sono più lasciate sole ma si giovano delle linee guida e raccomandazioni, emerse per la prevenzione e gestione del rischio clinico.
Lo scopo specifico della gestione del rischio clinico, cioè quello di ridurre la frequenza degli eventi avversi, comporta gli effetti ulteriori di ridurre i danni ai pazienti e quindi la probabilità che siano intraprese azioni legali da parte loro, con tutte le conseguenze economiche e psicologiche. Risulta evidente che la riduzione e gestione del contenzioso sarà facilitata da una necessaria e corretta gestione del rischio clinico.
Nei sistemi complessi, che richiedono elevato controllo dei rischi, è stata storicamente costruita la “cultura del rischio e dei sistemi di prevenzione”.
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La Legge Gelli, lungi dall’escludere la giusta punizione delle condotte colpose errate, ha tuttavia superato la mera “cultura della colpevolizzazione” che ha impedito, fino a oggi, di affrontare il problema degli eventi avversi “prevedibili” in ambito sanitario, con la necessaria trasparenza culturale, alimentando la “cultura della sicurezza”.
In proposito, va rammentato che l’abbandono della tradizionale ricerca delle sole responsabilità individuali verso l’attenzione delle carenze strutturali e organizzative si rileva negli USA già nel 1999, nel rapporto dell’Institute of Medicine To Err is Human: Building a Safer Health System e nel Patient Safety and Quality Improvement Act del 2005. Nell’Regno Unito, con la convenzione del 2001 della National Patient Safety Agency (NPSA).
L’art. 16 della legge 24/2017 completa il quadro normativo disponendo che: “i verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito dei procedimenti giudiziari”.
Verrà così a cadere una delle principali resistenze alla collaborazione da parte dei medici e dei Sanitari, al fine di acquisire conoscenze sui rischi ed eventi avversi, per timore di conseguenze dannose a loro carico.
Grazie alla nuova legge si avranno modelli omogenei e si eviteranno disparità e disuguaglianze di trattamenti perchè le unità di monitoraggio e gestione del rischio clinico, operanti a livello aziendale, saranno attenzionate e coordinate a livello regionale, faranno pervenire con cadenza regolare i dati raccolti sui rischi, eventi avversi e contenzioso, predisponendo anche una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause e le conseguenti iniziative di contrasto, relazione pubblicata sul sito internet della struttura.
Ogni anno i centri regionali sono tenuti a raccogliere i dati relativi ai rischi e al contenzioso delle strutture e a trasmetterli all’Osservatorio Nazionale presso l’AGENAS. L’Osservatorio si avvale dell’ausilio delle Società Scientifiche e Associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in apposito elenco del Ministero della Salute. Il precipuo compito di questo stadio del processo di gestione del rischio clinico, mediante il sistema nazionale istituito, è di predisporre linee di indirizzo per gestire il rischio sanitario, devolvendo ancora una volta grande attenzione all’individuazione di idonee misure di prevenzione, nonchè alla formazione e all’aggiornamento degli operatori sanitari. La norma di recente conio mette in primo piano la sicurezza del paziente, ritenendola “parte costitutiva del diritto della salute” e “perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”. Il legislatore ha valorizzato l’attività di prevenzione del rischio, che diviene un obbligo fondamentale e coinvolge tutte le strutture e tutto il personale del SSN. Finalmente si è giunti a una visione sistemica della gestione del rischio clinico, affermando che la sicurezza delle cure si realizza mediante l’insieme di tutte le attività di prevenzione e gestione e a tutti i livelli (aziendale, regionale, nazionale) e con il necessario utilizzo di tutte le risorse (tecnologiche, organizzative, strutturali, umane).
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La norma Gelli ha compiutamente risposto all’invito della Commissione e del Consiglio UE di sviluppare politiche e programmi efficaci in materia di sicurezza dei pazienti, adottando misure volte a ridurre o prevenire i rischi avversi, istituire sistemi di segnalazione e apprendimento relativi agli eventi sfavorevoli identificando anche l’autorità competente, coinvolgere le organizzazioni dei pazienti nel processo di policy making, incoraggiare l’istruzione e la formazione degli operatori sanitari sulle norme, orientandoli verso pratiche ottimali in materia di sicurezza dei pazienti. Il nostro legislatore ha tenuto conto dei contenuti delle relazioni della Commissione al Consiglio e degli atti di questo sulla sicurezza dei pazienti e qualità dell’assistenza medica.
La nuova legge, promuovendo finalmente una politica nazionale di gestione e soprattutto di prevenzione dei rischi ed eventi avversi, specie se reiterati ed evitabili, con il conseguente contenimento degli effetti dannosi che ne derivano, ha risposto anche all’appello della Corte Europea, così rendendo l’Italia ottemperante alle indicazioni delle Istituzioni UE e al passo con gli altri Stati d’Europa in materia di sicurezza ai pazienti, nel contempo restituendo serenità alla classe medica.
Il legislatore ha reso obbligo giuridico erga omnes e non mero sforzo individuale delle Aziende più virtuose, il dovere di adottare a vari livelli misure precauzionali operative, dirette a prevenire il verificarsi di rischi per la vita o l’integrità di coloro che fruiscono dei trattamenti medico-sanitari. Un ambiente di lavoro più sicuro ed efficiente nell’erogazione delle cure va senz’altro a beneficio non solo dei pazienti ma anche degli operatori sanitari1 .
Accertamento della responsabilità penale del medico
Secondo il Codice deontologico, la Dottrina e la Giurisprudenza di settore il medico ha l’obbligo di osservare scrupolosamente le leges artis che caratterizzano la sua attività professionale, assumendo così la posizione di “garante” nei confronti del paziente. Il Sanitario diventa, infatti, portatore dell’obbligo giuridico di attivarsi e di proteggere la vita e l’integrità fisica del paziente affidato alle sue cure.
1 Art. 2 Attribuzione della funzione di garante per il diritto alla salute al Difensore civico regionale o provinciale e istituzione dei Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente. Comma 4. In ogni regione è istituito, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, che raccoglie dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso e li trasmette annualmente, mediante procedura telematica unificata a livello nazionale, all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, di cui all’articolo 3.
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Come è noto, l’attività medica reca in sé un intrinseco indice di pericolosità che l’ordinamento accetta in ragione dell’innegabile utilità sociale che caratterizza le professioni sanitarie; tuttavia, questo “rischio consentito” va mantenuto entro limiti precisi, mediante la previsione di un adeguato apparato di norme precauzionali codificate e non.
La linea di confine, tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, è notevolmente sfumata e ricade sul Sanitario chiamato volta per volta a valutare, nel caso concreto, la prevedibilità di eventuali conseguenze lesive connesse all’attività terapeutica espletata. Un’accorta valutazione si basa sull’esperienza consolidata e sul rispetto delle norme precauzionali di settore.
Nell’accertamento dei profili di responsabilità del Sanitario per la Giurisprudenza le linee guida e i protocolli sanitari hanno costituito sempre un importante riferimento in grado di offrire indicazioni sugli orientamenti consigliati ai Sanitari o regole che essi devono rispettare.
Com’è noto, le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate attraverso un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche. Lohr KN e Field MJ dell’Institute of Medicine di Washington, nelle Guidelines for Clinical Practice. From Development to Use, forniscono una definizione delle linee guida condivisa da più parti, dovendosi intendere per “linee guida”: “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opzioni scientifiche, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”2 .
In ultima analisi può affermarsi che le linee guida raccolgono evidenze scientifiche oggettive e identificano ipotesi di condotte virtuose e idonee a garantire la qualità e la sicurezza dei trattamenti sanitari. È interessante notare che le linee guida presentano una o più modalità comportamentali rispetto a uno specifico problema, non necessariamente indicando un’univoca strategia di intervento. Ciò perchè le “raccomandazioni” traducono le evidenze scientifiche oggettive, fondate sulla letteratura medica, in possibili condotte che poi i soggetti o le organizzazioni devono scegliere di applicare nell’ambito delle proprie realtà. Per queste caratteristiche le “linee guida” si distinguono dalle procedure operative e dai protocolli, descrittivi in modo vincolante e in dettaglio di sequenze di attività, da mettere in atto senza varianti. Atteso che le linee guida svolgano la funzione di offrire agli operatori delle indicazioni di esito e di processi per monitorare l’attività clinica e per individuare modelli comportamentali condivisi e idonei a garantire standard elevati di qualità e sicurezza, è necessario poi che detti “indicatori”, contenuti nelle linee guida, siano seguiti da altri strumenti più operativi per la concreta collocazione nelle diverse realtà, ossia dai c.d. “processi diagnostico-te-
2 Field MJ, Lohr KN. Guidelines for clinical practice. From development to use, Washington DC, 1992.
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rapeutici”, che costituiscono l’adattamento delle linee guida alle realtà locali e alle conseguenti singole caratteristiche tecnico-organizzative. La diffusione delle linee guida è iniziata negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70 e ha avuto implemento decisivo con l’affermarsi della “Evidence Based Medicine” (EBM)3. A livello internazionale esistono diversi Istituti che hanno il compito di emettere linee guida: il National Institute for Health Care and Clinical Excellence (NICE) e lo Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN) nell’Regno Unito, la National Guidelines Clearinghouse (NGC) in USA, le Clinical Guidelines pubblicate sul The Medical Journal of Australia (MJA), ecc.
In Italia, l’introduzione delle linee guida risale agli anni ’90. Significativo è stato il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, introdotto con il D.Lgs 229/19994 e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’AGENAS. Da ricordare è anche il Decreto del Ministro della Salute del 30 giugno 2004, con cui è stato poi istituito il Sistema Nazionale Linee Guida, per assicurare il raccordo delle Istituzioni che operano a livello centrale5 6 .
Anche l’Istituto Superiore di Sanità definisce le linee guida, con l’ulteriore precisazione che le stesse debbano descrivere le alternative disponibili e le relative possibilità di successo in modo che il medico possa orientarsi nella gran quantità di informazioni scientifiche in circolazione, il paziente abbia modo di esprimere consapevolmente le proprie preferenze e l’amministratore possa compiere scelte razionali, in rapporto agli obiettivi e alle priorità locali. Le linee guida contengono prescrizioni, suggerimenti e indicazioni rivolte al medico e sono formulate per garantire il raggiungimento di determinati scopi, quali, ad esempio, la riduzione della variabilità dei comportamenti del medico, il raggiungimento di una maggiore efficienza delle prestazioni sanitarie, il miglioramento dell’efficacia della condotta clinica, la risoluzione dei problemi etici e legali.
3 Hayward R.S.A. – Wilson M.C. – Tunis S.R. – Bass F.B. – Guyatt G., Users guidelines to the medical litterature. How to use clinical guidelines. Are the recommendation valid?, The Evidence Based Medicine Working Group, 1995. 4 D.Lgs 19 giugno 1999, n. 299. Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419 in GU 165/1999. 5 Cirese V., La medicina basata sull’evidenza e aspetti medico-legali, in Il medico ospedaliero e del territorio, Anno IX – n. 1/2011 – marzo-trimestrale, 18, CIC edizione internazionale, nel sito del coordinamento italiano dei Medici Ospedalieri – Associazione Sindacale dei Medici Dirigenti. 6 Ex pluris, A. Fiori, Medicina legale della Responsabilità medica, Milano 1999; Introna F., Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. it. med. leg. 1996, 1323, cit. in Bilancetti M. – Bilancetti F., La responsabilità penale e civile del medico VII ed. 2010, 684: “la Medicina, benché tecnologizzata, conserva ancora una forte componente di “arte” cioè personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun caso singolo sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale. (…)”.
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Grazie all’operatività delle linee guida viene recuperato un notevole grado di determinatezza che si sacrifica ogniqualvolta la regola cautelare venga individuata utilizzando solo il parametro dell’ “agente modello” nel caso di valutazione della responsabilità medica, ossia facendo riferimento al “medico modello”, tradizionalmente utilizzato in Giurisprudenza.
Si parla così di un “processo di normativizzazione della colpa”, attraverso la standardizzazione delle regole cautelari nell’obiettivo di elaborare uno schema ideale di comportamento clinico che possa essere preso come parametro nell’ambito del processo, là dove si tratti di verificare la sussistenza di una responsabilità colposa del medico che ha disatteso le regole in questione.
L’analisi dei prevalenti orientamenti giurisprudenziali in materia valorizza il profilo della concretizzazione della colpa. Secondo gli approdi della Giurisprudenza la violazione delle linee guida da parte del medico non conduce necessariamente alla configurazione di una colpa professionale. Del resto il rispetto di linee guida e protocolli non esclude automaticamente la responsabilità del Sanitario come quando, ad esempio, siano omessi trattamenti o esami clinici o strumentali che, anche se non richiesti da linee guida e protocolli, erano necessari.
Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio: “Non vi potrà essere esenzione da responsabilità per il fatto che siano state seguite linee guida o siano stati seguiti protocolli ove il medico non abbia compiuto colposamente la scelta che in concreto si rendeva necessaria. Ciò, soprattutto, allorquando le linee guida seguite siano obiettivamente ispirate a soddisfare solo esigenze di “economia gestionale” ovvero allorquando queste si palesino obiettivamente vetuste, inattuali, finanche controverse. Le linee guida non possono fornire, infatti, indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico, in nome della quale deve prevalere l’attenzione al caso clinico particolare e non si può pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che ritenga causa cognita di coltivare una soluzione terapeutica non contemplata nelle linee guida, sia perché, come già evidenziato in altri precedenti in taluni casi, le linee guida possono essere indubbiamente influenzate da preoccupazioni legate al contenimento dei costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse, non unanimemente condivise oppure non più rispondenti ai progressi nelle more verificatesi nella cura della patologia.”7
Rimane, pertanto, la possibilità per il Giudice di valutare la condotta del medico anche alla luce del parametro dell’ “agente modello”, nella comune censura dell’appiattimento a una acritica osservanza delle linee guida qualo-
7 Cass. pen., Sez. IV, 2 marzo 2011 n. 8254; Cass. pen., Sez. IV, 19 dicembre 2012 n. 35922; Cass. pen., sez. IV, 8 giugno 2006 n. 24400; Cass. pen., Sez. IV, 2 marzo 2007 n. 19354.
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ra la particolarità della fattispecie concreta avrebbe potuto imporre o consigliare al medico un percorso diagnostico-terapeutico diverso.
Le linee guida, al fine di semplificare un ventaglio di conoscenze troppo vasto che potrebbe disorientare il medico, hanno lo scopo di fornire al professionista il “percorso terapeutico ideale” che, sulla base della migliore scienza ed esperienza dell’epoca, propone raccomandazioni per agevolare la decisione clinica nel caso concreto. Tra l’altro indicano al medico il dovere di aggiornamento necessario anche in considerazione della complessità e particolarità delle sue prestazioni professionali. Con la prospettazione delle raccomandazioni o del percorso terapeutico “ideale”, le linee guida favoriscono un approccio più “oggettivizzato”, tendendo a ridurre il tasso di errore che potrebbe derivare da una gestione clinica molto soggettiva e personalizzata o effettuata su base intuitiva. Inoltre, la progressiva uniformazione delle migliori prassi, Best Practice, favorisce il miglioramento dei processi di cura e la riduzione delle disuguaglianze nell’erogazione dei trattamenti sanitari.
Va notato che, a parte l’assenza di tassatività del reato colposo, l’accertamento della responsabilità penale, in ambito sanitario, si è sempre contraddistinto per la diffusa tendenza a diffidare di ogni processo di «positivizzazione» delle regole cautelari. La Dottrina e la Giurisprudenza dominanti hanno sempre avversato un’eccessiva standardizzazione delle regole cautelari nel settore sanitario. Del resto in ambito penale, pare difficile se non impossibile, anche ricorrendo alle linee guida, conseguire, per ciò che concerne la responsabilità professionale dei Sanitari, quella standardizzazione delle regole cautelari proprie di altri settori. Le resistenze dei giuristi appaiono identiche a quelle dei medici che, a fronte delle caratteristiche dell’arte clinica, rivendicano l’autonomia decisionale, frutto di personale scienza ed esperienza, che non può piegarsi a un’obbedienza cieca e non tollera acritici automatismi, poiché la valutazione non può che essere sempre ancorata al caso concreto, che tra l’altro ben potrebbe giustificare, sotto il profilo terapeutico, la necessità di non applicare la regola standardizzata.
L’atteggiamento di resistenza a conferire alle linee guida una rilevanza assoluta nella valutazione della colpa medica è perdurato per molti anni sul presupposto dell’impossibilità di eliminare l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche.
Si è lungamente ritenuto che l’arte medica, mancando per sua stessa natura di protocolli scientifici a base matematica, spesso abbia prospettato diverse soluzioni, da scegliere prudentemente e peritamente, tenendo conto di tutte le possibili varianti presenti nel caso specifico, apprezzabili solo dal curante in quel determinato momento8 .
L’atteggiamento della Giurisprudenza di fronte alle linee guida è stato condiviso nell’ambiente medico, poiché gli operatori sanitari hanno sempre evidenziato l’incompatibilità tra cogente osservanza delle linee guida e il
8 Cass. pen., Sez. IV, 22 aprile 2015 n. 24455.
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principio di libertà di cura da parte del medico. Da più parti si è evidenziata la necessità di evitare un’eccessiva burocratizzazione della professione medica e una mortificazione dell’autonomia professionale, derivante dall’assoluta vincolatività di standard precostituiti.
L’indirizzo giurisprudenziale, oltre che con la scienza medica, è risultato coincidente anche con indicazioni fornite dalla dottrina: nel giudizio sulla responsabilità del medico, il giudice resta sempre libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbe evitato il fatto che si imputa al medico, valutando cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida a disposizione del medico, oppure una condotta diversa da quella descritta nelle raccomandazioni contenute nelle linee guida.
Del resto la Giurisprudenza ha sempre escluso che l’inosservanza delle linee guida potesse fondare un’ipotesi di colpa specifica per la loro natura di “raccomandazioni generali”, non vincolanti, entro il cui ventaglio il Sanitario può scegliere per passare poi dal percorso terapeutico ideale all’applicazione pratica, nel caso concreto e nel contesto lavorativo in cui opera.
Il ragionamento condiviso da medici e giudici, seppur per ragioni diverse, poggiava sul presupposto che mai le linee guida avrebbero potuto sostituirsi al ragionamento del medico di fronte alle evenienze del caso concreto, mettendo in luce due fondamentali principi: il primo tiene conto della natura dell’attività medica e valorizza l’impossibilità di mortificare l’autonomia professionale del professionista, costringendolo a una cieca obbedienza, anche perché restano pur sempre a suo carico le scelte intraprese, prudenti e perite o errate. Il secondo principio deriva dalla considerazione della natura delle linee guida che indicano un comportamento “ideale” e magari contengono più opzioni che poi devono essere applicate alla realtà locale e al caso concreto con i dovuti adattamenti, quando detto caso concreto e realtà locale non ne giustifichino addirittura la necessità di una disapplicazione.
Un tentativo di innovazione, sul terreno della valutazione della colpa professionale, è stato intrapreso nell’intervento legislativo ex legge 189/2012 (di conversione del “decreto Balduzzi”. DL n. 158/2012) recante “disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”.
L’art. 3, c. 1, del citato testo recitava: ”L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
La responsabilità penale, in ambito medico, risultava evidentemente modificata. Sembra opportuno evidenziare che il provvedimento in questione avrebbe dovuto coinvolgere solo aspetti di natura civilistica, connessi alla responsabilità del sanitario, prevedendo, fra l’altro, che “fermo restando il di-
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sposto dell’art. 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente la professione sanitaria il giudice, ai sensi dell’art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”.
La legge di conversione, invece, inserendo l’art. 3, modificò la struttura del testo, destinato al solo ambito civilistico, inserendo anche profili inerenti la responsabilità penale.
I primi commenti al testo legislativo Balduzzi hanno definito, nella nuova disposizione, una ipotesi di culpa sine culpa, ravvisando nella disposizione un difetto genetico perché ipotizzava la responsabilità colposa, nonostante l’osservanza delle linee guida.
La disposizione, peraltro, poteva essere interpretata nel senso che se il medico non avesse effettuato una valutazione corretta del quadro clinico e non si fosse discostato dalle linee guida, la sua responsabilità penale avrebbe potuto essere esclusa, se l’erronea valutazione fosse stata frutto di colpa lieve, mentre sarebbe potuto incorrere in responsabilità in caso di colpa grave.
Del resto la giurisprudenza maggioritaria, come si è avuto modo di rilevare, ha sempre escluso che le linee guida potessero essere utilizzate per escludere la responsabilità penale del medico se il quadro clinico del paziente avesse imposto una condotta diversa da quella raccomandata dalle linee guida.
Altra criticità della legge Balduzzi era costituita dall’introduzione della distinzione tra “colpa lieve” e “colpa grave” per i casi di condotte conformi alle linee guida, in un percorso logico antitetico rispetto a quello consolidatosi in giurisprudenza che non operava questa distinzione nell’accertamento della colpa penale.
Le pronunce giurisprudenziali di applicazione della legge Balduzzi non riuscivano a dirimere le numerose questioni interpretative, che la norma poneva. La legge Balduzzi aveva cercato, non riuscendoci, di effettuare un nuovo criterio generale di accertamento della colpa medica, affiancato al criterio generale contenuto nell’art. 43 c.p.
La scelta del legislatore di assegnare alle linee guida un ruolo nell’accertamento della responsabilità penale appare condivisibile, se si tiene conto del rilievo sempre più consistente che esse hanno acquisito; ma rimangono inevitabilmente connotate da un margine di inaffidabilità e fallibilità al quale dover porre rimedio attraverso la professionalità, capacità ed esperienza del medico, chiamato a prestare la sua opera nel caso concreto nell’interesse di quel determinato paziente.
Probabilmente, l’intervento legislativo ex legge Balduzzi sarebbe stato più incisivo, se fosse stato maggiormente coerente con gli orientamenti giurisprudenziali consolidati sempre ancorati alla valutazione concreta e puntuale del singolo caso clinico, nei giudizi di responsabilità sanitaria.
Riguardo alla colpa medica, la Giurisprudenza è evoluta verso una tutela dei diritti del paziente sempre più compiuta, adottando indirizzi severi nei
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confronti dei medici e assumendo un ruolo suppletivo in carenza di specifici interventi normativi di orientamento nella valutazione della responsabilità sanitaria.
Com’è noto, nel nostro ordinamento la condotta colposa è caratterizzata da un lato dall’assenza di volontà dell’evento, o assenza di dolo, e dall’altra dal collegamento causale dell’evento con una condotta negligente, imprudente o imperita, colpa generica, ovvero non osservante di leggi, regolamenti, ordini e discipline, colpa specifica. Le fonti delle regole cautelari del sistema normativo di riferimento sono caratterizzate dalla finalità preventiva. Il rispetto delle regole cautelari assolve allo scopo di evitare il verificarsi di rischi o eventi avversi dannosi per i pazienti. Di conseguenza la tipicità della colpa è integrata dalla realizzazione di un fatto che, alla luce delle regole cautelari, doveva e poteva essere evitato.
L’attività medico-chirurgica è caratterizzata dalla presenza, oltre che di regole di comune diligenza e prudenza, di regole tecniche in prevalenza non scritte, la cui violazione è fonte di imperizia e per la cui individuazione la Giurisprudenza e la Dottrina utilizzano criteri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, a loro volta rapportati al parametro dell’agente modello, il c.d. homo eiusdem professionis et condicionis9 . Con riferimento al contenuto delle regole cautelari va notato che esse possono imporre al medico un dovere di astenersi ovvero un dovere di attivarsi; in questo ultimo caso, la violazione caratterizza una condotta omissiva. Relativamente alla ricordata tendenza a “formalizzare” le regole dell’arte medica, attraverso l’individuazione delle c.d. linee guida o protocolli diagnostici e terapeutici, va notato che il dibattito sulla natura ed efficacia giuridica delle linee guida è ancora aperto, anche se in Dottrina e in Giurisprudenza prevale, in proposito, un atteggiamento piuttosto equilibrato affermando che, tenuto conto delle peculiarità del caso singolo e delle differenti caratteristiche di ogni paziente, le linee guida, per quanto specifiche e dettagliate, non possono essere considerate del tutto esaustive con la conseguenza della irrinunciabilità al paradigma dell’ “agente modello”.
Naturalmente, ai fini del rimprovero colposo non è sufficiente la violazione della regola cautelare, ma occorre accertare che l’agente avesse la possibilità e la capacità di osservarla. In altre parole, occorre la “rappresentabilità ed evitabilità” dell’evento, da accertare in concreto, alla luce del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis.
Ripercorrendo le linee di tendenza della Magistratura è agevole notare che, nella prima metà del secolo scorso, la responsabilità del medico fosse circoscritta ai soli casi di condotta grossolanamente erronea, ritenendo che la colpa del Sanitario fosse ravvisabile soltanto nell’errore inescusabile, ovvero nella mancanza delle generali conoscenze della scienza medica, nel difet-
9 Si tratta del professionista di pari grado, pari esperienza e competenza che avrebbe agito prudentemente, diligentemente, peritamente nel caso concreto.
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to della necessaria abilità tecnica, nella superficiale trasgressione alle norme che presiedono l’ars medica, etc. Tale impostazione, di larghe vedute, finiva per introdurre, in ambito sanitario, un criterio di valutazione della condotta colposa differente rispetto a quella dell’ ”agente modello”, sempre utilizzata. L’inconveniente maggiore era costituito dal rischio di non censurare condotte molto superficiali o non informate al necessario rigore scientifico.
In una seconda fase, la Giurisprudenza è stata caratterizzata dall’introduzione del concetto di “colpa grave”, tratto dall’art. 2236 c.c., la cui disciplina limitava la responsabilità civile del professionista ai soli casi di dolo e colpa grave in ricorrenza di problemi tecnici di speciale difficoltà. La dottrina, dal canto suo, affermava che con l’art. 2236 c.c. il legislatore non avesse inteso introdurre una generale non punibilità a vantaggio dei professionisti, giustificando anche l’errore da disattenzione o negligenza, bensì avesse voluto fornire un parametro più chiaro, per valutare la conformità della prestazione alle regole dell’arte, sotto il profilo della perizia, intesa come competenza e capacità tecnica.
La terza fase si è contraddistinta per l’accoglimento giurisprudenziale dell’interpretazione dottrinale dell’art. 2236 c.c.10 con la pronuncia di infondatezza sulla questione di illegittimità costituzionale degli artt. 42 e 589 c.p. in relazione all’art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra medici e altri soggetti, laddove il medico risponde solo per “colpa grave” a differenza di qualunque altro cittadino che risponde anche per colpa lieve. La Corte ha osservato che la limitazione di responsabilità di cui all’art.2236 c.c. era giustificata in considerazione dell’attività svolta dal professionista, nei confronti del quale la responsabilità colposa derivante da imperizia viene limitata, in caso di prestazioni caratterizzate da problemi tecnici di speciale difficoltà, alla sola ipotesi di colpa grave; mentre le condotte colpose negligenti o imprudenti erano assoggettate a criteri di maggior rigore. Successivamente alla pronuncia della Corte Costituzionale, la Cassazione in sede penale per l’art. 2236 c.c. operò la distinzione tra errore dovuto a imperizia ed errore determinato da negligenza e/o imprudenza.
A partire dagli anni Ottanta la Cassazione ha cominciato a emettere indirizzi informati a una maggiore severità nella valutazione della condotta professionale colposa del medico. Si optò per l’assoluta autonomia del sistema penale, rigettando qualsiasi applicazione di principi presenti in altri ambiti del nostro ordinamento, ivi incluso quello ex art. 2236 c.c.. Tale orientamento rigoroso ricevette l’avallo da parte di autorevole Dottrina, che aderiva al principio dell’individuazione di differenziate figure di homo eiusdem condicionis et professionis, quale parametro di valutazione della colpa del Sanitario. Non sono mancate, tuttavia, pronunce della Cassazione che, pur continuando a negare la valenza in sede penale dell’art. 2236 c.c., si sono riferite alla regola di esenzione di responsabilità contenuta nella previsione ci-
10 La Corte Costituzionale con sentenza 28 novembre 1973, n. 166
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vilistica relativa a problemi tecnici di speciale difficoltà, utilizzandola come parametro legale nella valutazione della condotta colposa del Sanitario in ambito penale, come “massima di esperienza”.
Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti hanno abbandonato le posizioni aprioristicamente intransigenti nei confronti dei medici, affermando che, dalla nota sentenza Franzese in poi, relativamente alla responsabilità sanitaria, il criterio di valutazione della colpa professionale vada individuato in concreto e tenendo in conto il livello di professionalità e di conoscenze del medico.
Come già si è avuto modo di rilevare, la legge Balduzzi, seppur nella condivisibile finalità di ancorare l’astratta categoria della colpa a criteri orientativi del percorso interpretativo, ha comportato una serie di problematiche e criticità, causando orientamenti giurisprudenziali di merito e di legittimità assai diversi e spesso confliggenti.
L’analisi dei percorsi applicativi della citata normativa ha fatto emergere diversi spunti di riflessione e l’amara conclusione per il sostanziale fallimento delle disposizioni contenute nella legge 189/2012. Del resto il panorama giurisprudenziale, negli sforzi compiuti in riferimento alle linee guida, mostra di non aver composto i contrasti pur nell’apprezzabile tentativo di fornire agli operatori del diritto riferimenti più chiari e oggettivi. Invero, non è stata risolta la criticità della definizione delle linee guida, della loro natura e del loro esatto ruolo. Tanto meno si è trovata una soluzione di fronte all’eccessivo numero di raccomandazioni e di fonti di produzione in relazione alla loro affidabilità scientifica. La “medicina difensiva” ha continuato a proliferare, con un notevole aggravio di spese per lo Stato e il SSN. Occorreva, allora, un intervento di razionalizzazione della materia.
Il legislatore si è rimesso all’opera per tracciare un nuovo perimetro di riferimento dell’illecito colposo in materia sanitaria con la legge 24/2017.
Con l’approvazione della legge Gelli, recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie ”, il legislatore, per risolvere le numerose criticità della normazione previgente, ha inteso fornire delle precise risposte alle problematiche rimaste inevase o confuse in relazione alla responsabilità in ambito sanitario e giungere a una maggiore chiarezza e tassatività attraverso la definizione delle linee guida e di erogatori ufficiali delle stesse, nonché sancendo l’obbligo del rispetto delle stesse (art. 5 della legge 24/2017). Le modifiche sono state introdotte, com’era giusto, direttamente nel codice penale, attraverso la previsione di una nuova e autonoma figura di illecito, ex art. 590-sexies c.p..
Appare evidente che, con la legge Gelli, il legislatore abbia mirato al superamento dell’indeterminatezza e incertezza relativamente alla categoria della colpa che aveva causato la precedente legge 189/2012, non volendo ripetere gli stessi errori che ne avevano decretato il fallimento. Fin dall’impianto iniziale lo scopo che il disposto normativo si è proposto è stato quello di
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conferire maggior certezza e specificità alle categorie soggettive che fondano la colpa generica in ambito sanitario.
Il legislatore, scegliendo di delimitare l’ambito applicativo dell’esimente alla (sola) imperizia, ha stabilito confini più precisi per quella categoria la cui definizione era stata sempre appannaggio unicamente della Giurisprudenza. La scelta di incentrare l’attenzione sull’ ”imperizia”, delineandone i confini, dovrebbe anche fornire all’interprete strumenti orientativi rispettosi dell’autonomia degli ambiti per giungere a una valutazione più corretta della responsabilità colposa.
La scelta del legislatore, è stata quella di identificare, all’art. 6, nella sola perizia, in linea con l’interpretazione dei principi contenuti nell’art. 2236 c.c., la scriminante e di ricorrere alle linee guida come strumento qualificante la condotta del sanitario in grado di escludere la punibilità.
L’art. 6 della legge Gelli – art. 590-sexies c.p. – sancisce che: “qualora l’evento”, morte o lesioni personali, “si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”; segue, dunque, l’espressa abrogazione dell’art. 3 della legge Balduzzi.
Si tratta di un’ipotesi tipica nuova che fa il suo ingresso direttamente tra le norme speciali del codice Rocco, rivolta espressamente a tutti coloro che operano nel settore sanitario che, nell’ambito dell’agire professionale, abbiano cagionato la “morte o lesioni personali” al proprio paziente, per – sola – imperizia, restando, conseguentemente, estranee all’esimente, le ipotesi di imprudenza e negligenza11 .
Rispetto alla previgente disciplina ex legge Balduzzi, le novità introdotte dall’art. 590-sexies c.p. per la responsabilità penale del medico riguardano, in particolare: la mancata distinzione tra gradi di colpa, con la soppressione del riferimento alla “colpa lieve”; l’esclusione della punibilità per l’illecito penale nel solo caso di “imperizia”; il presupposto del rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida ufficiali o buone pratiche; la considerazione del caso concreto; l’adeguatezza delle raccomandazioni al caso concreto; l’esclusione di esimenti per l’omicidio colposo o lesioni colpose causate dal Sanitario per negligenza o imprudenza, indipendentemente dalla gravità della condotta, quindi anche per negligenza o imprudenza lieve.
11 Se i fatti di cui agli articoli 589 c.p. e 590 c.p. sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste in caso di condotta negligente o imprudente del medico. Solo se l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa, purchè risultino rispettate le linee guida adeguate alle specificità del caso concreto.
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Il legislatore ha collocato la nuova disposizione nel libro II del codice penale (capo I, titolo II), introducendo una nuova fattispecie incriminatrice che riguarda, come soggetti attivi, gli esercenti la professione sanitaria. Vi è, pertanto, una caratteristica di specialità rispetto ai reati di omicidio e lesioni colpose, ascrivibili ad altri soggetti. La scelta di uno statuto penale differenziato, per gli operatori sanitari, è giustificata anche alla luce della tendenza giurisprudenziale e legislativa degli altri Paesi dell’UE di delimitare il novero delle condotte penalmente rilevanti addebitabili ai Sanitari a fattispecie realmente gravi, in considerazione della difficoltà e complessità della prestazione di assistenza sanitaria e la funzione sociale di detta attività, che consente delle aree di “rischio consentito”, non punibili penalmente.
A ciò si deve aggiungere l’intento, condiviso in più ordinamenti sanitari e giuridici dell’UE, di evitare quanto più possibile le conseguenze della “medicina difensiva” attiva e passiva, ossia quelle condotte che il personale sanitario pone in essere non nel reale interesse del paziente, bensì per evitare coinvolgimenti nel contenzioso medico-legale e precostituirsi prove a discarico in previsione di possibili azioni giudiziarie.
La nuova norma, per chiarezza e coerenza, ha abrogato l’art. 3 della legge Balduzzi 189/2012. Sia la Dottrina che la Giurisprudenza italiana del resto da tempo si sono interrogate sulla possibile applicazione dei criteri che ispirano gli altri ordinamenti dell’UE e la possibilità di limitare la censurabilità ai soli casi di “colpa grave”. A tale orientamento ostava tuttavia l’art. 43 c.p. che non prevede in ambito penalistico alcuna graduazione del grado di colpa, rinvenibile unicamente nell’art. 133 c.p. al fine dell’irrogazione di una pena più o meno severa. Anche l’altro criterio seguito in Francia, USA e Regno Unito di esclusione della colpa per carenza dell’elemento soggettivo, in caso di osservanza di linee guida, non risultava applicabile automaticamente dovendosi escludere una vincolatività e cogenza assoluta delle linee guida che non impongono un’obbedienza cieca – che non escluderebbe profili di responsabilità – e lasciano pur sempre al Sanitario margini di decisione e autonomia professionale in ragione della sua esperienza e competenza; soprattutto in considerazione delle esigenze relative al caso concreto del paziente che il Sanitario prende in carico.
Inoltre, abbandonato un primo indirizzo più indulgente, la Cassazione ha negato l’applicazione analogica dell’art. 2236 c.c. perché insuscettibile di estensione in ambito penale per il divieto ex art. 14 disp. prel. c.c., nonostante si tratti di effetto in bonam partem. La disciplina civilistica contenuta nell’art. 2236 c.c. che delimita la responsabilità del professionista ai soli casi di “dolo” e “colpa grave”, quando l’attività è caratterizzata da problemi tecnici di speciale difficoltà, è stata in parte recuperata in alcune pronunce di merito dei giudici penali ma mai come applicazione generalizzata e uniforme dei criteri civilistici di valutazione della colpa in ambito penale. Dal momento che le sentenze penali non operavano una differenziazione concettuale tra colpa lieve e colpa grave, prendendo in considerazione la gravità della colpa
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solo per la determinazione della pena, prima dell’entrata in vigore della legge Balduzzi, al giudice di merito restava una amplissima discrezionalità in ordine alla valutazione della responsabilità professionale mentre al momento dell’applicazione dell’art. 3 della legge Balduzzi la giurisprudenza maggioritaria reagì statuendo che l’esonero della responsabilità penale del medico che incorre in colpa lieve, pur attenendosi a linee guida o buone pratiche, poteva operare solo per i casi di imperizia, mentre nei casi di negligenza e imprudenza le censure potevano essere elevate anche per colpa lieve.
Solo alcuni indirizzi minoritari hanno consentito l’applicabilità della previsione normativa ex legge 189/2012 anche a ipotesi di negligenza e imprudenza, in considerazione del fatto che le linee guida oltre a contenere regole di perizia a volte possono riportare altri parametri, più specificatamente connessi alla diligenza, come ad esempio l’accuratezza nei trattamenti sanitari e cure erogate.
Tuttavia le difficoltà interpretative emergevano anche su altri versanti. Nell’applicare la legge Balduzzi i giudici penali, tanto di legittimità quanto di merito si sono dovuti confrontare con il problema dell’esatta individuazione di quali fossero le linee guida atte, se osservate, a fondare l’esonero di responsabilità per il professionista, nei casi di colpa lieve. Ciò perché l’art. 3 si limitava a richiedere che le linee guida e buone pratiche fossero “accreditate dalla Comunità scientifica”. La sfortunata formulazione testuale non faceva riferimento ad alcun sistema di controllo delle linee guida per garantirne l’attendibilità e la scientificità. L’estrema genericità e indeterminatezza del testo sollevava questioni in merito alla possibile violazione del principio di tassatività, tipico del diritto penale. Inoltre lasciava irrisolta la problematica di quelle linee guida ispirate dalla finalità di risparmio delle risorse, da logiche più economiche che di reale tutela del paziente e salvaguardia della sicurezza ed efficacia delle cure.
L’affidabilità delle linee guida, invocate a propria difesa dal Sanitario, non poteva essere accertata, nell’impossibilità di poter identificare quale potesse essere la generale “Comunità scientifica” cui la norma faceva riferimento. Di conseguenza, l’accertamento necessario era rimesso al giudice, nell’ambito del processo e con l’ausilio del consulente tecnico o del perito, ma spesso il giudice non era realmente nella posizione di stabilire il grado di consenso della letteratura di settore e giungere a identificare la “Comunità scientifica” di riferimento.
L’eccessiva discrezionalità rimessa al giudice vanificava lo scopo del legislatore di introdurre una forma qualificata di imputazione soggettiva, subordinandola al rispetto delle linee guida e buone pratiche. Ingiustificata e inopportuna poi appariva l’equiparazione delle linee guida nazionali e internazionali alle buone pratiche, emesse anche a livello locale, che potevano essere emesse magari sulla scorta di pressanti esigenze finanziarie o erronee scelte politiche e che potevano risultare in contrasto con gli indirizzi e le raccomandazioni della Scienza a livello nazionale o internazionale.
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L’imprecisione terminologica e sistematica causava altre pesanti controversie interpretative in relazione alle “buone pratiche” non solo perché unicamente da alcuni autori e non da tutti venivano giudicate tali, ma perché venivano identificate anche con i protocolli, determinando l’inopportuna equiparazione tra i protocolli stessi, che hanno un carattere rigido e cogente, e le linee guida, elastiche e tendenti a suggerire un “percorso terapeutico ideale”: venivano trattati come equivalenti, strumenti diversi per natura e finalità. Si poneva poi il problema se i protocolli, a differenza delle linee guida, potessero integrare quelle regole cautelari di “colpa specifica” esclusi per le linee guida in forza della loro natura.
La legge Balduzzi, dunque, non specificava né il ruolo né la natura delle linee guida, né quello delle buone pratiche, erroneamente ponendole sullo stesso piano, né specificava quale fosse l’indifferenziata “Comunità scientifica” cui far riferimento. Ogni accertamento era rimesso al giudice, ciò comportando un’eccessiva dilatazione della discrezionalità della Magistratura e il rischio di giudizi diversi e contrastanti fra loro.
L’art. 6 della legge 24/2017 ha inteso ridisegnare i confini della colpa medica con un ancoraggio rilevante al parametro delle linee guida e un approccio innovativo, rispetto alla legge Balduzzi, includendo l’altrettanto intrascurabile tema della rilevanza del caso concreto nella valutazione della responsabilità colposa, ponendo fine ai tanti dubbi interpretativi sollevati dall’art. 3 della legge Balduzzi, abrogato. Il nuovo dettato normativo sancisce la punibilità di tutte le forme di colpa che rientrano nel rimprovero dell’imperizia. Sia la colpa lieve che quella normale rientrano, dunque, nell’area del penalmente irrilevante, in caso di comportamento imperito del medico a condizione del rispetto delle raccomandazioni cliniche o buone pratiche. Da un raffronto tra l’art. 6 della legge Gelli e l’art. 3, comma 1 della legge Balduzzi risulta evidente la novità, atteso che il legislatore nella nuova disposizione faccia riferimento non solo al requisito del rispetto delle linee guida ma anche alla necessità di accertare, se il caso concreto giustifichi che il sanitario si discosti dalle prescrizioni.
Tale novità costituisce un consistente profilo di diversità rispetto alla normativa previgente. Com’è noto, la legge Balduzzi, infatti, statuiva che il comportamento imperito del medico andava esente da responsabilità in caso di colpa lieve, soltanto se il professionista fosse riuscito a dimostrare in giudizio di aver rispettato anche le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla “Comunità scientifica”. Ciò non impediva al giudice di valutare discrezionalmente il caso concreto.
Oggi, invece, il disposto normativo ex legge 24/2017, si riferisce soltanto al generale concetto di imperizia, regola cautelare dal contenuto assai ampio, indicante il comportamento medico posto in essere in contrasto con le regole tecniche, c.d. leges artis. Le linee guida, anch’esse regole di perizia, rappresentano, pertanto esclusivamente un aspetto rilevante del generale concetto d’imperizia, attesa la peculiarità dell’attività professionale sanitaria.
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Il legislatore ha evitato un’eccessiva standardizzazione delle regole cautelari nel settore sanitario, poiché si tratta di un ambito in cui risulta inopportuno estremizzare la positivizzazione. Del resto la diffidenza di ogni processo di positivizzazione delle regole cautelari in sanità è condivisa sia dalla classe medica sia dalla Giurisprudenza, concordemente sostenitrici della necessità che la valutazione della colpa sia sempre ancorata alla specificità del caso concreto.
È agevole notare, infatti, che a volte l’inosservanza di una regola standardizzata potrebbe risultare più opportuna per il paziente dal punto di vista terapeutico. Del resto, se si prescindesse totalmente dalle regole cautelari, ancorché raccomandazioni “aperte”, ne conseguirebbe un’eccessiva discrezionalità tanto del medico quanto del giudice. Quest’ultimo potrebbe ritenere penalmente illecite anche condotte tecnicamente ineccepibili, tuttavia non in grado di sventare un esito infausto. Conseguentemente il giudice, nell’autonomia e libertà dell’esercizio del suo potere-dovere di valutazione, è “guidato” affinchè nella sua pronuncia metta in correlazione le prescrizioni cliniche con il caso concreto gestito dal sanitario.
Il doppio parametro consente di identificare quale sarebbe stata la condotta dell’ “agente modello” e se, alla luce del bagaglio tecnico-scientifico e delle concrete circostanze fattuali relative a quel particolare paziente, fosse doverosa e possibile una condotta alternativa.
Il legislatore ha dimostrato di voler rispettare anche la libertà e l’autonomia del medico, riconosciuta negli artt. 9 e 33 della Costituzione, riconoscendo che il medico che gode della “libertà terapeutica”, non sia tenuto a una dannosa obbedienza cieca delle prescrizioni cliniche né la sua delicata attività può essere imbrigliata in un’eccessiva burocratizzazione.
Il comma 2 dell’art. 590-sexies richiede pertanto il rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida ovvero delle buone pratiche clinico-assistenziali stabilendo che esse non assurgono però a parametro unico ed esclusivo per la valutazione della colpa professionale in sanità, dovendosi far riferimento alle specificità del caso concreto, in coerenza con gli approdi della Giurisprudenza e i canoni del diritto penale, ma anche secondo una concezione condivisa nella Scienza medica.
Dal combinato disposto ex art. 5 e 6 del testo di legge, si evince che le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida devono essere emesse dalle Società Scientifiche e dagli enti iscritti in un apposito elenco, istituito, regolamentato e aggiornato dal Ministero della Salute. Inoltre le linee guida devono essere pubblicate e integrate dal Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG).
Questo impianto, che premia l’affidabilità degli erogatori ufficiali delle linee guida, consente di uscire dall’incertezza della legge Balduzzi e dall’indefinita generica “Comunità scientifica”.
La legge Gelli ha risolto l’aspetto fondamentale in materia di linee guida, costituito dal soggetto erogatore a fronte della proliferazione incontrolla-
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ta delle prescrizioni cliniche e dell’imprescindibile necessità di identificare quali linee guida prendere in esame e come vagliare l’affidabilità degli estensori, compito che fino a ora era rimesso esclusivamente al giudice.
Non solo è stata recuperata la non assoluta vincolatività delle linee guida nella concezione condivisa, presso la classe forense e presso la classe medica, ma è stata anche introdotta una puntualizzazione sulle modalità di produzione delle raccomandazioni e di valutazione dell’ente erogatore per la sua affidabilità.
Inoltre, il riconosciuto carattere non vincolante delle linee guida e il conseguente ancoraggio alla considerazione del caso concreto rispettano il principio di libertà di cura da parte del medico e quello del libero convincimento del giudice, conciliandoli.
Il maggior rigore mostrato dal legislatore nel disciplinare i requisiti delle linee guida e dei redattori di esse è completato dal richiamo anche nell’art. 5 all’obbligo di rispetto delle raccomandazioni per tutti gli esercenti la professione sanitaria, ancora una volta salvo le specificità del caso concreto.
La scelta di escludere l’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. ai comportamenti imprudenti o negligenti del professionista, è in sintonia con le ragioni esplicate da sempre dalla Giurisprudenza e che ormai fanno parte del nostro bagaglio culturale: le linee guida rappresentano delle direttive di carattere generale che il medico deve applicare al caso concreto “con scienza e coscienza”, ovvero secondo “diligenza” e “prudenza”.
Con la legge Gelli si rimedia alla criticità della legge Balduzzi che lasciava interamente al processo penale l’accertamento relativo all’ “accreditamento delle linee guida dalla Comunità scientifica”. L’attendibilità scientifica degli enti che producono linee guida viene ora compiuta ex ante in sede amministrativa e non più ex post in sede giudiziaria, potendo così evitare l’eccessiva diversità delle decisioni giudiziarie.
Il giudice penale si atterrà alle valutazioni compiute in sede amministrativa che hanno portato al riconoscimento ufficiale degli enti produttori delle linee guida.
Sul punto la novità della riforma risiede nel cambio di prospettiva, nell’anticipazione del controllo di attendibilità scientifica dalla fase processuale a quella amministrativa e nel diverso contenuto di detto controllo. Infatti, la verifica dell’accreditamento presso la “Comunità scientifica” si sposta dalla singola linea guida all’ente erogatore delle linee guida, diventando da controllo analitico a controllo sintetico. Perfino la presenza di linee guida difformi non dovrebbe costituire ostacolo alla possibilità di invocarle come causa d’esonero della responsabilità penale del medico che vi si sia adeguato, trattandosi di linee guida comunque attendibili sul piano scientifico perché emanate da enti che hanno ufficialità e riconoscimento e che, come tali, sono iscritti in apposito registro nazionale perché muniti dei requisiti normativamente prescritti.
Sia per le linee guida che per le buone pratiche clinico-assistenziali il legislatore ha inteso semplificare l’istruttoria in sede processuale e quindi
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eliminare le incertezze che ogni accertamento processuale implica. Non sarà necessario, come in passato, che il giudice penale accerti l’esistenza di linee guida o buone pratiche per poi verificarne anche la loro attendibilità sul piano scientifico perché farà affidamento sulla provenienza e ufficialità delle raccomandazioni cliniche.
Non spetterà al giudice compiere per le linee guida una verifica circa il loro “accreditamento dalla Comunità scientifica” essendo scomparso nel dettato normativo qualsiasi tipo di riferimento in tal senso, ponendo così fine alle incertezze legate all’accertamento in sede processuale circa la loro esistenza, provenienza e affidabilità scientifica.
Per quanto concerne poi le pratiche clinico-assistenziali da prendere in considerazione, il giudice farà riferimento solo a quelle considerate dall’Osservatorio Nazionale presso AGENAS.
Resta poi da sgombrare il campo dal falso problema se la legge Gelli mutui o risolva la contraddittorietà dell’operatore sanitario che versi in colpa per imperizia, pur avendo osservato linee guida o buone pratiche. Già la questione si era aperta con la legge Balduzzi di come possa sopravvivere una responsabilità per colpa quando raccomandazioni / prescrizioni osservate costituiscono di per sé uno standard di perizia e quindi si suppone che chi vi si attenga agisca peritamente. Si tratta invero di una contraddizione solo apparente, già risolta dalla sentenza Cantore12 fornendo due illuminanti esempi del Sanitario che può versare in colpa pur nella compiuta osservanza dei suggerimenti clinici: per “adempimenti imperfetti” ma non rimproverabili e “adempimenti perfetti” perché diligenti, ossia errori commessi nell’adempimento delle prescrizioni contenute nelle linee guida o mancato discostamento dalle linee guida quando le circostanze del caso concreto suggerivano di elaborare un percorso terapeutico individualizzato e calibrato sulle specifiche problematiche del paziente.
La legge 24/2017 ha valorizzato e ufficializzato il ruolo delle linee guida, ha reso identificabili gli erogatori scientifici affidabili, ha abbandonato il criterio distintivo della colpa lieve e colpa grave nella consapevolezza dell’impercorribilità di questa strada, in ambito penale ha sottratto alla fase processuale e al giudice penale il controllo di attendibilità scientifica delle raccomandazioni e degli erogatori.
In conclusione, può notarsi che la legge Gelli dunque ha innovato la disciplina con originalità su diversi versanti, conseguendo una razionalizzazione della materia, eliminando le incertezze della previgente legislazione, bilanciando gli interessi delle varie componenti sociali e avvicinando la cultura giuridica alla Scienza medica con un’integrazione di saperi e nel recupero di consolidati approdi.
12 Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013 n. 19237
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La colpa professionale del chirurgo
La chirurgia è comunemente ritenuta una delle più pericolose tra le branche mediche, trattandosi di attività sempre gravata da rischi potenziali, in cui, d’altra parte, l’errore del medico produce conseguenze inevitabilmente gravi.
Il suo esercizio facilmente espone l’operatore a commettere errori e spesso si conclude con esito infausto per circostanze indipendenti dalle capacità e dall’impegno del professionista.
I casi più frequenti di responsabilità per il chirurgo sono ricollegabili: a errore di diagnosi, esecuzione di un’operazione non indicata o addirittura non necessaria, omissione o intempestività di un’operazione necessaria, omessa esecuzione di accertamenti clinici e/o strumentali, omessa identificazione di complicanze nel post operatorio, tardività nell’eseguire un intervento urgente salvavita o un reintervento, omesso riconoscimento e riparazione di errori riconoscibili ed emendabili di un membro dell’équipe, omesso passaggio di consegne per incompleta compilazione della cartella clinica, errore topografico in caso di scambio dell’organo sano con quello malato e conseguente asportazione del primo con ovvie e gravissime conseguenze, errori tecnici nella manualità dell’operazione, incorretta esecuzione tecnica – ad es. recisione erronea di una struttura anatomica -, derelizione di oggetti come ferri chirurgici, garze, etc. nel corpo del paziente.
Gli sviluppi della Giurisprudenza di settore hanno condotto la Corte di Cassazione all’approdo di fondamentali decisioni, affermando due principi generali in materia: 1. concorre a escludere la responsabilità del chirurgo l’insorgenza di complicanze intraoperatorie, impreviste e imprevedibili, di tale gravità, atipicità o complessità da sconvolgere il piano dell’operatore e dei suoi collaboratori e imporre prestazioni impegnative, complesse, impellenti o prolungate; 2. indipendentemente dall’insorgenza di dimenticanze intraoperatorie, incorre in colpa il chirurgo che abbia trascurato di predisporre e attuare misure cautelative dirette a prevenire lo smarrimento di corpi estranei e di controllare, a operazione ultimata, se le cautele siano state osservate, ad esempio conta delle pezze laparotomiche.
Altre pronunce non mostrano tuttavia l’auspicato equilibrio, gravando in modo aprioristico di responsabilità il chirurgo, ritenendolo pregiudizialmente, e quasi oggettivamente, in colpa, come ad esempio per ogni derelizione e per le conseguenze lesive di questa. Un errore professionale frequentemente contestato, e sottovalutato, può riguardare infine la fase postoperatoria.
Può essere ascritto al chirurgo che, anzichè seguire il paziente operato anche dopo l’intervento – fase delicata in cui possono insorgere complicanze -, lo abbia “abbandonato” a personale inesperto e non in grado di intervenire e fronteggiare le insorte complicanze, che spesso si assumono “prevedibili”.
In altre parole, la Giurisprudenza in alcuni casi ravvisa la responsabilità del chirurgo perché dopo aver completato l’intervento, non è esonerato da
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ogni compito e deve proseguire la “continuità” delle cure e della vigilanza verso il paziente. Invero, la sua prestazione professionale non termina nel compimento dell’atto operatorio, dovendo egli controllare le condizioni cliniche del paziente nel decorso postoperatorio, tenendo conto del tipo di intervento e delle possibili complicanze che possono insorgere per prevenirle e/o fronteggiarle.
Ciò implica la predisposizione e il controllo di cure farmacologiche, presidii, accertamenti laboratoristici e strumentali al segno di viraggio in peggio delle condizioni di salute del paziente o di sintomi e segni che generino allarme. Il chirurgo, dunque, eseguito l’intervento non può disinteressarsi del paziente e ha l’obbligo di seguirlo e non allontanarsi. Se ciò non fosse possibile perché il chirurgo debba attendere ad altre incombenze o vi sia un cambio di turno, è tenuto a lasciare istruzioni e chiare consegne nella cartella clinica, per trasferire ai colleghi subentranti, competenti e affidatari, la sua posizione di garanzia nei confronti del paziente, fornendo le indicazioni terapeutiche necessarie.
L’obbligo, secondo la Corte di Cassazione, prescinde dalla natura del rapporto giuridico con il chirurgo e attiene a una casa di cura privata o accreditata o a struttura pubblica. Il personale affidatario deve essere competente, adeguatamente qualificato e informato, per poter affrontare i compiti assegnati e fronteggiare le complicanze che eventualmente insorgano.
Naturalmente occorre sempre anche la prova che l’evento avverso si ponga in nesso causale con la condotta del chirurgo ossia che trovi in essa la sua causa.
Com’è noto, il nostro diritto penale ha accolto in tema di rapporto di causalità il rigoroso principio dell’ ”equivalenza delle cause”, per cui per ascrivere la penale responsabilità, secondo il dettato normativo ex art. 40 c.p., è sufficiente che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell’evento, un antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Del resto, il rapporto di causalità non esclude il concorso di altre cause, o concause, diverse dalla condotta del chirurgo, successive o contemporanee, umane o fattori naturali.
Tuttavia, per l’art. 41 c.p. è escluso il nesso causale se si sovrapponga, alla condotta del soggetto, una causa a carattere eccezionale – successiva, imprevedibile e inevitabile – che è in grado, per esclusiva forza propria, di cagionare l’evento.
Altra tematica importante attinente la professione chirurgica ed eventuali connesse responsabilità, specie penali, è quella relativa alla funzione apicale.
Com’è noto, in seguito al D.Lgs. 229/99 non si usa più la dizione “Primario” e i medici ospedalieri in posizione apicale vengono definiti “Dirigenti”. Il D.P.R. 761/69 definisce le funzioni del medico in posizione apicale – ex Primario: prestazioni medico-chirurgiche, studio, didattica, ricerca, programmazione e direzione dell’unità operativa o dipartimentale, preparazione dei piani di lavoro, indirizzo e verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura – nel
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rispetto dell’autonomia del personale assegnatogli -, distribuzione del lavoro, assegnazione delle cure dei pazienti ricoverati a sé e agli altri medici, avocazione di casi alla sua diretta responsabilità, direzione e organizzazione del reparto. La normativa di settore è fonte, per il Primario, di obblighi di garanzia da cui potrebbero derivargli addebiti di responsabilità a titolo omissivo. Il Primario ha anche il dovere di vigilare sull’operato dei sanitari a lui assegnati, per evitare che dalle loro condotte possano derivare danni ai pazienti. Allo scopo l’apicale è fornito dalla legge di poteri giuridici impeditivi e può fornire indicazioni vincolanti ai collaboratori, pur nel rispetto delle loro capacità e competenze, relativamente a un indirizzo terapeutico da seguire, interventi da effettuare, ripartizione del lavoro secondo criteri di opportunità, possibilità di avocare casi al suo diretto intervento. Attesi i suoi poteri-doveri giuridici impeditivi, il Primario potrebbe essere chiamato a rispondere di comportamenti omissivi per mancato impedimento dell’evento avverso.
Egli è titolare, come tutti gli altri chirurghi, del c.d. “obbligo di garanzia” quale obbligo giuridico di impedire eventi lesivi degli altrui beni di vita e salute, la cui tutela è affidata a un garante per l’incapacità, temporanea, del paziente-titolare di proteggerli adeguatamente.
In relazione ai poteri-doveri giuridici impeditivi, i comportamenti omissivi del Primario, che non hanno impedito il verificarsi di eventi lesivi, sono equiparati a un’azione causale attiva e, dunque, puniti. Ciò perché la legge – art. 40, comma 2, c.p. – statuisce che: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. La Cassazione rammenta le sentenze sez. IV n. 18334/2018, n. 39609/2007 e n. 47145/2009, affermando che il dirigente medico ospedaliero è titolare di una posizione di garanzia a tutela della salute dei pazienti affidati alla struttura. I decreti legislativi n. 502/1992 e n. 229/1999 hanno attenuato la forza del vincolo gerarchico con i medici che con lui collaborano, ma non hanno eliminato il potere-dovere in capo al dirigente medico, in posizione apicale, di dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e di verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura e, infine, il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti.
Val la pena notare che il medico in posizione apicale, con l’assegnazione dei pazienti, opera una vera e propria “delega di funzioni impeditive dell’evento” in capo al medico in posizione subalterna, perché è consentito dalla legge di trasferire funzioni mediche di alta specializzazione o la cura di singoli pazienti, ma il “delegante” si libera solo se ha svolto adeguatamente i suoi compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e ciononostante si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura. È necessario individuare con precisione i limiti degli obblighi di garanzia del primario, per evitare che egli sia chiamato a rispondere di qualsiasi evento lesivo occorso nella struttura da lui diretta. Invero, l’obbligo del garante apicale non può essere un obbligo generico poiché si
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cadrebbe nella “responsabilità oggettiva”, ossia per il mero ruolo ricoperto, che è vietata dal nostro ordinamento. Poiché la legge assegna al Primario il compito della divisione del lavoro all’interno del reparto ospedaliero, affidando ai collaboratori le mansioni da svolgere sotto la sua supervisione, egli può rispondere di errata scelta della persona affidataria dell’incarico – culpa in eligendo – se non si è accertato della effettiva capacità di ogni collaboratore. Questa responsabilità può concorrere con la già menzionata culpa in vigilando se omette di esercitare le dovute verifiche sulle prestazioni dei servizi di diagnosi e cura e sul rispetto di istruzioni e direttive da parte dei suoi collaboratori. La culpa in vigilando può ricorrere anche se l’apicale non disponga in via preventiva metodi organizzativi, atti a scongiurare il verificarsi di eventi lesivi della salute dei pazienti, ad esempio non assicurando la presenza effettiva di personale in reparto con la turnazione adeguata, omissione di protocolli, etc.
Val la pena ricordare che di recente la Cassazione ha affermato che: “il medico in posizione apicale non può rispondere di ogni evento lesivo che si verifichi nel reparto affidato alla sua direzione e deve ritenersi che allorchè il medico apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e, ciò nonostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura di detto evento debba rispondere eventualmente unicamente il medico o i medici subordinati. Ravvisare infatti una responsabilità penale del medico in posizione apicale anche in questi casi significa accettare una ipotesi di responsabilità per posizione, in quanto non può pretendersi che il vertice di un reparto possa controllare costantemente tutte le attività che ivi vengono svolte, anche per la ragione, del tutto ovvia, che anch’egli svolge attività tecnico professionale” – Cass. pen., Sez. IV, n. 18334/2018.
A completezza di quanto fin qui evidenziato, val la pena soffermarsi sul chirurgo ”membro attivo dell’équipe”. Senza dubbio, la modificazione dell’attività sanitaria ha fatto sorgere nuove problematiche giuridiche, relativamente all’attribuzione delle responsabilità, per eventi avversi in caso di diversi partecipanti al trattamento medico.
In passato la responsabilità per colpa, nell’ambito del diritto penale, si è per molti anni sviluppata sul modello del singolo soggetto che agisce isolatamente e l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in tema di responsabilità medica, si è molto concentrata sui tradizionali problemi della condotta di un unico operatore. Studiosi e giudici hanno fatto fatica a confrontarsi con lo sviluppo del fenomeno della divisione tecnica del lavoro sanitario e i problemi a esso connessi.
Le diverse situazioni di cooperazione tra sanitari hanno determinato una generale incertezza nella trattazione della materia che si è riverberata nelle decisioni, spesso contraddittorie, dei giudici di merito e di legittimità, incapaci di fornire indicazioni univoche e definitive.
Ancora oggi, nelle situazioni di divisione tecnica del lavoro in ambito sanitario e assistenza e cure del paziente erogate in équipe, l’istituto della co-
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operazione colposa previsto dall’art. 113 c.p. non trova indirizzi omogenei e la materia attende una sistemazione coerente e principi guida applicabili a tutte le situazioni collaborative.
All’interno della struttura sanitaria il lavoro di équipe è ormai la regola. È un dato di fatto che, oggigiorno, a fronte di una sempre maggiore efficienza e professionalità, per fornire un servizio adeguato al progresso scientifico, le prestazioni medico-chirurgiche non sono più eseguite da un solo professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e personale sanitario, secondo il principio della divisione del lavoro.
Fino a che punto un chirurgo può essere ritenuto responsabile di un evento dannoso quando esso è dipeso dalla condotta esclusiva di un collega?
La Cassazione è tornata spesso sul “principio dell’affidamento” per determinare il confine della responsabilità del singolo professionista che presta la sua opera in un’equipe, tenuto conto del carattere personale della responsabilità penale previsto dall’art. 27 della Costituzione.
Il chirurgo è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente e ha l’obbligo di impedire eventi dannosi. Ma cosa succederebbe se l’evento dannoso venisse attribuito alla condotta esclusiva di un altro professionista, contitolare della posizione di garanzia nei confronti del paziente?
Se gli errori sono “particolari” e “settoriali” e si riferiscono, quindi, a discipline specifiche e specialistiche e quando non sono evidenti, ossia rilevabili ed emendabili con il sussidio di conoscenze scientifiche del professionista medio, può valere il “principio dell’affidamento” in base al quale ogni medico specialista può fare affidamento sul fatto che gli altri “specializzati” agiscano diligentemente e nell’osservanza delle regole di propria competenza.
Il principio dell’affidamento, però, non opera quando colui che si affida sia in colpa per aver violato norme cautelari o per aver omesso determinate doverose condotte confidando che il collega, che subentra nella cura del paziente e quindi nella posizione di garanzia, ponga rimedio, eliminando la violazione o l’omissione. Ne consegue che l’eventuale evento dannoso, derivante anche dall’omissione del successore, avrà due antecedenti causali, non potendo la seconda condotta configurarsi come fatto eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a produrre l’evento.
Ogni componente dell’équipe deve, però, poter confidare sul fatto che ciascuno agisca con prudenza, diligenza e perizia e adotti le regole cautelari che avrebbe adottato l’ “agente modello”, ossia lo specialista di pari grado e pari esperienza.
D’altro canto, sussiste l’obbligo, per ciascun chirurgo che operi in équipe, di controllare l’attività svolta dagli altri medici al fine di porre riparo a eventuali errori evidenti e rilevabili con il supporto delle conoscenze comuni del cosiddetto “professionista medio”.
Il criterio utilizzato nei processi è che il medico componente dell’équipe non risponde unicamente di errori da lui direttamente cagionati, ma anche di danni al paziente causati da altro membro, se aveva la concreta possibi-
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lità di vigilare sull’operato del collega e attivarsi per prevenirne gli errori o emendarli.
Vale la regola, dunque, che in materia di “colpa professionale di équipe”, ogni Sanitario, oltre a essere tenuto al rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia ricollegabili alle specifiche prestazioni professionali svolte, deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell’équipe, in modo da porre rimedio a eventuali errori commessi dai colleghi, purché risultino evidenti per un professionista di media esperienza, tenuto conto che non si può parcellizzare il paziente e tutte le prestazioni professionali devono convergere verso il fine comune del miglioramento della salute della persona presa in carico.
Le pronunce dei giudici di merito e di legittimità sono concordi nel ritenere che in tema di colpa professionale, nel caso di équipe chirurgica e, in generale, nelle ipotesi di cooperazione multidisciplinare anche svolta non contestualmente, ogni Sanitario non possa esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente, o contestuale, svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.
Nel lavoro medico di équipe, ciò che è rilevante per far sorgere l’obbligo di attivazione, e la eventuale conseguente responsabilità per un evento avverso, del medico specialista rispetto all’attività di altri medici di diversa specializzazione è la natura e la rilevabilità dell’errore di questi. Secondo quanto statuito dalla Giurisprudenza si deve trattare di errore “evidente” e non settoriale, “rilevabile” ed “emendabile”.
In un temperamento equitativo gli orientamenti giurisprudenziali hanno indicato che la prevedibilità dell’errore va determinata in concreto, dovendosi tenere in conto tutte le circostanze in cui il sanitario si trovi a operare.
La Suprema Corte ha ribadito più volte che la verifica da parte del giudice deve essere particolarmente attenta nella ipotesi di lavoro in équipe e di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico chirurgica, ossia in tutti i casi in cui ricorrono interventi non necessariamente omologabili da parte di sanitari diversi, ciascuno con uno specifico compito.
Il chirurgo può non essere ritenuto responsabile quando il danno al paziente è dipeso dalla condotta esclusiva di altro professionista che è contitolare di una posizione di garanzia verso il paziente, purché su detta condotta abbia fatto legittimo affidamento e non abbia avuto modo di esercitare un controllo e un’azione di prevenzione e/o riparazione.
Quando il chirurgo svolge l’attività in équipe è necessario non solo accertare la valenza con-causale della sua condotta omissiva o attiva, in merito all’evento, ma anche l’eventuale “rimproverabilità” del suo comportamento.
È interessante notare che se è pur vero che in caso di prestazioni in équipe ogni chirurgo è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui e a porre
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Fondamentali in Chirurgia
rimedio a errori evidenti ed emendabili, tuttavia non in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono distinti. In tal caso risponde dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia, in quel momento, la direzione dell’intervento o che ha commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica.
La Suprema Corte ha ribadito che il principio di affidamento confina l’obbligo di diligenza del singolo professionista entro i limiti dettati dal carattere personale della responsabilità penale (art. 27 Cost.).
Nel vaglio della responsabilità, per lo specialista si tratterà di verificare se l’errore poteva essere riconosciuto dall’ “agente modello” e l’accertamento dell’eventuale responsabilità per un omesso riconoscimento implicherà un maggior rigore (Cass., Sez. IV, 24 gennaio 2005 n. 18548; Cass., Sez. IV, 6 aprile 2005 n. 22579; Cass., Sez. IV, 2 marzo 2004 n. 24036; Cass., Sez. IV, 1 ottobre 1999 n. 14660).
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