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Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

Caratteristiche e sicurezza del blocco operatorio 259

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Fondamentali in Chirurgia

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Capitolo 15

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

Alessandro Falsetto*, Lorenzo Pandolfini*, GianMatteo Paroli*, Romana Laessig*, Chiara Genzano*, Ahmad El Naarani*, Silvia Rollo* e Marco Scatizzi** *Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze **Direttore UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze

Introduzione

La chirurgia laparoscopica, che ha avviato il suo enorme recente sviluppo dalla fine degli anni ’80 del ‘900, deve a Philippe Mouret (Foto 1) l’intuizione del suo utilizzo, oltre che in diagnostica ginecologica, dove già aveva un impiego, anche in chirurgia generale, con la realizzazione nel 1987 della prima colecistectomia.

L’incredibile sviluppo tecnologico nato dall’accoppiamento dell’ottica, che fino ad allora era guardata direttamente (Foto 2), con una telecamera che proiettava su un monitor l’immagine raccolta, ne ha reso possibile l’utilizzo in campo sterile e la diffusione in tutto il mondo. Ovviamente, fra le prime telecamere e i monitor di allora e i moderni sistemi 4K o 3D, vi sono differenze colossali, ma il sistema è rimasto lo stesso: un’ottica introdotta da un tubo valvolato, trocar, un sistema video di raccolta ed elaborazione dell’immagine, un monitor per la sua visualizzazione e tanti altri trocar, necessari per permettere l’utilizzo di strumenti che riproducono quelli usati a cielo aperto, ma resi più lunghi e più fini, maneggiandoli dall’esterno dell’addome.

Tutto ciò con lo scopo di compiere il più fedelmente possibile gli stessi gesti e gli stessi interventi eseguiti per via laparotomica.

La letteratura ha impiegato anni a dimostrare la “non inferiorità” dell’approccio laparoscopico, poi esteso al torace, ai tessuti molli, etc. che è divenuto gold standard per molte procedure addominali.

La colecistectomia eseguita da Mouret, che ho personalmente assistito nel 1991 a Lione alla Clinique de Sauvegarde, non ha mai ottenuto un’evidenza rispetto alla colecistectomia open, poiché era tale il vantaggio riscontrato dai pazienti, che essi stessi hanno richiesto in modo crescente l’intervento, “a furor di popolo”, così da aver sostituito le evidenze scientifiche.

Aver partecipato a questa entusiasmante rivoluzione mi ha dato la possibilità di vedere il progressivo affermarsi di interventi quali la splenectomia, la surrenectomia, la plastica antireflusso, come primi gold standard di trattamento laparoscopico, che hanno progressivamente soppiantato l’accesso aperto per queste procedure. La grande ascesa della Chirurgia Laparosco-

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pica è proseguita con la chirurgia colo-rettale, già da molto tempo validata dalle evidenze, la chirurgia gastrica e le più complesse chirurgie pancreatica ed epatica, tutte in fase di progressivo sviluppo e consolidamento.

In questo libro, indirizzato ai giovani chirurghi, che ha l’intento di dare un manuale agevole nella lettura e con indicazioni semplici e pratiche per passare dalla lettura ai fatti, non poteva mancare un capitolo dedicato alle “Peculiarità della Chirurgia Laparoscopica”, per instradare il lettore in quelle regole generali che governano l’approccio laparoscopico, qualsiasi intervento debba essere eseguito.

Foto 1 – Philippe Mouret

Foto 2 – Laparoscopio a “visione diretta”

Principi di base degli interventi laparoscopici

Tutti gli interventi di chirurgia laparoscopica, di base o avanzata, riconoscono gli stessi principi e le stesse fasi fondamentali. In ogni procedura laparoscopica, infatti, sono necessari: l’accesso all’addome per la creazione dello pneumoperitoneo, la scelta del tipo di trocar (tipologia e calibro), la

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loro posizione ottimale relativamente al tipo di intervento, l’esposizione dei visceri addominali, una fase di dissezione/ricostruzione e, infine, l’estrazione del pezzo operatorio dalla cavità addominale.

Ognuna di queste fasi presenta le proprie peculiarità e i propri rischi ed è stata oggetto, nel corso degli anni, di progressivi perfezionamenti. Nei prossimi paragrafi proveremo a offrire una panoramica su questi aspetti caratteristici dell’approccio laparoscopico.

Accesso all’addome

Potendo ormai consegnare alla storia l’accesso blind, quello che prevedeva la creazione dello pneumoperitoneo con l’ago di Veress (Foto 3) e la successiva introduzione “cieca” del primo trocar, perché gravato da importanti complicanze, possiamo considerare due tipologie fondamentali di accesso: la tecnica open laparoscopy secondo Hasson e la tecnica Veress e trocar ottico (1-3).

La tecnica open prevede l’accesso “aperto” alla cavità addominale tramite la dissezione dei diversi piani della parete addominale, fino ad aprire il peritoneo in visione diretta. Una volta verificata l’assenza di visceri adesi alla parete, si posizionano due punti di sospensione sui margini dell’accesso stesso, comprendenti fascia muscolare e margine peritoneale e si introduce il trocar di Hasson (Foto 4,5). Questo è un tipo di trocar che ha una parte conica lungo la cannula che consente di adattarsi all’apertura del peritoneo che, in questo tipo di tecnica, è sempre molto più ampia del calibro della cannula stessa. Il trocar di Hasson viene solidarizzato alla parete tramite i punti di sospensione posti ai margini dell’accesso. È da segnalare che, molto spesso, questo tipo di tecnica viene realizzata anche utilizzando un trocar 12 mm normale, ovvero senza la parte conica sulla cannula.

La open laparoscopy sembra avere dei vantaggi teorici riguardo alla possibilità di evitare lesioni vascolari maggiori, mentre, per quel che riguarda le lesioni del piccolo intestino, non sembra essere più sicura rispetto ad altre tipologie di accesso, anche se ne consentirebbe il riconoscimento immediato (4-6).

La tecnica Veress e trocar ottico è una tipologia di accesso che è andata affermandosi negli ultimi anni grazie allo sviluppo, da parte delle aziende, di trocar monouso sempre più performanti e soprattutto trasparenti e senza lama, bladeless. La tecnica si basa sull’introduzione dell’ago di Veress al punto di Palmer – in ipocondrio sinistro, sull’emiclaveare, tre dita circa sotto l’arcata costale – per indurre lo pneumoperitoneo e sull’inserimento di un trocar “ottico” (Foto 6a). Questo tipo di trocar ha la punta smussa e trasparente e consente di inserire, nella sua cannula, l’ottica, a 0° preferibilmente, ma anche a 30°. In questo modo è possibile realizzare un accesso guardando direttamente, per mezzo dell’ottica, la progressione del trocar attraverso i piani della parete addominale, fino all’ingresso nella cavità peritoneale (Foto

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6b). Una volta guadagnata la cavità addominale si controllano eventuali danni procurati dal Veress prima di sfilarlo e procedere all’introduzione degli altri trocar. I vantaggi di questa metodica rispetto alla open laparoscopy è quella di realizzare un accesso safe delle dimensioni giuste per il trocar, senza la necessità di incisioni e divaricazioni eccessive. Si pensi ad esempio al vantaggio nei pazienti obesi (7-12).

Foto 3 – Ago di Veress

Foto 4 – Esempio di trocar di Hasson monouso

Foto 5 – Esempio di trocar di Hasson poliuso

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Foto 6a – Veress al punto di Palmer e accesso con trocar ottico

Foto 6b – Progressione del trocar ottico (con ottica a 0°) attraverso la parete addominale fino all’ingresso in peritoneo

Pneumoperitoneo

Una volta ottenuto l’accesso all’addome open o con l’ago di Veress, come detto, viene creato lo pneumoperitoneo. Il gas prescelto per tale scopo è, come noto, l’anidride carbonica, CO2. Perché? L’anidride carbonica è un gas facilmente reperibile, relativamente economico, chimicamente e farmacologicamente inerte, altamente solubile nel plasma. È incolore, inodore, non infiammabile, anzi “soffoca” le combustioni. Non è però fisiologicamente inerte. Viene rapidamente assorbito dal peritoneo ed entra rapidamente in circolo e causa acidosi e ipercapnia. Gli effetti dell’assorbimento di CO2 a livello sistemico sono stati ampiamente studiati nel corso degli anni, in particolar modo dagli anestesisti, che hanno progressivamente ridotto al minimo le controindicazioni alla laparoscopia (4,13,14).

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Buona regola generale è impostare la pressione endoaddominale al più basso livello possibile di lavoro. Infatti l’assorbimento è proporzionale alla pressione endoaddominale. Quindi se la pressione standard di lavoro è in genere intorno ai 12 mmHg, in casi particolari possiamo abbassarla a 8/10 mmHg per agevolare il lavoro degli anestesisti.

Tipologia di trocar

Esistono diversi tipi di trocar. La prima distinzione è tra trocar poliuso e trocar monouso. I primi, generalmente in acciaio e con mandrino a punta tagliente o smussa, possono essere utilizzati per più procedure e vengono sterilizzati dopo ogni intervento (Foto 7). Il vantaggio di questo tipo di trocar è sostanzialmente di tipo economico: vengono acquistati una volta e durano molti anni. Risultano però decisamente più pesanti e meno maneggevoli; le valvole in gomma, inoltre, si usurano e devono essere sostituite relativamente spesso. Non esiste un trocar ottico poliuso.

Nell’ambito dei trocar monouso, ogni azienda produttrice prova ad arricchirli con caratteristiche diverse dalla concorrenza. Volendo però rimanere in ambito di caratteristiche generali, la grossa distinzione è quella relativa alla presenza o meno di una lama tagliente per il passaggio attraverso la parete addominale. Fino ad alcuni anni fa erano preferiti i trocar cosiddetti “taglienti” perché garantivano un passaggio attraverso la parete decisamente più rapido e agevole (Foto 8). Da alcuni anni, però, i trocar senza lama, bladeless o blunt, sono diventati in assoluto quelli più utilizzati.

Questo perché, al prezzo di una rapidità di accesso solo minimamente inferiore, garantiscono una maggiore sicurezza. L’utilizzo dei trocar bladeless ha ridotto l’incidenza di sanguinamento degli accessi e consente un ingresso sicuro in addome anche in prossimità di visceri dilatati (12).

Attualmente la tendenza più diffusa, comunque, è quella di utilizzare quasi esclusivamente trocar monouso, tranne alcune rare eccezioni in cui viene preferito un utilizzo “misto”. Un discorso a parte merita il trocar ottico. È un trocar che, oltre alla cannula, ha anche il mandrino trasparente e cavo. Consente l’introduzione dell’ottica al suo interno e la visualizzazione, quindi, del passaggio della punta del trocar “strato per strato”, attraverso la parete fino all’ingresso in cavità peritoneale (Foto 9,10).

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Foto 7 – Trocar poliuso a punta tagliente

Foto 8 – Trocar monouso a punta tagliente

Foto 9 – Trocar ottico monouso bladeless

Foto 10 – Trocar ottico: mandrino cavo con punta trasparente 267

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Ottica

Anche non volendo approfondire l’argomento strumentario, è doveroso fare un accenno all’ottica.

L’ottica è costituita da un sistema di lenti – obiettivo, lenti di trasferimento e oculare – inserite in un tubo di acciaio; a essa viene collegato il cavo della fonte di luce, ed è raccordata direttamente alla telecamera, permettendo la visualizzazione endocavitaria con un’adeguata illuminazione. Un’ulteriore evoluzione avvenuta nelle ottiche è rappresentata da un sistema di lenti cilindriche che sostituiscono le convenzionali lenti biconvesse, ottenendo una brillantezza delle immagini, una luminosità e un contrasto decisamente migliori. Esistono ottiche frontali (0°) o angolate (25°, 30°, 45°, 70°), con diametri di 2, 3, 5, 10 o 12 mm; gli steli normalmente hanno una lunghezza di 31-33 cm. La laparoscopia è nata con l’ottica a 0°; nel corso degli anni i vantaggi della 30°, però, hanno definitivamente fatto in modo che quest’ultima diventasse l’ottica più comunemente utilizzata in chirurgia addominale laparoscopica. Una buona ottica dovrà essere dotata di un’appropriata definizione, di un ampio angolo di visione (60-90°) senza distorsioni ed essere autoclavabile. Esistono, inoltre, ottiche stereoscopiche dotate di due canali ottici indipendenti che permettono, con l’adeguato equipaggiamento e supporto digitale – centralina di elaborazione 3D, schermo dedicato, visori per gli operatori -, una visione tridimensionale.

Posizionamento dei trocar

La scelta della posizione dei trocar può influenzare pesantemente l’andamento di una procedura laparoscopica, sia in termini di efficacia dei gesti chirurgici sia in termini di ergonomia per gli operatori. Esistono, a tal proposito, dei principi di carattere generale che andrebbero rispettati per ottenere un posizionamento ottimale (15).

Denominazione dei trocar: il trocar attraverso il quale viene introdotta l’ottica è denominato T1. Il trocar attraverso il quale viene introdotto lo strumento utilizzato dalla mano destra dell’operatore è denominato T2, quello della mano sinistra T3. I trocar usati dagli aiuti sono chiamati T4 e T5, ma nell’ambito della trattazione degli aspetti e dei principi generali non saranno considerati.

La posizione dell’operatore è indicata con OP. Il campo operatorio viene contrassegnato con un asterisco (*) e il monitor con una M. La prima regola generale sul posizionamento dei trocar è che ci sia il miglior allineamento possibile tra operatore (OP), ottica (T1), campo operatorio (*) e monitor (M) (o più monitor MM) (Figura 1).

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Figura 1 – Allineamento operatore – T1 – campo operatorio – monitor

Posizionamento dell’ottica (T1): bisogna considerare che il trocar dell’ottica è quello dal quale “i nostri occhi” e la luce entrano in addome. Ciò influenza l’angolazione, l’illuminazione e la direzione della visione del campo operatorio. L’angolo migliore tra ottica (T1) e campo operatorio (*), per ottenere una illuminazione e una visione ottimali, è compreso tra i 45° e i 90° (Figura 2). Angoli inferiori determinano una visione troppo tangenziale, angoli superiori significano posizionamento del T1 “oltre” il campo operatorio. Come principio generale e con le dovute eccezioni il posizionamento dell’ottica sul punto più in alto dell’addome è ideale per quasi tutti gli interventi addominali. Nonostante ciò, in alcuni interventi in cui il campo operatorio è molto ampio, l’ottica dovrà essere posizionata più cranialmente o caudalmente o lateralmente rispetto a questo punto ideale, per consentire una visione ottimale. L’ombelico, inoltre, non è sempre il “centro” dell’addome e non deve condizionare in maniera assolutistica la posizione di T1. In alcuni interventi, come quelli sovramesocolici o sul giunto gastro-esofageo, posizionare l’ottica all’ombelico fornirebbe una visione eccessivamente tangenziale.

La posizione di T1, inoltre, influenza la posizione di T2 e T3. È facile comprendere che una scelta errata sulla collocazione dell’ottica può condizionare in maniera sensibile anche l’esito stesso di un intervento laparoscopico o la scelta di un’eventuale conversione.

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Qual è allora il punto centrale dell’addome? Il punto centrale dell’addome è il punto medio tra xifoide e osso pubico, indipendentemente dalla posizione dell’ombelico (Foto 12).

Figura 2 – Angolazione ottimale tra ottica e campo operatorio

Foto 12 – Misurazione della distanza tra xifoide e sinfisi pubica

Posizionamento di T2 e T3: la posizione dei trocar operatori deve essere tale da consentire che le braccia del chirurgo restino appoggiate al tronco, le spalle rilassate, i gomiti flessi a 90°, come un pianista, e le mani non troppo distanti tra loro. L’angolo ideale tra le mani dell’operatore, T2 e T3, e il campo operatorio è compreso tra i 30° e i 90° per consentire una dissezione agevole ed efficace. Quindi, le braccia dell’operatore non devono essere troppo aperte o troppo chiuse. In interventi come quelli sul giunto gastro-esofageo o sulla colecisti, in cui il campo operatorio è sostanzialmente fisso, è molto facile trovare la posizione giusta per T2 e T3. Negli interventi come quelli sul colon, in cui il campo operatorio è piuttosto “mobile”, la posizione dei trocar

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operatori diventa un vero e proprio compromesso che può consentire una corretta posizione delle braccia dell’operatore sia quando il campo operatorio è vicino sia quando è più lontano dalla parete addominale.

Gli strumenti che entrano attraverso T2 e T3 devono arrivare sul campo operatorio con un’angolazione, rispetto al piano orizzontale, non inferiore ai 30° e non superiore ai 60°. Una posizione degli strumenti troppo tangenziale, con angolo di incidenza quindi sul campo operatorio < 30°, o troppo verticale, con angolo quindi > 60°, renderebbero decisamente meno agevoli le manovre di dissezione e, ancor di più, di ricostruzione: si pensi alla scomodità nell’effettuare una sutura intracorporea (Figura 3).

Figura 3 – Angolazione ottimale per l’ingresso degli strumenti in addome

Oltre all’angolazione dei trocar e a quella di “arrivo” degli strumenti rispetto al campo operatorio, resta da considerare il rapporto tra la posizione di T1 con T2 e T3. I due trocar operatori vengono posizionati lateralmente al trocar dell’ottica. Generalmente, per rispettare quanto detto fin ora, ovvero l’angolazione corretta rispetto al campo operatorio e l’ergonomia dell’operatore, si posizionano circa 7-8 cm a destra e sinistra di T1 (Foto 13).

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Foto 13 – Triangolazione corretta T1 – T2 – T3

Questo tipo di configurazione riproduce il normale rapporto che c’è tra gli occhi e le mani dell’operatore. I trocar T2 e T3 possono essere situati sulla stessa linea dell’ottica, in posizione più avanzata o più arretrata rispetto a essa. La configurazione standard prevede che i trocar operatori siano in posizione arretrata rispetto all’ottica. Questa non è una regola assoluta: in alcuni tipi di interventi, infatti, il chirurgo preferisce avere una visione più “panoramica”, ma avere gli strumenti più vicini al campo operatorio. In quel caso T1 sarà più arretrato rispetto a T2 e T3 (Figura 4-6).

Figura 4 – T2 e T3 arretrati rispetto a T1 – ad esempio emicolectomia sinistra

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

Figura 5 – T1 arretrato rispetto a T2 e T3 – ad esempio emicolectomia destra

Foto 14 – Posizione dei trocar per l’ emicolectomia destra: “occhi dietro e mani avanti”

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Figura 6 – T1, T2, T3, sulla stessa linea – ad esempio splenectomia e surrenectomia

Esposizione del campo operatorio

Lo spazio visivo all’interno della cavità addominale viene creato dallo pneumoperitoneo che esercita una pressione sulla parete e sui visceri, allontanandoli.

Lo spostamento del colon trasverso, dell’intestino tenue e del grande omento che li copre, viene assicurato dalla posizione del malato e del letto operatorio (Trendelenburg, anti- Trendelenburg, tilt laterale) e dalla pressione stessa esercitata dallo pneumoperitoneo (Foto 15).

Foto 15 – Trendelenburg “spinto” e tilt laterale destra (emicolectomia sinistra)

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base 275

Per non ridurre il volume della cavità ottenuta, è opportuno evitare una flessione troppo marcata delle gambe.

Il più delle volte questi accorgimenti, seppur necessari, non sono sufficienti a ottenere una esposizione ottimale. La divaricazione degli organi vicini, quindi, viene eseguita dagli aiuti attraverso gli strumenti introdotti nei trocar T4 ed eventualmente T5. Gli strumenti che vengono introdotti attraverso questi trocar dovrebbero essere sotto controllo della vista, non ostacolare la visione e gli atti operatori. Una volta posizionati dovrebbero essere spostati il meno possibile durante le varie fasi dell’intervento e offrire un campo operatorio stabile e ben esposto. Il chirurgo opera con entrambe le mani, generalmente senza partecipare all’esposizione.

L’esposizione, in alcuni casi, può essere perfezionata mediante sospensione alla parete addominale di alcuni organi per mezzo di punti trans-parietali. L’esposizione dell’asse biliare viene migliorata dall’ancoraggio del legamento sospensore del fegato alla parete con un punto trasfisso. L’esposizione del piccolo bacino nella donna giovane può essere realizzata grazie alla sospensione dell’utero alla parete con un punto passato a livello del punto medio tra ombelico e pube, in modo da aprire lo “sfondato del Douglas”. L’esposizione di particolari organi richiede talvolta la sezione di legamenti di ancoraggio, prima di qualsiasi mobilizzazione, come ad esempio l’esposizione della loggia surrenalica destra e/o sinistra, dell’esofago addominale o dell’ilo splenico.

Bisogna sempre ricordare però che le pinze impiegate per migliorare l’esposizione sono potenzialmente traumatiche e spesso sono fuori dal campo visivo. Ecco perché è preferibile, una volta esposta al meglio la sede dell’intervento, muovere solo i trocar operatori, T2 e T3.

Dissezione

Tutti i principi e i relativi passaggi illustrati fino a ora hanno un unico scopo: rendere possibili e, perché no, agevoli le manovre di dissezione e ricostruzione.

La dissezione è una fase comune a tutti gli interventi chirurgici, anche laparoscopici, mentre la ricostruzione non è sempre necessaria. Esempi di interventi laparoscopici che non necessitano di una fase ricostruttiva sono: la colecistectomia, l’appendicectomia, la splenectomia, la surrenectomia, la nefrectomia, la spleno-pancreasectomia distale e le resezioni epatiche.

La dissezione viene effettuata dal chirurgo con entrambe le mani. Con la sinistra si effettua la contro-trazione mentre con la mano destra si esegue la dissezione vera e propria. Questa si può ottenere per via smussa utilizzando ad esempio un dissettore, per via tagliente con l’uso delle forbici oppure con l’utilizzo di energia.

Le energie utilizzate sono: la corrente mono e bipolare, gli ultrasuoni e la radiofrequenza.

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Corrente monopolare: è quella trasmessa attraverso il bisturi elettrico e consiste nel passaggio di elettricità da un elettrodo “attivo”, generalmente l’uncino o il dissettore, con il quale si esegue la dissezione a uno neutro applicato sul paziente tramite una placca adesiva. L’elettricità attraversa il corpo del paziente percorrendo il “tragitto” a minore resistenza tra elettrodo attivo e neutro. L’effetto termico quindi è dovuto alla resistenza al passaggio dell’elettricità indotta dal tessuto, con differenze relative alla sua composizione. Per non raggiungere temperature alte e la carbonizzazione del tessuto è consigliabile settare la potenza dell’elettrobisturi a wattaggi bassi. In genere, sia per il taglio che per il coagulo, sono sufficienti 35/50 Watt per ottenere la coagulazione senza avere gli effetti indesiderati. Se la coagulazione è a ridosso di una clip metallica, si può creare un arco voltaico con le clip stesse che trasmette potenza al tessuto su cui è fissata la clip, potendo in seguito creare un danno e quindi, per esempio, un leak biliare se la clip è sul dotto cistico.

Corrente bipolare: a differenza della corrente monopolare, la bipolare non attraversa il corpo del paziente. L’elettricità passa tra due elettrodi che sono situati sulla punta dello strumento, che può essere una pinza, le forbici o un dissettore. Per questo motivo la corrente bipolare è più sicura e garantisce soprattutto una coagulazione migliore. Questo permette l’uso della corrente bipolare più vicino alla parete dei visceri o a strutture delicate, come la via biliare principale. Anche per la corrente bipolare il wattaggio deve essere il più basso possibile.

Sistema a ultrasuoni: la produzione degli ultrasuoni negli strumenti da dissezione si ottiene sfruttando l’effetto piezoelettrico inverso, che consiste nella proprietà di alcuni cristalli minerali di dilatarsi e comprimersi, quindi di emettere vibrazioni, quando sono sottoposti all’azione di un campo elettrico di corrente alternata.

Il bisturi armonico, versione più recente di bisturi a ultrasuoni, è costituito da un corpo macchina e da un manipolo: quest’ultimo ha la forma di un dissettore a punta leggermente curva.

La punta è costituita da due lame, una “neutra” non attiva, l’altra in titanio rivestita in teflon, capace di oscillare con un breve movimento longitudinale non visibile all’occhio umano, circa 80 µm, a elevatissima frequenza, circa 55.000 volte al secondo. Questa oscillazione provoca sul tessuto con il quale viene in contatto due effetti: l’esplosione delle cellule per la vaporizzazione delle molecole di acqua in esse contenute, effetto di cavitazione, e un effetto meccanico, determinato dall’oscillazione della lama che provoca la distruzione anche dei tessuti fibrosi più resistenti. Oltre a sezionare i tessuti, riesce contemporaneamente a “sigillare” i vasi sanguigni, provocando la denaturazione delle molecole di collagene, formando un coagulo a 50-100 °C, contro i 100-400 del bisturi elettrico.

Il bisturi a ultrasuoni permette di ottenere un effetto di coagulazione/ dissezione in quasi totale assenza di fumo: l’effetto di coagulazione/dissezione può essere incrementato aumentando la frequenza di oscillazione della

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lama. Si tratta di uno strumento estremamente utile in corso di interventi di chirurgia laparoscopica maggiore, soprattutto in quei casi in cui sia necessario procedere a dissezione di strutture fibroadipose – omento, briglie aderenziali, mesi ileali e colici – contenenti vasi di un diametro fino a 7 mm.

L’estrema efficienza di taglio e di coagulazione permette una dissezione tissutale e vascolare molto precisa, consentendo di ridurre le perdite ematiche, la durata degli interventi e migliorando, nel complesso, l’efficacia globale del gesto chirurgico.

L’ultima generazione di questo strumento ha una punta più lunga di 3 mm rispetto alla generazione precedente e leggermente più curva, molto più simile a quella di un dissettore.

L’attivazione dell’energia avviene con un solo pulsante per la dissezione e il coagulo perché il generatore “legge” le caratteristiche del tessuto nelle branche dello strumento ed eroga la corretta quantità di energia. Quest’ultima caratteristica consente di ottimizzare l’uso dell’energia aumentando la velocità di dissezione e coagulazione e di limitare notevolmente la dispersione di calore. Nonostante queste recenti innovazioni, la punta dello strumento raggiunge temperature elevate, che possono essere causa di micro o macrolesioni tissutali. È opportuno, quindi, impiegare il bisturi armonico mantenendo sempre sotto visione la punta dello strumento stesso, per evitare il contatto con le strutture da preservare.

Figura 7 – Dissettore a ultrasuoni di ultima generazione

Sistema a radiofrequenza: questa tipologia di strumento applica una pressione costante sul tessuto contenuto all’interno delle morse ed eroga energia bipolare ad altissima frequenza, fino a raggiungere la radiofrequenza (RF) per un periodo di tempo controllato in funzione dello spessore del tessuto, attraverso la lettura continua dell’impedenza del tessuto stesso operata dal generatore.

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Fondamentali in Chirurgia

La combinazione tra questi tre fattori, pressione costante, energia e lettura continua dell’impedenza tissutale, permette la fusione completa e permanente del lume del vaso. Una lama fredda all’interno dello strumento viene attivata dal chirurgo per dividere il tessuto.

Le versioni più recenti di questo strumento, inoltre, sono state dotate di un rivestimento delle morse con sistema di anti-aderenza nano tecnologico HexaMethylDiSilOxane (HMDSO).

L’HMDSO è un polimero nanometrico idrofobico applicato sulle morse, in grado di ridurre l’effetto sticking, la formazione dell’escara sulle morse, migliorando l’efficienza procedurale senza riduzione delle capacità di presa.

Lo strumento a radiofrequenza risulta estremamente efficace per la coagulazione e sintesi vasale e può essere utilizzato su arterie e vene isolate, di diametro fino a 7 mm compresi, fasce tissutali e vasi linfatici.

L’azione della RF produce una notevole quantità di calore in prossimità della punta dello strumento, quindi, come per il bisturi a ultrasuoni, bisogna avere l’accortezza di tenere sempre la punta dello strumento in vista ed evitarne il contatto con le strutture da preservare.

Figura 8 – Dissettore a radiofrequenza di ultima generazione

Sistema ibrido ultrasuoni/radiofrequenza: lo strumento a tecnologia ibrida, unico nel suo genere, permette di applicare contemporaneamente entrambe le energie a un tessuto: energia ultrasonica per dissezione superiore e capacità di taglio rapido del tessuto, energia bipolare avanzata, a RF, per emostasi veloce e sicura per vasi fino a 7 mm di diametro.

La possibilità di un uso simultaneo dei due tipi di energia combinati garantisce sicurezza nella coagulazione e transezione rapida dei tessuti e minore dispersione di sol nell’ambiente della CO2, facilitando la visualizzazione del campo operatorio, diminuendo la necessità di pulizia dell’ottica.

Valgono, ancor più per questo tipo di strumento, le stesse raccomandazioni sull’utilizzo fatte per gli altri: punta dello strumento in vista e sufficientemente distante dalle strutture da proteggere.

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base 279

Figura 9 – Dissettore a ultrasuoni e radiofrequenza

L’emostasi: non esiste dissezione senza emostasi. La necessità di evitare o arrestare un sanguinamento è presente in ogni tipo di intervento chirurgico. La laparoscopia non fa eccezione. Abbiamo parlato delle energie quali strumento di emostasi oltre che di dissezione ma, nonostante l’estrema efficacia degli strumenti descritti, la maggioranza dei chirurghi preferisce l’utilizzo delle clip emostatiche.

Le clip possono essere utilizzate in via preventiva, prima cioè di procedere alla sezione di un vaso, oppure per arrestare un sanguinamento in atto. Per molti anni sono esistite solo clip metalliche, in titanio con varie tipologie di applicatori: monouso, pluriuso, con sistema meccanico o a gas. Ancora oggi le clip in titanio sono quelle più utilizzate per la chirurgia laparoscopica di base; ciononostante diversi chirurghi le preferiscono anche per gli interventi di laparoscopia avanzata.

Nell’ottica di sviluppare prodotti che offrissero maggiori garanzie di tenuta e che fossero costituiti da materiale inerte e non conduttivo, sono nate le clip in materiale polimerico con chiusura “a scatto” e le clip con meccanismo di chiusura “a compressione” in materiale completamente riassorbibile (Figura 10). Queste ultime, nella nostra esperienza, sono risultate efficaci in ogni ambito di applicazione avendo il vantaggio, inoltre, di non lasciare alcun corpo estraneo in addome, anche se sono più ingombranti di quelle in titanio.

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Fondamentali in Chirurgia

Figura 10 – A) clip riassorbibili con chiusura “a compressione”; B) clip in materiale polimerico con chiusura “a scatto”

La ricostruzione

La fase di ricostruzione è rappresentata, nella maggior parte dei casi, dal confezionamento di una o più anastomosi. In chirurgia laparoscopica le anastomosi possono essere manuali o meccaniche, intracorporee o extracorporee.

Nel corso degli anni le anastomosi extracorporee sono state progressivamente abbandonate dalla maggioranza dei chirurghi, a vantaggio di quelle intracorporee, che hanno dimostrato outcome migliori. Questo risulta particolarmente evidente in chirurgia del colon destro dove l’anastomosi intracorporea meccanica, anche se apparentemente allunga i tempi operatori, consente di ottenere minori tassi di morbilità a breve termine, canalizzazione più rapida, minori tassi di conversione e di leak anastomotico, laparoceli e una degenza ospedaliera più breve (16-23).

I principi di base per il confezionamento di una buona anastomosi sono validi anche per la chirurgia laparoscopica. È necessario che i monconi siano ben vascolarizzati e che non siano in trazione una volta anastomizzati. Le suture, meccaniche e manuali, devono ottenere la perfetta chiusura del lume del viscere anastomizzato.

Premesso che la sutura e l’annodamento intracorporeo siano skill necessarie nel bagaglio tecnico del chirurgo laparoscopista, bisogna precisare che

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base 281

la maggioranza delle anastomosi che vengono effettuate ad addome chiuso sono anastomosi meccaniche. Per realizzarle si usano le suturatrici, stapler. La sutura manuale è utilizzata principalmente per la chiusura delle brecce di introduzione della suturatrice.

Nel corso degli anni le Aziende produttrici di suturatrici meccaniche si sono “sfidate” nella realizzazione della suturatrice perfetta e anche mentre stiamo scrivendo questo capitolo, lo sviluppo di questi strumenti continua. Non potendo approfondire tutti i prodotti presenti sul mercato, descriveremo le caratteristiche delle suturatrici più diffuse e utilizzate nelle sale operatorie italiane.

Suturatrici meccaniche: le suturatrici utilizzate in chirurgia laparoscopica, esattamente come in chirurgia open, sono suturatrici lineari e suturatrici circolari. In questo capitolo, dedicato ai principi di base della laparoscopia, non descriveremo nel dettaglio il funzionamento delle suturatrici, in quanto il loro utilizzo è lo stesso che in chirurgia open. Ci limiteremo a illustrare le peculiarità delle più recenti stapler laparoscopiche.

Le suturatrici lineari laparoscopiche sono composte da un manico e da uno stelo, con estremità articolabile in cui è inserita la cartuccia. Le cartucce possono avere lunghezza di: 30, 45, 60 mm. Anche gli steli possono essere di dimensioni che variano dai 280 ai 440 mm per adattarsi alle necessità della chirurgia bariatrica. Le cartucce applicano tre file di punti sfalsati su ogni lato dell’anastomosi prima che venga azionata la lama che taglia il tessuto. I punti, in titanio, possono avere altezza variabile tra 2 e 5 mm, in modo da comprendere tessuti con spessore da 0.75 fino a 3 mm. Le cartucce con le diverse tipologie di punti sono contraddistinte da differenti colorazioni.

Nel corso degli anni le maggiori Aziende produttrici hanno sviluppato strumenti seguendo filosofie differenti. Questo ha consentito di avere sul mercato suturatrici che, anche condividendo gli aspetti e i principi di base, fossero sostanzialmente diversi. Un’Azienda ha posto l’accento sulla “presa” e tenuta dei tessuti tra le ganasce della stapler, in modo da favorirne la compressione e impedirne lo scivolamento nel momento di applicazione dei punti e del successivo scorrimento della lama. Ciò consente una chiusura dei punti più precisa su un tessuto adeguatamente compresso e, in molti casi, l’utilizzo di una cartuccia in meno. A questo si aggiunge la possibilità di un azionamento elettrico dello strumento che riduce i movimenti involontari della punta e risulta, inoltre, notevolmente più ergonomico (Figura 11).

Un’altra Ditta ha concentrato i suoi sforzi sullo sviluppare una suturatrice che permettesse l’applicazione delle due triple file sfalsate di punti, come la precedente, ma ad altezza differenziata in modo da ottenere una compressione graduata del tessuto dall’interno all’esterno della sutura. La stessa Azienda ha sviluppato una piattaforma elettronica che permette la gestione completamente elettrica dei movimenti della suturatrice e, inoltre, l’adattamento automatico della compressione delle ganasce in funzione dello spessore e della consistenza del tessuto (Figura 12).

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Fondamentali in Chirurgia

Le suturatrici circolari delle due maggiori Aziende condividono gli stessi principi e la stessa filosofia di sviluppo delle rispettive stapler lineari, ma non sono differenti rispetto a quelle usate in open, quindi non verranno trattate in questo capitolo.

Bisogna aggiungere che esistono sul mercato numerosi altri prodotti, sviluppati da altre Aziende, che hanno raggiunto standard qualitativi e tecnici estremamente validi e che animano una viva concorrenza di cui noi chirurghi possiamo solo beneficiare.

Figura 11 – Echelon Flex™ Powered Plus GST (Ethicon)

Figura 12 – Signia™ Stapling Platform (Medtronic)

Estrazione del pezzo operatorio

Al termine di un intervento che preveda l’asportazione di un organo o di parte di esso, è necessario identificare la modalità e la sede di realizzazione della cosiddetta “minilaparotomia di servizio”, ovvero un’apertura minima

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della cavità addominale che consenta di estrarre il pezzo in sicurezza e senza provocarne la rottura o la frammentazione.

La sede di realizzazione della minilaparotomia viene scelta in base alla possibilità di estrazione, al rischio di laparoceli e anche alle ripercussioni estetiche. È molto più condizionata da questi fattori che non dall’organo di provenienza del pezzo di resezione.

Come principio generale si tende a evitare le minilaparotomie sulla linea mediana perché gravate da un alto tasso di laparoceli (24) e a preferire incisioni orizzontali per coinvolgere il minor numero di metameri cutanei e ridurre, così, anche il dolore postoperatorio (Figura 13).

Figura 13 – Metameri cutanei e incisioni addominali

Le uniche eccezioni a questa regola generale sono gli interventi di colecistectomia e di appendicectomia, in cui l’estrazione avviene tramite l’accesso del trocar ombelicale.

Nella maggior parte degli interventi la minilaparotomia di servizio è realizzata in sede sovrapubica, con un’incisione di Pfannenstiel. Questo tipo di accesso è gravato da una minore incidenza di laparoceli, causa minore dolore postoperatorio e risulta migliore anche dal punto di vista estetico (24). Alcuni chirurghi, invece, preferiscono ampliare uno degli accessi dei trocar, evitando di realizzare una incisione “in più”.

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Fondamentali in Chirurgia

Un altro principio generale è la protezione della parete addominale. Durante l’estrazione del pezzo operatorio, infatti, è necessario evitare il contatto tra questo e lo spessore della parete.

Questo accorgimento permette di ridurre le infezioni e, soprattutto, negli interventi oncologici, evita il rischio di recidive di parete (25-27). Esistono vari presidi che consentono la protezione della parete, durante le manovre di estrazione del pezzo (Foto 16). Il presidio più utilizzato è sicuramente l’endobag (Figura 14) ovvero il sacchetto trasparente, ne esistono di diverse dimensioni e modelli, in cui inserire il pezzo operatorio prima di estrarlo dall’addome. È utile nel caso di asportazioni complete di organi o pezzi operatori di piccole o medie dimensioni. Nella nostra esperienza, che comprende una notevole quantità di interventi di chirurgia laparoscopica avanzata, preminentemente colo-rettale, abbiamo molto apprezzato il protettore di parete illustrato in Figura 15. Consente di ottenere una protezione efficace, una divaricazione ottimale e, utilizzando lo specifico “tappo”, il proseguimento dell’intervento senza dover procedere immediatamente alla chiusura della minilaparotomia (Foto 17), introdotto attraverso il foro di estrazione.

Figura 14 – Endobag

Foto 16 – 3M™ Steri Drape™ Wound Edge Protector

Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

Figura 15 – Protettore/retrattore di parete a doppio anello flessibile (Alexis®️ – Applied Medical)

Foto 17 – Utilizzo del protettore a doppio anello flessibile e del relativo “tappo” 285

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