Coscienza Storica n.6

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: Beato Angelico, Polittico, 1447 ca., Chiesa di San Domenico - Cappella Guidalotti, Perugia.

Coscienza Storica

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Coscienza Storica Nuova Serie 6

Il declino del medioevo I. Dall’orizzonte di senso religioso all’autonomia della coscienza politica pag. 5

II. La dissoluzione del mondo cristiano

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pag. 308


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IL DECLINO DEL MEDIOEVO di Costantino Marco

I

Dall‟orizzonte di senso religioso all‟autonomia della coscienza politica

Chi vuole escludere del tutto il trascendente, di conseguenza non può mai comprendere la storia. (C. FRANTZ)

Una vicenda storica di proporzioni mondiali sembra dover essere lo scioglimento inevitabile del dramma interiore che si svolge nella civiltà occidentale dopo l’incontro del messaggio evangelico e del mondo grecoromano, e il senso tragico del quale è cominciato ad apparire nel XVI secolo. (J. MARITAIN)

Non c’è autorità senza un éthos della convinzione. (C. SCHMITT)

Solo quando il principio universale del Potere sarà rovesciato l’unità di teologia e teoria politica sarà superata. (J. TAUBES)

1. La civiltà medievale per Comte era caratterizzata da due caratteri essenziali: la separazione dei due poteri e la natura difensiva dell‟attività militare, i quali erano gli elementi caratteristici della sua “costituzione cattolico-feudale”. La separazione dei due poteri anticipa il “dogma fondamentale” della socialità positiva, la subordinazione della politica alla morale. Da essa derivano anche altre caratteristiche anch‟esse tipicamente morali e anch‟esse anticipatrici: il sentimento della dignità personale combinato con quello della fraternità universale, il senso di rispetto dell‟uomo per il suo merito intellettuale e morale, indipendentemente dal suo ufficio sociale, le abitudini popolari di libera discussione. Nel costume feudale cavalleresco Comte esalta i sentimenti

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di lealtà, di devozione, di altruismo, sentimenti che si manifestano anche nel‟attività militare, anch‟essa morale perché difensiva. Lo stesso Dio medievale è l‟immagine anticipata del‟Umanità cristiana, mentre la repubblica occidentale di Carlo Magno anticipa l‟Europa di Comte 1.

Nell‟alto Medioevo, afferma Comte, la metafisica era subordinata alla teologia, per cui il carattere “puramente negativo” della filosofia veniva “contenuto, in modo da suscitare soltanto utili trasformazioni, che restano compatibili con una destinazione organica”. Quell‟epoca realizzò così “un equilibrio tra teologia e metafisica” di tipo “dinamico”, cioè “implicante la graduale corrosione del mito teologico. Quando invece la metafisica si fa aggressiva e vuole dominare la teologia, l‟equilibrio si rompe e si afferma una ideologia soltanto critica e negativa”2. L‟autorità religiosa funge da collante della società organica medievale, la quale, secondo la ricostruzione di Comte, costituirebbe il modello anticipatore, sia pure nello stadio metafisico, della moderna società positiva, anch‟essa organica, anche se fondata sul modello della scienza positivista. Col sec. XIV comincia la civiltà industriale moderna, che segue la fine della civiltà medievale. L‟evo “medio” è una transizione tra il mondo antico schiavistico-militare e il moderno mondo industriale, caratterizzato dalla mentalità tecnico-scientifica. Ma anche da una metafisica negativa e solamente critica, incapace di positive costruzioni razionali, pregna com‟è di puro spirito analitico. “Metafisica” è per Comte l‟idea di una decadenza antropologica da uno stato di natura perfetto e seguito della civilizzazione; “metafisica” è l‟idea di una libertà “da” un qualche potere; la stessa distinzione di governo e società civile, di sovranità popolare, di diritto individuale, di scienza del diritto e di economia politica fondata su un supposto ordine naturale spontaneo, indifferente a ogni istituto regolatore di processi economici. “Metafisica” è la nozione di egalitarismo e di comunismo, soppressore della individualità e privo di senso della continuità umana, che “non valuta l‟indispensabilità della classe degli intellettuali, non l‟efficacia dei mezzi morali ed educativi, e si limita a proporre soluzioni soltanto politiche, cioè sostanzialmente sovversive e 1 2

F.Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Roma-Bari, 1979, pag. 185. Ivi, pag. 184.

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violente”3. Sia l‟ordine liberale che quelli democratico e comunista sono espressioni, per Comte, di una mentalità metafisica unilaterale, “ossia rappresentano istanze soltanto negative”4. L‟ordine nuovo auspicato da Comte inizia dove termina la crisi iniziata nel sec. XIV e si collega al suo finale episodio più rappresentativo: la rivoluzione francese, che ha una funzione puramente “distruttiva” dell‟ordine tradizionale, mentre “fallisce nella ricostruzione”. E fallisce per due essenziali ragioni: una politica, la necessità di lottare contro l‟antico regime e la coalizione retrograda; una dottrinale, il carattere “metafisico” della sua ideologia. Tocca al positivismo riprendere e completare quanto la rivoluzione non è stata in grado di portare a compimento. Il nuovo ordine sarà dunque “senza dio né re”, e si fonderà sul “sentimento sociale” […], sulla “ragione positiva” […] e sulla “attività reale”,

cioè sulla produzione socializzata5. La “repubblica occidentale carolingia” sarà il nuovo assetto di una Europa positivizzata, faro educativo e civilizzatore degli altri popoli ancora arretrati allo stadio teologico e feticistico. Sia l‟educazione positivistica che l‟esercizio di un potere razionale, sono “il nuovo sacerdozio dell‟umanità”6. Ma come si perviene dallo spirito medievale, così pregno di valori religiosi, allo spirito positivo moderno, tanto caricato di fede inframondana? “Per comprendere lo “spirito medievale nella sua unità e nel suo insieme”, afferma Huizinga, bisogna studiare le forme fondamentali del suo pensiero non solo come appaiono nelle concezioni della fede nelle speculazioni filosofiche, a anche come si manifestano nella saggezza della vita quotidiana e nella pratica comune [dove] tali forme si rivelano in tutta la loro ingenua spontaneità, non gravate dal neoplatonismo e da tutte le altre correnti 7.

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Ivi, pag. 186. Ibidem. 5 Ivi, pag. 187. 6 Ibidem. 7 J. Huizinga, L’autunno del Medioevo (1924), tr. it., Firenze, 1966, pag. 319. 4

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Quasi a sottolineare come i modelli sociali a cui si conformano i comportamenti soggettivi siano un portato autonomo della tradizione delle determinate culture storiche, più che il riflesso speculare di sistemi ideali pure invalsi nella sfera spirituale e dominanti intellettualmente nei relativi contesti. Gli fa eco, una decina di anni dopo, Chabod, che, a proposito dello “spirito del Rinascimento”, ricordando che la periodizzazione fu introdotta primamente dal Vasari per indicarne la natura non solo artistica e letteraria ma anzitutto religiosa, sostiene che Il problema del Rinascimento è anzitutto di una realtà nel mondo dello spirito, assai più che non nella vita pratica; quello per cui il Rinascimento è tale, non è l‟azione singola e spicciola di questo o quel personaggio […], bensì il modo con cui azioni e propositi degli uomini vengono sistemati concettualmente e fatti rivivere nel mondo dello spirito. La validità del concetto stesso di Rinascimento (così come di quelli di Illuminismo e Romanticismo) può essere affermata e ammessa solo quando si intenda designare con esso un determinato movimento d‟idee, che ha senza dubbio le sue interferenze con la vita pratica, da cui riceve spunti e suggerimenti e su cui influisce, con alterna vicenda, ma che è anzitutto una realtà dello spirito.

Ma qual è l‟Eigenschaft del Rinascimento nella “storia della civiltà europea”? Il “cosiddetto realismo”, risponde Chabod, il quale, per il suo carattere “concettuale” va distinto dal “verismo naturalistico” umanistico, il cui carattere “descrittivo” consta di “frammenti” ma è privo della visione che domina d‟insieme del primo. Infatti, il moderno “realismo concettuale” può anche trascurare la minutezza di un dettaglio ed essere quindi nei particolari meno verista, meno “fotografico” [di quello naturalistico], proprio perché la vivezza impressionistica di un dettaglio ha assai minor importanza e rilievo in un quadro tutto dominato dal senso della realtà umana. Non dissimile ragionamento si può fare per il “realismo” nella concezione politica di un Machiavelli: assai diverso, nella sua stessa natura, da quello che poteva essere il realismo nella concezione politica di un san Tommaso. Lo Stato, come realtà di fatto di cui è inutile, anzi assurdo soffermarsi a ricercar la validità teorica, lo Stato che è quello che è, senza connessione con presupposti metafisici, con l‟idea agostiniana del peccato, per esempio; la politica, come sfera di attività autonoma, al di là del bene e del male morale, che, in sé e per

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sé, non ha fini al di fuori di quelli che le sono imposti dalla sua stessa essenza, appaiono solo col Rinascimento. Nel quale, pertanto, realismo e individualismo hanno un significato sostanzialmente diverso da quel che potevano avere per l‟innanzi. Tant‟è che il cosiddetto realismo del Rinascimento conduce, come nell‟arte, così nella teoria politica e nella scienza, all‟affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse o fini metafisici, e dell‟opera d‟arte e della politica e della scienza, con una linea di sviluppo continua che da Giotto conduce a Machiavelli e sbocca in Galilei: conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana può essere considerata a sé, fuor dal nesso con l‟insieme. In siffatto svellere le singole forme di attività dall‟unità di prima - ottenuta con il riguardar al termine soprannaturale – per dar loro un‟esistenza autonoma e puramente umana, è riposto il valore essenziale del Rinascimento nella storia della civiltà europea: non diversamente, sul terreno della politica pratica, il fatto caratteristico dei secoli XIV e XV era, nella storia europea, il frantumarsi delle vecchie idee e forze universalistiche, impero e papato, e il formarsi degli Stati nazionali. Superiorem non recognoscens: l‟espressione che Bartolo da Sassoferrato applicava agli organismi statali, potrebbe valere come motto anche per le più originali e fruttuose correnti di pensiero dell‟età 8.

Da un lato, dunque, i “fatti” storici, che sono il contenuto del mondodella-vita, e dall‟altra la loro “comprensione” logica, derivata dalla oggettivazione razionale dei fenomeni ritenuti “spontanei” della società del tempo. Chabod pare non sospettare che non solo i naturalisti medievali ma anche i realisti moderni si muovano all‟interno di Weltanschauungen, contribuendo, “da prospettive diverse, a travisare le idee in meri fatti e a trasformare l‟intera realtà e l‟intera vita in un miscuglio incomprensibile di “fatti” privi di idee, essendo la superstizione del fatto comune a tutti loro” 9. Circa il primo aspetto, è evidente come la definizione dei “fatti” storici non possa prescindere dalla loro significatività contestuale, e cioè sociale, per cui l‟esistenza di uno “spirito del tempo” o “visione del mondo” va anche esso considerato come prodotto e insieme produttore di quei “fatti”, ossia come una realtà fattuale a sé, avente una sua genesi e una sua

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F. Chabod, Il Rinascimento nelle recenti interpretazioni (1933), in Id., Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967, pagg. 8-15. 9 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 97.

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evoluzione. Ma la realtà sociale dell‟esperienza in senso empirico, quella “ingenua” dei “fatti” di cui si serve ed è oggetto dell‟analisi scientifica, è secondaria rispetto all‟originaria intuizione noetica. “Secondaria” vuol dire derivata, e perciò disponibile alla fruizione esistenziale della vita pratica. Il fatto empirico è un “dato” di realtà sociale, non un “essere” valido, cioè una essenza di valore. L‟identità del “dato” con il suo presunto “essere”, ossia la risoluzione dell‟essere nell‟ente, è propria dell‟analisi scientifica, il cui metodo stabilisce la compatibilità dei fenomeni empirici (i “fatti”) con le classi concettuali esplicative del loro senso razionale secondo il metodo stesso, per il quale il “dato” reale e quello ideale (l‟ipotesi astratta) debbano coincidere, cioè lo stesso, o essere compatibili nella stessa definizione, cioè analoghi. A stabilire il livello d‟essenza del giudizio scientificostoriografico, cioè la sua validità razionale, non è il grado di generalizzazione della sua definizione concettuale - o categoriale – ma la sua realtà ontologica, ossia il suo essere sociale ed empirico, ovvero metafisico ed universale, meta-empirico e a priori. L‟oggetto delle scienze naturalistiche, compresa la storiografia, è il fenomenale, cioè la realtà empirica dei fenomeni secondari, per cui l‟analisi della “realtà” storica che parta da una intuizione empirica del suo oggetto può procedere solo mantenendo la validità d‟essere di quella intuizione per tutto il processo analitico. Infatti, come ha spiegato Husserl, Dalla vaga soggettività propria delle cose nella loro ingenua manifestazione sensibile, la scienza naturale [entro la quale va considerata la storiografia] ricava le cose oggettive dotate di proprietà oggettive esatte. […] Tuttavia, il modo in cui le datità dell‟esperienza giungono ad una determinazione oggettiva, il senso che di volta in volta hanno “oggettività” e “determinazione dell‟oggettività” e la funzione che può poi assumere il metodo sperimentale, tutto ciò dipende dal senso proprio delle datità e, più precisamente, da quel senso che conferisce loro, in base alla propria essenza, la relativa coscienza d‟esperienza (considerata come un‟intenzione volta precisamente a quell‟essente e a nessun altro). Seguire il modello delle scienze naturali significa quasi inevitabilmente reificare la coscienza […] 10.

Chabod, nel suo ragionamento, pare a tratti più vicino a Dilthey che a

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E. Husserl, Op. cit., pagg. 43-44.

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Croce, ma crociana è l‟origine del secondo elemento problematico del discorso, ossia la credenza, che Husserl definirebbe “superstiziosa”, che nella storia ogni sua manifestazione trovi nella sua descrizione anche la sua spiegazione. Infatti, l‟ “insieme” in cui le forme spirituali trovavano ragion d‟essere nel Medioevo non poteva essere infranto se non da una idea diversa del mondo, anch‟essa a sua volta unitaria come ogni idea, anche se opposta a quella di cui costituiva l‟antitesi, e perciò ugualmente astratta e razionalistica. Sostituire all‟idea di Dio (il “termine soprannaturale”) l‟idea di Mondo o di Storia o di Stato nazionale, non vuol dire mutare la natura ontologica dell‟idea, cioè il suo carattere empirico i ideale in senso platonico, ma solo la sua definizione storica. E dunque, che altro era la “esistenza autonoma e puramente umana” delle “singole forme d‟attività” se non il loro concepimento come valori assoluti, cioè enti metafisici o Idee, non diversi da quell‟Ente supremo che era l‟idea di Dio? E che altro poteva significare l‟espressione, o meglio il principio, enunciato da Bartolo se non la natura compiuta delle cose finite in analogia perfetta con la natura astratta delle idee? Che poi questo lavorio di disintegrazione e individualizzazione non riuscisse a conchiudersi in una veramente organica e compiuta ricostruzione unitaria del mondo [ingenerando] grossi e talora angosciosi problemi nuovi, onde, per esempio, il principio della “politica come politica”, dal Machiavelli bandito, faceva sorgere l‟assillante preoccupazione di riconciliar nuovamente ragion di Stato e ragion morale […]11.

Sostituire il politeismo dei valori ideali al monoteismo della religione tradizionale, non significa perdere la fede ma soltanto distribuirla in più divinità, venerando ogni “dio come Dio”, salvo poi a dover “riconciliar nuovamente” le singole fedi con l‟esigenza di riferirle a quella più forte e superiore, come capitò alla “politica come politica” nei riguardi della “ragion morale”. E che altro era il “mito” rinascimentale dell‟antichità classica se non appunto la “aspirazione verso forme di vita più alte, una linea comune d‟azione”12 che riportasse ad armonia, ossia a sistema, la perduta unità ideale? E cos‟è

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F. Chabod, Op. cit., pag. 15. Ivi, pag. 16.

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il “mito” se non l‟astrazione pre-istorica, idealistica, ossia la Weltanschauung o intuizione del mondo che è fondamento della realtà storica? In uno scritto del 1942, ancora dedicato a Il Rinascimento, Chabod individua due “esigenze” della storiografia: a) “di vedere un movimento, un evento in sé e per sé, nella sua precisa, ma limitata individualità (il vedere le cose “come propriamente si sono svolte”, secondo voleva Leopold Ranke)”, e b) “l‟esigenza di vedere i nessi tra quel movimento o quell‟evento e i movimenti e gli eventi precedenti e successivi, di cogliere cioè l‟individualità vivente e operante nel quadro generale della storia umana” 13. Col rischio, nel primo caso, di isolare il singolo evento e fare della storia dell‟umanità una serie di frammenti, ciascuno staccato dall‟altro, senza nesso e dunque anche senza senso, [e nell‟altro caso di] stendere un velo grigio, uniforme sulle vicende dell‟umanità e con l‟annullare la storia stessa [per voler ricercare] ad ogni costo la “continuità”, dimenticando di cogliere, ben nettamente, le caratteristiche proprie, individuali di un certo periodo, preoccupandosi esclusivamente di cercar l‟allacciamento tra idee e azioni di età diverse, magari anche affini e formalmente quasi identiche, ma sentite e vissute con diversità di sfumature e di tono, e pertanto non uguali14.

Chabod confonde la “continuità” come senso unitario di un processo ideale, dall‟analogia di fatti ed eventi aventi una stessa manifestazione fenomenica. Indicare le “caratteristiche proprie di un certo periodo” significa cogliere il senso di un processo, unitario perché ideale e perciò trascendente i singoli momenti “storici”. La distinzione “definisce” un evento o un periodo e perciò stesso lo isola idealmente dagli altri, cioè dal processo del divenire. E distinguere e definire è astrarre. La “continuità storica”, secondo Ranke, è “l‟essenza della storia”, per cui il processo storico è fondato sulla “coscienza” di tale continuità, che consente agli eventi umani di costituirsi in “storia”. Da ciò consegue che la coscienza unitaria del mondo storico è l‟attributo

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Ivi, pag. 74. Ivi, pag. 75.

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riservato alla qualità divina della intelligenza universale del Creatore, cui si ispira la coscienza dello storico, “sacerdote” dell‟umanità, in grado di vedere nei fenomeni storici il rapporto con Dio, al cui pensiero dunque somiglia,e vi partecipa. In tal senso, “il comprendere storico acquista una sua risonanza quasi religiosa. La comprensione [Einsicht] è immediata partecipazione alla vita, senza la mediazione discorsiva del concetto”15. Lo storico porta al‟evidenza “obiettiva” l‟epica della vita intesa come “favola della storia universale”, ossia il racconto mitico trasvalutato in realtà spirituale, in processo ideale, non più legato in una successione meramente causale ma fondato sulla “parola” che conosce. Da queste premesse discende l‟idea di Droysen che “comprendere significa comprendere un‟espressione”, cioè quel “qualcosa di interno [che] si fa immediatamente presente”16. La realtà storica, come il linguaggio, è “espressione” spirituale, e “consiste nel lavoro, sempre in corso, con cui lo spirito ordina e forma le „perennemente mutevoli finitezze‟ a cui ogni soggetto storicamente agente si trova ad appartenere” 17. L‟atteggiamento etico della volontà non si esaurisce nella capacità di imprimere una forma al materiale storico passivo, agendo nella storia altre forze oltre quella della personalità, “perciò non è il reale volere e progettare delle persone agenti il vero oggetto del comprendere storico [e] l‟interpretazione psicologica delle singole individualità non può bastare per la messa in chiaro del senso dell‟evento storico in sé stesso”. Questo evento infatti non esaurisce la personalità che lo attua, né esso si realizza per la sola “forza della sua volontà e della sua intelligenza”, poiché l‟evento stesso “non è né la pura espressione, né l‟espressine completa, di questa personalità”18, la quale “in realtà non raggiunge il suo obiettivo” e quindi non è mai completamente chiarita allo storico, che perciò “non ha il compito di penetrare i segreti della personalità individuale”, ma come questa si muove, cioè ha significato entro il “movimento delle potenze etiche”.In tal senso per Droysen “l‟individuo singolo nella casualità dei suoi moventi e dei suoi scopi

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H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. it. Milano,1983, pagg. 253 passim. Ivi, pag. 254. 17 Ivi, pag. 255. 18 Ivi, pag. 255. 16

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particolari non è come tale un momento della storia, ma lo diviene solo nella misura in cui si eleva al piano della comunità etica e partecipa di questa”. La storia dunque è il movimento di forze etiche “che viene prodotto dal lavoro comune degli uomini”19. Ciò che era la “forza” della personalità individuale per Ranke, diventa in Droysen potenza morale storica in quanto e perché partecipa del lavoro comune degli uomini uniti da medesimi obiettivi. Diventa potenza storica in quanto la sfera etica è ciò che permane e resiste nel corso incessante delle cose. La forza non più dunque, come in Ranke, originaria e immediata manifestazione della vita universale, ma esiste solo in questa mediazione e solo attraverso queste mediazioni acquista effettualità storica20.

Privata di tensione teleologica, la storia diventa scenario epico e finale aperto, in cui si confrontano la resistenza di ciò che è e l‟aspirazione a ciò che si deve. Ed è tale tensione drammatica a costituire la dialettica della libertà, intesa sia come “impulso fondamentale della vita storica”21, che “segreto indistruttibile della persona”. Questo carattere della libertà avvolge la storia nel “mistero della coscienza”, impedendole di fornire una risposta che abbia l‟univocità dell‟evidenza delle risposte scientifiche sperimentali. Ed è questa la ragione per cui la ricerca storica interroga continuamente la tradizione, che è dunque la mediazione tra l‟oggetto storico e la conoscenza dello storico, il quale considera le “potenze etiche [in cui] egli trova le sue verità” alla stregua di “ciò che sono le leggi per la conoscenza della natura”. E dunque, “come il comprendere unisce il singolo con le comunità etiche a cui appartiene, così queste comunità etiche stesse, famiglia, nazione, Stato, religione, sono comprensibili in quanto espressioni”22. Chabod, secondando la teoria della storiografica di Croce, “distingue” l‟elemento pratico da quello di pensiero, attribuendo realtà storica soltanto al secondo, che non viene dialettizzato col primo, e perciò reso astratto dal contesto storico da cui emerge e assegnato alla dimensione

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Ivi, pag. 256. Ivi, pag. 257. 21 Ibidem. 22 Ivi, pag. 259. 20

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assolutizzata della vita personale degli autori. Infatti, egli scrive, per comprendere l‟originalità del Rinascimento, dobbiamo anzitutto eliminare un grosso e grossolano equivoco […]: di confondere vita pratica e vita di pensiero, azioni quotidiane degli uomini e consapevolezza raziocinante che l‟uomo può avere o non avere di questo suo agire; di far tutt‟uno della vita direi “fisica” delle persone e delle loro riflessioni e concezioni […]. Quando noi parliamo di Rinascimento per designare una certa fase, molto ben determinata, della storia europea, intendiamo riferirci ad un movimento d‟idee, ad un “periodo” artistico letterario e culturale, che è anzitutto e soprattutto una realtà dello spirito. Quello per cui il Rinascimento è tale, non è l‟agire pratico, spicciolo di questo o quel personaggio[…]: è invece il modo con cui i propositi e le azioni degli uomini vengono sistemati concettualmente e da puro agire pratico, istintivo, diventano un credo spirituale, un programma di vita. Gli uomini,da che mondo è mondo, hanno sempre obbedito, nella loro vita di tutti i giorni, ad alcune istintive ed elementari passioni […]: onde, se noi dovessimo fare la storia sulla base di considerazioni simili, dovremmo vedere tutto uguale, tutto simile dagli Egiziani e dai Babilonesi ad oggi, e la storia diventerebbe un grigio indistinto dove più non potresti differenziare una epoca dall‟altra. Ma questo non è: perché, quando parliamo di “periodi” storici, di mondo classico e di mondo medievale, di Rinascimento, di Illuminismo e di Romanticismo, a che altro intendiamo riferirci se non alle idee politiche, morali, culturali e alle istituzioni in cui quelle idee si sono incarnate, idee e istituzioni che caratterizzano le singole età? L‟uomo del Settecento ama, cerca il proprio comodo e il lusso, canta la donna e il vino, né più né meno di quel che aveva fatto l‟uomo del Trecento: ma è mutato il “modo” con cui si canta l‟amore, si esalta la ricchezza, si appetisce il potere politico, ed è precisamente questo “modo” che interessa. Il “modo” è dato dal pensiero e solo a questo dobbiamo rivolgere l‟attenzione23.

Ma se così fosse, il “modo” sarebbe comune a tutte le personalità, le quali sarebbero queste a loro volta uniformate in un panorama di grigia indistinzione. La liquidazione puramente verbale e semplicistica di questioni essenziali alla possibilità stessa di una storiografia idealistica è sconcertante se pensiamo alla caratura di Chabod, ma essa testimonia a suo modo dell‟isolamento autarchico della cultura filosofica italiana del tempo, sbrigativamente paga delle teorie storicistiche neo-

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F. Chabod, Il Rinascimento, cit., pagg. 82-84.

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idealistiche e per altro convinta che la coeva elaborazione europea, soprattutto tedesca, fosse una inutile perdita di tempo di fronte alla sirena della teoresi crociana e gentiliana, tra i cui richiami si dibatteva, come tra Scilla e Cariddi, il pensiero storico sopravvissuto alla falcidia critica. In ogni caso, a quanto si evince dal testo, l‟esigenza dello storico di attenersi ai “fatti” per costruire la sua narrazione deve tener conto dei dati empirici di forme concettuali che possano qualificarli e classificarli distinguendoli da altri, come appunto avviene nei trattati scientifici rispetto alla teoria crociana del giudizio definitorio, quella di Chabod della conoscenza storica riflette l‟esigenza di servirsi di categorie storiografiche legate, anzi ricavate, dalla Weltanschauung del tempo, e non appartenenti al “contemporaneo” interesse ideale dello storico, il cui atteggiamento ermeneutico si pone rispetto ad esse in termini non risolutivi ma problematici. Ciò che però accomuna, al di là di tutto, Chabod a Croce è la credenza che la distinzione tra fatti e idee sia ontologicamente immanente alla realtà storica, e non un metodo di analisi logica dello storico, per cui sarebbe possibile che in un‟epoca – caratterizzata da sue peculiari modalità formali di oggettivazione della realtà – si potesse vivere e agire conformemente a una prassi rinvenibile in altre epoche o in tutte le altre della storia, e nello stesso tempo pensare in maniera del tutto difforme in riferimento ai “modi” ideali rispettivi. Cosa in verità illogica e assurda, se è vero che ogni “modo” ideale è tale perché informa la vita del suo tempo, compresa la prassi. Il “modo”, infatti, indica la forma oggettiva in cui si manifesta la volontà, ossia, come dice Chabod, “i propositi e le azioni degli uomini”. Ma, se i “propositi” possono essere riferiti alla sfera della intenzionalità soggettiva della volontà, le “azioni” non si dispiegano spontaneamente, poiché esse sono un prodotto socializzato in usanze tradizionali che formano quelle che R. Benedict chiama “abitudinitipo”, le quali sono tutt‟altro che “puro agire pratico, istintivo”, ma l‟espressione omologata di una selezione di comportamenti individuali orientati in direzioni di determinati scopi preferenziali, in base ai quali “ogni società sceglie un segmento nell‟arco delle possibilità dei comportamenti umani e quanto più raggiunge la sua integrazione, tanto più le istituzioni tendono a favorire il segmento scelto e a ostacolare le espressioni che vi si oppongono”. Da qui i “modelli sociali” (patterns) a cui si conformano i rispettivi comportamenti 16


soggettivi e si misurano gli atteggiamenti reattivi, costituenti una “personalità di base”, cioè tipica, intesa come “una particolare configurazione psicologica, propria dei membri di una data società” che “si manifesta attraverso un determinato modo di vita su cui gli individui intessono le proprie varianti personali”24. Quanto alla “sistemazione concettuale” dei comportamenti, “ogni formazione spirituale”, comprese le Weltanschauungen, “possiede la sua struttura interna, la sua tipica, la sua straordinaria ricchezza di forme esterne ed interne, che nel corso della vita stessa dello spirito crescono e si trasformano”25. E ogni formazione spirituale è tale perché fondata su “un credo spirituale” che, in quanto paradigma valoriale, è posto all‟inizio di ogni giudizio di valore e di ogni comportamento assiologicamente direzionato, e che la “scienza empirica dello spirito” successivamente sistematizza. Ed è tale sistemazione che diviene oggetto della storiografia e della sua ricognizione fattuale dei fenomeni culturali. Riportando l‟intero processo storico al movimento delle idee si costruisce un‟ipotesi epistemologica tutta incentrata sulla comprensione degli “autori”, tralasciando il senso storico del rapporto tra le elaborazioni teoriche soggettive e le condizioni sociali della loro formazione, cioè le forme della loro socializzazione alla base della prassi istituzionalizzata dominante. Solo una tale dialettica tra soggettività e socialità può dare ragione del processo storico della “libertà” come tensione tra volontà di stabilizzazione istituzionale dei modelli sociali e i comportamenti, conformativi o reattivi, individuali. Senza questa tensione ogni processo storico sarebbe conchiuso in se stesso come in un sistema di leggi naturalistico, che ammette solo cesure senza continuità, al pari delle idee astratte platoniche o della scienza empirica, come i paradigmi di Kuhn e i valori idealtipici di Weber e le Weltanschauungen di Dilthey. Le formazioni spirituali storiche, in quanto processi culturali, hanno una interna dinamica che diviene sulla premessa di un fondamento di validità che possa giustificare “tutte le possibili direzioni della presa di

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Ved. M. Dufrenne, in Storia della scienza, cit., pag. 1953. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, tr. it. cit., pag. 71.

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posizione umana: conoscere, valutare e volere”26. Ma, in quanto “fatti”, le Weltanschauungen non hanno niente a che vedere con la loro “validità oggettiva”27. Un conto è la “scienza come fenomeno culturale”, altro la “scienza come sistema di teorie valide”, per cui i due piani di realtà vanno separati ontologicamente, e non solo distinti logicamente come “vita pratica” da “vita di pensiero” all‟interno dello stesso piano di realtà storico-fenomenico, cioè fattuale. Le formazioni spirituali possono essere giudicate sul piano della validità, che però non è “storico”, cioè empirico, ma filosofico, cioè metafisico. Le ragioni storiche del rifiuto della “possibilità ideale di un sistema filosofico” possono essere “buone ragioni”. Ma da ragioni storiche possono essere tratte soltanto conseguenze storiche. Voler giustificare o confutare idee tramite fatti è un‟assurdità [per cui] la storia non può addurre nulla di rilevate tanto contro la possibilità di una validità assoluta in generale, quanto in particolare contro la possibilità di una metafisica assoluta o scientifica28.

Un conto è giudicare il valore di un prodotto spirituale, altro è comprendere storicamente il senso interno. Si prenda il concetto di “politica” in Machiavelli, fondativo dello Stato moderno. Secondo l‟autorevole giudizio di Croce, Machiavelli avrebbe “scoperto” la “necessità” e la “autonomia” della politica29. La “necessità” della politica sarebbe legata alla condizione sociale dell‟uomo, per cui “politica” e “vita sociale” sarebbero concetti indissolubili. Storicamente è stato certamente così, per cui il giudizio di “necessità” della politica legato alla socialità umana ha un fondamento empirico, ma non metafisico. Non è possibile escludere infatti altre forme possibili di socialità, non politiche, per cui la

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E. Husserl, Op. cit., pag. 85. Ivi, pag. 79. 28 Ivi, pag. 77. 29 L‟idea, tipicamente razionalistica, che l‟emancipazione dalla morale sia la condizione stessa della sussistenza della dimensione politica, confonde lo statuto di “scienza” con quella di realtà storica, ossia la questione gnoseologica con la questione del governo. Il rapporto della politica con la morale, ossia della forza sociale con i suoi fondamenti di legittimità ideale, non è (solo) “teoretico” ma anzitutto esistenziale. 27

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supposta “necessità” della politica riposa su un fondamento di credenza che è puramente ipotetico. La “necessità” si fonda dunque sulla credenza che la realtà dell‟ente coincida con la realtà dell‟Essere: siamo perciò nell‟ambito del Mito, sicché la “autonomia” della ragione politica dalla fede ontologica che costituisce il suo fondamento di necessità è una mito-logia, cioè una rielaborazione razionalistica del Mito identitario, che approda a una molteplicità di concezioni storiche della politica. Infatti, poiché le forme di socialità sono storiche e molteplici, ognuna ha una sua idea della politica, o meglio una sua politica, che rappresenta il suo “modo” di manifestarla, la cui astratta determinazione concettuale (la politica come distinzione del nemico dall‟amico) rimanda a sua volta alla astratta determinazione del relativo legame sociale non-politico, lasciando quindi aperto e indeterminato il suo contenuto come quello di ogni legame particolare, ossia le ragioni ideali dell‟appartenenza sociale, assunta come “fatto” oggettivo. Ma proprio perché la politica è relativa alla forma sociale cui appartiene, assumere la sua relatività storica come una realtà ontologica, è la condizione fideistica della sua ratio come criterio scientifico di giudizio della realtà sociale, la cui autonomia è consentita dalla stessa astratta possibilità teorica di costituirsi come metodo di relazione tra gli uomini. Se però la realtà storico-empirica costituisce il criterio di ogni verifica della sua validità oggettiva, il suo divenire deve essere già incluso nel suo Essere; e poiché la veridicità di questa inclusione è a sua volta verificabile solo empiricamente, la sua supposizione è oggetto di fede, è una credenza mitica. La credenza nella “necessità” della politica è anch‟essa storica e culturale, legata alla visione razionalistica della realtà, per cui la pretesa “autonomia” della politica è tanto “necessaria” quanto la conoscenza scientifica del mondo in senso razionalistico moderno, e quindi strettamente dipendente dalla relativa visione ideale che sorregge e giustifica la socialità, modernamente intesa in termini di potere politico statuale. Lo Stato moderno è l‟espressione formale tipica della socialità moderna, caratterizzata dalla visione razionalistica del mondo, la quale concepisce la politica come tecnica di amministrazione del potere, emancipato da ogni finalismo etico e da ogni fondamento religioso. La ragion di Stato è la logica del potere fine a se stesso. E‟ la ratio del 19


sistema di potere che tende come fine a conservare se stesso. Il sistema statuale moderno, garante della autonomi del potere sovrano da ogni ingerenza morale o ecclesiastico-religiosa, ricerca nella sua possibilità di sussistere, cioè nella forza politica, la sua legittimità, che perciò da etica diventa fattuale, e da realtà morale diventa realtà economica. Lo Stato moderno è la forma di società retta dal principio politico assolutistico, moralmente neutro, che superiorem non recognoscens. Le conseguenze principali di questa ideologia statalistica sono: a) la distinzione tra società civile, sorretta da regole di convivenza tradizionali, e società politica, retti da criteri di dipendenza dal potere sovrano; b) la ricerca di una continua affermazione del potere sovrano nei confronti delle forme di socialità tradizionali, sia di carattere sociale (gruppi di interesse, città, corporazioni, localismi varii) che di carattere istituzionale (Chiesa, nobiltà). L‟affermazione della forma politica assolutistica – secondo la quale la sovranità e superiore a ogni altro potere – si articola in questa dialettica tra forme tradizionali di socialità e la forma razionalistica moderna, che si vuole emancipata (astratta) dalle forme tradizionali. La condizione dell‟affermazione del principio moderno e razionalistico di sovranità consiste nella riduzione alla dimensione politica di ogni soggetto alla potestà sovrana, tale che la sua subordinazione sia legittimata dal suo essere omogeneo al principio politico di sovranità, sotto cui viene sussunta ogni forma di vita sociale particolare. La funzionalità del sistema politico assolutistico è legata alla capacità di riduzione a sistema di ogni forza intermedia di altra natura, la cui razionalizzazione sistemica consiste appunto nella sua assunzione a oggetto politico, per cui il principio di sovranità statalistico, che non riconosce alcun potere superiore a se stesso, si realizza attraverso un processo di riduzione di ogni altro criterio di valore a criterio politico, e di ogni realtà sociale allotria in realtà omogenea al suo principio omologante. Nello Stato moderno tutto è politica, ossia ogni realtà personale e spirituale, sociale e particolare, è interpretata alla luce del principio politico di sovranità, il quale trasforma tendenzialmente ogni potere antagonista e rivale al potere statale in elemento subordinato a quel potere e funzionale al suo esercizio. La natura astratta di tale potere si manifesta nella tendenza a uniformare sotto la sua sovranità ciò che è storicamente e idealmente diverso, per cui l‟affermazione del potere omogeneizzante dello Stato è 20


inversamente proporzionale alla negazione della realtà molteplice storicamente determinata. Ciò comporta che il potere statuale è tanto più forte, cioè tanto più se stesso, quanto più nega la realtà autonoma della vita civile e sociale, ossia la stessa realtà storica al cui presidio dovrebbe votarsi. La conseguenza di questa dialettica è l‟astrattezza della forza del potere politico rispetto alle dinamiche spontanee – che egli cerca di negare – della società storica. E poiché la forza dello Stato politico è relativa alla debolezza dei poteri subordinati, la sua affermazione provoca la decadenza della civiltà, che si traduce in conseguente impoverimento del potere sovrano, esercitato su una società da esso impoverita. Il potere garante della società, divenuto garante solo di sé, si trasforma a sua volta in potere annientante la società che doveva proteggere, e quindi si auto-nega. In questo senso, il potere statale assolutistico è fondamentalmente irrazionale e perciò logicamente contraddittorio e auto-distruttivo. La “spontaneità” della società civile, è tale solo a confronto con il potere statuale che cerca di deviare le sue fonti normative dalla tradizione alla sua volontà sovrana. E la sua auto-distruzione non deriva dalla sua incongruenza logica assoluta, riferita cioè a un sistema migliore di convivenza sociale, ma alla sua contraddizione relativa al suo stesso fondamento di principio, che lo poneva “astratto” da ogni criterio assiologico, e quindi dallo stesso consenso sociale dell‟opinione comune, che costituisce la fonte tradizionale di moralità di ogni azione politica contestuale. In un saggio del 1950, uscito in occasione dell‟ottantesimo compleanno di Croce, Chabod, a proposito della storia italiana tra i secc. XIII e XVI, afferma che Quando s‟è passati dalla storia degli accadimenti politici allo studio delle dottrine politiche, lo sguardo è generalmente rimasto fiso in queste, nel loro puro aspetto dottrinale, nel loro svolgimento interiore e logico, senza che fra gli accadimenti dell‟età e il pensiero si stabilisca quell‟intimo e inscindibile nesso che ne faccia un corpo e un‟anima, rimanendo invece ben distinti e per così dire un corpo senz‟anima e un‟anima senza corpo […]. Tal che storia della politica e dell‟economia, da un lato, e storia delle lettere, delle arti, del pensiero, dall‟altro, si presentano come ben nettamente distinte, e non solo nelle persone dei loro cultori (che sarebbe naturale separazione), sì soprattutto

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per lo scarso riverbero dell‟una sull‟altra, il loro rinchiudersi in sfera propria e autonoma, a cui nessuno o assai fioco raggio di luce perviene dalla vicina 30.

La tradizione Tre-Quattrocentesca aveva accreditato il primato del rinnovamento artistico a opera del Petrarca, del Boccaccio, di Giotto e di Dante, su quello degli avvenimenti politici, almeno in Italia, e la tradizione illuministica, a partire da Voltaire, aveva suffragato questa linea interpretativa che opponeva al buio Medioevo i secoli luminosi della cultura rinascimentale. Come scrive Chabod, “l‟uno aspetto, quello culturale, dice tutto; l‟altro, quello politico, sta a parte, come episodio di scarso rilievo, che solo nella meditazione di Niccolò Machiavelli assume valore dominante e soverchia la cultura”. Tale tradizione storiografica si interrompe col Romanticismo, allorquando “storia del movimento culturale e storia politica delle città italiane erano state strettamente intrecciate, la seconda anzi condizionando la prima”, a motivo dell‟ “affermarsi dell‟idea di nazione, sempre considerata come equivalente a quella di libertà”31, sicché “libertà, indipendenza, amor di patria, tutte virtù presupponesti una forte vita morale nei singoli, divenivano la misura di valore su cui giudicare uomini ed epoche, accadimenti e pensieri”32. Virtù letterarie e virtù civiche s‟intrecciano in Italia a partire dal sec. XIII, “dimostrando, con l‟esempio più luminoso, che la causa del carattere dei popoli è il governo, che, cioè, l‟energia o la mollezza civica sono all‟origine di tutti i periodi di grandezza o di decadenza dello spirito umano”33. Il servilismo politico era dunque collegato al servilismo letterario, e con il venir meno della libertà moriva o si affievoliva lo stesso spirito creatore, “l‟energia morale prima ancora che culturale”34. Con la disintegrazione del cosmo medievale, le singole discipline intellettuali riflettevano il “proprio orto della storia” (Chabod), variegandosi per motivi e tendenze ideali particolari. La perdita del “centro unificatore” indusse a ricercarlo nel “principio di libertà” ovvero in quello di ordine sociale o etnico o nazionale, a 30

AA. VV., Omaggio a Croce, Napoli, 1950, Vol. I, pagg. 147-148. In Op. cit., pag. 148. 32 Ivi, pag. 149. 33 Ivi, pagg. 149-150. 34 Ivi, pagg. 149-150. 31

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seconda dei tempi e degli indirizzi ideologici. A fronte della “vecchia idea di libertà alla Sismondi”, una nuova attenzione al fatto sociale, di cui quella libertà stessa non sarebbe se non il risultato, ha preso le mosse nella Francia della monarchia di luglio, ha acquistato respiro dopo il ‟48, diviene ora europea [e] s‟appoggia più o meno compiutamente consapevolmente organicamente al materialismo storico, come a sua base dottrinale […] e si rivolge in Italia anzitutto all‟età dei comuni la quale, mossa e varia com‟è, può consentire di cogliere in un momento particolarmente vivo e felice il processo in atto di una società che nasce, cresce, si afferma e, conquistando il potere politico, consolida anche la sua forza di classe 35.

Non, dunque, al Risorgimento ma all‟età comunale si concentra l‟attenzione degli storici tra „800 e „900, a partire dai maggiori, Salvemini e Volpe. Ma da ciò a sostenere che un nuovo motivo idealmente unitario sia sorto a soppiantare l‟antico della libertà, ce ne corre. Non quello della lotta di classe, che, pur mettendo in luce “i problemi connessi con l‟organizzazione sociale delle città”, è riuscita a poter dare “un‟interpretazione rigidamente e puramente classista di quella lontana vita cittadina, così ricca, a parte ogni altra considerazione, di senso religioso cristiano”. E neppure quello di nazione, data la “frammentarietà e mancanza d‟unità e di sentir nazionale nel campo politico”, in un tempo “fra i secoli XIII e XVI” in cui “le origini della nazione italiana”, ossia “le vere ed alte espressioni di un sentir nazionale italiano si rinvennero nella vita culturale e morale, e non già nella vita propriamente politica”36. Infatti, a dire di Chabod, la nazione italiana è stata una creazione culturale, assai prima che politica; e perciò appunto il suo formarsi s‟ha da ricercare nella coscienza di scrittori pensatori artisti, nel comun clima culturale creatosi, fra Tre e Quattrocento, al di sopra delle divergenze e disparità di condizioni politiche, al di sopra delle differenze di reggimento interno e di condizioni economico-sociali [fra le principali città italiche], al di sopra delle accanite contese per la conquista del predominio che scagliano l‟un contro l‟altro i più potenti stati della penisola e, pur di raggiungere il proprio scopo, inducono gli uni come gli altri, a servirsi

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Ivi, pag. 177. Ibidem.

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anche delle potenze straniere, divenute così arbitre della contesa italiana a proprio vantaggio. Nella “repubblica delle lettere” dell‟Italia rinascimentale, ma in essa sola, e nella contrapposizione della propria saggezza e dottrina alla “barbarie” d‟oltr‟Alpe, comincia a vivere, e ancora entro certi limiti, il formantesi sentimenti nazionale italiano, press‟a poco come nella “repubblica delle lettere” europea vive, nel Settecento e nell‟Ottocento, l‟idea del‟unità civile del‟Europa, “patria” comune per gli uomini di alto sentire, tanto contraddetta, invece, dalla realtà politica che vede il trionfo dei particolarismi e degli egoismi statali e nazionali37.

L‟unità politica, senza “la coscienza di una unità culturale, civile dell‟Europa che permane anche quando le relazioni interstatali da europee diventano mondiali”, non basta a definire “una vita unitaria di Europa”38. Ma la contraddizione – ossia la posizione ideologica – che si nasconde in queste giuste affermazioni è la rimozione dell‟unica vera, perché a un tempo storica e ideale, unità europea, quella religiosa, la quale, pur nelle divisioni confessionali fra cattolici e riformati, permane come sostrato comune della civiltà e della cultura dei popoli europei. Proprio la volontà (ideologica, prima che storiografica) di voler soppiantare l‟unità reale con una di natura “civile”, facendo di questa l‟espressione autentica dell‟unità “culturale” europea, mina intellettualmente le premesse di una unità morale dell‟Europa, che potrebbe unicamente far fronte alle divisioni che in ogni altro campo – civile, culturale, politico, economico, confessionale – minacciano quell‟unità posta come supremo valore. La contraddizione è nell‟additare come motivo unificante una condizione che invece si caratterizza sia storicamente che strutturalmente come fattore di divisione: la politica, l‟economia, la nazione, la cultura. Le quali tutte sono realtà che di per sé si sviluppano come espressioni particolari e spesso conflittuali. Si pensi solo all‟idea di nazione, di volta in volta sentita come ideale di libertà, ovvero di motivo praticamente egoistico, a seconda che si tratti della propria nazione o di quella straniera. D‟altronde la storia europea è una storia di realtà particolari, unificate o da un‟ideale imperiale ovvero da un motivo religioso. Senza nessuno di questi due motivi (del potere

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In Op. cit., pagg. 177-178. Ivi, pag. 178.

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meta-politico del governo imperiale, ovvero del potere meta-culturale dell‟autorità religiosa), le varie e diverse articolazioni culturali e civili delle particolari realtà locali europee non possono trovare alcun elemento unificatore, legandosi la loro vita al loro stesso essere particolare eticizzato, cioè diventato ideale. Ma questo ideale particolare, confermato all‟interno di una cornice morale accomunante, può sussistere come motivo di ricchezza comune, anziché come elemento conflittuale nella sua distinta assolutezza, finalizzandolo a un progetto unitario non circoscritto al solo motivo etico-politico ma sostenuto dal sostrato morale di carattere religioso. L‟antico conflitto europeo tra Papato e Impero aveva da sfondo morale la comune civiltà cristiana, entro la quale la dialettica sul primato etico acquistava carattere squisitamente politico, risolvibile, sul piano dei rapporti di forza, col loro reciproco riconoscimento giuridico, ossia in termini concordatari. Trasferito all‟interno dell‟unità nazionale, quel conflitto non può essere ripreso negli stessi termini medievali, essendo non più meramente politico ma spirituale, perché coinvolge non già, come un tempo, la determinazione delle reciproche posizioni di forza, ma la natura stessa del fondamento ideale che legittima le rispettive istanze politiche delle due parti configgenti. In mancanza di un riconosciuto fondamento ideale comune, non è possibile stabilire un rapporto di con-vivenza sul modello dello ius gentium, poiché questo presupponeva l‟esistenza distinta di gruppi umani nazionalmente divisi, mentre il rapporto Chiesa-Stato insiste sulla diversa determinazione ideale degli stessi enti sociali, cioè dello stesso gruppo umano, volta a volta considerato in termini spirituali (dalla Chiesa) ovvero in termini politici (dallo Stato). In questo caso, il riconoscimento non può essere stabilito sul piano pattizio, perché investe la destinazione stessa della vita sociale, diversamente concepita dalle due parti in causa. Mancando un comune riferimento teologico super partes, le rispettive istanze di parte sono in-fondate per la parte avversa, in quanto inerenti a sfere di validità ontologicamente diverse e non mediabili: quella di Cesare e quella di Dio. Anche la visione di Cesare è, come la Weltanschauung, una “idea”, ma è quella di “un compito finito, che può di principio realizzarsi nella vita di un singolo individuo nel modo di una costante approssimazione, così com‟è per la moralità, che perderebbe il proprio senso se si rivelasse l‟idea di un infinito di principio transfinito”. E‟ un‟idea legata 25


al suo tempo, e perciò “in ogni epoca diversa”.39 Diversa è l‟idea di Dio, che interessa “l‟eternità” e i cui contenuti hanno “un valore assoluto, atemporale”, appartenendo “al patrimonio dei valori di tutta l‟umanità”. Ed è questa “idea” che Husserl chiama “scienza”. “una idea sovratemporale, nel senso che non è limitata da alcuna relazione allo spirito di un‟epoca”, il cui valore “determina evidentemente subito il contenuto materiale dell‟idea di cultura, sapienza, Weltanschauung, nonché quello della filosofia della Weltanschauung”40. La differenza tra la filosofia della Weltanschauung, e la filosofia scientifica è la stessa che tra valore “relativo” e valore “assoluto”, ossia tra quanto è considerato dalla coscienza del tempo un sapere terno e quanto considerato dalla critica un sapere superato dalla maggiore coscienza filosofica, e quindi temporalmente storico. Ogni sapere creduto valido è “assoluto”, e ogni sapere non più creduto valido è “relativo” al suo tempo di credenza, per cui ogni Weltanschauung sviluppa una filosofia della Weltanschauung e quindi una critica razionale del Mito che finisce per designarlo come “credenza” epocale superata dalla nuova coscienza. L‟idea di Stato moderno, quello nazionale, è fondata su un pensiero naturalistico dell‟essere sociale, del quale la determinazione empirica è l‟ideale etico della nazione, mentre la politica è la ratio quale scienza dei rapporti sociali. Il carattere mitico di questo fondamento risiede nella credenza che l‟unità statuale nazionale sia l‟Essere stesso degli enti sociali, e di conseguenza che questi non siano che il suo rispecchiamento formale. Non riconoscendo sopra di sé alcuna altra sovranità, l‟affermazione di sé dello Stato idealizzato assorbe nella sua volontà la fede nella sua sussistenza oggettiva, la cui storicità determina la stessa legittimità razionale della sua esistenza nella forma politica. Questo carattere mitico-naturalistico dell‟ideale nazionale dello Stato moderno, viene assunto come “dato” storico dalla storiografia razionalistica, la quale, però, non si astiene dal giudicarla come “valida”, aderendo ideologicamente alla sua mito-logia e rielaborando

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Ivi, pag. 90. Ivi, pag. 91.

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razionalmente la sua Weltanschauung. Nella misura in cui i motivi culturali viventi dell‟epoca, dotati per questo della maggior forza persuasiva, sono oggetto non solo di una prensione concettuale, ma anche di uno sviluppo logico e di un‟ulteriore elaborazione intellettuale, e nella misura in cui i risultati così ottenuti sono portati, nel gioco reciproco con le intuizioni e le evidenze che nuovamente affluiscono, ad una unificazione scientifica ed a una completezza sistematica, si determina uno straordinario ampliamento e accrescimento di quella sapienza originariamente incompleta. Sorge una filosofia della Weltanschauung che nei grandi sistemi offre una risposta relativamente più perfetta agli enigmi della vita e del mondo, offre cioè nel miglior modo possibile una soluzione e una soddisfacente chiarificazione alle discordanze teoretiche, pratiche e assiologiche della vita, che „esperienza, la sapienza e la mera visione del mondo e della vita possono superare soltanto in modo imperfetto. Ma la vita spirituale dell‟umanità, ricca com‟è di culture, lotte spirituali, esperienze, valori e scopi sempre nuovi, progredisce continuamente; con l‟ampliarsi dell‟orizzonte della vita, a cui appartengono tutte le nuove formazioni spirituali, mutano la cultura, la sapienza e la Weltanschauung, si trasforma la filosofia, innalzandosi a vette sempre più alte41.

Qui Husserl descrive la dialettica Mito-Filosofia nei termini di una rielaborazione del Mito come l‟attività della filosofia della Weltanschauung. La Weltanschauung come sapienza del tempo, è la stessa idea di umanità, tale da dirigere le posizioni dell‟uomo nelle direzioni fondamentali della vita, rendendolo “esperto” o “sapiente”, e con ciò inducendolo a essere “amante della sapienza” o “filosofo”42. E proprio in quanto aspirante a questa sapienza universale, l‟uomo riconosce i valori della cultura come “dotati di una validità vincolante e sovrasoggettiva”, ossia “oggettiva”. Questa “arte etica” costituisce una “forza formativa di grande importanza, punto da cui si irradiano le energie formative di maggior valore per le più valide personalità del tempo”43, ossia quei “modi” di cui parlava lo storico. Quanto alla distinzione tra la “vita pratica” e la “vita di pensiero”, ossia tra Weltanschauung e scienza, nella terminologia di Husserl, i

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Ivi, pag. 86. Ivi, pag. 87. 43 Ivi, pag. 88. 42

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due aspetti nella coscienza moderna si sono nettamente separati, mentre in passato i rispettivi “scopi”, confluendo in un unico orizzonte di valori creduti eterni e cogenti, “non erano ancora affatto distinti o, se lo erano, non lo erano in maniera precisa”44, Pertanto, il pensiero moderno, operando quella distinzione di “scopi”, conferma la originaria sussistenza di essi in quell‟universo religioso entro il quale, nello spirito medievale, era dominante il rapporto fra Dio e uomo, e che la critica razionalistica, in considerazione di quella sua originaria indistinzione, ha considerato, dal suo punto di vista, un universo mitico. Resta notevole che anche Husserl, ponendosi dalla parte della modernità, ritiene che i due emisferi ideali “rimarranno [distinti] per l‟eternità”45, considerando i due momenti ideali come “fatti storici”, cioè fenomeni empirici, e come tali li giustappone e li confronta astrattamente. Infatti, sapere “assoluto” è quello non storico, cioè non criticato come relativo al suo tempo, e perciò non de-finito da un sapere superiore. Si omette di considerare che il fine “pratico” del sapere è quello di costituire una risposta razionale utile alla vita sociale e quindi alla sua funzione etica. Il fine “teoretico”, invece, è la ricerca considerata in sé, fuori della sua funzione storica ed etica. I due “scopi” sono idealmente distinti, tant‟è che il valore pratico di un sapere può benissimo superare il suo valore teoretico, e viceversa, come nel caso ricordato dallo storico del livello della cultura italica rispetto alla coeva condizione politica. Quello del sapere assoluto è un valore esso stesso morale, utile a perseguire lo scopo teoretico “in sé”, trascendente ogni suo finalismo pratico, e concepito dunque come una “vocazione” o “dovere” (Beruf) professionale. Husserl stesso deve ammettere che nella “nella realtà della vita questa separazione non è così netta [per cui] anche chi possiede una natura teoretica potrà cedere alla forza [dei] motivi [pratici] più di quanto glielo consentirebbe la sua vocazione teoretica”, giungendo alla conclusione che la propensione per una o altra tendenza del sapere è essa stessa “una questione pratica”46, ossia una astratta

44

Ivi, pag. 89. Ibidem. 46 Ivi, pag. 93. 45

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determinazione classificatoria di un‟altrimenti unica concreta attività spirituale. Ma la classificazione presuppone che l‟unità di senso all‟interno della quale è possibile operare le empiriche distinzioni del campo pratico dal teoretico sia acquisibile come un orizzonte fenomenico (indicato per tempo come un‟epoca: Medioevo, Rinascimento, Illuminismo, Romanticismo, etc.) il quale storicamente restando aperto dai due lati, del passato e del futuro, alla possibilità d‟essere altro-da-sé, non può identificarsi con la Totalità, ma soltanto con una totalità storica, fenomenicamente definita come un contesto idealmente unitario caratterizzato come un “orizzonte situazionale”, nel cui ambito è possibile intrecciare il “mondo del discorso” teoretico con l‟orizzonte di senso in cui il discorso storicamente viene formulato e recepito. Questa totalità storica costituisce quell‟ “orizzonte situazionale di senso” che è la Weltanschauung di un‟epoca storica, che coincide idealmente con la dimensione della “storicità” in cui è possibile stabilire delle relazioni empiriche esplicative di un senso razionale oggettivo, i cui “nessi” sono suffragati da riscontri metodologicamente acquisiti come validamente probanti. Questo campo fenomenico è quello della “certezza”, garantito dalla conoscenza scientifica della storia, la quale conoscenza scientifica, però, non esaurisce la possibilità insita nell‟Essere storico in senso ontologico, per cui ogni sezione d‟esperienza umana classificata scientificamente può essere assunta come avente una consistenza ontologica ricavata dalla definizione empirica della sua linea di sviluppo e di crisi, così da poter stabilire fra di loro un rapporto comparativo, tale che “la stessa epoca può essere progressista in materia politica e regressiva in materia d‟arte”47, o viceversa. Da qui la visione che Ricoeur chiama “ambigua” di ogni rappresentazione unitaria della natura della Storia a confronto delle molteplici modalità della sua costituzione empirica. Tale rappresentazione impedisce, per Ricoeur, di stabilire storicamente, cioè sul piano empirico della relazionalità scientifico-causale dei fenomeni singolari, una “risultante globale, che sarebbe la storia „integrale‟ ”, sicché la rappresentazione unitaria di una supposta “coscienza d‟epoca” finisce per presentarsi come una “sintesi confusa”, anzi un

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Ved. P. Ricoeur, Storia e Verità, tr. it. cit., pag. 90.

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“groviglio” inestricabile sul piano della razionalità causale, tale che “l‟andamento generale” si presenti come “più vicino al sentimento vago che alla chiara coscienza”48. Si procede allora per approssimazioni successive, sempre più comprensive di avvenimenti singolari, le quali offrono allo storico dei contenitori di senso che sono pur sempre determinati empiricamente e lasciati al “sentimento” di chi le “sceglie” ai fini euristici della sua narrazione. La “scelta” delle relazioni, originariamente ascritta alle virtù razionali del “metodo” scientifico della narrazione storiografica, diventa tecnica del “sentimento” storico, che preferisce, ad es., al “vecchio metodo storico” degli avvenimenti dinastici e militari, una “visione più ampia, per grandi insiemi radicati nella geografia”, a prospetto dei quali la vecchia storia “si perdeva nell‟arbitrario, nel fortuito e nell‟irrazionale”49, come se il “nuovo orizzonte” metodologico avesse il potere di trasformare le “antiche certezze” in dati emotivi e irrazionali della soggettiva preferenza tematica dello storico d’antan. Una tesi questa che era già stata di Husserl, - il quale aveva affermato che Ogni scienza per quanto esatta offre un sistema dottrinale solo in parte sviluppato, circondato da un orizzonte infinito di scienza non ancora effettivamente realizzata. […] Laddove la scienza può dire la sua parola [l‟uomo teoretico] rifiuterà le vaghe “intuizioni” ritenendole di scarso valore. lo considererebbe un torto nei confronti della scienza incoraggiare tentativi di “intuizioni” della natura50.

- ma priva di ogni plausibilità razionale, perché sposta in termini sempre più progressive la ricerca di un fondamento di oggettività che la natura empirica dei riferimenti gnoseologici relativizza al solo contesta di senso attuale alla coscienza dello storico, le cui “certezze” momentanee diventeranno superstiziose illusioni a coscienza mutata. E‟ così che la “scienza” costruisce il suo progresso attraverso il progresso metodico delle diverse discipline scientifiche. Come aveva

48

Ivi, pag. 91. Ibidem. 50 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 94. 49

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già affermato Husserl, è “evidente l‟assurdità di una teoria della conoscenza basata sulle scienze naturali”51, ma Ricoeur non pare avvedersi che la scienza, rispetto a le scienze, è solo un nomen puramente indicativo di una “vaga” unità “sentimentale”, non ricavabile razionalmente dalle molteplici esperienze cognitive. Sostituendo alla “scienza” la “Storia”, Ricoeur riconferma lo stesso schema d‟analisi bollato da Husserl come “assurdo”, non sospettando che l‟Unità naturalistica è esperibile sono in una Molteplicità di esperienze particolari che “sono ciò che sono solo in questa unità”, all‟interno, cioè, “dell‟unica natura totale”52, comunque la si chiami. Anche i “fatti” della Storia, così come gli enti corporei, i fenomeni della Natura, sono soggetti a leggi di mutamento, le quali riguardano non ognuno di essi individualmente, ma nel loro nesso unitario che li determina nella loro singolare natura, che è quella stessa comune all‟identico. “Ogni cosa ha la sua natura (come l‟insieme di ciò che essa è: l‟identico) in virtù del fatto che è il punto di unità di nessi causali all‟interno dell‟unica natura totale”53. L‟unità dell‟identico non è determinabile dalle sue trasformazioni, e quindi neppure dalle leggi che le presiedono, ma solo “in riferimento a ciò che esso è”. E ciò che esso è, non dipende dal suo modo d‟essere altro, è altro dalle sue trasformazioni, cioè indipendente e originario: è un dato non di esperienza sensibile, ma ontologico. solo stabilendo una relazione di co-essenza tra l‟identico e le sue trasformazioni reali è possibile attribuire ai suoi diversi modi d‟essere la stessa essenza unitaria attribuita all‟identico. Ma questa relazione di “verità” tra l‟esperienza mutevole di qualcosa e la sua essenza, tra le leggi causali e la sostanza immutabile delle cose naturali, è essa stessa una relazione indipendente da quelle leggi oggettive che cambiano col senso della relazione con la sostanza, cambiata la quale cambi anche il loro senso relativo. In altri termini, è la relazione che da senso al mutamento, perché essa costituisce il senso unitario, mentre “la scienza naturale si limita a seguire coerentemente il senso di ciò che la cosa stessa in

51

Ivi, pag. 24. Ivi, pag. 46. 53 Ibidem. 52

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quanto esperita pretende per così dire di essere”54. Ed è tale pretesa d’essere a costituire il senso dell‟esperienza, che perciò è, in quanto altro dall‟esperienza stessa, e cioè “ideale”. L‟idea di “natura” è dunque quella di un “essere che si manifesta in apparizioni”55: una natura che si manifesta in molteplici apparizioni delle cose, le quali, nel loro mutare, riportano tutte e sempre all‟identica unità naturale. Una cosa è ciò che è e rimane per sempre nella sua identità: la natura è eterna. Quali proprietà o modificazioni di proprietà reali spettino in verità ad una cosa – alla cosa della natura, non alla cosa sensibile della vita pratica, alla cosa “così come si manifesta sensibilmente” – può essere determinato in modo oggettivamente valido e confermato o corretto mediante esperienze sempre nuove56.

Ma ciò che è e rimane nella sua identità è altro dai fenomeni apparenti, i quali perciò possono mutare per nesso o determinazione reale. Obliando tale alterità, si attribuisce alla variabilità del mutamento l‟instabilità dell‟unità dell‟essere, ritenendola perciò immaginaria o inesistente. Le “intuizioni” in senso naturalistico sono esperienze sensibili che implicano un contenuto affermativo di esistenza, la cui “unità” concettuale è costituita da una generalizzazione empirica “che include nel proprio senso la posizione esistenziale dell‟esserci individuale delle singolarità dell‟esperienza”57. Ed è questa posizione esistenziale che lo storicismo assume come oggetto del giudizio storico, poiché esso, come ha chiarito Husserl, pone la vita empirica dello Spirito in maniera assoluta, facendo sorgere “un relativismo che rivela la sua stretta parentela con lo psicologismo naturalistico e che ricade in analoghe difficoltà scettiche”58. Diversa è invece la “intuizione” che coglie la “essenza” dell‟Essere come “essere d‟essenza” (Wesenssein), la quale è una conoscenza che “non pone in alcun modo un‟esistenza” (Dasein), per cui l‟intuire della

54

Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48. 56 Ivi, pag. 49. 57 Ivi, pag. 57. 58 Ivi, pag. 57. 55

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comprensione d‟essenza (Wesensserfassung) “è un intuire di genere diverso rispetto all‟esperienza”59, così come diversa è la “essenza” dalla “idea” (intesa come l‟opposto della “impressione”). La “intuizione” della vita spirituale di un‟epoca consente la “comprensione” della sua “forma spirituale”, ossia dei suoi “motivi spirituali di unità e di sviluppo” dei suoi “momenti internamente implicantisi di un senso, unità pertanto di un formarsi e di uno svilupparsi comprensibili secondo una interna motivazione”60 è esattamente l‟intuizione della “idea” in senso della Weltanschauung di quell‟epoca. Tali “idee” intuitive del mondo costituiscono una risposta possibile al thàuma, la cui razionalità è relativa a fronte di una risposta meglio elaborata e più comprensiva delle sue ragioni ontologiche, ma che è in se stessa “assoluta” rispetto all‟ “orizzonte infinito” di silenzio e di ignoranza che la circonda. Ogni risposta razionale, per quanto logicamente debole rispetto al giudizio di valore scientifico, rappresenta comunque una illuminazione rispetto alle tenebre del silenzio della paura e del terrore dell‟ignoranza, ed è “prescientifica” rispetto a una correzione critica a opera di una conoscenza più sofisticata, cioè più “scientifica” e in grado di meglio svelare “l‟enigma” del mondo. E‟ soltanto da un punto di vista teoreticamente superiore che Husserl può affermare che “le scienze della natura non ci hanno svelato in nessun singolo punto quegli enigmi che riguardano la realtà attuale, la realtà in cui noi viviamo, ci muoviamo e siamo”; ed è lo stesso punto di vista superiore a giudicare che “l‟opinione che esse siano in grado – per principio – di portare a termine questo compito, si è rivelata ad uno sguardo più approfondito come un superstizione”61. Ma prima di tale possibilità di giudizio critico, la “opinione superstiziosa” era razionalmente fondata dalla sua stessa necessità storica di offrire una risposta possibile per sciogliere “l‟enigma” della vita. Con la determinazione concettuale del politico, la politica, quale ambito di quelle “attività che riguardano il potere [in cui] si annoda e si

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Ivi, pag. 57. Ivi, pag. 72. 61 Ivi, pag. 96. 60

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snoda il destino di un popolo”, e dove “si riflettono le sfide, le crisi, le grandi opzioni […] delle civiltà che nascono e muoiono”62, ha costituito per l‟età moderna, a partire da Machiavelli, il senso unitario della storia nazionale dei popoli soggetti allo Stato, pensato come la forma storica dell‟idea del Potere. Non è un caso l‟assunzione della politica alla dimensione di attività paradigmatica dell‟età moderna. Infatti, con la destrutturazione del cosmo religioso medievale, “l‟indigenza spirituale del nostro tempo è divenuta in effetti insostenibile” per la “mancanza di chiarezza teoretica sul senso delle „realtà‟ ricercate nelle scienze della natura e dello spirito”, le cui “norme”, che erano state ritenute in passato di “assoluta validità”, in seguito sono state “contestate, minacciate da una qualche scepsi e disprezzate”, provocando una “radicale sofferenza” legata alla “necessità di vivere”, e quindi di “prendere posizione” sottostando al relativo “dovere” di dichiararne “la validità e la non validità”. [Sia i] naturalisti [che gli] storicisti lottano per la Weltanschauung, eppure entrambi contribuiscono, da prospettive diverse, a travisare le idee in meri fatti e a trasformare l‟intera realtà e l‟intera vita in un miscuglio incomprensibile di “fatti” privi di idee. La superstizione del fatto è comune a tutti loro63.

Il “senso” della realtà, dunque, si cercava da parte della scienza di ottenerlo nei “fatti”, intesi come il prodotto sintetico dell‟opera umana in cui convergevano la libera attività spirituale soggettiva e l‟oggettiva necessità delle situazioni storiche. La trascrizione teoretica del “senso” del processo fattuale, inteso come l‟unità di un significante e di un significato, divenne dunque modernamente l‟attività critica per eccellenza del lavoro intellettuale. Come ha ricordato Barthes, mentre la seconda metà del XIX secolo, per quanto riguarda le scienze umane, è stata dominata dalla nozione di fatto, dalla ricerca e dall‟accertamento del fatto, dalla supremazia del fatto, nel XX secolo la ricerca è dominata dal senso: c‟è in questo una sorta di progetto storico collettivo molto ampio, che ci

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P. Ricoeur, Op. cit., pag. 92. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 97.

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oltrepassa tutti e che ci fa attualmente considerare il linguaggio nella sua accezione più profonda e più estesa [un] territorio molto poco conosciuto [quale quello della] significazione [o del] senso 64.

Il rapporto ideale tra la determinazione del “senso” della realtà e la politica è strettissimo, come abbiamo potuto vedere trattando dell‟idealismo di Platone, la cui opera di rielaborazione del Mito, da una parte, e di confutazione della sofistica dall‟altra, ha messo in evidenza i diversi livelli di coscienza rispettivi della visione mitica della realtà, e di quella filosofico-logica, caratterizzanti i due corrispondenti “regimi antropologici del senso”, come li chiama Barthes. Il regime della “polisemia”, caratteristico delle “società che accettano il linguaggio mitico” e il suo “potere simbolico”, e il regime della “monosemia”, caratterizzato dall‟idea che “i messaggi, o i significanti, abbiano un solo senso, che è quello giusto”. Il “senso” della realtà, infatti, non è univoco, da cui la polisemia e il simbolismo delle società più arcaiche, quelle mitiche, “per le quali ogni cosa è significante” e perciò simbolica, essendo il “simbolo” la “coesistenza di almeno due sensi”. Quella umana è infatti l‟unica specie a usare un linguaggio simbolico, per cui “l‟uomo è il solo a simbolizzare”65. Alla luce della loro rispettiva dimensione di senso, la polemica filosofica sia contro la visione mitica della realtà, che contro la retorica sofistica, tendeva ad affermare un regime di monosemia su un regime di polisemia, ossia una Weltanschauung caratterizzata dall‟univocità del senso della realtà. Questa tendenza idealistica, per le ragioni che pure abbiamo visto, è stata rivista a seguito del cd. “parricidio di Parmenide”, ossia della scoperta dialettica della co-esistenza del nonessere nello stesso universo ontologico dell‟essere, per cui la visione platonica si inscrive piuttosto in un regime antropologico di “polisemia gerarchizzata”, cioè di un modo di pensare che accetta “l‟idea che un segno abbia numerosi sensi, ma che in tutti questi [molteplici] sensi ce ne sia uno privilegiato, quello vero”66, desunto attraverso appunto il

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R. Barthes, Une problematique du sens (1970), tr. it. I regimi antropologici del senso, in Id., Scritti, Milano, 1999, pag. 199. 65 R. Barthes, Op. cit., pagg. 201-203. 66 Ivi, pag. 203.

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metodo dialettico della distinzione logica del simbolico dalla verità. Questa operazione logica di riduzione del senso molteplice al senso univoco, trasferita dal piano di coscienza teoretico al piano di coscienza pratico, diventa un programma politico di socializzazione del pensiero, realizzato attraverso una decisione che non è più una “presa di posizione” soggettiva, legata al libero convincimento della coscienza morale e teoretica, ma istituzionale. Infatti “l‟istituzione in sé, l‟istituzione sociale si dà sempre il compito di sorvegliare il senso, di sorvegliare la proliferazione di sensi”67. 2. Vulnerato il monopolio esegetico della Chiesa a seguito della Riforma e del Rinascimento umanistico, il conflitto del senso ideale della realtà si dispiega socialmente sotto forma di lotta della volontà di affermazione del senso particolare sugli altri possibili sensi particolari concorrenti. Questa lotta, che è teologica, filosofica, artistica e scientifica sul piano culturale, sul piano precipuamente sociale e delle dinamiche dei gruppi, è appunto politica, investendo la dimensione della “vita” collettiva. Da qui la centralità della politica come azione decisiva e risolutiva del conflitto delle interpretazioni di cui si facevano portatori i diversi gruppi ideologici socialmente antagonisti e quindi portatori di istanze politiche in conflitto. In questo senso, il conflitto politico rispecchiava sul piano sociale ciò che era la polemica teoretica sul piano culturale. Ma l‟idea di una corrispondenza o “rispecchiamento” del senso teoretico in quello politico, è anch‟essa una credenza idealistica, poiché ciò che sul piano sociale è l‟equivalente del giudizio di realtà sul piano ideale, è l‟azione di governo, non l‟azione politica. E‟ il Governo sociale che decide delle contese politiche, così come il giudizio logico decide delle contese dialettiche. In virtù di questa sua posizione decisiva, il Governo non poteva nascere dalla lotta politica stessa, ma doveva essere la sua soluzione pacificatrice, ossia doveva trascendere tale lotta e stabilirsi come organismo super partes, di natura etica. La lotta tra Stato e Chiesa verteva sulla definizione del Governo sociale come istituto morale ovvero politico, ovvero sul primato socio-

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Ivi, pag. 200.

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culturale di un livello di coscienza sull‟altro. Per “livello di coscienza” si intende l‟orizzonte ideale che circoscrive l‟unità di senso che fonda e presiede il relativo ordine razionale di una determinata “formazione spirituale” nel senso di Husserl. Ogni “formazione spirituale” è una struttura di senso presieduta da un suo “livello di coscienza”, sulla base del cui ordine razionale si determinano i contenuti assiologici del giudizio di realtà. Ogni alterità di giudizio è riferibile a uno statuto assiologico che si rifà al suo relativo livello di coscienza. Il livello politico della coscienza è diverso dal livello morale, nel senso che i rispettivi giudizi di realtà divergono in relazione alle corrispettive unità di senso, entro il cui orizzonte tali giudizi governano l‟ordine ideale del mondo fenomenico. In virtù del suo governo, ogni struttura sociale assiologicamente ordinata dai suoi princìpi di coscienza, si determina storicamente come una “formazione spirituale”, avente una propria unità di senso. Il senso idealmente unitario del livello di coscienza è dato dunque dai suoi princìpi assiologici che presiedono ai suoi giudizi di realtà, ossia dal fondamento ontologico costitutivo della sua visione del mondo (Weltanschauung) che caratterizza quel determinato livello di coscienza. Ogni livello di coscienza ha una sua relativa Weltanschauung. Nel caso del Governo morale, il referente assiologicamente normativo sarebbe stato trascendente gli assetti politici della realtà sociale, per cui il principio di coscienza derimente le contese politiche sarebbe stato di natura teoretica, ossia appunto un principio morale. E proprio la funzione che il principio morale svolgeva nell‟ambito del Governo di quella specifica formazione spirituale chiamata “Stato”, poneva al centro della vita sociale la cultura intellettuale, segnatamente teologica e filosofica, e i loro rispettivi linguaggi tecnici. Nel caso, invece, del Governo politico della società, l‟unità di senso delle relazioni sociali sarebbe stato costituito da un livello di coscienza fondato sul principio della volontà, e quindi della forza per affermarla, e non su un principio di ragione. In questo caso lo Stato sarebbe stato pensato come una struttura di potere, e non già un organismo morale, per cui il suo fondamento ontologico che presiedeva il relativo giudizio di valore non era l‟Essere di Dio, la volontà del creatore del mondo, ma l‟umana volontà di potenza, fondatrice dell‟ordine sociale quale prodotto della sua volontà. 37


La differenza dei due livelli di coscienza consiste nella diversa concezione che il Governo sociale ha di sé. Secondo la coscienza morale, il Governo ha la funzione di rispettare la volontà divina, per cui esso è un organo ermeneutico, un‟istituzione teoretica. Secondo la coscienza politica, il Governo ha la funzione di esprimere la volontà del Potere politicamente più forte nella società, ossia di conservare l‟ordine sociale fondato su quella gerarchia politica. Per questa sua funzione, il Governo politico è un organo istituzionalmente preposto a socializzare il principio di realtà in base al quale viene legittimato l‟ordine socio-politico, e quindi a “sorvegliare” il “senso” assiologicamente univoco di quel principio ontologico. In questo caso, la volontà decisiva dell‟organo di Governo non è giustificata da un principio trascendente l‟ordine sociale, ma immanente alla stessa struttura politica, per cui il fondamento unitario della coscienza politica non è un valore morale ma esso stesso politico, inerente cioè all‟ordine strutturale della società concepita nell‟unità di senso politico, cioè il Potere. Secondo la concezione classica, ereditata dalla mentalità razionalistica moderna, la nozione di Potere non è una invenzione umana, un dato della coscienza refutabile, ma la condizione stessa dell‟uomo in quanto soggetto sociale, “animale politico”. La ricerca dell‟equilibrio sociale, della pace, concerne la questione stessa del Potere. potere ed equilibrio sociale sono aspetti di uno stesso fenomeno sociologico. La politica, intesa come ricerca dell‟equilibrio sociale, coincide con il Potere stesso, per cui è tanto più labile l‟equilibrio sociale quanto meno definito è il suo Potere. lo spazio moderno concesso alla politica è legato fondamentalmente alla natura politica del Potere, un tempo di origine sociale. L‟origine politica del Potere sposta i termini della stabilità sociale dal piano “civile” a quello appunto “politico”, alimentando quella ricerca di Potere un tempo stabilizzato sul piano dei rapporti sociali pre-politici, considerati “naturali”. Come sappiamo, “naturale” è quello stato ideale ed esistenziale in cui i singoli vengono e si sentono compresi in unità, di cui appunto si sentono naturalmente parte in quanto elementi spontaneamente aderenti al suo processo vitale. Le teorie razionalistiche del Potere, e segnatamente quelle contrattualistiche, hanno rappresentato questo stato sociale come pre-pacifico, ovvero il luogo della “guerra civile”, laddove esso è stato tradizionalmente il luogo della stabilizzazione dei 38


rapporti sociali, e quindi della pace, che il Potere doveva semplicemente riconoscere e quindi garantire. Il Potere tradizionale era strutturato secondo un ordine sociale gerarchico, giustificato sul fondamento religioso del suo valore simbolico, rappresentativo di una cultura antropologica riflessiva dell‟ordine morale che poneva al vertice Dio, che era ritenuto la fonte di ogni sovranità mondana. La condizione pre-politica è diventata, nella coscienza politica, belluina in quanto i singoli enti sociali sono stati considerati astratti dai concreti rapporti storici tradizionali. E ciò suppone che ogni individuo politico sia un micro-cosmo sociale, una monade auto-referente, anche se non sufficiente a se stessa e perciò abbisognevole di solidarietà sociale. Insomma una “formazione spirituale” moralmente autonoma ma antropologicamente imperfetta. Tale imperfezione è correggibile solo all‟interno della dimensione sociale, la quale, disgregato l‟ordine religiosamente costituito, cioè la gerarchia sociale tradizionale miticamente stabilizzata e pacificata, diventa lo scenario di una contesa tra singoli e gruppi i cui rapporti sono diventati indefiniti e alla ricerca di un nuovo ordine: un ordine politico. I gruppi in lotta per il potere, cioè per la definizione di un nuovo ordine sociale, pur portando la questione della stabilità (o della pace) sociale sul piano politico, ripercorrono idealmente, con metodi aggiornati, la lotta originaria tra uomini e gruppi alla ricerca di un mutuo riconoscimento all‟esistenza (abeas corpus), il cui fine è la pace e il cui esito è il Potere, ossia il riconoscimento del diritto del più forte di governare i più deboli. Divenendo ereditario, tale diritto socializzato viene fatto valere come condizione “naturale” non riformabile per volontà umana, e quindi religiosamente garantito. La gerarchia sociale stabilizzata in ordine gerarchico sacralizzato garantiva nell‟antico regime quella stabilità di rapporti sociali e quella pace politica che l‟azione rivoluzionaria ha distrutto, destabilizzando l‟ordine tradizionale attraverso l‟abolizione della gerarchia sociale costituita. Da quel momento si è riaperta tra gli uomini e tra i gruppi sociali la questione del Potere, ossia la ricerca di un nuovo ordine gerarchico. Ma tale ricerca d‟ordine coincide con la ricerca di una definizione razionale del Potere, cioè con la sua legittimazione morale, e quindi la semantica del Potere è storicamente legata inscindibilmente alla questione religiosa. Ogni forma di razionalismo politico ha cercato 39


di affermarsi attraverso la critica del diritto “naturale” della sua tradizione religiosa. La critica del razionalismo alla tradizione religiosa e alle sue istituzioni consiste nel negare il valore di senso simbolico dell‟universo di coscienza mitico per affermare al suo posto il valore di senso univoco dell‟universo di coscienza logico. Tale ritorno alle origini del fondamento ontologico della società è l‟esigenza ideale della Rivoluzione politica, la quale si costituisce a partire da una previa rivoluzione semantica, che traduce l‟ordine costituito, cioè lo stato di pace tradizionale, col termine di “tirannide”, e il disordine rivoluzionario, cioè lo stato rivoluzionario, col termine di “libertà”. La moderna polarità politico-semantica, che attraversa la Storia sociale e culturale europea dalla fine del Medioevo, è il portato storico conseguenziale del processo di sostituzione universale del regime antropologico della polisemia e del relativo livello di coscienza mitico, con un regime monosemico e il suo relativo livello di coscienza razionalistico. Questa rivoluzione antropologica ha preteso confutare la scienza sociale della sapienza tradizionale, creando le premesse di una condizione umana perennemente sospesa sull‟incertezza, il dubbio e l‟insicurezza di giudizio di cui parlava Husserl, che sono gli stati d‟animo negativi contro i quali si sono diretti gli sforzi della civiltà umana di ogni tempo. Esattamente questa destrutturazione del cosmo tradizionale, programmata come il fine ideologico dell‟azione umana razionalizzata e sistematizzata attraverso il “metodo” scientifico di cognizione della realtà, si è affermata modernamente come l‟ordine normativo più avanzato del pensiero e della convivenza umani, ossia il cosmo di una natura interamente umanizzata, frutto di una “nuova” creazione, tutta artificiale e secolarizzata, sostitutiva di quella divina. Il “passaggio” di livello di coscienza attraverso il quale si opera la “trasformazione” culturale e antropologica dell‟età moderna consiste dunque nella razionalizzazione del mondo, mentre i contenuti di coscienza di tale “trasformazione” sono quelli di una integrale umanizzazione del cosmo già sacro in termini profani. L‟astrattezza del livello di coscienza razionalistico risiede nell‟assunzione – logicamente del tutto arbitraria perché contraddittoria – del sapere pratico, dedito al controllo della natura e della società (che Scheler chiama Herrschaftswissen), come l‟unica dimensione razionalmente valida di conoscenza perché utile 40


all‟esperienza vitale dell‟uomo, a fronte del quale ogni altro sapere è fantasioso e i suoi contenuti sostanzialmente irrazionali. L‟acquisizione del relativo schema cosmologico, all‟origine del moderno livello di coscienza polemica, a fronte del carattere congetturale di ogni legalità sistemica, converte l‟astratto postulato dell‟ univoco senso scientifico di realtà del razionalismo assoluto, nell‟opposta affermazione fideistica della esclusiva validità gnoseologica di una realtà “asemica”, cioè del tutto priva di senso, quale quella rappresentata dai linguaggi formalizzati della scienza, i quali, “soprattutto quelli della matematica e della logica, sono linguaggi vuoti di senso”68. Questa rappresentazione della realtà vuota di senso da parte della scienza moderna, destinata per ammissione epistemologica ad essere confutata, esprime un sapere che sostituisce alla non più ammessa “verità” una conoscenza fittiziamente creduta vera pro-tempore, e perciò “aperta” indefinitamente alla possibilità di definirsi polisemicamente, ossia a fondarsi ontologicamente secondo l‟esperienza mitica del tempo che proprio l‟istanza razionalistica voleva eludere a favore di un‟esperienza assoluta e universale, quale quella appunto della “scienza”. La ricaduta sociologica di questo cosmo svuotato di senso è la società democratica, caratterizzata dalla competizione politica delle forze sociali antagoniste, ognuna delle quali, in assenza di un principio trascendente di Governo, è provvista di una sua legittimità relativa all‟esercizio del Potere. 3. Nella “grandezza dell‟uomo” prometeico moderno Ricoeur pone “anche la sua colpa”, aprendo al “dramma” della “crisi” della storia il discorso teologico sulla storia. “penso – egli afferma – che uno dei compiti della teologia della storia sarebbe quello di riprendere, alla luce della nostra esperienza moderna dello Stato e del mondo concentrazionario […], la critica biblica dei potenti”69, quale fonte di meditazione sul “legame fra grandezza e colpevolezza” e la “ambiguità alla seconda potenza della storia”. E così La colpevolezza appare solo dove la storia è la possibilità dei progetti di

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R. Barthes, Une problematique du sens, tr. it. cit., pag. 204. P. Ricoeur, Op. cit., pag. 93.

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grandezza. Il piano del progresso resta quello dello strumento; lo strumento non è colpevole; è anche buono, nella misura in cui esprime la destinazione dell‟uomo nella creazione; ecco perché un legittimo ottimismo si riallaccia alla riflessione sul progresso70.

Rimandando la questione della strumentalità al commento alle analisi di Heidegger, basti qui ricordare che ogni “strumento” (e per esso ogni forza economica di intervento sulla realtà) o è tale perché è una destinazione, ossia ne incarna la realtà teleologica che l‟ha posto in essere; ovvero ha una destinazione, definita dall‟uso culturale contestuale. Nel primo caso, è la volontà che l‟ha realizzato a stabilirne il valore, non disponibile dal fruitore storico, poiché la sua destinazione è pre-vista e indipendente dalla sua realtà d‟uso; uso che perciò può essere giudicato improprio. Nel secondo caso, è l‟uso a qualificare la destinazione dello strumento, per cui non esiste alcuna validità apriori, tale da discriminare l‟uso proprio da quello improprio, e la validità coincide del tutto con la sua efficacia, spostandone dunque il giudizio posteriori. Dove situare la “colpa”? Ricoeur non lo dice. Non può esserci “progresso” dove lo “strumento” è inteso come malevolo. Solo l‟indisponibilità dei fini può ammettere un intervento provvidenziale che muti la destinazione originaria, o impropria, nel senso del Bene, che perciò costituisce il valore apriori indisponibile alla volontà umana. Di contro, se lo strumento si qualifica con l‟uso, l‟idea di Bene è una superfetazione fideistica, essendoci solo bene relativi, relativi appunto all‟uso, variabile e capriccioso quanto l‟arbitrio umano. Asserire in tal caso che “lo strumento non è colpevole” e che esso sia “anche buono” è contraddittorio, come lo è l‟intero discorso di Ricoeur, che si muove all‟interno dell‟astratto piano di realtà del razionalismo delle scienze esatte, nel quale colloca la Storia, da lui intesa come mera disciplina accademica anziché come orizzonte situazionale di senso, il cui livello di coscienza ontologico è la storicità. Nel livello di coscienza della storicità, l‟intuizione della conoscenza d‟essenza (Wesenserfassung), non potendo distinguere, quale

70

Ivi, pag. 94.

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fenomeno psichico, tra “apparire” ed “essere”71 non può neppure cogliere il valore di senso della realtà quale è “creduto” sussistere nella visione della coscienza storica. Ed essendo tale credenza a sorreggere il fondamento ontologico della realtà del mondo-della-vita, da essa dipende anche “l‟opinione” che le scienze possano dare risposte credibile all‟ “enigma” della vita, per cui la “indigenza” di credibilità di esse propriamente non “sorge dalla scienza”, come vorrebbe Husserl72, ma bensì dalla credenza in essa, cioè nella sua assoluta validità. Ogni sapere creduto valido è “assoluto”, e ogni sapere non più creduto valido è “relativo” al suo tempo di credenza, e da qui, come ormai sappiamo, origina la critica alla coscienza mitica superata dalla nuova coscienza (più) razionale. Prima della stabilizzazione della credenza e della sua socializzazione, il regime di senso è polisemico, come nel caso delle età di transizione da uno ad altro orizzonte antropologico di senso, quando diverse Weltanschauungen “possono entrare in conflitto fra loro”. In questi casi, sostiene Husserl, “solo la scienza può decidere”73 in merito alla loro validità. E‟ evidente che qui per “scienza” s‟intende il sapere creduto assoluto, e per Weltanschauung il sapere confutato. Ma l‟atteggiamento dei due livelli di coscienza, ovvero dei due tipi di sapere, è il medesimo, e relativo a una posizione da prendere a favore di una o altra posizione di coscienza, cioè ad una o altra interpretazione della vita e giudizio di realtà. Ossia a una “decisione” come atto di volontà a favore di una tesi, giudicata la migliore, e perciò creduta avere “il marchio dell‟eternità”74. Ma è questa decisione relativa all‟Essere ciò che abbiamo indicato come “decisione ontologica”, che è propria di ogni fondazione teorica che si assume il compito di dare una “risposta rassicurante” al thàuma che Husserl chiama “enigma”. E se la risposta pseudo-scientifica del passato appare alla coscienza di Husserl “superstiziosa”, ossia “mitica”, la sua stessa risposta “scientifica” si poggia a sua volta sulle stesse premesse superstiziose, che si riveleranno a loro volta mitiche a

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E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 48. Ivi, pag. 98. 73 Ivi, pag. 99. 74 Ibidem. 72

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più matura coscienza. In questo progresso della coscienza razionale il razionalismo moderno ha indicato la destinazione del sapere metodico, esso solo creduto giusto e definitivo e perciò “eterno”. Tale fede rende la fondazione ontologica della scienza una credenza di verità, un valore assoluto, diverso da una “illusione della coscienza”, come la chiamerebbe Scheler75, o da in inganno ciarlatanesco e sofistico, come lo direbbe Platone. Un volta criticato il Mito e ridotta la sua credenza di validità in Weltanschauung, la “scienza” non può che “mantenersi consapevolmente separato” da esso teoreticamente76. Ma la separazione del teoretico dalla funzione pratica del sapere è nata dalla perdita di tale funzionalità da parte della visione del mondo preposta a giustificare l‟universo di vita costruito sulla sua base dagli uomini storici, per cui quella distinzione nasce dalla perdita della visione organica del mondo costituita originariamente dalla relativa Weltanschauung, un tempo fede di verità e quindi ridotta a visione superstiziosa e, appunto, a Mito. Ma perseguendo il disegno cosmologico della scienza, in realtà non si esce dal Mito della monosemia, ma soltanto lo si rielabora. Come scrive Husserl, “vi è qui una sola via d‟uscita: che la stessa filosofia della Weltanschauung rinunci in tutta onestà alla pretesa di essere scienza e cessi pertanto […] di fuorviare gli spiriti e di ostacolare il progresso della filosofia scientifica”77. Ma non era questa la stessa richiesta socratico-platonica rivolta ai sofisti? Non è su questa premessa epistemologica – di rappresentare la “vera” scienza al cospetto della “falsa” – che la filosofia dialettica ha preteso di confutare ogni Weltanschauung religiosa e ogni posizione sofistica dei retori e demagoghi del tempo? E non è forse questa l‟eterna pretesa di ogni pensiero razionalistico avanzata verso un

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“Illusione è falsificazione e disordine nel rapporto tra coscienza e ordine dei valori che costituisce la struttura essenziale della realtà, è alterazione del‟unità dell‟esperienza teorica e pratica, conoscitiva e volitiva, che ha il suo cardine nell‟originaria relazione emotiva di valore, di amore e di odio, con il mondo”: L. Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondità, in M. Scheler, Die Idole der Selbsterkenntnis (1912), tr. it., Milano, 1999, pag. 19. 76 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 99. 77 Ivi, pag. 101.

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pensiero giudicato “religioso” e “mitico”, cioè “superstizioso”? Qual è la novità rappresentata dalla posizione di Husserl? Anch‟egli lancia i suoi appelli apocalittici contro le false credenze ingannatrici, per cui “non potremmo più nutrire alcuna speranza in risultati teoretici, qualora divenisse predominante l‟impulso alla Weltanschauung così da ingannare con le sue forme scientifiche anche le nature teoretiche”78 dimenticando che quella stessa Weltanschauung svolse pur essa una funzione essenziale alla civiltà umana, quella di garantire ontologicamente l‟Essere del mondo e consentire all‟uomo di offrire risposte rassicuranti circa la sua paurosa ignoranza antropologica della vita. La “scienza” non è, come invece ritiene Husserl, “un valore tra altri valori di pari diritto”79, ma può essere solo “il” valore di chi ha fede nel suo sapere, e tale da fungere da fondamento ontologico ed etico per l‟uomo, collettivo e singolo. Definire pertanto la Weltanschauung come autoreferenziale e “l‟habitus e il prodotto di una personalità individuale, mentre la scienza sarebbe il risultato di un lavoro collettivo di generazioni di studiosi”80, è scambiare un fatto isolato dal suo processo ideale, col processo ideale stesso, alla stessa stregua della distinzione del teoretico e del pratico astratti dal loro storico processo dialettico e definito fuori del loro reciproco rapporto ideale-reale. Una risposta incongrua, quella di Husserl, come già a suo tempo era stato rilevato da Scheler81, viziata della stessa malattia scientista propria della sua epoca, e che risale agli inizi dell‟età

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Ivi, pag. 100. Ivi, pag. 101. 80 Ibidem. 81 “Il contrasto con Husserl sta nel passaggio dalla sospensione del „giudizio di realtà‟ all‟abolizione dell‟assolutismo della realtà, dell‟ovvietà inavvertita del dato. Il predicato del giudizio di esistenza è infatti già riempito, secondo Scheler, prima degli atti logici, da atti prelogici involontari, quali il desiderio e l‟impulso che costituiscono il senso di realtà propriamente detto. L‟epoché husserliana non farebbe quindi che mettere in luce l‟esser-così casuale dell‟oggetto implicito nella sua collocazione spazio-temporale. Husserl attinge così la coscienza pura, ma non l‟essenza, che rappresenta una completa sottrazione alla relatività e contingenza della realtà che si dà a livello prelogico, non è semplicemente lo schema ideale della realtà naturale, ma è l‟eterno intrecciato al contingente, l‟invisibile nel visibile”: L. Boella, Loc. cit., pagg. 24-25. 79

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moderna, alla dissoluzione del Mito cristiano. Il sapere come “scienza” anziché come “sapienza”, è un sapere dimezzato, astratto dal suo fondamento di fede ontologico, dalle sue ragioni esistenziali. Una scienza senza sapienza è una verità senza fondamenti di fede, senza credenza di verità: un metodo e una convenzione, ma non una autentica conoscenza della realtà. La vera “capacità teoretica” è quella che ricerca le risposte a un bisogno ontologico ed esistenziale, antropologico, e perciò una ricerca non fine a se stessa, e in continuo contatto vitale col mistero di cui quella ricerca è sapienza e consapevole ignoranza. Sapere relativo, e perciò indefinito, storicamente valido, e perciò degno di fede. La sua relatività è legata alla sua dimensione finita, aperta al molteplice divenire, a quel continuum della coscienza che proprio la fenomenologia ha dichiarato aperto al passato e insieme al futuro. Ma proprio per questa sua apertura non può alcun sapere separarsi dalle altre forme di coscienza, rispetto alle quali esso si definisce come interno a un orizzonte di senso, che è storico e insieme ideale. Asserire perciò, come fa Husserl, che “solo quando la netta separazione tra l‟una e l‟altra forma di filosofia si sarà Imposta nella coscienza contemporanea, la filosofia potrà pensare di assumere la forma e il linguaggio di scienza autentica”82, significa confermare il mito del “superamento” di una condizione pre-istorica da parte di una autenticamente storica: mito che il positivismo ha condiviso con il marxismo e che ritorna in Husserl. Tale mito, di origine chiaramente teologico-escatologica, intende formare l‟Uno a partire dal Molteplice, chiamando questo “kaos” e l‟altro “kosmos”, intendendo fare di “ogni frammento di scienza compiuta un intero di momenti di pensiero, ciascuno dei quali immediatamente evidente”83, ossia visione oggettiva della verità ideale, portando a realtà definitiva di forma razionale ogni possibilità insista nella realtà informale, cioè “convertire in forme razionalmente univoche i presentimenti di un senso profondo [cioè della profondità propria della sapienza], questo è il processo essenziale della nuova costituzione delle scienze rigorose. […] Dallo stadio della profondità

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Ivi, pag. 102. Ivi, pag. 102.

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[caotica] a quello della chiarezza scientifica”84: questo il progresso della conoscenza proposto da Husserl, il nuovo Mito teoretico antidecadente, che fa leva sulla forza della volontà per superare “ciò che è inferiore” al suo compito morale, religioso e messianico. “Chi è capace di risvegliare la credenza e di suscitare comprensione ed entusiasmo per la grandezza di uno scopo, troverà facilmente le forze da dedicargli”. La lotta del presente è contro “lo scetticismo che ha dissolto gli antichi ideali non chiarificati”; contro “il negativismo scettico (che si chiama positivismo) mediante il vero positivismo”, cioè la fede nella vera “realtà”, che è quella della “scienza filosofica”85. A tal fine occorre superare la realtà “falsa”, con un “radicalismo che appartiene all‟antica essenza filosofica”, superatore di ogni “dato” del passato, e perciò profondamente eversore dell‟ordine ideale costituito e rivoluzionario delle sue strutture storiche. Certo abbiamo bisogno anche della storia – concede Husserl -. Non però di perderci, come fa lo storico, nell‟analisi delle connessioni in cui si sono sviluppate le grandi filosofie; piuttosto noi abbiamo bisogno di queste filosofie per se stesse, dello stimolo che proviene dal loro proprio contenuto spirituale. Infatti da queste filosofie del passato scaturisce, se sappiamo sprofondare il nostro sguardo in esse, penetrando l‟anima delle loro parole e delle loro teorie, una vita filosofica, con tutta la ricchezza e la forza delle loro motivazioni viventi. Ma non diventeremo filosofi grazie alle filosofie. Rimanere ancorati alla sola dimensione storica […], voler raggiungere la scienza filosofica in un‟elaborazione eclettica o in un Rinascimento anacronistico: sono questi soltanto tentativi senza speranza. Non dalle filosofie, ma dalle cose e dai problemi deve provenire l‟impulso alla ricerca. Per sua essenza la filosofia è però scienza dei veri inizi, delle origini, dei rizomata pantòn. La scienza di ciò che è radicale deve essere radicale anche nel suo procedere, e cioè sotto ogni aspetto86.

Parole enfatiche, lugubri, terribili per la loro carica escatologica e messianica, decadente e rivoluzionaria a un tempo, nella cui prospettiva la storia diventa, come per ogni astratto razionalismo, il luogo della perdizione, da cui riscattarsi emendandosi da ogni suo

84

Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 104. 86 Ivi, pag. 105. 85

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limite ideale e pedagogico. Il culto storicistico dei fatti, giustamente criticato, viene però stigmatizzato in nome di un altro culto, di altra fede, ritenuta superiore, quella della vera sapienza del proprio metodo, la definitiva sapienza, eterna, accessibile agli iniziati coraggiosi alla verità. la stessa filosofia ora è sogguardata con sufficienza, come sapere ingenuo, da cui non può sortire il vero pensiero, la fede nella verità. solo la fede può generare la fede. E le nuove origini sono un atto di fede, di volontà metafisica che l‟Essere “sia”, in luogo del Nulla. Da qui ripartire. 4. La “salvezza”, scrive Ricoeur, diversamente dal “peccato”, è un articolo di fede. La speranza della salvezza viene dal credente vissuta dentro la Storia, abitata dall‟antinomia di “senso” e “mistero”. La visione “totale” della Storia è dominata per il cristiano dalla “Signoria di Dio”, il Quale si pone al centro della Storia come delle singole vite individuali87. L‟ “altra storia”, quella fornita di un senso non accessibile dal piano fenomenico immediato, quello “profano”, diventa comprensibile sul piano della fede, per cui “ciò che permette al cristiano di superare l‟incongruenza della storia vissuta, di superare l‟assurdità apparente di questa storia [profana] è il fatto che questa storia è attraversata da un‟altra storia, il cui senso non è inaccessibile, che può essere compresa”88. Ma tale comprensibilità rimane nondimeno “esterna” al senso precipuo della fenomenologia storica, e ciò è una conseguenza dell‟impianto razionalistico del discorso teoretico di Ricoeur, che accoglie l‟idea del‟assurdità della storia in sé. La storia profana, che in sé è insensata, va dunque inscritta in una storia “sacra”, nel suo “senso” di sviluppo, in modo tale da intersecarsi e costituire un‟unica Storia, nella speranza “che ogni storia sia in definitiva sacra”89. Il “senso” della storia è dunque un atto di fede col quale viene superata l‟antinomia della visione razionalistica, sospesa ambiguamente tra ragione e irrazionalità. La sintesi di tale antinomia non è il prodotto di una logica dialettica, un concetto superiore di storicità, ma la “speranza”, ossia una categoria teologica, meta-storica,

87

P. Ricoeur, Op. cit., pag. 95 Ivi, pag. 96. 89 Ivi, pag. 96. 88

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che fa assumere al “senso della storia” un significato “escatologico”. La “colpa” dunque ci appare ora come impotenza della ragione a superare l‟antinomicità dei fenomeni storici, come necessità di un appello di fede acché si pervenga a quella sintesi (all‟uomo incomprensibile sul piano della sola ragione) di storia sacra e profana, quella “unità di senso” che sfugge all‟intelligenza umana e che l‟uomo può rinvenire solo “in Cristo”90, in quanto “senso escatologico” e non, appunto, storico. Sul piano della storia sacra, la speranza non risponde più al thaumazein filosofico, che è meraviglia mesta a paura, ma “esorcizzare” la “disperazione”, che è il suo opposto dialettico. Non più il “progresso” è speranza storica, ma la speranza escatologica è la vera speranza, che però è dalla storia, più che della storia, “poiché davanti a tutta la storia nn possiamo tracciare un bilancio” interno alla storicità. “Ecco perché il senso che la storia può avere nel suo insieme [si noti la possibilità di senso come appunto speranza] è oggetto di fede; non è oggetto di ragione, come il progresso strumentale”91. La “colpa” della ragione profana è il sentimento della sua resa di fronte al mistero. Il razionalismo capitola di fronte al senso della storia profanata e torna alla fede come figliol prodigo che, dopo tata dissipazione di intelligenza, meni al “senso” eterno della fede del Padre, l‟unica a poter superare la disperazione del non-senso della “ambiguità” storica. Il tema esistenzialistico della disperazione si innesta nel sottofondo razionalistico di una gnoseologia scientista, e alla fine, senza aver conseguito una unità di senso, l‟intelligenza storica si trova a un bivio critico, che somiglia al “pari” di Pascal. La speranza mi dice: vi è un senso, cerca un senso. Ma questo senso è nascosto; dopo aver fatto fronte contro l‟assurdo essa fa fronte contro il sistema. Il cristianesimo ha una diffidenza istintiva nei confronti delle filosofie sistematiche della storia che vorrebbero mettere nelle nostre mani la chiave dell‟intelliggibilità. Fra mistero e sistema occorre scegliere. Il mistero della storia mi mette in guardia contro i fanatismi teorici e pratici, intellettuali e politici92.

90

Ivi, pag. 97. Ibidem. 92 Ivi, pag. 98 91

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La lettura simbolica della storia deve evitare il “sistema” che ne limiti la polisemicità, obbligando a una ermeneutica occlusiva del senso possibile, cioè della stessa libertà interpretativa che lasci sussistere il “mistero”. Ma vi è un salto logico. La “possibilità” che si traduca in “sistema razionale” viene rappresentato come “fanatismo teorico” e definizione dogmatica, mentre se intesa come credenza escatologica acquista il valore della speranza di salvezza. E‟ il rovesciamento dell‟impianto razionalistico della coscienza storica come senso immanente univoco, sostituito dal senso trascendente. Ma – ed è questo il punctum dolens -, la storia viene da un lato definita come disperato non-senso a seguito della sua “ambiguità” ontologica, ossia della sua stessa possibilità, e dall‟altro la “ricerca di senso” ispirata dalla speranza viene osteggiata dalla fede. Perché l‟uomo dovrebbe temere le risposte razionali se la ragione è la ricerca stessa del senso? Ricoeur non motiva l‟opzione per la fede, ma l‟assume come una decisione di fatto, e neppure la “diffidenza” per la ragione. Se il sapere è anch‟esso “strumento” di Bene e possibilità di progresso, anche la ragione è potenziale strumento di salvezza, se rettamente usata. Ricoeur non distingue tra una ratio lapsa e una recta ratio ed estende la “diffidenza” Anche a quest‟ultima, mostrando di non intendere la “speranza” come ricerca dell‟unità di fede e ragione. Egli lascia invece spaiati i due termini, rievocando quello stato d‟animo che prelude alla “scelta” ontologica93, fideistica e volontaristica, in cui la disperazione è riscattata dalla speranza, la quale a sua volta ispira la ricerca di senso, in un processo infinito in attesa della garanzia, la “parousìa” dell‟avvento escatologico: la Rivoluzione, a seconda dei casi teologica (Gioachino), religiosa (Lutero), politica (Rousseau), sociologica (Comte), economica (Marx), metafisica (Husserl). Ma perché la speranza nn può essere esaudita da Dio per mezzo (della ragione) dell‟uomo? Perché la filosofia doveva lasciare il passo al mistero? Quell‟ “orizzonte infinito di scienza non ancora effettivamente realizzata” di cui Husserl?94Questo interrogativo al 93

Anche per Scheler, la “posizione fenomenologica” non è un “semplice metodo” ma una “presa di posizione” e un “orientamento”: L. Boella, Loc. cit., pag. 22. 94 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pag. 94.

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quale Hegel risponde con la filosofia dialettica dello Spirito, aleggia nelle pagine di Ricoeur come una impellenza che rimane però senza cura di risposta, rendendo incongrua ogni formazione spirituale. Infatti, perché la “sfida” di una civiltà può essere accettata e sostenuta con successo, e non quella metafisica dell‟uomo verso il suo destino antropologico? Posta la similitudine pasca liana della storia come coscienza collettiva di un‟unica umanità, perché la storia non dovrebbe avere in se stessa le risposte, pure ispirate da Dio? Se la fede si fonda a suo dire sul “coraggio di credere a un significato profondo della storia più tragica”, perché non fondare la filosofia su tale coraggio? La risposta di Ricoeur è evasiva, apologetica, fideistica, ma non filosofica. Di diritto è essenziale che la speranza resti sempre alle prese con l‟aspetto drammatico, inquietante, della storia. E‟ precisamente quando la speranza non è più il senso nascosto di un nonsenso apparente, quando si è slegata da ogni ambiguità, che essa ricade sul progresso razionale e rassicurante, che mira all‟astrazione morta; ecco perché è necessario rimanere attenti a questo piano esistenziale dell‟ambiguità storica, fra il piano razionale del progresso e il piano superrazionale della speranza95.

Vale a dire, non c‟è progresso che nell‟ambiguità, che rimane indispensabile alla speranza e quindi al superamento della disperazione nella fede. Risposta inquietante, che non placa il thaumazein della coscienza filosofica ma rimanda a un altro livello di coscienza. La verità è anzitutto una “fede”, e, prima di essere conseguita, una “speranza”. La differenza tra la speranza religiosa e quella filosofica risiede nella diversa temporalità di cui si nutrono rispettivamente le relative coscienze. La speranza filosofica si nutre del tempo della storia, e interessa dunque la dimensione finita dell‟Essere, mentre quella religiosa è una verità assoluta, meta-storica, conseguibile escatologicamente solo alla fine della storia. La speranza filosofica è relativa, contingente e contestuale; la speranza religiosa è differita all‟altrove e al non ancora. Questa differenza pare irriducibile, e tale la considerano pensatori molto diversi come Leo Strauss e Max Scheler. In realtà, anche la verità filosofica, pur radicata nella storia, ha in sé un

95

P. Ricoeur, Op. cit., pag. 100.

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fondamento meta-storico poiché attinge a un orizzonte coscienziale ultroneo rispetto a quello fenomenico ed empirico della “scienza” storiografica, quello aperto alla trascendenza, e perciò polisemico ed ermeneuticamente interrogante l‟Essere. Una verità che si presenta come n opinabile né correggibile, scientificamente “certo”, si costituisce come unità di senso “compiuto” all‟interno del suo orizzonte di senso, del suo “sistema”. Il sistema filosofico è una unità di senso che si costituisce come “verità” di un orizzonte situazionale di senso logicamente compiuto. Rispetto all‟orizzonte di senso religioso, post-istorico, l‟unità di senso filosofica appare nondimeno parziale, e perciò suscettibile di verifiche mondane, perché infra-storica, e quindi determinata dalla dimensione del Molteplice di cui essa si costituisce appunto come Unità. Questa condizione sembrerebbe accomunarla a quella di ogni altra certezza scientifica, ma l‟equivoco di tale similitudine deriva dalla confusione della storia come sequenza di avvenimenti fenomenici legati da un rapporto o nesso causale, dalla storicità, intesa come condizione ontologica degli enti nel tempo storico. “Il metodo sperimentale”, scrive Husserl, “è indispensabile se si tratta di fissare connessioni intersoggettive di fatti. Ma esso presuppone ciò che nessun esperimento è in grado di realizzare, l‟analisi della coscienza stessa”96. Ma tale presupposto è indispensabile solo se a quei “fatti” corrispondono gli stati di coscienza, il cui senso univoco della conoscenza è dato dall‟Essere inteso come “correlatum di coscienza”97. Il livello di coscienza storico è ontologicamente “pluralistico” perché indeterminatamente aperto alla possibilità, sul versante del passato e del futuro, quale dimensione temporale dell‟eterno presente dell‟Essere che diviene attuale e nella attualità si determina storicamente per mezzo del giudizio di realtà. Tale giudizio è “univoco” nel senso del “metodo” scientifico, non nel senso della realtà storica, la quale diventa oggetto di giudizio attraverso l‟identità dell‟ente e dell‟Essere della coscienza. Ed è questa identità che consente la “oggettività” della conoscenza dell‟ente come Essere, ossia dell‟Essere dell‟ente. Ed è la stessa identità che consente la

96 97

E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, tr. it. cit., pag. 32. Ivi, pag. 25.

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convertibilità gnoseologica dell‟ente (factum) e dell‟Essere (verum). Ciò che è la coscienza per Husserl era il linguaggio per gli scolastici, la cui ontologia faceva “derivare i giudizi analitici dai significati delle parole, nella convinzione di avere così ottenuto una conoscenza di fatti”98. Infatti anche l‟analisi fenomenologica considera alla stregua di “fatti” o di “parole” gli stati di coscienza, il cui “linguaggio” è costituito dalla suddetta correlazione di coscienza, la quale determina per l‟appunto il senso metodicamente univoco degli enti sussunti entro il suo orizzonte gnoseologico, trascegliendo nell‟ambito dell‟esperienza molteplice quella giudicata idealmente significativa. Ex pluribus unum. Ciò vuol dire che l‟ordine sistematico dato al caos pluralistico delle esperienze si ottiene attraverso una riduzione ontologica dell‟Essere possibile in Essere attuale. Tale reductio ad unum è, in verità, un‟operazione logica che assume valore ontologico in virtù della creduta identità dell‟Essere e dell‟ente; la stessa “convinzione” che fa sì che la conoscenza ideale, “scientifica”, corrisponda alla conoscenza della realtà fattuale, alla “conoscenza di fatti”. La questione di come l‟esperienza naturale, “confusa”, possa divenire esperienza scientifica e si possa giungere alla determinazione di giudizi d‟esperienza oggettivamente validi, rappresenta la questione metodologica cardinale di ogni scienza empirica [che] storicamente trova la sua risposta nella pratica, vale a dire nel fatto che i geniali pionieri della scienza empirica colgono in concreto e intuitivamente il senso del metodo empirico necessario e, seguendolo scrupolosamente, realizzano in una sfera accessibile d‟esperienza una parte di determinazioni oggettivamente valide d‟esperienza, dando così inizio alla scienza99.

Non devono a una qualche “rivelazione” i “motivi del loro procedere”, ma al “senso dell‟essere” dato dall‟esperienza100. Ciò vuol dire che all‟Essere si può pervenire attraverso l‟esperienza!, anche se in modo “vago” e “confuso”. Da qui sorge il bisogno “di come debba essere determinato in modo oggettivamente valido”, attraverso migliori

98

Ivi, pag. 33. Ivi, pagg. 39-40 100 Ivi, pag. 40. 99

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“metodi”101. La scienza, dunque, non è che una progressiva chiarificazione razionale e metodica dell‟essere confusamente percepito dalla coscienza ingenua o comune. I presupposti del metodo sperimentale, aggiunge Husserl kantianamente, sono a priori e “non possono fondarsi da sé”, per cui la fisica, la scienza pilota della natura, “esclude di principio il fenomenale per ricercare la natura che in esso si presenta”102. La “natura” della realtà storica, la sua “fisica”, è la sua essenza temporale, la sua “storicità” ontologica, ossia la sua finitezza. Il livello di coscienza filosofico, portando ad unità di senso il Molteplice storico, lo assume nel suo valore ideale, il quale è “storico” nel senso del suo contenuto fenomenico, non nel senso del valore. La storicità del valore è determinata dallo “sviluppo logico” e dalla “ulteriore elaborazione concettuale” dei suoi principi fondamentali a opera di una “filosofia della Weltanschauung” che rielabora criticamente quel valore, assumendolo come suo oggetto storico. La storicità dell‟esperienza finita risiede dunque nella sua mancanza (o perdita) di “valore”, ossia di determinazione ideale. E‟ questa la sua “colpa” originaria: la sua indeterminatezza ideale, che è il polo dialettico dell‟Essere determinato. Sul livello di coscienza storicistico, un processo avvenimenziale, stabilito idealmente come dotato di senso unitario, viene astratto dalla sua storica molteplicità e de-finito come una esperienza conchiusa costitutiva di un “orizzonte situazionale di senso”. L‟unità di senso così ottenuta è meta-storica, perché trascende la finitezza ontologica del Molteplice attraverso il giudizio di realtà, che è sempre “dialettico” in quanto discriminante l‟essere dal non-essere. La realtà storica trascesa al livello di realtà ideale assurge dal piano dell‟indeterminato Negativo a quella della determinazione positiva, cioè dell‟Essere. Il livello di coscienza dell‟Essere ideale, cioè determinato, è quello teoretico, diverso da quello pratico dell‟esistenza, che è il piano di realtà della coscienza storica, ovvero della realtà molteplice e indeterminata. Rispetto al piano di coscienza ideale, il piano storico è quello del Negativo, che è opposto a quello dell‟Essere positivo. Ma

101 102

Ibidem. Ivi, pag. 42.

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l‟opposizione dei due piani di coscienza, ossia di realtà ideale, solo idealmente si risolve nello scarto dialettico, laddove, sul piano di realtà storico, l‟opposizione dei due piani di coscienza è kantianamente “reale”, ossia non dialetticamente esclusiva ma socialmente polemica, ossia oppositiva di forze contrarie, diversamente determinate. Il piano storico della contrarietà polemica costituisce l‟orizzonte di senso della coscienza politica. Nell‟ambito dell‟unità ideale dello Stato, che è la struttura formale del modello socialitario, cioè entro l‟orizzonte di senso della statualità, il livello di coscienza politico si costituisce come la mediazione di senso tra l‟indeterminato livello storico, costituito dalla coscienza economica, e il livello ideale del governo dello Stato, costituito dalla coscienza etica. Senza la mediazione di senso della coscienza politica non sarebbe determinabile alcuna distinta unità di senso dei diversi livelli di coscienza, per cui ogni evento storico sarebbe egualmente ascrivibile sia alla coscienza economica che a quella etica, essendo ogni alterità fenomenica ascrivibile all‟unità dell‟Essere determinativo. Pertanto sia l‟idealtipo economico della sociologia smithiana o marxiana, che quello etico burkeiano o hegeliano, hanno la stessa legittimità razionale a sussumere entro il loro rispettivo orizzonte di coscienza gli oggetti del loro (astratto) giudizio di realtà. Il livello politico, affermandosi attraverso la contrarietà polemica – la “ostilità” schmittiana - può determinarsi o negando il livello economico della coscienza storica, oppure negando il livello ideale della coscienza etica, aderendo, a seconda dei due casi, alla positività – o “amicizia” dell‟uno o dell‟altro piano di coscienza. Da qui la necessità, per il benessere della società e per la vita dello Stato, della libera determinazione dei gruppi politici, dove la “necessità” è costituta dal momento etico della politica, e la “libertà” dal suo momento economico. Questa posizione mediatoria ha fatto sì che la politica in sé stessa, come tecnica di alleanza e di opposizione, venisse indicata erroneamente come il luogo della sintesi degli interessi e delle idealità dello Stato appunto politico. Da questa concezione nasce lo Stato legislatore, il quale, superando il livello di coscienza morale della giustezza dei rapporti personali e sociali, e la spontanea adesione dei membri sociali alla costituzione storica di essi, ossia la conformità allo stato di fatto o naturale quale portato della tradizione delle culture nazionali, postula una statuizione 55


legale che, coi suoi precetti astratti e meramente imperativi, resta indifferente alla partecipazione dei destinatari della normativa. L‟astratta determinazione della statualità politica si manifesta nella natura del Potere, che nello Stato politico è impersonale quanto l‟ubbidienza formale. Sicché lo Stato, quale Potere erogatore di norme e di sanzioni, diventa esterno alla coscienza dei sudditi, e a volte estraneo, e per tale ragione può essere osteggiato dai patrocinatori di una diversa visione politica. E‟ per soppiantare questa astratta visione del Potere, e nello stesso tempo per assimilare il sentimento di appartenenza della comunità politica alla forma moderna di Stato razionale, che Rousseau tenta di conciliare la forza collettiva con le singole volontà, teorizzando circa l‟origine popolare del potere sovrano. Ma è con Haller, per il quale non sarebbe il popolo a creare i principi, ma questi quello, che si stabilisce il primato della politica sulla società civile. Se il “valore” dell‟azione sociale è determinato dalla (sola) coscienza politica come ratio potestatis, ogni qualità ideale viene a perdersi venendo a mancare ogni destinazione teleologica del Potere, ridotto a tecnica fine a se stessa. Le ideologie politiche, ponendo il livello della coscienza politica anziché come il mezzo della libertà, come la libertà stessa, hanno costituito il suo orizzonte di senso come l‟orizzonte stesso dello Stato, trasponendo la parzialità delle proprie posizioni pratiche in termini di totalità esclusiva propri dell‟ordine teoretico. Il loro modo di semplificazione ontologica della storia, similare a quello di ogni astratta idealità, costituisce una di quelle forme di “sistema” paventate da Ricoeur in quanto teorie razionalistiche della storia che non tengono conto della natura “ambigua” della storicità. 5. L‟affermazione del principio nazionalitario e statalistico, risultata dall‟erosione del Sacro Romano Impero, se non corrobora la Chiesa universale, già garante morale dell‟unità imperiale, la quale, per le sue co-implicanze politiche si frantuma in tante chiese nazionali, funzionali ai fini politici della unità nazionale dei singoli Stati, che non potevano per principio accettare una giurisdizione superiore alla propria quale quella ecclesiastica, perdendo di vista l‟orizzonte ideale di cui doveva essere strumento, ha finito per fallire affermando il suo stesso assolutismo, con gravi conseguenze per la civiltà e la stessa sopravvivenza politica dei popoli europei. 56


Lo storico che ha condiviso l‟ideale razionalistico della “autonomia” della politica e la sua determinazione finale e non strumentale, e che sul piano teorico ha negato ogni mediazione tra il piano di coscienza teoretico e quello pratico, fu Croce, il quale, per riprendere le parole di Chabod, Prima ha negato la possibilità di una storia politica unitaria dell‟Italia prima del 1860 […]; e poi […] ha negato il problema stesso di un‟unità in re, perché nell‟opera storica non v‟è “altra unità che quella che di volta in volta è richiesta dal nostro bisogno morale di aprirsi la via alla pratica azione” 103.

La soluzione offerta da Croce è in realtà un paralogismo, poiché l‟unità morale non è, nella fattispecie, una premessa, cioè la soluzione, ma l‟obiettivo da conseguire, ossia il problema, per cui l‟unità politica diventa in re una volta acquisita come un dato oggettivo di giudizio, cioè un “fatto” storico, e non come un progetto morale. Qui come altrove, l‟idea di poter sostituire alla storia “vera” quella “reale”, contraddittoria e instabile, il senso univoco a quello “ambiguo”, è una posizione idealistica di origine platonica, che niente aggiunge al problema storico trasferendolo nel campo storiografico. L‟idea che il livello di coscienza razionalistico possa risolvere dialetticamente i diversi piani di realtà storici assumendoli come idealmente opposti, anziché realmente contrari (o “reali”), decretando la “morte” delle dottrine che li riflettono concettualmente, equivale a negare la pur asserita distinzione, ripresa da Chabod, tra motivo ideale e realtà di fatto. L‟unità spirituale può infatti anche sussistere accanto o contro le divisioni civili e politiche, operando su un livello di coscienza distinto dagli altri, ma non si può sostituire un dato di coscienza con uno storico-sociale, appunto alla maniera di Croce. Il principio unitario, una volta determinato idealmente, cioè sul livello di coscienza teoretico o morale, per aderire all‟orizzonte di realtà della coscienza etica, deve potersi tradurre in realtà istituzionale, diventando, da coscienza “privata” coscienza “pubblica”, altrimenti ogni “repubblica delle lettere” sarebbe sufficiente alla bisogna. Ma, come il motivo religioso ha bisogno di confermarsi in una Chiesa, così il motivo politico ha bisogno di risolversi nell‟orizzonte di senso di uno Stato, 103

F. Chabod, in AA. VV., Omaggio a Croce,Vol. I, cit., pagg. 179-180.

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cioè in una istituzione etica di Governo degli interessi in conflitto. La concezione di un piano di realtà “autonomo” – lo Stato “politico”- è la proiezione ipostatica di un livello di coscienza, quello appunto politico, la cui natura ha la stessa funzione nel campo della vita pratica che ha la logica dialettica nel campo teoretico, ossia di distinguere gli enti sul fondamento di un principio di realtà di natura ontologica. Se tale principio, anziché essere assunto come un dato originario di coscienza, afferente a un orizzonte di senso allotrio, che la politica (o la logica) deve riconoscere per poter operare, viene determinato dalla coscienza politica (o logica) stessa, allora l‟orizzonte di coscienza che si viene a de-finire è di senso politico (o logico), e ciò comporta che l‟astratta universalizzazione del livello di coscienza politico (o logico) escluda finalisticamente ogni altra dimensione di senso, rendendo metodicamente coerente al proprio senso ogni diversa determinazione ideale, approdando così a un pan-politicismo (o a un pan-logicismo) che assorbe ogni alterità reale nella sua ideale sussunzione metodica. L‟universalizzazione di un determinato orizzonte di senso determina a sua volta, a fronte di un suo coerente strutturazione formale, uno svuotamento di senso provocato dal venir meno della stessa indeterminazione storica, che consente la polisemicità di diversi orizzonti di senso. La conversione di ogni livello di coscienza storica all‟unico senso determinativo di realtà dell‟orizzonte politico (o logico), configura un piano di realtà idealmente coerente ma ontologicamente astratto, perché metodicamente esclusivo dei molteplici livelli di senso che rendono concreto il piano simbolico della storicità. Ed è questa la ragione per cui i sistemi tanto più sono formalizzati quanto più sono vuoti di senso storico, astratti. E lo stesso linguaggio politico, da lingua della mediazione o diplomatica, ha viepiù assunto modernamente una funzione determinativa di senso autoritativo, aderendo semanticamente al livello della coscienza giuridico. La particolarità del livello di coscienza giuridico consiste nella presupposizione che tutto ciò che ricade entro il suo orizzonte di senso abbia un senso formale e non sostanziale. Questo implica che entro quell‟orizzonte di senso non sono ammessi spazi sistemici vuoti, ossia livelli di realtà extra-giuridici. Rispetto all‟autoreferenziale piano di coscienza politico, la ratio della struttura formale del diritto prevede che il suo fondamento di realtà sia meta-giuridico. La differenza rispetto alle altre determinazioni di senso formali è che 58


“ciò che” ricade entro l‟orizzonte di senso giuridico non sono solo enti reali ma anche enti esistenziali, cioè non solo cose ma uomini, che sono appunto gli “oggetti” precipui della politica. Non a caso il diritto, ossia la scienza giuridica, è lo strumento operativo principale della volontà politica, cioè del Potere, che si pone come la Grundnorm che presiede l‟orizzonte di senso giuridico. Il livello di coscienza morale, stabilendo una differenza ontologica tra gli enti naturali (le cose) e gli enti sostanziali (le persone) oggetto del diritto, pretende che il fondamento normativo extra-metodico del diritto non sia la volontà del Potere politico ma il Bene ( ), cioè l‟Idea dell‟Essere che si pone come l‟Uno nell‟ordine ( ) teleologico del cosmo giuridico e politico. La posizione morale lasciando aperto il senso ideale dell‟Essere, rende strumentale il diritto al suo fondamento di ragione, che è appunto “ideale”. Diversamente, il Potere, ascrivendo allo strumento giuridico una funzione puramente sistematica alla sua volontà, quale quella di renderla metodicamente più efficace, pone a fondamento della sua funzionalità la stessa volontà politica, emancipata da ogni limitazione morale, e cioè a fondamento del diritto la politica pone l‟arbitrio. La volontà arbitraria (eikasia) è quella che fa assumere alle sue empiriche e opinabili determinazioni di giudizio (dianoia) il valore metodicamente vincolante di necessità ideale (noesis). La confusione dei due piani di coscienza, ossia di realtà, quello politico e quello ideale, ha condotto Hegel a concepire come “etico” lo Stato, cioè l‟ideale socialitario, anziché il Governo, cioè l‟istituzione decisiva della validità delle istanze politiche, rendendo l‟azione di governo “politica”, ossia di parte, e astratto l‟ideale etico, lasciando sullo sfondo l‟unità morale dello Stato104. Il fine recondito ma oggettivo dell‟assolutizzazione del piano di realtà politico è l‟eliminazione del “mistero” inteso come evento originario suscitatore del thàuma filosofico, che è la condizione della nominazione dell‟Essere nella rappresentazione simbolica del racconto mitico. In questo senso precipuo, il metodo della razionalità politica

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Lo stesso è accaduto per la Chiesa, la quale, trasformando la sua mediazione storica in realtà etica, ha allontanato il fine escatologico, immanente in ogni atto di fede, alla fine dei tempi, e facendo dell‟azione pastorale ecclesiastica lo scopo politico della sopravvivenza dell‟apparato istituzionale ecclesiale

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persegue, sul piano della effettualità sociale, lo stesso obiettivo logico della dialettica idealistica platonica, di cui è il rispecchiamento pratico: la negazione del Negativo. E poiché il livello di coscienza del mistero si oppone a quello della certezza, e cioè all‟orizzonte di senso scientifico, proprio della realtà finita, opporsi al mistero è opporsi al senso dell‟in-finito, e all‟assunzione di questo come oggetto di pensiero che rende possibile il “servizio” della ragione. Da qui il carattere anti-teologico e a-teistico dell‟antico razionalismo e dello scientismo moderno. La vocazione totalitaria della logica dialettica non consiste, come voleva Popper, nel suo assunto “olistico”, ma molto più radicalmente nella metodica conversione della polisemica realtà storica in una monodica realtà sistemica, inscritta in un unico orizzonte valoriale. Infatti, pervenendo alla progressiva determinazione univoca del senso della realtà, l‟orizzonte di coscienza logico eliminava dalla storia ogni sua indeterminazione, col fine di circoscrivere la sua realtà simbolica entro l‟orizzonte di realtà del suo senso ideale. La “Follia estrema”, come la chiama Severino105, di questa trasmutazione (Verwandlung)106 costituisce la ragione stessa della volontà di trasformare in unità ideale la molteplicità storico-fenomenica. Tale volontà assolutistica inoltre coincide con la stessa razionalizzazione del mondo operata dal disincantamento de-mitizzante del razionalismo moderno, che ricupera in chiave umanistica l‟antico progetto metafisico della logica platonica,

105

E. Severino, Destino della necessità, Milano, 1980; Id., Oltrepassare, Milano, 2007. 106 Diversamente dal cambiamento (), che incide sulla qualità e non sulla sostanza, la trasmutazione “significa invece che un qualcosa, tutto in una volta e in quanto totalità, è qualcosa d‟altro, e che questo qualcosa d‟altro, che esso come trasfigurato è, è il suo vero essere, di fronte al quale il suo essere precedente è nulla”, per cui essa è “nella verità”, ossia una “liberazione e un ritrovamento del vero essere”: H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pag. 143. Ma il concetto è antico e risale a Tertulliano, il quale in una sua nota opera cristologica del II sec., a proposito della natura di Dio, sostiene che “transfiguratio autem interruptio est pristini: omne enim, quodcumque transfiguratur in aliud, desinit esse quod fuerat et incipit esse quod non erat”, ovvero che “la trasformazione (transfiguratio) comporta la distruzione di qualcosa di anteriore; tutto ciò, infatti, che si trasforma in altro, cessa di essere ciò che era e comincia a essere ciò che non era”: Adversus Praxean, 27, 7; tr. it. di C. Moreschini, in Opere scelte di Tertulliano, Torino, 1974.

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di cui abbiamo descritto sopra l‟essenza ontologica. Ma proprio per la persistenza di questo progetto metafisico attraverso le diverse Weltanschauungen che si sono succedute nell‟età moderna, caratterizzando in senso univoco i loro orizzonti di coscienza, è sommamente errato attribuirlo alle sole versioni storiche delle strutture sociali totalitarie esperite nel XX secolo, immaginando la sua estinzione metafisica con la fine politica di esse. Infatti i totalitarismi storici hanno incarnato le forme istituzionali dei rispettivi modelli sociali, ma non hanno esaurito le possibilità storiche inscritte nella loro essenza ideologica, ossia nel fondamento mitico della loro costituzione ontologica, che solo la critica di quel fondamento potrà portare alla luce. Ma finquando persisterà la credenza essenziali che sostiene i loro mitologemi storici e le relative mito-logie che li hanno razionalmente giustificati, i cambiamenti formali non costituiranno altro che le trascrizioni istituzionali di una rielaborazione interna al loro orizzonte di senso. Proprio perché le loro diverse determinazioni ideologiche non incidono sul fondamento ontologico dei rispettivi orizzonti di senso, il loro livello di coscienza insiste all‟interno di uno stesso paradigma mitico, sia pure in termini polemici e politicamente concorrenti, tali che il loro rapporto sia esclusivamente oppositivo, ma in termini “reali” e non logici, per cui la affermazione storica di uno dei possibili orizzonti di senso in conflitto non produca la confutazione degli altri orizzonti di senso, ma soltanto la loro esclusione politica e annichilimento pratico. Ma proprio l‟esperienza storica delle conseguenze devastanti di tale reciproco annichilimento ha condotto la coscienza mitica che sta a fondamento del nichilismo totalitario moderno a riconoscere parzialmente la legittimità razionale dei diversi orizzonti di senso, omologati dallo stesso fondamento ontologico comune ad essi, sicché la forma strutturalmente più aggiornata del Mito totalitario, dopo la forma nazionalistico-fascistica e sociologicocomunistica, è oggi quella individualistico-egalitaria della democrazia capitalistica, la quale ha inteso regolamentare il conflitto dei concorrenti livelli di coscienza all‟interno di un orizzonte di senso riconosciuto giuridicamente comune alle parti politiche in conflitto per il Potere, conciliando in modo sincretistico, all‟interno della stessa struttura istituzionale di società, il pluralismo dei livelli di coscienza e il monopolio esegetico dell‟orizzonte di senso giuridico. Nasce così lo Stato di diritto, che a partire da Bodin, allarga l‟orizzonte politico in 61


senso etico. Ma proprio la coincidenza simbolica dell‟orizzonte di senso politico con il livello di coscienza giuridico crea le premesse ideologiche del totalitarismo moderno, ossia della tirannide giuridicizzata. La differenza formale tra i diversi orizzonti di senso ideologici dei regimi totalitari storici risiede nella diversa rappresentatività dei relativi movimenti politici, ognuno dei quali si costituiva come la rappresentazione simbolica della coscienza politica moderna all‟interno di un orizzonte di senso mitico. Originariamente, la “rappresentazione” è “il modo d‟essere dell‟opera d‟arte”, e non ha il significato di “imitazione” intesa come “copia” di un originale. L‟essenza della copia è infatti di “uguagliare il modello”, così che la sua “adeguatezza” consiste che “nella copia si riconosca l‟originale”, mentre “la rappresentazione sopprime se stessa nel senso che funge da mezzo, e come tutti i mezzi perde la sua funzione quando lo scopo sia raggiunto. Essa esiste per sé unicamente per sopprimersi” 107 . Il concetto sociale di repraesentatio implica lo stato ontologico dell‟immagine in rapporto alla copia. Se intendiamo l‟immagine come repraesentatio, fornita quindi di una sua propria valenza ontologica, dovremo […] rovesciare il rapporto ontologico tra originale e copia [avendo] l‟immagine una sussistenza autonoma che agisce anche sull‟originale, [come accade appunto nella politica, per cui] è solo attraverso l‟immagine (Bild) che l‟originale diventa immagine originale ( UrBild) [e] il rappresentato diventa qualcosa che si dà in una immagine (bildhaft)108.

Il termine di rappresentazione acquista col concetto cristiano di incarnazione e di corpo mistico un‟accezione del tutto nuova rispetto a quella latina. Rappresentazione ora non significa più copia, ma “tenere il luogo di” qualcuno, così come nella raffigurazione pittorica si ha quello del raffigurato. Repraesentare significa dunque “far essere presente” . così l‟assume il diritto canonico e così lo usa anche il Cusano. Nella rappresentazione la persona “rappresentata” è “solo

107 108

H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 172-173. Ivi, pag. 176.

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rappresentata”, cioè non è lei direttamente e totalmente, il che comporta che il rappresentante “dipende” dal rappresentato, anche se assente e di cui tiene il luogo. La soggettivizzazione del concetto di idea nel sec. XVII prepara l‟emancipazione della rappresentazione politica da ogni vincolo di mandato, proprio invece del concetto giuridico privatistico. L‟immagine di rappresentazione politica ha una sua peculiare realtà rispetto al soggetto rappresentato, in quanto la sua importanza o necessità prevale sull‟identità propria del rappresentato, il quale “in quanto si mostra, deve corrispondere all‟attesa che si ha per la sua immagine. Solo perché egli ha un certo essere nel mostrarsi viene rappresentato in una immagine”109. Questo significa che la rappresentanza come evento lpubblico è indipendente dal rappresentato e ha valore superiore al suo essere privato. La rappresentanza determina l‟immagine che si ha di lui e ne prescrive il suo modo d‟essere. Ciò comporta che “l‟originale diventa tale solo in virtù dell‟immagine, [la quale] non è altro che il manifestarsi dell‟originale”110. La rappresentanza giuridica indica una “presenza vicaria”, sostitutiva però non del rappresentato in quanto tale ma della sua “persona giuridica”, cioè di un concetto giuridico. Per cui il funzionario pubblico, nell‟esercizio delle sue funzioni, non ha una immagine privata, ma appunto “pubblica”, che egli “rappresenta” fisicamente. L‟originale, qui, non è il soggetto privato, ma l‟immagine pubblica, che è un concetto. La rappresentanza diventa ancora più indipendente dal soggetto privato rappresentato, e più astratta come immagine pubblica, nel caso della rappresentanza politica, allorquando essa coinvolge una volontà collettiva che, come tale, è sostanzialmente presunta, anche quando espressa nei termini formali di una delega legittima, poiché ciò che viene effettivamente rappresentato non è un interesse determinato dalla volontà del rappresentato, ma stabilito dalla rappresentanza stessa, e cioè dall‟azione del rappresentante, la cui immagine pubblica è quella del facente le funzioni di un ente collettivo mandante che egli stesso incarna in idea e quindi è. In questo caso, l‟ “essere” originale non è

109 110

Ivi, pagg. 176-177. Ivi, pag. 177.

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l‟ente collettivo rappresentato idealmente, ma l’idea che la rappresentanza come ufficio pubblico ha di esso. Ciò che insomma si rappresenta pubblicamente è un‟idea di rappresentanza, appunto pubblica. E‟ dunque all‟idea che l‟immagine deve corrispondere per “essere”, cioè sussistere. In termini religiosi, “l‟immagine non è copia di un essere raffigurato, ma ha una comunione ontologica con il raffigurato”, portandolo in evidenza. In questo senso originario e fondamentale, “l‟arte, in generale e in un senso universale, apporta una crescita nell‟essere in quanto gli conferisce il carattere di immagine”, facendo sì che ciò che essa “rappresenta” sia davvero “ciò che è”111. Ossia l‟Idea quale modello universale dell‟ente rappresentato. La rappresentazione essenziale dell‟arte è l‟Idea come “immagine” dell‟Essere. L‟Essere come immagine ideale, o come Idea in immagine o forma (). La Forma è la fissazione in immagine dell‟Essere ideale: è la sua espressione reale, la sua rappresentazione sensibile, il suo modello. Il Modello è una rappresentazione dell‟Idea fissata dalla tradizione come “tipo” idealmente rappresentativo. il tipo ideale trascende le rappresentazioni particolari in quanto modello astratto, cioè fissato in una “immagine”: l‟eidos dell‟Essere. Rispetto alla mobilità del linguaggio, è la pittura che fissa più duraturamente il “tipo” ideale. L‟immagine del divino (imago Dei) non è la “creazione” degli dèi, cioè la loro “invenzione”, ma l‟apparire dell‟Idea che si ha di essi in una “forma” dotata di senso, significativa. Significativa di qualcosa che la trascende. Trascendere la forma rappresentativa significa giungere all‟Essere come Idea, di cui l‟immagine è la rappresentazione formale. La varietà delle rappresentazioni tipologiche ha acquistato autonoma considerazione con l‟aumentata rilevanza e autonomia dell‟immagine in sé come espressione soggettiva del modello ideale, e la conseguente o parallela perdita di funzione normativa dei modelli formali tradizionali. E‟ proprio il rapporto che l‟espressione ha con il modello formale a segnare i termini della sua soggettiva autonomia. Per cui l‟istanza emancipativa dai modelli formali o tipologici consegue i suoi risultati estetici proponendo la stessa immagine come mediazione

111

Ibidem.

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assoluta con l‟Essere, che perciò viene “rappresentato” come immagine, e quindi sostituito dall‟immagine stessa. Ma a tale conclusione giunge non solo l‟estetica formalistica, ma ogni teoria formalistica dell‟Essere, a cominciare da quella politico-giuridica dell‟essere sociale. L‟essere dell‟immagine è dunque “simbolico”, nel senso che il suo contenuto rappresentativo rimanda sia al modello ideale che alla sua rappresentazione sensibile. Infatti “il simbolo indica ciò che non vale solo per il suo contenuto, ma per la possibilità di essere esibito, ed è quindi un documento, attraverso il quale i membri di una società si riconoscono”. L‟equivalente del simbolo sul piano del lògos è la “allegoria”, che è la figura retorica per cui “al posto di ciò che realmente si intende, si dice qualcosa d‟altro, di più facilmente comprensibile, ma in modo che questo faccia intendere quell‟altro”112. Sia il procedimento allegorico dell‟interpretazione che quello simbolico della conoscenza sono entrambi “necessari per la medesima ragione”, che è quella di comunicare in forma sensibile un contenuto di valore trascendente la realtà finita, e perciò “misterioso”. La mediazione simbolica, dunque, “presuppone un legame metafisico tra visibile e invisibile”, la cui fruizione accredita “l‟inscindibilità tra aspetto visibile e significazione invisibile” dell‟Essere, tale che nella “esistenza” venga “riconosciuta l‟idea”113. Il piano dell‟esistenza è quello finito della storicità, ossia del Molteplice, entro il quale gli enti fenomenici sono idealmente indeterminati. Il piano ideale, viceversa, è quello della determinazione di senso, la quale rimane nella dimensione della possibilità finquando non assuma realtà sensibile di esistenza “attuale”, cioè storica. La “unità” dei due piani ontologici, ovvero, nella terminologia di Gadamer, delle “due sfere”, può essere “coincidente”, nel quale caso ci poniamo entro un orizzonte di senso religioso,114 oppure può essere “contingente”, legato cioè alla occasionale determinazione volitiva di un soggetto agente, quale un artista, autore di un‟opera d‟arte, o un attore politico, fautore di un‟azione etica, nel qual caso ci poniamo

112

Ivi, pag. 100 Ivi, pag. 101. 114 Ibidem. 113

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entro un orizzonte di senso morale. Nel primo caso, ossia quello dell‟unità religiosa, la rappresentazione “estetica” è platonicamente ciò che è il Bello sensibile rispetto al Bene ideale, la sua realtà visibile, per cui l‟espressione simbolica esprime una “comunanza” () tra il modello ontologico delle cose e le molteplici cose reali, le quali appunto simbolicamente sono in un rapporto di “partecipazione” () con l‟Essere ideale. Questa metessi si colloca internamente a un orizzonte di senso simbolico in cui il livello di coscienza è caratterizzato dalla “credenza” che le due sfere di realtà siano coincidenti, per cui qualunque dato reale esprime un suo immediato significato simbolico, oggetto di una traduzione ermeneutica canonizzata. La “immediatezza” del senso simbolico è data non dal significato concettuale espresso dal simbolo, che può rimanere anche ignoto, ma dal simbolo stesso, che acquisisce, in virtù della sua sola esistenza, un valore di senso appunto “simbolico” astrattamente significativo, e perciò universalmente fruibile all‟interno del suo orizzonte di senso. Entro il quale orizzonte, il livello di coscienza simbolica è diverso in relazione alla consapevolezza o meno del significato concettuale del simbolo, per cui il suo valore può essere semplicemente “creduto”, oppure anche “conosciuto”. Il piano di coscienza della semplice credenza, è quella della “fede” ontologica, senza la quale non potrebbe sussistere la validità di senso dello stesso orizzonte religioso, che su quella fede è fondato. Il piano di coscienza della conoscenza del senso concettuale del simbolo, è quello del “sapere” razionale, senza il quale la coscienza religiosa non sarebbe giustificata, ossia logicamente determinata, e perciò stesso distinta dalla coscienza di altri orizzonti di senso. Il termine greco di “synbolon” si compone di due elementi, indicanti la “decisione” () “convenuta” (), e perciò la volontà comune e riconosciuta. Il valore simbolico di una cosa o di un gesto, risiede nel richiamo a ciò che è stato deciso essere valido, ossia avente un valore significativo, un “senso” comune. Ciò che è “valido”, è anche “significativo”, cioè simbolico. Ma ciò che è valido è l‟essere stesso di ciò che è. Solo ciò che “è”, è “valido”, e in quanto valido è “sacro”. Ciò che ha valore “è”, e nel suo essere di valore si distingue dal nonessere, da ciò che valore non ha, ossia da ciò che “non-è”. Il simbolo pertanto richiama il valore sacro di ciò che è, e nel suo essere si distingue da quanto sacro non-è ma “profano”. I due aspetti di realtà 66


che necessariamente vengono richiamati dal simbolo sono dunque l‟elemento sacro e quello profano, che costituiscono anche l‟oggetto del giudizio. La differenza tra il giudizio simbolico e il giudizio logico consiste nella circostanza che il giudizio simbolico richiama alla decisione ontologica originaria circa la distinzione tra realtà sacra (che è valida) e realtà profana (che non-è valida), mentre il giudizio logico stabilisce questa distinzione, non più sul fondamento di fede nel giudizio originario, ma sulla base della de-finizione dell‟Essere come determinazione logica. Rimuovendo il fondamento ontologico dell‟Essere, cioè la “decisione” originaria circa il valore e il disvalore da attribuire alla realtà caotica per determinarla come cosmo, la ragione “dialettica” diventa “scienza della logica”, episteme, ossia sapere auto-fondato sul metodo dialettico. Su questo “oblio dell‟Essere” si costituisce il sapere come “scienza” autonoma dal fondamento mitico, la cui realtà simbolicamente valida non è più, come nel sapere mitico, quanto stabilito sul principio del fondamento stabilito, ma quanto rientri nella definizione logica, ossia nella realtà ideale, costituita entro l‟orizzonte logicamente sistematizzato. Da questo momento in poi, la ragione non serve più la fede, ma la costituisce in proprio. Questa “proprietà” del pensiero dialettico rappresenta la sua realtà “privata”, soggettiva, e contrastante il pensiero pubblico, il sapere confermato dalla tradizione. Ciò che, però, la logica dialettica presuppone, pur non avendone coscienza (e da qui il suo “oblio”), è il principio di realtà, espresso dalla formula ontologica di Parmenide, per cui “l‟Essere è e il non Essere non è”, senza il quale non sarebbe procedere ad alcuna rielaborazione logica della realtà, che in virtù di quel fondamento ontologico continua ad essere “mitica”. All‟interno di quell‟orizzonte mitico di realtà, ogni rielaborazione dialettica è mito-logia, la cui coscienza critica si pone su un diverso livello rispetto a quello della coscienza simbolica, fideisticamente mitica. La scoperta dialettica dell‟altro piano di coscienza, ultroneo a quello mitico originario, e cioè il piano di coscienza appunto logico, polarizza la tensione interna allo stesso orizzonte ontologico nel senso della indeterminazione ovvero della determinazione della realtà, venendo a delineare un processo di sviluppo ideale che dalla rappresentazione immediata e realistica della realtà giunge alla rappresentazione idealisticamente mediata, chiamando la prima “arte” e la seconda 67


“filosofia”. Solo quando la filosofia rinuncia ad essere mito-logia e intende costituirsi come esclusivo livello di coscienza della realtà, con un autonomo statuito ontologico fondativo un proprio orizzonte di senso, la sua con(o)scienza, cioè sapere condiviso, diventa scienza assoluta, sapere di verità privato, cioè valido in sé, a prescindere dal consenso della coscienza comune, che diventa l‟orizzonte di senso negativo, il non-senso rispetto alla positività della coscienza filosofico-scientifica. E come tale da negare. Ma la resistenza che la tradizione mitologica oppone alla nuova verità logica, che si pongono sullo stesso piano di co-esistenza, induce la scienza a socializzarsi a sua volta, nel tentativo di soppiantare a suo favore (o a sua difesa, dopo la morte di Socrate) l‟antico piano di coscienza mitico. Da questa pretesa assolutistica nasce l‟esigenza – già avvertita da Platone – di affidare la socializzazione della verità del pensiero scientifico al Governo, trasformando così la verità di ragione in petizione politica, in ideologia. Il connubio di scienza e politica è caratteristico non solo del mondo moderno, ma di ogni forma di coscienza idealistica che intenda porsi come esclusivo orizzonte di senso universale. E ciò facendo, negandosi come filosofia e affermandosi come verità di fede, come mitologia religiosa. Se l‟orizzonte mitologico, distinguendo i distinti piani di coscienza religioso e filosofico, riusciva a garantire il pluralismo simbolico della realtà, e quindi la libertà di coscienza all‟interno dello stesso orizzonte di senso, l‟orizzonte scientifico, concepito come esclusivo, si afferma escludendo la coscienza allotria, trasformando la dialettica ideale in repressione politica, cioè in violenza pratica, è l‟assolutismo logico in totalitarismo giuridico. E al pari di ogni monismo ontologico, si auto-confuta dissolvendo lo Stato onnipotente. Il momento critico del pensiero mito-logico corrisponde alla fase di rielaborazione del Mito per opera della teoresi soggettiva, la quale è di per sé “privata” e “profana”, in quanto distinta dal livello di coscienza del pensiero pubblico o socializzato, cioè al pensiero “sacro”, divenuto pensiero comune, Weltanschauung. La Weltanschauung costituisce l‟universo di senso comune, e in quanto tale comprensivo delle forme spirituali istituzionalizzate, e perciò “pratiche”. La sfera pratica del pensiero è quella dell‟orizzonte di senso comune, interno a un ordine valoriale istituzionalmente costituito. Rispetto a questo ordine formale 68


pubblicamente costituito, l‟elaborazione razionalistica, ossia la critica del sistema valoriale, in alcune o in tutte le sue determinazioni di coscienza, rappresenta un livello di coscienza esterno a quello comune formalizzato, e quindi “privo” di riconoscimento pubblico. Tale livello di coscienza privata costituisce la sfera del pensiero teoretico, elaborativa delle “idee”, ossia di concetti posti fuori del piano di realtà comune, e perciò astratti dal concreto divenire delle forme socializzate. Ma proprio in quanto pensiero “privato” e “astratto” dalla realtà del divenire, la coscienza di senso ideale non può tradursi in quanto tale in forma spirituale socializzata senza la preventiva mediazione istituzionale della sua pubblicizzazione o socializzazione, la quale è l‟attività specifica della politica come funzione di Governo. Ciò comporta, da un lato, che nessuna coscienza ideale, essendo trascendente il piano di realtà pratico, può esprimere direttamente alcun potere sulla vita sociale e istituzionale, nei confronti della quale il pensiero teoretico, come aveva ben visto Scheler, è “impotente”115. Dall‟altro lato, che la distinzione tra il livello di coscienza comune e quello teoretico privato coincide soltanto all‟interno dell‟orizzonte di senso politico, trovando la sua determinazione reale nell‟attività di Governo, la quale ha come suo orizzonte assiologico il piano di coscienza comune, quello pubblico e formalizzato nei termini del fondamento ontologico legittimante dell‟orizzonte di senso della socialità storica. Il Governo costituisce dunque il livello di coscienza dell‟orizzonte di senso comune dove la mediazione tra ideale socialitario e determinazione etica trova la sua sintesi determinativa di realtà, ovvero la sua “decisione”. Il Governo è, sul piano della coscienza pubblica, ciò che è il giudizio logico sul piano della coscienza teoretica. Non a caso l‟attività critica della politica rivoluzionaria assume polemicamente il Governo come antagonista dialettico, similmente a come opera il pensiero critico nei confronti delle determinazioni di fede. La rivoluzione politica sta all‟ordine sociale come il razionalismo critico sta all‟orizzonte di senso della coscienza mitica. A seguito del diverso livello ontologico di coscienza, il pensiero ideale non può realizzarsi secondo le sue determinazioni teoriche, ma soltanto

115

M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, passim.

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in considerazione delle possibilità legate alle condizioni storiche della sua istituzionalizzazione sociale. Questa è la ragione ontologica, e perciò insuperabile, per cui nessuna storica Weltanschauung corrisponde fedelmente al piano di coscienza teoretico che ne ha ispirato l‟orizzonte di senso. Di conseguenza ogni ideale storicamente realizzato è altro dall‟ideale stesso, così come la coscienza teoretica è altra rispetto al livello di coscienza comune o pratica. E ciò comprova l‟impossibilità di alcun “rispecchiamento” tra i due piani di coscienza, e la necessità insopprimibile, per ogni simbolica corrispondenza, della mediazione istituzionale. Sul piano teoretico, questa mediazione è offerta dalla filosofia e dall‟arte letteraria del lògos, mentre sul piano pratico è offerta dalla politica e dall‟arte di Governo. Come si è detto supra, con la pretesa della coscienza scientifica a costituirsi come universale orizzonte di senso, la coscienza politica, costituitasi come strumento della sua affermazione, ha la prevalenza sul livello di coscienza filosofico proprio dell‟orizzonte di senso teoretico, così come lo strumento economico prevale su quello letterario sul piano simbolico. L‟orizzonte di coscienza religioso è quello tipicamente “mitico”, inclusivo del livello di coscienza razionale, costitutivo del piano della sua elaborazione mito-logica. I suoi confini sono più ampi di quelli razionalistici in quanto la coscienza religiosa dell‟Essere comprende ciò che la determinazione razionale esclude, ossia il Negativo, che è l‟orizzonte del mistero legato alla indeterminatezza e possibilità dell‟Essere. E‟ la considerazione della realtà del Negativo a costituire l‟orizzonte di pensiero religioso come il livello di coscienza idealmente più comprensivo, l‟unico in grado di pensare il Tutto come l‟orizzonte di realtà inclusivo sia del livello di coscienza meramente simbolico, che è quello propriamente “mitico” e fideistico, che il livello di coscienza razionale, che è quello propriamente “filosofico” e critico. Il livello di coscienza meramente simbolico è quello del mondo-dellavita, la realtà pratica, il cui orizzonte di senso non è logicamente determinato (ossia mediato dalla ragione), ma viene presupposto per fede (è cioè immediato). La considerazione o meno della mediazione razionale tra il fenomeno sensibile e il suo significato ideale, costituisce la differenza, entro l‟orizzonte religioso, tra il livello di coscienza mitico e il livello di coscienza filosofico. Nondimeno, i due livelli di coscienza sono inclusi nell‟orizzonte di senso religioso. 70


Quando la coscienza di questa comune appartenenza viene smarrita, i due livelli di coscienza si rappresentano come due opposti orizzonti di senso, l‟uno concentrato sul livello di coscienza simbolico, e quindi sulla coincidenza di rappresentazione e valore appunto simbolico, mentre l‟altro concentrato invece sulla distinzione tra significato ideale e significante reale. Il conflitto nasce allorquando la ratio fidei intende emanciparsi dal suo fondamento ontologico, e costituirsi come autonomo orizzonte di senso, entro il quale solo l‟Essere ideale “è”, anziché il Tutto, per cui il non Essere ideale “non-è”. E poiché l‟Essere-che-è è l‟ente, la sua realtà esclusiva esclude il non-essere fenomenico, quel Negativo che l‟orizzonte religioso include come elemento simbolico insopprimibile per la conoscenza del Tutto e la cui considerazione consente di pensare il piano di realtà della storicità, quella appunto della possibilità e indeterminatezza dell‟Essere che consente la costituzione dell‟orizzonte di senso simbolico. Il piano di coscienza ideale, astratto dal suo orizzonte di senso simbolico, si costituisce come livello di coscienza opposto a quello storico-reale della indeterminatezza, e quindi del non-essere (appunto idealmente determinato), e in tal senso l‟orizzonte idealistico e teoretico è l‟altro rispetto all‟orizzonte vitalistico e pratico, e dalla loro dialettica distinzione nasce la separatezza concettuale della sfera pratica da quella teoretica come distinte realtà scientifiche che, entro l‟orizzonte di senso razionalistico, sono pensate come realtà ontologiche, aventi un valore assoluto, ossia reciprocamente esclusive e metafisicamente opposte. La traduzione “reale” di questa opposizione “ontologica” origina l‟orizzonte di senso polemico entro il quale assume statuto di valore assiologico la sistematica negazione dell‟altro-da-sé (versione esistenziale del non-essere logico) inteso simbolicamente come “nemico”, ossia come opposto reale, la lotta al quale rappresenta il contenuto specifico della coscienza politica, tendente a trasformare, nelle sue forme più radicali e totalitarie, l‟universo di senso simbolico in un universo metodicamente determinato in senso scientifico, emancipato cioè razionalisticamente dal senso religioso dell‟Essere e della vita. Ogni universo simbolico totalitario determinava il suo livello di coscienza politica attraverso il polo dialettico del nemico ideologico. Il comunismo fondava le sue ragioni ideali su classi sociali in ascesa, nate dalla rivoluzione politica e sociale del periodo moderno, le quali 71


coniugavano la loro condizione socio-economica alla prospettiva politica di diventare classi dirigenti, fautrici di un nuovo ordine che fosse l‟inveramento dialettico di quello borghese. La coscienza politica comunistica aveva pertanto come polo dialettico la società borghese, verso la quale l‟ideologia comunista si poneva come la critica razionalistica ai suoi valori, giudicati mitici in quanto cristallizzati a una fase – quella appunto borghese e capitalistica – del suo processo di sviluppo razionale. Il fascismo, invece, non si inscriveva nel processo storico moderno come espressione razionalistica di un perfezionamento etico-politico, superatore delle incongruenze mitiche della società democratica e di mercato, ma si proponeva di sovvertire l‟ordine attuale per invertirne la linea di tendenza ideale del suo sviluppo storico. In questo caso, il polo dialettico della coscienza politica fascistica era rappresentato dalla società borghese in quanto crogiuolo della rivoluzione razionalistica, e non in quanto fase arretrata di essa. Mentre il comunismo fondava le sue pretese di rappresentanza del novus ordo condendo su classi reali e in sviluppo, il fascismo doveva necessariamente servirsi per i suoi scopi rivoluzionari di settori sociali storicamente coinvolti e partecipi di quel corso storico che esso voleva sovvertire, per cui, prima di ogni azione politica, avrebbe dovuto convertirli alla sua causa ideale attraverso un indottrinamento culturale che negasse in radice la condizione spirituale del tempo, socialmente interpretata dalla borghesia e dal proletariato. Non che il comunismo non esercitasse la critica al sistema capitalistico borghese, ma il suo intento era quello di perfezionarlo e superarlo scalzando l‟attuale classe al potere per mettervi al suo posto la classe operaia. Il fascismo, invece, doveva poggiarsi sociologicamente su classi “superate” dal capitalismo moderno (aristocratici e contadini) e su componenti della borghesia non sufficientemente coinvolte dal corso socio-economico capitalistico e che perciò rischiavano un declassamento sociale e una proletarizzazione forzata. Questa piccola e media borghesia ideologizzata aspirava alla pienezza del propri ruolo sociale attraverso la partecipazione politica al Potere che la innalzasse in modo che la sua posizione economica non consentiva, ma i suoi modelli socio-culturali restavano borghesi, per cui era problematico far convergere in uno stesso progetto ideologico una politica di promozione sociale, fondamentalmente anti-proletaria, con una cultura 72


anti-borghese, cioè anti-razionalistica, anti-democratica e anti-liberale, essendo la Ragione, l‟Uguaglianza e la Libertà le parole d‟ordine della moderna borghesia europea e l‟orizzonte di valori che ve l‟aveva culturalmente costituita. Conciliare all‟interno dello stesso progetto politico settori aristocratici tradizionalisti, piccola borghesia ambiziosa e ribelle, contadiname escluso dai processi di modernizzazione economica e culturale, era certamente molto più arduo che promuovere l‟ascesa di una sola classe sociale fortemente radicata nel contesto socio-economico attuale e compartecipe, sia pure in posizione antagonistica, dello stesso corso storico della borghesia nel suo complesso. Se era facile mettere in risalto polemico la rivalità della piccola borghesia e del proletariato urbano, entrambi aspiranti a una posizione “borghese” e perciò concorrenti, più difficile era screditare i modelli ideali verso i quali entrambi culturalmente tendevano. L‟operazione era riuscita alla borghesia nei confronti dei ceti aristocratici, e ciò poteva ripetersi col proletariato, “erede” della nuova aristocrazia sociale industriale. Ma come riuscirvi con la piccola borghesia frustrata per non essere abbastanza borghese? Essa era schiacciata tra ceti aristocratici anti-moderni, proletariato e plebe rurale che l‟osteggiavano e alta borghesia che la snobbava ignorandola. La sua scommessa storica poteva poggiare solo su una prospettiva politica “rivoluzionaria” legittimata da una cultura “alternativa” a quella dominante a cui non aveva adito. Considerando che il socialismo “reale” si afferma in una società industrialmente arretrata come quella russa, dove la prevalente cultura tradizionale era di impronta fortemente religiosa, e il fascismo sorge in polemica con i processi di industrializzazione avviati nelle società continentali, il fenomeno totalitario del XX secolo si costituisce nel suo insieme come la reazione della coscienza mitica tradizionale avverso la coscienza filosofica moderna, in vista della riaffermazione dell’universo di senso religioso infranto dalla emancipazione razionalistica della scienza, la quale era protesa non soltanto, come in passato la filosofia, a soppiantare la coscienza mitica con quella scientifica, ma a costituire questa stessa coscienza scientifica come un universo di senso monosemico, alternativo a quello religioso tradizionale. Sicché il “passaggio” dalla coscienza mitica a quella filosofica non veniva più pensato modernamente dalla coscienza scientifica come lo sviluppo della coscienza razionale all‟interno di uno stesso universo simbolico 73


di senso, ma come il trapasso rivoluzionario da uno ad altro universo di senso, la cui trasmutazione (Verwandlung) veniva intesa come una “liberazione e un ritrovamento del vero essere”116. La “rivoluzione” scientista, in virtù della corrispondenza idealistica dell‟Essere con l‟Idea dell‟ente, trovava il suo “rispecchiamento” sociologico nella rivoluzione politica, il cui “paradigma” ideale era costituito da una nuova intuizione ontologica posta a fondamento (ipotetico) di ogni sua elaborazione razionale mito-logica. Il primo stadio di rielaborazione razionalistica del mito religioso tradizionale fu quello umanistico-rinascimentale, di natura filosofica, che diede origine alla costituzione politica dello Stato di diritto e alla reazione tradizionalistica del Protestantesimo. La dialettica tra la coscienza teologica e quella filosofica si svolgeva all‟interno di un comune universo di senso religioso, fondato ontologicamente dall‟intuizione cristiana del mondo e dalla sua metafisica. Lo stadio ulteriore fu quello propriamente scientifico della emancipazione della ratio dalla fides, il cui dualismo metafisico, a partire da Cartesio, definiva due distinti livelli di coscienza ontologica, ognuno dei quali si costituiva come un opposto universo di senso, la cui polarità dialettica era costituita dal fondamento spiritualistico della religione tradizionale e dal fondamento naturalistico della scienza moderna. L‟emancipazione della coscienza scientifica dall‟universo di senso religioso tradizionale, comportò nel contempo l‟emancipazione della scienza dal suo fondamento filosofico, che era comune a quello religioso e di cui costituiva la rielaborazione razionale. Questa duplice e connessa emancipazione della coscienza scientifica dall‟universo di senso pre-scientifico, religioso e filosofico, è stata la premessa metafisica della sua costituzione a nuovo universo di senso scientifico, dotato di un proprio linguaggio simbolico e di un proprio orizzonte

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H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pag. 144. Il razionalismo moderno, come scientismo, esautorando l‟orizzonte di senso mitico, con esso elimina dall‟ambito veritativo lo stesso concetto di verità, ossia la coscienza filosofica dell‟Essere, ossia l‟elemento dialettico della realtà simbolica. Infatti esiste uno stretto nesso logico tra la posizione anti-religiosa dello scientismo e il supposto “superamento” della dimensione metafisica della conoscenza.

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ermeneutico. Il moderno orizzonte di senso scientifico, fondando una nuova Weltanschauung, si afferma come la struttura spirituale di una “ipotetica” mito-logia scientista, la quale si costituisce come una “totalità” di senso pervasiva di ogni ambito di vita e di pensiero umani: un nuovo universo mitico post-religioso, e come tale, in conflitto ideologico con altri universi ipotetici di senso alternativi. Sia la espansione universale della coscienza scientifica che la reazione mitologica a questa nuova ipotesi universalistica positivistica, avvengono sul piano del rispecchiamento sociologico nei termini del conflitto politico tra opposte istanze ideologiche totalitarie, ognuna delle quali tendente a definire univocamente e nel proprio senso di realtà lo stesso Essere universale, attraverso lo strumento del Potere politico, che viene caricato di un valore determinativo di senso simbolico che mai aveva avuto in passato, simbolizzando tanto la fede antica dell‟universo religioso tradizionale che la nuova credenza dell‟universalità della scienza. La moderna istituzione (Stiftung) politica, lo Stato, acquista infatti sia i caratteri della “convenzione” giuridica, che quelli della “fondazione” di senso e della “consacrazione” religiosa117. Da qui l‟esaltazione idealistica della politica come volontà demiurgica plasmatrice della società e interprete della volontà dello Stato, e il culto mistico del particolare concreto contro il generale-astratto delle visioni razionalistiche e universalistiche dello scientismo. L‟espressione ideologica della politica di potenza è, antonomasticamente, il fascismo, da cui proviene l‟ideale della rivoluzione politica nazionale, la cui espressione ideologica caratteristica del suo particolarismo culturale è il nazionalismo, da cui proviene l‟ideale di Stato totalitario. Le due espressioni ideologiche rappresentano i diversi livelli di coscienza interni a uno stesso universo di senso pragmatico, che concepisce l‟attività politica come la moderna forma spirituale simbolicamente più rappresentativa dell‟Essere, sostitutiva nel valore ontologico della forma teoretica tradizionale, l‟arte e la letteratura, considerate espressioni simboliche di un universo di senso individualistico incapace di rappresentare il nuovo corso storico massificato dai

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H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 191-192. K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it., Roma, 1967, pagg. 217 e 218.

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processi di razionalizzazione universali, dai quali è emersa l‟egemonia della borghesia e del suo universo di valori. Convertire la borghesia – moderna classe media della società liberale a una ideologia anti-liberale equivaleva a sovvertire radicalmente l‟ordine ideale e politico moderno, e quindi a porsi in una posizione oggettivamente rivoluzionaria, anzitutto verso l‟antico universo socioreligioso sulla cui gerarchia teologico-politica era fondata la legittimazione del Potere verticale, contro il quale la rivoluzione dell‟89 aveva infierito così cruentemente. Il nuovo scenario politico che ne era emerso, aveva ereditato dall‟antico personalismo teologico la soggettività individualistica, che appunto nella forma spirituale teoretica trovava il suo luogo eponimo di esaltazione e di elaborazione. La nuova forma rivoluzionaria non poteva pertanto non partire dalla critica di questo cardine teoretico per affermare in sua vece la nuova forma spirituale collettiva e anti-individualistica, che per i socialisti era la classe sociale e per i fascisti la nazione politica, simboli espressivi entrambe del nuovo universo di senso pragmatico. 6. Trattando del Mittelstand tedesco del periodo della Rivoluzione francese, Mannheim afferma che le idee dell‟89 esigevano – contro le teorie dell‟assolutismo regio – che lo Stato fosse costituito dal basso”, e non “dall‟alto”. Quando queste idee penetrarono in Germania poterono suscitare e mettere in moto soltanto quegli elementi del corpo politico tedesco, e specialmente prussiano, che esistevano allora come forze politicamente e storicamente rilevanti. Quindi i ceti, dei quali però uno solo era politicamente efficiente, la nobiltà. In quel momento ogni altra influenza era destinata a restare puramente “ideologica”. [Infatti] al tempo della Rivoluzione francese non esisteva né in Germania, né ed ancor meno in Prussia, qualcosa come un terzo o quarto “stato”. La trasformazione della società feudale di ceti in società classista si trovava ancora agli inizi. Il proletariato consisteva di artigiani viventi sostanzialmente ancora in un sistema di corporazioni, che non reagivano verso l‟esterno come una classe sociale. Anche il “Mittelstand” (ceto medio) non corrispondeva veramente al tiers état; Sombart ha dimostrato che non si trattava ancora di una borghesia 118.

La classe, dunque, era quella che si costituiva come soggetto politico

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K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it., Roma, 1967, pagg. 217 e 218.

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consapevole, avente “propri fini chiaramente definiti e uno scopo preciso”119. Non bastava una posizione ideologica dei singoli membri, e neppure una costituzione economica puramente di fatto. Era il fattore politico l‟elemento decisivo per l‟essenza di classe. La ragione della influenza relativamente limitata della Rivoluzione francese è quindi che essa produsse solo una reazione ideologica: l‟elemento borghese era a quel tempo ancor meno capace di azione politica di ogni altro strato sociale in Germania. Una risposta concreta alla rivoluzione poteva venire in Prussia soltanto dagli strati capaci – per la loro storia e la natura dell‟ordine sociale – di essere politicamente attivi: la nobiltà e la burocrazia120.

Il primato della politica, come coscienza etica del gruppo sociale, aveva come astratti elementi dialettici l‟ideologia e l‟economia, ossia la cultura dei singoli membri e la potenza sociale del ceto. Questi astratti elementi non compromisero gli assetti politici tradizionali fino a quando durò il primato politico eticamente fondato, ossia un‟idea di Stato poggiante su un principio di legittimità di tipo sacrale, e quindi “dall‟alto”, che proprio la Rivoluzione e la cultura secolaristica del razionalismo metteva in discussione e apertamente sfidava. Era prioritario che il potere perdesse la sua legittimazione sacrale perché la politica assumesse il ruolo e l‟accezione neutralizzata tipica del moderno, assimilabile all‟economia come pura potenza sociale, priva di ogni connotato tradizionalmente religioso. L‟ideologia rivoluzionaria, cioè il razionalismo, poteva corrodere la cultura tradizionale soltanto dissociando il potere dalla religione, la politica dalla teologia, assumendo i suoi astratti elementi costitutivi come principi autonomi di ragione. La questione storico-sociologica verte su come ciò sia stato possibile. A riguardo, l‟impostazione di Mannheim è incongrua. Lo “esperimento sociologico” consisteva a suo dire nella reazione di “idee sorte originariamente in uno stadio più avanzato dello sviluppo sociale [che] penetrano in una società socialmente arretrata, ma culturalmente matura”121. Ma ciò presupponeva uno sviluppo lineare e progressivo tra fase “arretrata” (quella tedesco-

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Ivi, pag. 219. Ivi, pag. 219. 121 Ivi, pagg. 217-218. 120

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prussiana) e fase “avanzata” (quella francese), cioè uno stesso piano storico-ideale sociologicamente comparabile. Ma questo approccio non è quello esplicativo del senso autentico della questione storico-sociale. Infatti, in cosa consisterebbe la “maturità” culturale? Nella ricettività intellettuale di motivi ideologici alotrii, ovvero nella latente possibilità di una dissoluzione istituzionale del regime tedesco? Nel primo caso, l‟esistenza di circoli culturali eversivi e rivoluzionari, di per sé non è indice di “maturità” culturale. Ogni indirizzo di pensiero, finché confinato nel privato, viene tollerato ovvero represso dal potere con alterna disposizione d‟animo. Nel secondo caso, solo la dissoluzione dei ceti tradizionali poteva determinare la ristrutturazione dei gruppi sociali secondo criteri nuovi, ma questo fenomeno non sarebbe stato culturale senza che prima fosse stato politico. Solo la perdita di potere politico poteva disgregare i ceti dominanti, liberando le tensioni ideologiche in senso destrutturante. Ma finché il potere controllava la politica restando organo di governo, le istanze private non avrebbero potuto diventare riconosciuti motivi pubblici. Al fine di corrodere il sistema sociale tradizionale si doveva dunque incider sulla legittimità del potere a essere l‟organo di governo, provocando “dall‟alto” le condizioni rivoluzionarie. Ciò che infatti decideva delle sorti del regime era la sua capacità di essere l‟ultima istanza della politica, cioè il luogo deputato delle decisioni. Solo mettendo in discussione tale ruolo si apriva una possibilità eversiva per la politica “dal basso”, trasformando le sue petizioni di principio rivoluzionarie in motivi di rilievo pubblico. In questo senso, l‟azione dottrinale della ideologia rivoluzionaria svolse un ruolo politico, secondo i presupposti morali (e non politici!) della legittimità del Potere tradizionale. A questa azione corrosiva di carattere morale si doveva rispondere sullo stesso terreno, religioso e filosofico; ma si scelse invece il terreno politico, come conferma il proposito espresso nel suo testamento politico da Federico il Grande122, confermando così che la battaglia teologica era stata già perduta dal tradizionalismo con affermazione delle tesi protestanti. In altri termini, se il motivo culturale riuscì a fare breccia anche in un contesto socio-politico fortemente organico ai princìpi di antico

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Ivi, pag. 216.

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regime, vuol dire che esso incise in maniera significativa sul motivo debole della sua struttura di potere, quello morale della legittimazione del potere, il quale poteva anche conservare una sua effettiva influenza direttiva, ma non perciò era accreditato nel suo principio di governo sul piano morale, il solo che lo legittimava a quel ruolo tradizionale. Come ben vide C. Schmitt, non era sul piano giuridico che andava affrontato il discorso della legittimità del potere regale tradizionale, ma la scelta fu ritenuta obbligatoria in conseguenza del primato intellettuale che il razionalismo andava conquistando sul piano culturale. Ma tale primato – e questo è il punto nevralgico del discorso – non si sarebbe potuto conseguire senza il discredito che la teologia cattolica aveva subito a opera della teologia riformata, che minò il suo primato di fede sul suo stesso terreno religioso, e quindi teologicopolitico. in questo senso la Riforma rappresentò il presupposto teologico del razionalismo e delle sue teorie politiche. Le risposte che la teologia cattolica seppe dare alla minaccia o “sfida” protestante fu una contro-riforma di carattere apologetico e dogmatico, confermativa delle posizioni tradizionali ma non confutativa delle nuove tesi. Trattandosi di tesi dogmatiche, fondate su contenziosi puramente ermeneutici, la loro opposizione e negazione reciproca non poteva demandarsi a una istanza superiore che non fosse giurisdizionale, di Governo della Chiesa. E infatti la dottrina della infallibilità del Papa in materia dottrinale presupponeva che la fede nel suo carisma avesse un valore giuridicamente vincolante, per cui, senza quella fede, la sua infallibilità diventava razionalmente incomprensibile e teologicamente inaccettabile. Come infatti lo fu per i protestanti. Proprio per i suoi risvolti giuridici, la soluzione delle controversie teologiche non poteva venire dalla “sola fides”, in quanto tale inconfutabile ma neppure esperibile, e perciò doveva essere demandata alla “ratio” che la supportava in termini certo umanamente opinabili ma oggettivabili. Esattamente questa risposta filosofica fu sottratta al dibattito religioso, consentendo, da un lato, che la metafisica tradizionale procedesse nel senso della sua autonomia scientifica, e dall‟altro che la tesi irrefutabile della “sola fides”, emancipata da ogni supporto di ragione, prevalesse sul piano religioso, decretando così la fine del primato culturale del Cristianesimo come orizzonte di senso comune al livello di coscienza mitica e al livello di coscienza critica. La “ratio”, a sua volta emancipata dal suo 79


fondamento di fede, prosegue per suo conto e si tramuta in compiuto “razionalismo”, la cui espressione etico-politica storicamente è la Rivoluzione, cioè la dottrina ideologica di un pensiero negativo senza più fondamenti fideistici, che assegna il primato del liberalismo della volontà politica sulla giurisdizione etica del Governo. Per quanto riguarda il cattolicesimo, la sua miopia teoretica fu enorme e fatale, poiché perseverando sul solo terreno teologico fece il gioco protestante, riconoscendo implicitamente la legittimità dello scontro religioso nell‟atto stesso di accettarlo. Rifiutando il confronto sul piano della ragione umana, cioè filosofico, per timore di perdere il primato della teologia sul piano del sapere, in realtà perse la coscienza dei fedeli, il cui “individualismo” teologico protestante fu avallato indirettamente dalla frattura operata dalla Chiesa stessa tra il corpo mistico di Cristo e la struttura direttiva apostolica, per la cui difesa si adoperò tutto il potere residuo del cattolicesimo. In tal senso, l‟intero corpo ecclesiastico divenne una struttura burocratico-politica secolare, legittimata da un corpus dottrinale dogmaticamente stabilito e politicamente difeso, privo però di legittimazione razionale, e perciò culturalmente invecchiato. Il pensiero “moderno” divenne quella filosofia bandita in quanto profana dalla città teologica, e che pure l‟aveva per lunghi secoli fedelmente servita, accreditando la verità teologica sul piano del sapere universale. Ritenendo che la tradizione bastasse alla bisogna, la Chiesa difese con armi antiche una battaglia nuova, che in realtà aveva già perduto non avendone compresa la portata storica del suo senso ideale. d‟altronde, rigettando le istanze teologiche con atti d‟imperio ecclesiastico, ammetteva implicitamente che la crisi interna al suo orizzonte di senso era tanto religiosa quanto filosofica, e che i due aspetti erano strettamente collegati. Non a caso la risposta che le opposte confessioni reciprocamente si diedero furono di carattere politico, coinvolgendo il potere secolare a propria difesa, riorganizzando la struttura giuridica della Chiesa e procedendo al riordino dottrinale secondo criteri e costrutti “scientifici”, abdicando di fatto se non di diritto alle prerogative di senso tradizionale della conoscenza teologica. Ancora ai nostri giorni, quando ormai va affermandosi vieppiù la consapevolezza della insostenibilità culturale dell‟orizzonte di sapere moderno, la Chiesa cattolica continua il suo processo di avvicinamento al sapere moderno, propiziando un “dialogo” con la vita moderna già 80


condannato come impossibile e oggi ripreso autopticamente con il suo corpo ormai morto. Questo, se non altro, conferma quanto peso abbia avuto nei secoli l‟aspetto istituzionale della Chiesa ai fini della definizione della fede, e lo stretto rapporto che essa ha sempre intessuto con la realtà storica e le sue logiche mondane. D‟altro canto, la chiesa riformata, assumendo il suo credo come assolutamente affidato alla grazia e senza il supporto necessario della ragione umana, contribuiva da parte sua a emancipare il sapere filosofico da ogni saggezza religiosa, spianando la strada all‟affermazione dell‟universo di senso scientifico come cultura pratica. Una filosofia divenuta “scienza” naturalistica, e una teologia divenuta ermeneutica della coscienza religiosa, segnavano la fine dell‟orizzonte di senso cristiano come cultura universale, riaprendo la questione del rapporto tra saper mitico e conoscenza razionale che la cristologia aveva portato a sintesi. Una fede senza istituzioni, e una istituzione vetusta ma senza più la fede inconcussa di un tempo hanno emancipato una ragione non più ancillare, che proclamava i suoi costrutti teorici validi etsi Deus non daretur. E così una fede senza ragione e una ragione divenuta fede religiosa sono gli esiti concomitanti della dissoluzione del Cristianesimo come cultura universale, e non solo coscienza religiosa, e la conseguente trasformazione della sua tradizione in una morale della libertà, fondativa della “civiltà liberale” moderna, caratterizzata da un pensiero essenzialmente negativo123. Il trionfo della politica eticizzata, indicatrice di ragione “pubblica” e quindi strumento surrogatorio della filosofia come ratio fidei, segna, con l‟idealismo filosofico, anche il parallelo trionfo di una antropologia materialistica, prodotto sociale speculare di quell‟astratto pensiero negativo. E proprio perché segnato dalla centralità, già religiosa, della coscienza politica come coscienza pubblica, il pensiero moderno, sogguardato dal punto di vista della superiore sintesi cristiana, appare un processo di decadenza, che trascina nella sua parabola le stesse forme instabili di civiltà, in perenne transizione verso una nuova sintesi di fede e di pensiero.

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Ved. a proposito C. Marco, L’ordine pigro. Nascita e declino dell’Europa civile. Vol. I, L’Europa civile, Lungro di Cosenza, 2012

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La credenza moderna che possa costituirsi un orizzonte di pensiero e la relativa civiltà senza un fondamento ontologico, ossia un sapere di “scienza” privo di altra credibilità che non sia nel suo metodo, è la “superstizione” (Husserl) tipica dell‟epoca della crisi dell‟universo di senso cristiano e della sua civiltà liberale, la cui affermazione la coscienza razionalistica ha concepito dapprima come “progresso” tendenziale verso un universo di senso assolutamente scientifico, e che in seguito l‟esito totalitario di tale fede ha rivelato una mostruosa illusione e un moto di “decadenza” in senso nichilistico. La crisi di legittimità morale della monarchia era il riflesso eticopolitico della crisi del fondamento teologico dell‟antropologia cristiana per l‟azione del razionalismo, che si manifestava come tensione politica tra elementi sociali già organicamente integrati in senso comunitario nazionale. Lo sviluppo e l‟emancipazione del Terzo stato borghese era, a sua volta, il riflesso sociologico della emancipazione della filosofia da ogni fondamento e fine teologici. E quanto costituiva una dissoluzione sul piano teoretico dell‟originario universo di senso religioso, si traduceva sul piano pratico come una rivoluzione delle strutture formali tradizionali, segnando il passaggio dal piano metafisico a quello politico di ogni criterio di validità di giudizio sulle cose del mondo. “In Francia la rivoluzione aveva portato alla costituzione di un‟alleanza difensiva tra nobiltà, monarchia e chiesa”124, ossia a una definizione degli assetti sociali politicamente ispirata a un criterio esclusivistico che contraddiceva ogni antica universalità di valori, e che accoglieva di contro la dicotomia amico-nemico all‟interno dell‟antica comunità sociale, legittimando così anche moralmente l‟opposizione politica dei rispettivi e opposti piani di coscienza, che diventavano “ideologici”, per cui “la reazione ideologica dell‟Illuminismo si fuse con la reazione sociale della nobiltà”125. Ma la tendenza sociologica a far confluire posizione sociale e culturale fino a farle politicamente coincidere è un fenomeno che interessa ogni posizione ideologica priva di visione universale. Infatti, una posizione sociale o culturale, quando affermatasi come valore universale di

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K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it. cit., pag. 220. Ivi, pag. 221.

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ragione pubblica, smette di essere socialmente caratterizzata e diventa Weltanschauung, socialmente trasversale. Una volta raggiunto il pubblico riconoscimento e affermatasi come universo di senso comune, l‟ideologia è costretta a mediare la sua astratta coscienza negativa con l‟esigenza di operare delle scelte di Governo, cioè decisioni di contenuto positivo. La weberiana “etica della responsabilità” non è una graziosa opzione dialettica del potere di governo, ma la condizione imprescindibile di ogni istanza politica che voglia tradursi in etica pubblica, cioè in criterio generale valevole erga omnes. Un‟etica che non sia pubblica, infatti, è un‟istanza privata, che può avere un valore morale interno al gruppo che l‟adotta, ma che assurge a valore etico solo pervenendo a un carattere pubblico, ossia quando venga riconosciuta di valore generale. Poiché si era infranta l‟unità morale della nazione nel‟atto in cui veniva definita in termini non più religiosi ma politici, ogni gruppo politico era portatore di una sua morale, il cui riconoscimento passava attraverso il rapporto politico, ossia l‟affermazione sociale dei gruppi particolari in competizione. Il carattere astratto del pensiero francese pre-rivoluzionario notato da Tocqueville derivava sociologicamente “dal predominio culturale di un‟intelligentsia che era esclusa dal governo e dall‟amministrazione del paese”126. Il che è giusto ma non spiega la persistenza di quel carattere a rivoluzione avvenuta e la sua manifestazione terroristica. Il terrore fu la conseguenza logica della persistenza del carattere privato originario della morale razionalistica, la quale per potersi affermare come etica pubblica senza perdere le sue caratteristiche rivoluzionarie, cioè di parte, dovette procedere alla eliminazione politica di quelle forze sociali e individuali che non rientravano nella morale del gruppo al potere, così che la coerenza morale fu interpretata come la sua estensione politica agli altri gruppi subalterni, trasformando pertanto la logica del Governo in affermazione di parte, ossia politicizzando il Governo. Fu così che la dimensione “pubblica” acquistò un valore di senso esclusivamente politico, che eticizzò la forza politicamente

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Ivi, pag. 222.

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dominante, rendendo autonoma la politica dalla morale. Ma se un sapere senza fondamento ontologico è solo una “ipotesi” teorica, qual è appunto una dottrina scientifica; parimenti, un‟etica senza fondamenti morali è solo una “ipotesi” politica, qual è appunto una dottrina ideologica. Non c‟è autonomia della coscienza politica fuori dell‟orizzonte di senso scientifico, né radicalità politica senza radicalità scientifica. Entro tale orizzonte, la generalità etica si ottiene eliminando le opposizioni sociali, in modo che il gruppo “privato” dominante fosse rappresentativo dell‟unità nazionale, cioè di tutto lo Stato politicamente definito. In questo caso, l‟etica dichiarata “pubblica” è soltanto una realtà di fatto, ma non di principio, essendo la proiezione istituzionalizzata di una morale privata avente efficacia politica erga omnes. Ciò vuol dire che non ogni potere di governo è, in quanto politicamente affermato come eticamente valido, anche moralmente legittimo. Nel caso del potere rivoluzionario la legittimazione morale era circoscritta al solo gruppo politico al potere, mentre per il resto della società era un potere usurpato. La legittimazione etica del Potere non può dunque avere natura “politica”, di fatto, ma morale, di principio, perciò l‟etica è il fine ideale della forza politica, che la trascende come la decisione di Governo l‟istanza politica particolare. Quando la forza politica prende il posto del Governo e la sua volontà partigiana diventa legge generale, prevale la logica del fatto e non del diritto. E la logica del fatto è appunto quella della scienza, e non quella della filosofia. Il valore etico sempre meta-politico, e finché esso è vigente come fondamento dell‟azione pubblica, ossia come decisione di Governo di valore comune riconosciuto, una politica rivoluzionaria è impossibile perché contraddittoria di quel valore generale di senso universale. Una politica “rivoluzionaria” è quella che non ricerca il riconoscimento pubblico delle sue istanze particolari o private, ma le afferma come pubbliche esse stesse, negando perciò legittimità di decisione etica al Governo, il cui potere consiste nel riconoscerle o respingerle. La fine della monarchia e il potere parlamentare stanno a indicare il passaggio politico da un‟etica del Governo moralmente legittimato dall‟autorità religiosa, a un‟etica della forza, politicamente sostenuta dal potere legislativo. Una politica rivoluzionaria, proprio perché affida alla efficacia della forza la sua legittimazione etica di fatto, non consente 84


molteplici livelli di coscienza ma un unico orizzonte di senso, garantito nella sua validità dalla struttura giuridico-politica. Lo Stato, quindi, da struttura di Governo diventa struttura meramente politica, le cui leggi d‟azione non sono più di natura etica ma economica. Non a caso la politica economica diventa l‟attività principale dei moderni governi parlamentari. Gli Stati democratici, poi, attribuiscono valore etico alla forza consensuale maggioritaria, la cui periodica variabilità funge da verifica di fatto analoga a quella empirica della teoria scientifica, per cui l‟etica in democrazia è il valore creduto, l‟opinione, non il valore fondativo della credenza. Il carattere “pubblico”, nell‟universo di senso morale, non deriva dal mero riconoscimento sociale, cioè di fatto da parte dei gruppi sociali politicamente minoritari, ma è conseguente al suo valore ideale, acquisibile non per statuto giuridico ma per partecipazione ideale (), cioè per convinzione. La superiorità morale del cristianesimo sulle altre religioni stoiche risiede nel suo principio di conversione e non di imposizione della fede, che consente lo spazio di coscienza razionale nell‟ambito dell‟universo di senso religioso. infatti il razionalismo antico, come quello moderno, nascono come “idealismi” all‟interno di un universo di senso religioso che non ammette che un unico livello di coscienza, quello mitico, per cui il livello razionale per sussistere deve costituirsi su un piano di universalità antagonistico, e cioè politico. solo il cristianesimo è riuscito a esprimere, sia pure imperfettamente, una cultura liberale all‟interno di uno stesso universo di senso religioso. La forza impositiva della politica non elimina l‟eteronomia morale, per cui la partecipazione politica, cioè il coinvolgimento dei gruppi sociali al Potere, non risolve di per sé il problema fondamentale della sua legittimazione etica, ossia la questione del suo esercizio moralmente legittimo. Come si è detto, tale legittimazione, quando è affidata alla politica, auto-ponendosi come volontà costituente, perde di contenuto morale, derivante da un‟istanza ideale trascendente, meta-politica, di natura religiosa, e quindi non dal consenso collettivo con-venzionale, ma da un‟autorità superiore universale. Non a caso tutte le ideologie moderne tendono a sostituire il fondamento religioso rinnegato con una “religione civile”, affermata come una finzione giuridica il cui “valore” è dovuto solo alla sua effettiva efficacia, cioè alla sua vigenza di fatto. La legge metafisica confermativa dell‟Essere universale viene 85


modernamente sostituita dalla norma civile, dal fondamento giuridico dello Stato, come tale riformabile e reversibile, cioè opinabile e non vero. Il passaggio del valore dalla sfera sacra a quella profana comporta che i termini valoriali perdono il loro carattere di universalità e quindi di necessità assiologia, per acquisire uno relativo al contesto normativo, per cui la sacralizzazione del mondo profano comporta il dimensionamento del valore all‟orizzonte di senso politico garante dell‟ordine normativo. Se le cose profane, partecipando del valore sacro acquisivano valore simbolico universale, il percorso opposto di profanazione dei valori sacri riduce questi a scopi politici. Il concetto di politicizzazione e di secolarizzazione sono indicativi dello stesso fenomeno essenziale di delocalizzazione dei valori etici dalla sfera del sacro a quella profana. La legittimità dell‟ordine nuovo, portato dal livello di coscienza religioso a quello politico, diventa la realtà di un potere che commisura la portata del suo essere dalla capacità di imporsi non elettivamente per adesione di fede ma coscrittivamente per dominio delle forze sociali politicamente asservite, a prescindere da ogni riconoscimento di senso morale. La rivoluzione, dunque, può andare al Potere ma non perciò diventa Governo. Rispetto all‟ordine stabilito dalla coscienza razionalistica, ogni opposizione interna è simbolo di inimicizia politica, e ogni opposizione ideale viene giudicata “irrazionale”. L‟affermazione dell‟irrazionale in sé fu resa possibile dalla tendenza precedente ad esaltare gli elementi razionali della coscienza. Un compatto movimento d‟opposizione poteva sorgere solo perché l‟Illuminismo aveva portato all‟estremo la tendenza alla razionalizzazione. Esso era riuscito a concepire il mondo in modo radicalmente e conseguentemente razionale. I fattori irrazionali venivano esclusi ovunque; con ciò stesso però separò elementi vitali che – per lo stesso processo di esclusione – si fusero e formarono il nucleo di una controcorrente127.

In cosa consisteva questa “controcorrente”? La caratteristica peculiare del romanticismo tedesco è che esso unificò l‟opposizione politica ed ideologica contro il mondo moderno [anche se] il

127

K. Mannheim, Op. cit, pag. 223.

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movimento romantico non è una risposta puramente reazionaria. La coscienza romantica ha già assorbito e neutralizzato il contributo del razionalismo moderno128.

Sia l‟individualismo che la tendenza a razionalizzare le forze irrazionali della coscienza sono mutuati dall‟Illuminismo, prodotto, come sappiamo, indiretto del soggettivismo morale della Riforma. Ma non è questo il punto decisivo. “Irrazionale” era ciò che non rientrava nell‟ordine del sistema razionalistico, ovvero tutti i motivi fideistici nati dall‟ontologia cristiana e giustificati razionalmente dalla metafisica tradizionale. “Irrazionale” era il sentimento della verità tramandata come certezza di fede e di ragione, che aveva accompagnato la metafisica cristiana quale attitudine a recepire l‟autorità teoretica in termini di autorità morale. E‟ questo sentimento del valore della fede l‟essenza della tradizione, che il razionalismo, non potendola supporre, esplicitamente escludeva come tema “irrazionale” della coscienza non illuminata. In realtà, tale motivo fideistico era il sentimento stesso della vita come cosmo unitario avente una destinazione razionale, per cui, anche se concepita come sinonimo di “pregiudizio” ed errore, ossia “l‟opposto puro e semplice della ragione e della libertà” e “cieca sottomissione”, in realtà l‟autorità non ha il suo fondamento ultimo in un atto di sottomissione e di abdicazione della ragione, ma in un atto di riconoscimento e di conoscenza […], e quindi su un‟azione della ragione stessa, che, consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri [ritenuto] superiore in giudizio e in intelligenza, per cui il suo giudizio ha la preminenza, cioè sta al di sopra del nostro proprio giudizio129.

Invece che con “l‟obbedienza”, l‟autorità ha un diretto rapporto con “la conoscenza”, in quanto essa non sorge da un “ordine” ma “lo rende possibile”, sicché “il suo vero fondamento è un atto della libertà e della ragione, la quale attribuisce fondamentalmente al superiore, in quanto ha una visione più vasta o è più esperto, una autorità; quindi in base al

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Ivi, pag. 224. H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 328.

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fatto che riconosce questo come il partito migliore”. E ciò esclude che l‟autorità sia connessa con “l‟arbitrio irrazionale”, mentre è invece legittimata dalla “responsabilità” di chi l‟esercita130. Gli stessi “pregiudizi” che l‟autorità crea col suo esercizio sono “oggettivi, in quanto producono la stessa prevenzione a favore [di] motivi che la ragione riconosce come validi”131. Il Romanticismo, nella sua essenza ideale e morale, esprime l‟istanza unitaria del mondo spiritualizzato dall‟uomo divino, contro i costrutti puramente cognitivi del fisicalismo razionalistico, incapace di una visione intuitiva dell‟esperienza umana. I filosofi della storia e i letterati romantici sono la versione secolarizzata dei chierici cristiani, che pongono il loro sapere al servizio della verità già conosciuta (o avvertita) intuitivamente. A essi manca però una Chiesa comune, una comunità di fede, e sono costretti a organizzarla come associazione culturale, cenacolo intellettuale o redazione pubblicistica, cioè come “opinione” sociale. Ma rimettendo la sua consistenza nelle mani delle forze sociali, il sapere secolarizzato diventa “politica culturale”, ideologia, accettando così la funzione di supporto tecnico-razionale all‟azione pratica, secondo il precedente storico risalente alla sofistca. Ma una sorte simile tocca anche alle varie confessioni riformate, prive anch‟esse di una istituzione propria di riferimento, autonoma dal potere secolare. Il culto della tradizione come Storia nasce come surrogato fideistico del valore religioso non più garantito dalla Chiesa. Non più tradizione teologica ma storica, ossia valore legato alla continuità sociologica della fede nei valori tradizionali, anziché legame con un sapere ormai screditato dalla stessa vulnerabilità dogmatica. Che certezza metafisica poteva infatti offrire un fondamento religioso oppugnato all‟interno della stessa tradizione teologica? Dal punto di vista fideistico, la Riforma ebbe conseguenze devastanti per il pensiero e per il sentimento dei cristiani, che aprirono una ferita spirituale non ancora rimarginata dopo lunghi secoli di lacerazioni culturali, morali e politiche. La Storia diventa il luogo moderno della verifica della verità secolarizzata, l‟orizzonte di senso di ogni esperienza umana particolare

130 131

Ibidem. Ivi, pag. 329.

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e universale, nel cui processo andava inscritta la stessa epica cristiana e la tradizione ecclesiastica. La Riforma mostrò che anche la Chiesa aveva una “storia”, la quale comprendeva dunque gli stessi processi religiosi e i suoi contenuti “eterni” (o di eternità). Lo storicismo nei suoi elementi centrali è di origine conservatrice [che] si sviluppò ovunque come argomento politico contro la rottura rivoluzionaria con il passato. Il semplice interesse per la storia diventa storicismo quando i fattori storici non vengono più semplicemente confrontati positivamente con quelli del presente, ma quando il “divenire” come tale viene vissuto simpateticamente. Questo è il senso comune alla “continuità” di Burke, al tradizionalismo francese e allo storicismo tedesco132.

La “continuità storica”, secondo Ranke, è “l‟essenza della storia”, per cui il processo storico stesso è fondato sulla “coscienza” di tale continuità, che consente agli eventi umani di costituirsi in “storia”133. Da ciò consegue che la coscienza unitaria del mondo storico è l‟attributo riservato alla qualità divina della intelligenza universale del Creatore, cui si ispira la coscienza dello storico, “sacerdote” dell‟umanità, in grado di vedere nei fenomeni storici il rapporto con Dio, al cui pensiero dunque somiglia134, vi partecipa. In tal senso, “il comprendere storico acquista una risonanza quasi religiosa. La comprensione (Einsicht) è immediata partecipazione alla vita, senza la mediazione discorsiva del concetto135. L‟attenzione a ciò che “diviene” distrae dall‟essere che (sempre) è, dall‟Essere eterno. la crisi della Chiesa è la dimostrazione che gli stessi portatori della verità, assertori dell‟immutabilità del vero, si scontrano sui suoi contenuti. A Lutero bastò affermare che il deposito della verità fosse la coscienza individuale per rendere superfluo l‟apparato ecclesiastico, che non riconobbe più. D‟altro canto la Chiesa, anziché accogliere al suo interno il messaggio novatore quale offerta di fede e di intelligenza da parte di una particola del corpo mistico, lo rifiuta a difesa della istituzione contro i suoi membri stessi, optando per la

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K. Mannheim, Op. cit, pagg. 245-246. H.G. Gadamer, Op. cit., pagg. 250- 251. 134 Ivi, pag. 252. 135 Ivi, pag. 253. 133

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difesa della struttura mondana della Chiesa apostolica e per le sue ragion d‟essere istituzionali, a scapito della chiesa dei fedeli, chiamati solo a obbedirle. Le ragioni dominanti della istituzione sono ragioni “politiche”, ritenute superiori a quelle morali. La pretesa al monopolio esegetico diventa ragione politica di salvaguardia di una sacra burocrazia di “professanti i sacramenti” (Chateaubriand). Fuori della verità ecclesiastica, c‟è lo svolgimento delle vicende umane nella loro molteplice fenomenologia avvenimenziale, di cui la ragione emancipata dai dogmi deve ritrovare il senso unitario, la Storia appunto. Questa, come orizzonte umanistico, diventa il nuovo contenitore della verità, umile e finita ma certa, dell‟esperienza umana. Da cinque secoli la Chiesa riconosce santità ma non intelligenza, e ciò che non concesse a Lutero non lo ammise ai pensatori di poi, che speranzosi le offrirono i loro servigi di rinnovamento spirituale. La ragione, dimesso il servizio alla teologia, diventa ragione della Storia, ragione umanistica aperta al divenire. Lo storicismo è la fine del senso ultimo delle cose e l‟inizio della ricerca di senso di esse. Il dubbio della fede diventa ora “metodico”. Non più la fede sorregge la ragione, ma il dubbio, che è l‟irrazionale opposto alla verità di ragione. Anziché ragionare sul fine della creazione e vivere nella speranza, lo sforzo dell‟intelligenza è ora dispiegata per negare il dubbio, per combattere l‟ombra dell‟irrazionale che accompagna ogni acquisto di ragione. Il pensiero deve sconfiggere il suo dubbio. Solo la certezza di sé, come pensiero che pensa, pensiero in atto, attuale, può eludere il dubbio. E su questa certezza Cartesio fonda il razionalismo moderno, l‟atto di ragione senza conforto di fede. Ma cos‟è il dubbio? E‟ il senso del limite tra Essere e non-Essere, della sospensione prima della decisione della fede ontologica. E‟ la negazione reale delle convinzioni ideali: lo smarrimento della confutazione, la prova della fede, la meraviglia delle cose ignote, insomma il thàuma. L‟Essere, determinandosi nella sua attualità di ente, esclude il non-essere, l‟altro da ciò che è, la sua possibilità, il “profano”. La realtà determinata come “sacra” diventa il modello normativo di un universo di senso caratterizzato da quella positività ontologica, confermata politicamente dalle decisioni di Governo, le quali ri-stabiliscono sul piano sociale la scelta fondamentale originaria tributaria del senso comune. Tutto ciò che la ragione “perde” affermando se stessa viene rimpianto dal Romanticismo, che ha vivo il 90


sentimento della totalità dell‟Essere e del valore simbolico e non oggettivo della realtà. La perduta autorità porta con sé la perdita del valore oggettivo delle cose. Infatti alla questione dell‟autorità è strettamente legato quella della oggettività, che non è soltanto un concetto derivato dalle scienze, ma è una esigenza gnoseologica connessa alla impostazione teoretica dettata dall‟ontologia greca, che concepiva l‟Essere come una Idea, fungente da modello (appunto ideale) di ogni ente partecipabile alla sua essenza. La “oggettività” era il criterio di riferimento di ogni analisi razionalmente corretta e pertanto superiore a ogni valutazione meramente e opinabilmente soggettiva, e cioè arbitraria e non fondata. L‟oggettività era il criterio della correttezza metodologica della ricerca della verità, che ne fissava la sua certificazione razionale o scientifica. Essa implicava un riconoscimento, e con questo la conoscenza della validità del criterio scientifico della verità. in tal senso includeva la sua “autorità”, che è il frutto morale del riconoscimento di validità scientifica di quella conoscenza. Ed è come risultato morale che l‟autorità di proietta nella dimensione politica L‟autorità politica è la depositaria del potere decisorio della validità in caso di conflitto delle interpretazioni, così come lo è il Governo delle istanze politiche, della vita sociale. In campo teoretico, l‟autorità è l‟organo della decisione sulla validità scientifica di una teoria o di una interpretazione. Che tale organo sia costituito da una fonte tradizionale o da un ente giuridico, è irrilevante in linea di principio. Ciò che logicamente rileva è la sua necessità dirimente le controversie d‟opinione a favore di quella sola ritenuta oggettivamente valida, la sola “vera”. Sul terreno strettamente ermeneutico, la coesistenza – più o meno conflittuale – di molteplici linguaggi contestuali a uno stesso orizzonte di senso, non esclude la storicità di quello più accreditato come “valido” dalla fonte autoritativa storicamente vigente, depositaria del criterio di validità e del relativo potere decisorio. E‟ tale fonte autoritativa che, istituzionalizzata, decide del conflitto delle interpretazioni. Orbene, definire la questione ermeneutica del senso da attribuire alle cose del mondo, astratta dal contesto autoritativo, significa fare dell‟esperienza ermeneutica un prodotto puramente coscienziale della comprensione. Ed è questa la situazione che si determinò nell‟età romantica. 91


“Romanticizzare” la vita significa conferirle ciò che la ragione ha perduto o smarrito: la religione, la memoria, il sentimento del tempo e degli affetti: tutto ciò che il giudizio d‟essere non contempla come reale, ma che costituisce la coscienza della totalità delle possibilità. Il “cuore” del mondo che non trova posto nello spirito razionalistico. La vita del mondo diventa un‟essenza morale, che ha un suo ordine sentimentale, che deve tradursi in linguaggio logico, rendersi partecipe non solo simpateticamente ma razionalmente. Ma con quale “ragione”? una ragione che giustifichi, ma non condanni, “il comportamento degli antenati”. Una “buona ragione” che giustifichi i “contenuti irrazionali”, diversa dal calcolo borghese, astratto, dove “cose e esseri umani vi appaiono soltanto come dati di un‟operazione intellettuale”, e non come “parti concrete di una determinata connessione di vita”136. Si determina il “contrasto tra i metodo che parte da premesse normative e costruttive, e quello che parte dai dati dell‟esperienza”137. Il richiamo al concreto, alla realtà, al dato singolare, contro ogni astratta determinazione alla quale sfuggono le qualità intrinseche delle cose e delle persone, ognuna delle quali ha “in sé la chiave per la sua comprensione”138. Le antiche forme di pensiero e di esperienza immediata erano state attaccate da tutte le parti da forme assolutistiche, burocratiche e borghesi di razionalizzazione ed erano in procinto di estinguersi. Esse furono salvate dal‟incontro con il romanticismo, che le fece rivivere e le fornì di un moderno equipaggiamento teorico139.

Il bisogno d‟ordine razionalistico non era perfezionistico ma ristrutturante. Ossia, non andava emendato quando non più funzionale a un suo corretto utilizzo, ma riformulato l‟ordine complessivo della struttura, ideale come sociale. Il terreno politico, esclusivistico, della tensione sociale predisponeva le parti in contesa a non ricercare un equilibrio superiore, una “sintesi”, ma una soluzione radicale. Il pensiero borghese non chiedeva asilo politico, ospitalità, al vecchio

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K. Mannheim, Op. cit, pag. 253. Ivi, pag. 254 138 Ivi, pag. 255. 139 Ivi, pag. 260. 137

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regime, ma pretendeva sovvertirlo per costruire sulle sue macerie un ordine nuovo. Anche il pensiero oggettivato diventava un avversario da fronteggiare e confutare politicamente. Sotto l‟influenza della Rivoluzione francese il conservatorismo comincia a intuire in qualche modo la natura del pensiero borghese. L‟esigenza dell‟epoca sembra essere la lotta contro di esso. Nel tentativo di sondare le radici e cause ideologiche della Rivoluzione i tradizionalisti francesi si concentrarono sulle premesse metafisiche e religiose del XVIII secolo e ne fecero il punto di partenza dei loro attacchi. In Germania invece il romanticismo tendette a criticare gli aspetti logici e metodologici del pensiero liberale. Il fatto è che la controrivoluzione in Francia trovò la sua metafisica già pronta nei dogmi della Chiesa cattolica, mentre in Germania lo scisma in Cattolici e Protestanti rese le fondamenta metafisiche eterogenee e quindi meno salde. Ci si ritirò quindi su un piano metodologico 140.

Poiché “il pensiero rivoluzionario della borghesia nacque alleato del razionalismo”, “per mera opposizione”, il pensiero della “reazione fece propria perciò l‟ideologia contraria”. Ma il confronto si estende sull‟intero piano della realtà storica, per cui traendo il pensiero rivoluzionario la sua forza dalla volontà di realizzare un modello razionalmente ben definito dell‟ordine politico e sociale perfetto […], il pensiero conservatore, contrario alla realizzazione di questa utopia, è costretto a riflettere sulle ragioni per cui lo stato attuale della società non riesca a coincidere con questo modello razionale. [Per cui, a ragione della centralità della politica come luogo ideale di senso storico,] i grandi dualismi del pensiero del XIX secolo […], anche se inizialmente si presetano immanenti in sistemi filosofici, si nutrono e mantengono un significato sociologico grazie alle corrispondenti polarità o dualismi politici del liberalismo e del conservatorismo141.

Il liberalismo si proponeva di liberare l‟uomo dai suoi vincoli storici: identitari, sociali, religiosi, politici, etici. Libertà dal‟organico e dall‟insieme unitario attraverso un nuovo concetto di realtà, che partiva

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Ivi, pagg. 260-261. Ivi, pagg. 263 e 264.

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dalla coscienza per giungere alla realtà mondana, anziché il contrario. Era dunque il mondo a doversi adattare alla coscienza e alle sue leggi razionali. Ma non potendo il singolo fare miracoli, poteva fare le rivoluzioni,e quindi doveva. Non poteva “creare”, certo, ma poteva ben “cambiare”. Un cambiamento radicale dell‟ordine costituito sarebbe stato più incisivo di una inserzione creativa in un ordine immutabile. I singoli miracoli non sconvolgevano l‟ordine divino, mentre le rivoluzioni lo ricostituivano secondo i princìpi di ragione. Umana ragione. Il razionalismo era l‟apoteosi dell‟umanesimo e lo sviluppo dell‟Io. L‟uomo perde la sua concretezza empirica e storicamente qualificata e diventa una figura astrattamente universale. I “diritti dell‟uomo” sono di tutta l‟umanità, senza frontiere né particolari e consuetudinarie identità. Il mondo del nuovo ordine va commisurato all‟uomo razionale, astrattamente universale, sicché “il punto di partenza sistematico e quello storico si biforcano”142. Il razionalismo borghese è rivoluzionario e radicale proprio perché vuole razionalizzare tutto l‟ordine sociale ripartendo sistematicamente da zero. Esso contrappone al mondo quale si è sviluppato, un unico sistema politico rigido e statico sotto forma di progetti costituzionali scritti. Per contro il conservatore mette in primo piano oltre alla lotta contro la generalizzazione, quella contro il pensiero sistematico, contro il pensiero come sistema statico 143.

La questione storico-sociologica è: perché la borghesia tenta la strada della rivoluzione, più aleatoria, e non quella della riforma graduale della società e dello Stato? La risposta, come abbiamo visto, non è di ordine storico-fattuale, legato a moventi economici, ma di ordine ideale e morale, ossia in quanto il suo fondamento universale di ragione non trovava spazio entro l‟universo di senso tradizionale, nel cosmo strutturato tradizionalmente sul fondamento veritativo della fede ontologica cristiana, e parimenti la sua nuova coscienza sociale non veniva rappresentata nella antica struttura istituzionale. La ragione emancipata dalla teologia prendeva la sua strada sociologica, diventando ragione autonoma di una classe sociale autonoma. Poteva il chierico ecclesiale lasciare il posto al filosofo razionalista? Poteva la

142 143

Ivi, pag. 266. Ivi, pag. 267.

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nobiltà di sangue lasciare spazio e prerogative sociali alla borghesia finanziaria e di penna? Cioè, potevano farlo senza negarsi? Non ne avvertivano il bisogno. Nel cosmo tradizionale non c‟era spazio per la borghesia. Non rimaneva altro che conquistarselo. Diventava inevitabile perciò lo scontro politico, perché la politica era l‟unico terreno di contesa dove si poteva decidere quanto il passato aveva stabilito immutabile e consegnato al presente: il futuro. Perduta la meta escatologica, il futuro rimaneva aperto, disponibile all‟uomo. Da qui la scelta utopica della ragione rivoluzionaria, e la difesa conseguente della storia come memoria del passato da parte conservatrice. Rispetto al futuro della costruzione del mondo razionale, la difesa sentimentale del passato divenne “irrazionale”, cioè non conforme a ragione. Essendo irreformabile il passato e conteso il presente, la coscienza del futuro divenne per il razionalismo l‟unico spazio temporale di realtà nel quale allocare i contenuti inattuali della sua visione utopica. Se la ragione doveva astrarre dalla zavorra del passato per ridefinire il futuro, abbandonando senza rimpianti la nostalgia per la speranza, la ragione concreta doveva raccogliere quanto andava perduto per ricomporlo a nuova vita. Nella nuova logica nata dal‟atteggiamento romantico si tiene conto della duplice polarità simbolica del reale, visto secondo un metodo di pensiero dinamico, contrapposto a quello statico razionalistico, che descrive le proprietà e le parti ma non le definisce in relazione alle loro opposizioni, e cioè in forma “totale”, ma per concetti. E il concetto non esprime la relazione dinamica dello stato delle cose e della vita. Secondo le parole di A. Mueller, “se il pensiero che abbiamo di un oggetto tanto elevato si amplia, si muove e cresce come l‟oggetto stesso, allora questo pensiero non o diciamo il concetto della cosa, bensì l‟idea della cosa, dello stato, della vita”144. Solo l‟idea è dinamica, inclusiva del negativo che l‟astratto concetto abbandona come non-senso. Oltre alla descrizione per polarità, il nuovo idealismo romantico vuole seguire il processo della vita col pensiero. Si spostano i confini del razionale, allargando la prospettiva illuministica. La soluzione romantica non distrugge la fede illuministica nella ragione; la

144

Cit. in Ivi, a pag. 272.

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modifica soltanto. Non viene abbandonata la fede nel potere della ragione, nella produttività del pensiero. Si rifiuta solo un tipo di pensiero, quello statico dell‟Illuminismo, che argomenta deduttivamente partendo da un principio unico, e si limita a combinazioni di concetti rigidi. Solo in questo senso viene ampliato l‟orizzonte del pensiero possibile. Anche in questo il pensiero romantico (probabilmente senza volerlo) continua semplicemente, anche se più radicalmente e con nuovi mezzi, lo stesso processo che già l‟Illuminismo si era proposto di portare a termine, cioè al conseguente e totale razionalizzazione del mondo145.

Detta così, però, la questione non è fondatamente centrata. Già la teologia cattolica aveva prospettato un senso totale della vita in termini razionali. Non era in questo la novità. L‟Illuminismo voleva ristrutturare il senso della vita e dell‟esperienza umana in termini univocamente razionali, liberati da ogni metafisica della Storia e di ogni teodicea, cioè a prescindere dal fondamento ontologico dell‟Essere. La funzione assegnata alla ragione non era di natura scettica, non apprestava riserve su singoli aspetti della costruzione teologica, ma era quella di ripensare il mondo attraverso la sola ratio, così come Lutero si propose di ripensarlo per sola fides. Il razionalismo è il processo profano speculare a quello teologico protestante, di dissolvere la sintesi cristiana del sapere nei suoi due originari elementi essenziali: la ratio, appunto, e la fides. La risposta che il pensiero romantico “conservatore” oppose al processo illuministico di destrutturazione del cosmo religioso fu di ri-comporre la funzione della ragione all‟interno di un universo di senso più comprensivo, di natura non teologica ma anch‟essa razionale e quindi teoretica, assegnando alla coscienza filosofica l‟equivalente di ciò che il razionalismo astratto aveva assegnato alla politica: strutturare il mondo naturale (per gli illuministi, tradizionale) in ordine cosmico ideale. Il tentativo consisteva nel pensare non il solo Essere-attuale ma il Tutto146, dimostrando che tale pensiero riusciva impossibile con i soli 145

Ivi, pag. 273.

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Il pensiero della totalità come possibilità di un Essere in temporale ed eterno, sorse vivo in Agostino, il quale, com‟è noto, si soffermò nel libro XI delle sue Confessioni sulla diversa natura del tempo come scansione del presente e come durata, nella chiara

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strumenti della ragione astratta. Occorreva una nuova forma di pensiero della totalità. Da questa esigenza nasce la logica dialettica, che si sviluppa dai tentativi di Mueller e del suo pensiero dinamico, e dalle posizioni storicistiche e sentimentalistiche romantiche. La sfida veniva raccolta sul piano schiettamente filosofico, da un canto rimuovendo la pretesa teologica di arrestarsi davanti al mistero della vita e del mondo, e dall‟altro protestando contro l‟opposta pretesa razionalistica di risolvere tutta la conoscenza in una relazione deduttiva di tipo lineare e progressivo, che privava di senso gran parte dell‟esperienza umana concretamente vissuta. Fu, questa, la “riforma” possibile dell‟universo di senso religioso, che il cattolicesimo dogmatico rifiutò di fare, lasciando campo libero al misticismo e all‟opposto razionalismo, ossia alle forze dissolventi della civiltà cristiana. 7. La vera posta in gioco era la cristianità, non la Chiesa apostolica. Questa ha preferito se stessa alla chiesa socio-culturale, quella dei papi a quella dei popoli. Fu una scelta politica, fondamentalmente idolatrica, fiduciosa nella struttura formale consolidata quanto sfiduciosa nelle risorse morali e spirituali del messaggio evangelico, concepito come corpus dottrinale tradizionale più che eterno messaggio irenico. Un segnale di resa alle ragioni del mondo, alla logica di Cesare, che la romanità cattolica aveva acquisito ma non superato. Non un avamposto ma una torre assediata si sentì la Chiesa minacciata nel suo monopolio esegetico della fede e del senso della vita, evitando la carità del dialogo fraterno e ripiegando sui suoi privilegi antichi per cercare di fermare la barbarie avanzante. Scelta miope, che fece il gioco dei suoi nemici interni ed esterni, legittimati dalla sua stessa posizione politica. La sfida, portata sul piano politico, faceva infatti il gioco della borghesia, dei “mercanti” muniti del potere della ragione pragmatica e non più solo simbolica. Anche il pensiero conservatore rivelò la sua “origine politica” nel “pensare dinamicamente”, avendo “le sue radici sociologiche nell‟opposizione al pensiero giusnaturalistico borghese, che si spera di battere non solo

consapevolezza che la “visione” (éidos) della realtà era legata alla sola conoscenza sensibile del presente, laddove il passato e il futuro sono possibili solo come dimensioni della nostra coscienza.

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nel contenuto, ma anche metodologicamente”147, contrastando cioè gli statuti epistemologici dello scientismo moderno. Nel pensiero giusnaturalistico-borghese lo Stato si fonda su un compromesso (contratto) tra contraenti riconosciuto giusto per sempre. Nel pensiero romantico feudali stico lo Stato è un equilibrio dinamica in continua fluttuazione tra gruppi antagonistici. […] Oggi siamo abituati a interpretare il processo storico in base a tali fattori polarizzati e interagenti, e quindi a concepire ogni situazione come una sintesi (mediazione) di fattori coesistenti e dinamici. Questo modo di pensare, che è diventato quasi un assioma per noi, nacque come reazione alla costruzione “unilineare” del razionalismo del XVIII secolo. Con il pensiero basato su “idee” la “filosofia vitalistica” romantica e di ceto creò effettivamente uno strumento per cogliere il fluente divenire storico e comprenderlo come totalità 148.

Diversamente dal pensiero puramente analitico, che scompone e singolarizza le componenti di un insieme, procedendo poi a una ricomposizione meccanicamente unitaria, cioè a una addizione, “il pensiero romantico-feudalistico analizzava suddividendo una totalità vivente, la vita e lo Stato, in movimenti polari parziali”149, procedendo quindi a una “sintesi dinamico-vitale” attraverso il concetto di “mediazione”, che si interpone tra le diverse polarità costitutive della totalità organica quali suoi fattori dinamici. Il pensiero generalizzante, razionalistico, opera con la correlazione principio generale-caso particolare. La sua metodologia si basa sulla categoria di sussunzione. Il pensiero dinamico invece afferra „Idea, cioè l‟intima direzione intenzionale della totalità concreta e concepisce il particolare come parte di questa formazione totale che si trasforma dinamicamente. La sua metodologia si basa sulla categoria di “mediazione”, esemplificata dal ruolo di giudice che “media” tra una norma di egge e il caso concreto da decidere150.

La “radice sociologica di questa tendenza del pensiero” viene ravvisata da Mannheim nella esigenza del proletariato fondiario di “mediare” la

147

Ivi, pag. 275. Ivi, pag. 276. 149 Ivi, pag. 277. 150 Ivi, pag. 278. 148

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sua giurisdizione patrimoniale con quella amministrativa della giustizia burocratica151, ma sarebbe fortemente riduttivo concepire la questione di principio come il riflesso di una vertenza pratica, sia pure di grande rilievo politico-sociale quale il controllo fondiario. Più saliente è l‟approccio morale, relativo alla decisione, che implica la responsabilità del soggetto (personale ovvero dell‟organo amministrativo) di assumere una libertà di giudizio di fronte al caso concreto, e non semplicemente di sussumere il caso particolare sotto la norma generale. Il razionalismo implica l‟individuo puramente pensante, teoretico, contemplativo, inattivo, che non prende decisioni, che si limita ad assentire o dissentire (il che non equivale a prendere decisioni). Il modello del pensatore dinamico invece è l‟uomo che decide, giudica e media. L‟individuo puramente teoretico, contemplativo, sussume, mentre l‟individuo che sta tra polarità conflittuali della vita decide e media. Il concetto di sintesi dinamica, di “mediazione”, implica quindi una rottura con l’atteggiamento contemplativo. Il pensiero dinamico penetra concettualmente il particolare, decidendo e mediando152.

In realtà, nei due casi “pensare” equivale a operazioni mentali diverse, relative alla rispettiva “funzione vitale” esercitata all‟interno del proprio orizzonte di senso. L‟uomo che “sussume e sistematizza”, anch‟egli a suo modo “decide” dialetticamente sulla base del fondamento ontologico che guida il suo giudizio logico, laddove la “decisione giudiziaria” inerisce l‟atteggiamento di governo interno a un orizzonte di senso etico che prende in considerazione vertenze di ordine politico, e non logico. Ossia concrete forze sociali, tra le quali il “giudizio” si pone come mediazione reale. Anche la sussunzione è un “giudizio”, che determina l‟essere escludendo dalla sussunzione il nonessere, soltanto che qui l‟essere non è una forza reale ma un atto di coscienza. Come abbiamo visto, la contemplazione ideale mediata dal giudizio teoretico lascia il posto al giudizio politico allorquando dall‟atteggiamento contemplativo privato si passa alla generalizzazione del senso “privato” nella dimensione “pubblica” del senso comune,

151 152

Ivi, pag. 279. Ivi, pagg. 279-280.

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operata con la mediazione della politica attraverso gli organi istituzionali dello Stato. E‟ a questo punto che la funzione mediatrice tradizionale della Chiesa lascia il passo a quella politica dello Stato etico, concepito non più come braccio secolare della comunità morale cristiana ma come istituzione autonoma di natura politica. La differenza, rispetto alla Chiesa, che mediava tra forme universali, è che la mediazione dello Stato è funzionale agli equilibri politici, di cui le forme giuridiche sono espressione confermativa e non modellante, e quindi variabili col variare stesso degli equilibri sociali e di Potere. Gli aspetti che in termini religiosi avrebbero una connotazione mistica relativa al dinamismo della vita concreta, in termini secolarizzati acquistano un‟accezione di concretezza dell‟esperienza vivente interiorizzata e partecipe di un dinamismo panteistico, di tipo extrateorico e più originario della teoria. Il pensiero qui è in funzione della vita e della pratica, non viceversa, cioè la pratica una mera applicazione della teoria alla situazione immediatamente data. Non è che il teoretico decida e il pratico realizzi la decisione: la decisione sta effettivamente nella comprensione del concreto, è la mediazione realizzata dal soggetto pratico partecipante. La conoscenza è azione e insieme sapere che asce dall‟agire. Quindi, mentre la coscienza dell‟Illuminismo concentrata sulla teoria era incline a considerare anche l‟azione come una specie di sussunzione (cioè applicava alla pratica le categorie proprie della “teoria”), ora un concetto vitale serve a conoscere il concreto. La sintesi non è un comporre e un mediare, bensì un mediare partecipando dall‟interno 153.

Inoltre, in funzione qualitativamente discriminante, rispetto all‟atto teorico, l‟azione ha il movimento dinamico dell‟agire come mediazione di sapere e di esperienza. L‟idea di “vita” è già una sintesi di teoria e prassi. Il realismo della seconda metà del XIX secolo è una eredità della concretezza vitale romantica. In origine essa venne assunta come esperienza direttamente vissuta di per sé, ma in seguito, nell‟esperienza tedesca, si diramò in due distinti indirizzi. Quello propriamente romantico, di carattere intimistico e interiore, perse le sue connessioni con la realtà pratica e si concentrò nella pura esperienza vissuta. “Nasce così una specie di „realismo‟ che non cerca

153

Ivi, pagg. 285-286.

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l‟ „essere reale‟ nella „empiria‟ o nel „quotidiano‟, ma nella pura „esperienza immediata‟ ”,154 che fu ripresa con enfasi filosofica rinnovata dal vitalismo di Bergson, “la cui concezione della „durée réelle‟ è propriaente una resurrezione della pura dinamica romantica” che la storia spirituale tedesca ha ripreso rifondendola “da un lato con correnti che convergono nella scuola fenomenologica, dall‟altro si allea con il rinnovato storicismo di Dilthey”, dando origine alle diverse filosofie della vita. Ma per quanto le diverse forme del “vitalismo” possano differire fra loro, tutte tradiscono l‟origine romantica (controrivoluzionaria) per la loro comune opposizione al positivismo e al kantismo, le due versioni del razionalismo borghese che cercano di tener fermo il concetto generale e il metodo induttivo delle scienze naturali come modello esclusivo di tutto il pensiero, anche se basi epistemologiche diverse155.

La loro comune origine romantica si manifesta nella opposizione ai concetti generali e la preferenza accordata alla “pura esperienza immediata” priva di precostituite razionalizzazioni concettualistiche. Perdendo le sue radici sociologiche con ceti politicamente orientati a fini concreti, questa tendenza filosofica “era in grado di isolare la „vita‟ e la „pura dinamica‟[…] ed attribuirgli un significato sempre più „interiorizzato‟ ”.156 La “grande importanza delle filosofie vitalistiche”, ricorda giustamente Mannheim, sta nella consapevolezza che “tutto quello che si considera „reale‟ nel nostro mondo razionalizzato non è altro che un insieme di relazioni razionali assolutizzate in sostanze”, ossia è “un mondo di pure esperienze immediate”.157 Le quali costituiscono “una unità significante conclusa”, che ne consente la conoscenza “oggettiva”, e il cui “dato” di coscienza prende il posto che ha il “fatto” per la conoscenza scientifica, così come la “vita” (Leben) si sostituisce al “concetto”. L‟oggettivazione della vita spirituale in forme significanti comporta

154

Ivi, pag. 287. Ibidem. 156 Ivi, pag. 288. 157 Ivi, pagg. 288-289. 155

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che la loro comprensione di senso consista in una “ritraduzione” del loro processo formativo, il cui “dato” storico si concretizza nell‟unità dell‟Erlebnis, il cui concetto per Dilthey, “costituisce la base gnoseologica che fonda ogni conoscenza dell‟oggettivo”.158 Ma l‟oggettività filosofica espressa in termini di Erlebnis, rispetto a quella naturalistico-scientifica, per il suo “intimo riferimento alla vita”, coinvolge la conoscenza di una “realtà che non può venir definita come consapevolezza, ma si estende anche a ciò che non è distintamente posseduto nella coscienza”.159 Questa comprensione del senso totale della vita costituisce quella totalità della coscienza come unità indivisa che l‟oggettivazione operata dal relativo metodo di conoscenza consente di differenziare e di determinare.160 La coscienza di questa unità originaria indivisa contiene già una istanza filosofica di superamento del soggettivismo gnoseologico di origine idealistica in direzione di una relativizzazione di ciò che “oggettivato secondo ragione”.161 Ed è su questa tendenza oggettivante che prende posizione Bergson coi suoi Dati immedati della coscienza (1888), criticando col concetto di “durata” come continuità assoluta dello spirito, la psicofisica del suo tempo come Natorp aveva criticato la psicologia del suo. La “vita” come “tutto”, trasferita sul piano coscienziale, diventa una “organizzazione” simile al processo organico, in cui le singole parti sono “rappresentative del tutto”.162 L‟unità di senso, dunque, nella conoscenza “organica” della vita, è data dall‟insieme, e non dalle astratte parti, le quali solo all‟interno del loro orizzonte di senso trovano la loro giustificazione razionale, ossia sono conoscibili. Già in Platone la dialettica, cioè “l‟arte di condurre un dialogo”, ha la funzione “negativa” di scoprire il lato oscuro del lògos, la “inadeguatezza delle opinioni che ci dominano”, schiudendo l‟orizzonte della comprensione, il cui “obiettivo”, fatto proprio da Hegel, è “lo sviluppo del significato totale” dell‟Essere, della sua

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H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 93. Sono parole di Dilthey citate da Gadamer in Loc. cit., pag. 93 n. 160 Ivi, pag. 95. 161. K. Mannheim, Op. cit, pag. 289. 161 K. Mannheim, Op. cit, pag. 289. 162 H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 96. 159

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totalità di senso163. In Hegel la singolarità non è l‟atomismo individualistico del razionalismo ma è un rapporto sintetico di ognuno col tutto storicoideale che è lo Stato razionale-reale del tempo. solo in questo rapporto organico è possibile cogliere il processo del movimento ideale, che si sviluppa aristotelicamente secondo un‟intima ragione, che si compie al termine del suo percorso fenomenologico lasciandone la comprensione alla filosofia. E‟ la fine ideale del processo a consentire la conoscenza della sua intrinseca razionalità. Ciò vuol dire che il pensiero non può direzionare gli eventi a suo piacimento, imprimendo al corso storico un percorso preordinato dalla astratta coscienza razionale. La realtà storica è più complessa e comprensiva dei singoli percorsi mentali individuali, così come la realtà dello Stato è più complessa dei suoi singoli momenti costitutivi, che sono il diritto astratto, la moralità, la famiglia e la società civile. Il diritto astratto regola i rapporti privati tra i singoli membri sociali, anzitutto il diritto proprietario. La proprietà per Hegel è espressione della libertà della persona, fuori dei vincoli feudali. La moralità è di conseguenza l‟azione di una persona razionalmente libera e capace di atti responsabili. Ma la libertà rimane astratta fino a quando non si determina in volontà etica, in azione che abbia come contenuto dei doveri determinati, stabiliti sulla base di una razionalità storica, fatta di leggi, istituzioni e costumi. La famiglia è il primo ambito sociale in cui si eticizza la libertà del singolo, compresa la sua proprietà privata, che diventa “patrimonio” della istituzione familiare, cioè di una comunità superiore alla particolarità dei singoli componenti. Per questa ragione i vincoli che la costituiscono, sia pure sorretti dal sentimento soggettivo di appartenenza, non possono essere del tutto disponibili dalle parti ma regolati dalle leggi. Oltre la famiglia, incontriamo la società civile, cioè il mondo dei bisogni e del lavoro descritto dagli economisti classici, dove l‟uomo soddisfa il suo naturale egoismo. Questo piano elementare di vita sociale non pertanto è esente da una sua logica disposizione strutturale, poiché la libertà individuale incontra le altre libertà per fini comuni e

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Ivi, pagg. 530-531.

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concorrenti, che inducono da un lato alla sua amministrazione regolata, dall‟altro a combinarsi in gruppi d‟interesse che sono le classi, che operano in funzione di una razionalizzazione degli sforzi collettivi. Una prima classe è quella “sostanziale” dei proprietari terrieri; l‟industria e il commercio riunisce una seconda classe; infine la classe “generale”, costituita dai burocrati e dai funzionari di Stato. ognuna di esse riflette un rispettivo momento del concetto: universalità, particolarità, individualità. La classe “sostanziale” rappresenta il momento dell‟universalità immediata; la classe industriosa rappresenta invece il momento intellettuale riflesso dalla particolarità degli interessi; la classe “generale” è infine quella dell‟universalità concreta, che si realizza nell‟azione individuale, che è insieme particolare ma di portata generale. Da questa struttura ideale della società ricaviamo il senso della corrispondenza reale delle forme concettuali oggettivate sul piano ideale. Se la comprensione teoretica dell‟Essere porta in evidenza i diversi livelli dialettici di coscienza, mitico e razionale, interni allo stesso orizzonte di senso religioso, la socializzazione delle forme spirituali rende implicito il senso inevitabilmente politico della dinamica storica, spostando il luogo della “mediazione” razionale dal piano della coscienza individuale e “privata” al piano della coscienza collettiva e “pubblica”, ammettendo implicitamente ma inequivocabilmente che i termini sintetici della verifica assiologica sono ubicabili entro un orizzonte di senso positivo, quello stesso orizzonte che la scienza aveva conteso vittoriosamente alla religione e che ora rimaneva da difendere contro la gnoseologia spiritualistica di carattere romantico. L‟insorgenza di un “senso estraneo” all‟interno di uno stesso orizzonte ermeneutico è dovuta, non già alla rottura della totalità di senso, che dell‟insorgenza è una conseguenza, ma alla determinazione di quella totalità come “unità” di senso, cioè come senso univoco, come scopus, tale che elimini dalla totalità i diversi piani di coscienza per affermarne uno solo come valido. Ed è quanto avvenuto con l‟interpretazione luterana della Bibbia come testo sui ipsius interpres, non abbisognevole di alcun commento tradizionale, ma so della

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determinazione del sensus literalis,164 ]il quale senso letterale va a definire, cioè circoscrivere in termini de-finitivi, e quindi univoci, ogni altro senso simbolico delle Sacre Scritture. Questa pretesa ermeneutica, determinando il tutto come unità, ne circoscrive il senso alla sua forma positivamente determinata, a esclusione di altri sensi possibili, eliminando idealisticamente dall‟Essere del testo il suo carattere di possibilità, trascendente ogni determinazione finita in quanto inclusivo del negativo, senza il quale non si perviene a una “totalità” di senso, ma solo appunto a una empirica “unità”, storicamente determinata. L‟unità di senso circoscrive il senso consegnandolo dogmaticamente alla sua determinazione attuale, che funge da modello ideale di senso per ogni altra interpretazione, come l‟Idea platonica. Ma proprio tale idealismo, volendosi confermato come modello di una nuova tradizione ermeneutica, si costituisce in opposizione con la tradizione storica, di cui diviene il suo opposto ideologico, e perciò polemicamente “reale”, ossia politico. Ogni costituzione di senso univoca, determinandosi come prodotto sintetico, cioè avente in sé la sua opposizione ideale, assorbendo nella sua determinazione storica anche il negativo, cioè la sua possibilità d‟essere altro dalla sua attualità, non è dialettizzabile in senso logico, ma solo in senso reale, e cioè polemico, tale da determinarsi, a seguito di questa tensione polemica, o come soggetto tetico (cioè un orizzonte di senso inclusivo del livello di coscienza antitetico), oppure come oggetto anti-tetico (cioè uno dei livelli di coscienza interni a un orizzonte di senso in cui è incluso). In entrambi i casi, la sua determinazione reale è l‟esito di una tensione polemica di carattere ideo-logico ossia politico, in quanto scontro di universi ideali reciprocamente esclusivi, in lotta per l‟egemonia. La costituzione storica di un monopolio esegetico del senso dell‟Essere si determina sempre come forma spirituale socializzata, cioè istituzionalmente garantita dal Potere, da una politica di potenza che difende le sue prerogative contro altre pretese egemoniche. Rispetto al tradizionale orizzonte di senso cattolico, quello protestante si costituisce come “senso estraneo” alla tradizione, e cioè esclusivo e

164

Ved. H.G. Gadamer, Op. cit., pagg. 212-213.

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concorrente, non affrontabile sul piano dell‟opposizione logica, ma su quello dello scontro ideo-logico. La sintesi logica, per sussistere, deve ammettere preventivamente la comunione del reciproco negativo, il quale, proprio perché comune alle rispettive positività, è trascendente rispetto alle opposte determinazioni, e come tale le include entrambe. Ciò significa che l‟orizzonte di senso inclusivo di ogni possibile determinazione positiva dell‟Essere è un orizzonte negativo cioè indeterminato e aperto alla possibilità di in-finite determinazioni storiche, ognuna delle quali è astratta dalla sua possibilità trascendente. In senso generale, la stessa Storia umana, comprensiva di ogni determinazione particolare di forme spirituali, può trovare il suo senso totale solo inscrivendosi all‟interno di un orizzonte di senso che la trascenda negativamente come il non-storico, e cioè l‟eterno. L‟eternità come orizzonte di senso negativo inclusivo di ogni senso storicamente determinato, è la dimensione del Mistero, il quale, rispetto al semplice “enigma”, non può essere negato dalla verità come senso determinato, in quanto la verità, e cioè la versione positiva, vi è essa stessa inclusa nel Mistero che l‟avvolge, e che offre a ogni piano di realtà concreta ciò che Ricoeur indicava come il suo carattere di “ambiguità”. Allo stesso esito polemico perviene l‟ermeneutica filologica dell‟umanesimo razionalista, che si propone di scorporare la letteratura e la cultura classica dall‟orizzonte di senso cristiano, per ricostituirla nella sua autonomia, astraendola pertanto dal reale processo della Storia e determinandola come autonomo orizzonte di senso. In entrambi questi campi [di cultura], quello della letteratura umanistica come quello della Bibbia, l‟ermeneutica pretende di arrivare al senso originario dei testi attraverso un procedere tecnicamente rigoroso; ed è stato di importanza decisiva il fatto che, attraverso Lutero e Melantone, la tradizione umanistica sia venuta a confluire con l‟impulso riformatore 165.

Il confidamento all‟autosufficienza della tecnica ermeneutica equivale alla fede riposta nelle risorse del “sistema” scientifico o metodo razionale di conoscenza della realtà, che si costituisce, da originario strumento di conoscenza, in autonoma metodica gnoseologica 165

H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 212.

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universale, il cui campo di indagine diviene l‟intera realtà come totale prodotto storico dell‟uomo. Da qui il connubio teorico tra storicismo e filologismo, che trasforma l‟ermeneutica “da disciplina che sta al servizio di un compito dogmatico […] in disciplina che riveste la funzione di organo della storiografia”,166 ossia del pensiero stesso. Il carattere “tecnico” dell‟ermeneutica ne fa una scienza, cioè un sapere formale senza contenuti, la quale nondimeno deve avere un presupposto giustificativo della sua necessità costitutiva. Per Schleiermacher, l‟ermeneutica scientifica “nasce dal ritenere che l‟esperienza dell‟estraneità e della possibilità di fraintendimento sia un fatto universale”, legato al carattere individuale della comunicazione167. Fuori dell‟orizzonte di senso tradizionale, e nello spirito romantico negatore dell‟universale unità razionale della coscienza umana, ogni singolo livello di coscienza empirico si costituisce come una indipendente unità di senso, che si pone il problema della comunicazione con altre unità individuali, al quale fa fronte appunto la tecnica ermeneutica. La perdita dell‟unità di senso religioso tradizionale, coincide inevitabilmente con la perdita dello stesso concetto di unità di senso come orizzonte storico comprensivo delle distinte culture e civiltà umane, a favore della sola dimensione molteplice dell‟Essere, costitutivo di infinite determinazioni individuali, prive di una visione prospettica di senso comune. “Il comprendere diventa un compito specifico solo quando questa naturale comunanza di prospettive, che è il condividere uno stesso contenuto [di pensiero], diventi problematica”168 ai fini della stessa convivenza umana, cioè della stabilità sociale. Ciò vuol dire che la ricerca della verità, quale superamento delle diverse e confliggenti opinioni individuali, è segnata da un‟intima esigenza sociologica, quella di consentire la stessa convivenza umana, che dà alla ricerca statutariamente wertfreiheit un innegabile connotato politico, realizzando sul piano pratico quella possibilità negata in quello teoretico, ossia l‟unità di senso comune, ora caricato di una valenza ideologica prima sconosciuta al sapere.

166

Ivi, pag. 215. Ivi, pag. 217. 168 Ivi, pag. 218. 167

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Destrutturato l‟Essere dal suo fondamento ordinamentale divino, alla metafisica dell‟ordine universale si sostituisce l‟idea di un Essere informe e disponibile alla sola legislazione meccanica, naturalistica o umanistica. Da qui l‟abbinamento di “razionale” con “regolato” e di creazione spirituale con prodotto utile. Alla contemplazione dell‟ente si sostituisce il dominio. La Natura del cosmo greco diventa l‟opposto ideale dello Spirito, la sua antitesi caotica. L‟unità, da condizione ideale della coscienza, all‟interno della quale erano possibili molteplici rappresentazioni, diventa ora forma empirica di realtà finita, avente una unica rappresentazione, coincidente appunto alla sua forma determinata. Ciò che tiene uniti gli enti non è più, platonicamente, il Bene, che essendo ideale, non-è di nessuno, ma il Benessere coincidente con la stessa co-esistenza umana, la vita in sé, pur priva di un originario senso comune, di un Mito. La liberazione della ermeneutica teologica dalla tradizione dogmatica fu un tipico esempio di elaborazione del Mito, una “critica” della logica del fondamento, la quale, liberando il terreno intellettuale dalla tradizione, lo preparava al sorgere di una tradizione nuova, che “sistematizzava” l‟interpretazione critica. Con la fine della credenza nel racconto mitico, la tradizione fideistica degli scritti teologici perse il suo valore di necessità per diventare una raccolta di fonti storiche espressive dell‟opera letteraria dei suoi autori: letteratura sacra (per contenuto, non per fede). La ricostruzione di un orizzonte ermeneutico si propose come compito metodologico di tutta la scienza moderna emancipata dalla fede teologica, cioè dal fondamento ontologico che la sosteneva, sicché il “metodo” di corrispondenza sistematica del particolare con l‟insieme unitario, prese il posto della originaria “intuizione” del mondo quale rappresentazione d‟insieme della realtà attraverso il Mito: il “contesto ermeneutico”. L‟ermeneutica razionalistica, criticando la tradizione dogmatica, si assunse il compito di “dissolvere la pretesa di normatività dell‟antichità classica”169 negando l‟idea stessa di un paradigma universale interpretativo, “storicizzando” la tradizione nel senso di assumerla come espressiva di un universo di senso storico particolare. Universalizzando il metodo ermeneutico come scientificamente

169

Ivi, pag. 216.

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autoomo da ogni ontologico fondamento dogmatico, il razionalismo storiografico astraeva dal contesto valoriale del senso fenomenologico degli eventi, rendendo questi tutti assiologicamente “neutri” e quindi oggetto di giudizio storiografico. Questo presuppone, non già la fede ontologica in un ordine cosmico, ma la sua assenza e quindi il caos delle interpretazioni del mondo. Per cui, non esistendo più una fondamentale intuizione del mondo che costituisse il modello del pensiero della realtà, ogni idea del mondo era legittimamente sostenibile fornendo l‟oggetto della comprensione ermeneutica. E‟ la legittimazione della dòxa come opinione libera da ogni validità preordinata di senso, ossia emancipata (rectius: astratta) da ogni referente (= modello) ontologico, ossia dall‟Idea stessa di verità come “senso comune” della comunità dei credenti-parlanti-pensanti. Questa assenza di senso comune costituisce la “estraneità” dell‟evento alla conoscenza acquisita, cioè alla tradizione, generatore di “meraviglia” filosofica (thàuma). Ed è la domanda di senso a provocare il bisogno di una esauriente risposta, cioè di un “racconto rassicurante”, di un Mythos. L‟insolvenza metafisica di questo compito è legata alla condizione “negativa” di ogni vera conoscenza, consapevole della trascendenza della realtà totale e della “ambiguità” di ogni sua determinazione storica. Lo stesso concetto di comprensione “storica” acquista, a partire da Spinoza, un‟accezione relativa all‟opinione non univocamente interpretabile secondo ragione, ma di senso elittico, che necessita di una più distesa decantazione ermeneutica170. La stessa interpretazione (Auslegung) di un testo può anche rinunciare, almeno provvisoriamente, alla comprensione (Verstehen), limitandosi a chiarire il più possibile i suoi lati oscuri, tanto più ermetici quanto meno noto all‟interprete è il suo contenuto171. Come subtilitas intelligendi la considera infatti Schleiermacher, che intende il fraintendimento non un fatto accidentale ma come un elemento costitutivo e preliminare della comprensione, da rimuovere., da cui la sua definizione dell‟ermeneutica come “l‟arte di evitare il

170 171

Ivi, pag. 220. Ivi, pag. 221.

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fraintendimento”.172 All‟uopo egli affianca all‟interpretazione “grammaticale” una tecnica dell‟interpretazione “psicologica”, che aprirà la strada alle metodiche di Savigny e di Dilthey. “Essa è in definitiva una sorta di comportamento divinatorio” che tende a “una ripetizione dell‟atto creatore” di un‟opera attraverso una piena immedesimazione spirituale con l‟autore173. Il riferimento all‟individualità creatrice libera la produzione spirituale dal suo contenuto oggettivo, dal suo “essere”, per focalizzare l‟attenzione ermeneutica sulla sua espressione formale, inerente la sua comunicazione esterna, il cui “atteggiamento artistico” viene ri-prodotto dall‟interprete174. Tale riproduzione diventa meno regolabile trattandosi della creazione spontanea del “genio”, il quale, creando nuove forme e nuovi linguaggi espressivi, “è modello e legislatore di sé stesso”.175 Da qui l‟arte divinatoria dell‟interprete, la quale “presuppone una forma di congenialità […] la cui possibilità si fonda su un precedente legame che unisce tutte le individualità”.176 Torna indirettamente a emergere il fondamento spirituale unitario, che nell‟atto della comprensione manifesta il “legame” originario di ognuno con la “vita del tutto”, ossia con la totalità esistenziale, sicché il “metodo della comprensione dovrà aver di mira sia ciò che è comune – mediante la comparazione – sia ciò che è peculiare – mediante l‟indovinare; cioè sarà insieme comparativo e divinatorio”.177 La posizione di Schleiermacher è di grande interesse anche perché la sua concezione circolare del processo ermeneutico, che dal particolare rimanda al totale e viceversa, mostra chiaramente come ogni particolare determinazione del tutto lascia comunque aperto uno spiraglio di “mistero che non si lascia mai svelare pienamente”, costituito dal limite della ragione, che può essere superato solo dal “sentimento, cioè una immediata comprensione simpatetica e congeniale”, ossia da un atto intuitiva integrativo della comprensione

172

Ivi, pag. 224. Ivi, pag. 226. 174 Ivi, pag. 228. 175 Ivi, pag. 229. 176 Ivi, pag. 229. 177 Ibidem. 173

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razionale e “meccanica”, il quale configura la comprensione come “un‟opera d‟arte”.178 Il senso implicito di questa teoria ermeneutica è la essenziale antistoricità dell‟evento oggetto della comprensione, la quale riguarda il fondamentale rapporto di comunicazione tra individuali orizzonti di senso tra i quali stabilire un comune livello di coscienza. Ciò suppone che tale comunanza tra autore e interprete sia possibile perché più originaria dei rispettivi orizzonti individuali di senso, la cui storicità diventa dunque sinonimo di determinazioni puramente formali, che lascerebbero intatto il contenuto di coscienza meta-storico, e come tale ultroneo rispetto alla stessa determinazione di senso dell‟autore179. La dialettica tra un livello di coscienza erkennende, puramente acquisitiva di conoscenze formali, e un livello di coscienza begreifende, cioè concettuale, inerente i contenuti di senso, rimane una costante di ogni posizione gnoseologica che non volesse rinunciare alla distinzione tra vita e sapere e quindi alla relativa autonomia dell‟universo di senso teoretico dalle dinamiche della vita pratica. Ma l‟acquisizione universale del metodo scientifico di conoscenza, tendente come abbiamo visto a uniformare sul modello naturalistico il molteplice su uno stesso piano di realtà, non lasciava ampi spazi di autonomia ad altri modelli cognitivi, ossia ad altri livelli di coscienza che non fossero omologati all‟orizzonte formale di senso scientifico, al suo contesto metodico, per cui lo spazio riservato a un sapere non

178

Ivi, pag. 231. Diversa è la versione di Gadamer, secondo il quale “la miglior comprensione che caratterizza l‟interprete rispetto all‟autore non riguarda i contenuti di cui il testo parla, ma il testo stesso, ossia ciò che l‟autore aveva in mente e ha espresso”: H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 232. Ma così sarebbe solo se ammettessimo un‟identità tra il contenuto (“ciò che l‟autor aveva in mente”) e il testo (la sua espressione formale), mentre proprio tale dissociazione rende possibile l‟ulteriorità dell‟interpretazione che non si fermi alla determinazione formale, la cui storicità non può essere trascesa se non da un senso più ampio e sempre determinabile in virtù dell‟interpretazione che lo completi di senso ulteriore. Ulteriore appunto rispetto alla sua forma attuale, storica, determinata. Proprio l‟ulteriorità dell‟atto ermeneutico rispetto a quello creativo del senso originario, impedisce “la collocazione allo stesso livello” dell‟interprete e dell‟autore, “geniale” o non, cancellandone la distinzione, come invece vorrebbe Gadamer. Ivi, pag. 233. 179

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mediato dalle forme di conoscenza scientifiche era solo quello della creazione geniale, che si caratterizzava appunto per la supposta coincidenza sintetica della forma originale e del suo relativo contenuto. Che era poi un modo, sia pure culturalmente marginale, per considerare ancora viva la tradizionale coscienza mitica, confinata a un orizzonte di senso del tutto privato quale quello del mondo immaginativo dell‟arte e della poesia, che la coscienza razionalmente emancipata aveva assunto a suo oggetto di analisi critica. In Kant e in Fichte la superiorità del livello di coscienza concettuale su quello creativo viene ribadita con la convinzione metafisica propria di una fede ontologica. La distinzione ermeneutica tra il livello di coscienza dell‟autore e il livello dell‟interprete, generalizzandosi in senso metodico, assegna alla dimensione estetico-formale il livello di coscienza creativo o della soggettività, e alla dimensione contenutistico-concettuale il livello ermeneutico della conoscenza critica della ideale “forma interna” (Dilthey). Il principio della superiorità della conoscenza scientifica (dell‟interprete) su quella pratica (dell‟autore), è sicuramente “antico quanto la critica scientifica stessa”, ma la circostanza che esso “acquista il significato di principio base della critica filosofica solo nell‟ambito della mentalità razionalistica”, sta a dimostrare che la sua affermazione teoretica coincide esattamente con il consolidamento dell‟orizzonte di senso scientifico come l‟unico gnoseologicamente valido, e all‟interno del quale si colloca il livello di coscienza ermeneuticamente critico. Per cui il tentativo “romantico” di affermare il valore critico-contenutistico su quello scientifico-formale all‟interno dell‟orizzonte di senso razionalistico, non “sottrae il metodo della critica fondata sulla comprensione del contenuto al limitato campo della interpretazione scientifica”, come sostiene Gadamer180, ma conferma semmai che la validità di quel metodo critico viene assicurato, come distinto livello di coscienza, dall‟orizzonte di senso scientifico. Solo opponendo al fondamento ontologico “scientifico” un fondamento “filosofico”, poteva tentarsi un mutamento di orizzonti, ma questo tentativo era destinato a naufragare in quanto la scienza aveva rinunciato

180

H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 236.

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consapevolmente ad averne uno, lasciando così la filosofia in balia del suo metodo razionalistico, ossia della tecnica dialettica, che divenne “scientifica” a seguito di quella rinuncia, in cui consistette la “emancipazione” razionalistica della filosofia dalla teologia e la sua trasformazione appunto in “scienza” epistemologicamente autonoma. Il carattere scientifico dell‟orizzonte di senso in cui si colloca la coscienza critica ermeneutica viene confermato dalla sua universalizzazione metodica, cioè dalla sua razionalizzazione formale, la quale, come sappiamo, si rende possibile attraverso quella “esenzione del senso” propria dei sistemi formalizzati, e che, nel caso specifico, si traduce in perdita del senso storico dei contenuti spirituali. Questo esito anti-storico è già in nuce nella teoria della contemporaneità psicologica dell‟autore e dell‟interprete, che da Schleiermacher giungerà sino a Croce, il cui spiritualismo “assoluto” è la negazione di ogni storicismo181. La comprensione del “contenuto” dell‟opera umana, oggetto dell‟attività ermeneutica, inerisce dunque quella ulteriorità non compiutamente storicizzabile che si nasconde nelle pieghe della fatticità come l‟ambigua presenza del mistero che trascende ogni realtà positiva e la destina alla dimensione del possibile, e che fa del prodotto

181

La dizione di “storicismo assoluto”, pure usata da Croce è una contradictio in adiecto, in quanto lo storicismo, teoreticamente, è l‟assunzione del fondamento di senso del discorso razionale come ipotesi relativa al suo contesto di validità sistemica, e non come verità assoluta, propria invece del fondamento dogmatico dell‟universo di senso mitico-religioso. Lo “storicismo assoluto” è un ossimoro ideale come un “legno di ferro” lo è in campo naturale. Questa contraddizione ontologica non può avere una “sintesi” logica se non convertendo un termine della relazione nella natura dell‟altro, cioè convertendo il dualismo ontologico in monismo ideologico, universalizzando razionalisticamente l‟Essere reale in astratto ideale. La coessenza delle due nature ontologiche è possibile soltanto nel sinolo cristologico, ma come realtà di “mistero”, e non come prodotto di ragione, come realtà di fatto, razionalmente comprensibile. La conversione del “mistero” cristiano in termini di logica filosofica è, com‟è noto, lo sforzo teoretico di Hegel, il cui concetto di Spirito (Geist) cerca di includere nella sua sintesi positiva il Negativo, e cioè il Mistero, il quale invece, nella prospettiva cristiana, è l‟orizzonte di senso inclusivo di ogni prodotto spirituale, cioè di ogni coscienza razionale. Infatti, solo l‟alterità ontologica del Negativo rispetto alla storicità dell‟Essere può garantire la conoscenza della verità come Tutto, e non come solo Essere storico o non-Essere mistico, e il Tutto come Essere possibile, meta-storico, e non solo come Essere attuale o,appunto, storico. Uno storicismo senza Mistero è positivismo scientistico e relativismo idealistico, cioè razionalismo.

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storico una “opera aperta”, che l‟interpretazione è chiamata a de-finire secondo il livello di coscienza proprio al lettore. La coscienza storica di Schleiermacher si muoveva ancora entro l‟orizzonte di senso della teologia cristiana, per cui il suo livello critico non poteva metodicamente universalizzarsi in senso della autonoma ragione scientifica182. La stessa tendenza universalizzante dell‟analisi storica dei fenomeni spirituali nel contesto della storia universale, e la conseguente formazione di uno “storicismo” metodologico, ossia di una ermeneutica della storicità, risentono del clima culturale segnato dal razionalismo scientifico. Ma, al di là delle concrete determinazioni teoriche di tale tentativo storicistico, soprattutto elaborate da Dilthey, l‟intero sforzo ermeneutico di operare una “connessione” (Zusammenhang) tra il tutto e le sue parti, richiama la necessità di una preventiva visione d‟insieme (intuitiva) funzionale alla comprensione (razionale) delle parti, ripristinando così sul piano dell‟ontologia storica il rapporto idealistico tra orizzonte di senso mitico e analisi logica della realtà fenomenica. Quanto alla “totalità” storica, rispetto all‟unità empirica di un testo, la Storia universale è un insieme non concluso, comprensivo della storicità dell‟interprete. Per sfuggire alle “arbitrarie schematizzazioni aprioristiche” della “filosofia speculativa” illuministica o hegeliana, la storiografia cerca di ricavare la sua “visione della storia universale” dalla ricerca stessa, che con Herder condusse a pensare, in opposizione alla teoria teleologica razionalistica, che “ogni epoca” storica avesse un suo proprio “diritto all‟esistenza”, ovvero un suo peculiare e interno principio di “perfezione”.183 Questa prospettiva infra-storica vuole allontanarsi dalla visione neoplatonica della realtà come rappresentazione fenomenica di una Idea, per focalizzarsi sul “positivo carattere produttivo” dell‟uomo nel tempo, senza privilegiare alcuna epoca. Infatti ogni tempo ha un suo fondamento produttivo, una sua ragion d‟essere, che “ha un senso in se stessa”, per cui il suo interno movimento, ossia “la caducità di tutto ciò che è terreno”, ne costituisce il “segreto”, così come la “inesauribile produttività” è la “base” della formale “multiformità” della “vita

182 183

Cfr. H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 238. H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 241.

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storica” universale184. Si dispiega, dunque, l‟universalizzazione del concetto storicistico parallelamente allo svuotamento di contenuto storico delle singole epoche, tutte unificate nel divenire come processo fine a se stesso, privo di tèlos che non sia la sua stessa effettualità. Non è difficile rintracciare qui le radici storicistiche della visione volontaristica nietzscheiana e del suo nichilismo universale. Ma, soprattutto, in un orizzonte asemico il senso del processo, altrimenti caotico e multi verso, è dato dagli “spiriti originali, che intervengono in modo autonomo nella lotta delle idee e delle forze del mondo, e riassumono in sé le più potenti, quelle che forniranno la base al futuro”.185 La dialettica di libertà e necessità è il rapporto tra la oggettiva struttura formale e l‟istanza innovativa dello Spirito individuale, la cui organica e duratura “connessione” caratterizza un‟epoca e il suo tempo. questo rapporto dialettico costituisce il concetto di “forza”, che costituisce “la categoria centrale della prospettiva storicistica”, e coincide con l‟attività di determinazione attuale dell‟Essere possibile. La ragione per cui il concetto di forza ha una posizone così centrale nello storicismo è che in esso interiorità ed esteriorità sono legati in un particolare rapporto di polarità. Ogni forza esiste solo nella sua manifestazione [la quale] non è solo l‟apparenza esteriore della forza, ma la sua realtà […]. Ad essa appartiene infatti essenzialmente la possibilità di agire, il che vuol dire che essa non è solo causa di un determinato effetto, ma è la capacità di produrre effetti di tal sorta ogni volta che sia messa in atto. Il suo modo di essere è dunque distinto da quello dell‟effetto. Tale modo di essere è quello dello Anstehen […] [che indica] l‟esser per sé ella forza in contrapposizione all‟indeterminatezza di ciò in cui essa si può estrinsecare186.

Il carattere soggettivo di questa dynamis, la quale si costituisce come la stessa “libertà” dell‟uomo, tende a rappresentarla come l‟aspetto contenutistico ed “interiore” dei rapporti “esteriori” e meccanicamente determinabili della vita storica oggettiva, che rappresenta la polarità dialettica della “necessità” che si oppone al suo pieno dispiegamento e

184

Ivi, pag. 243. L. von Ranke, Weltgeschichte, IX; cit. da H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 245. 186 Ivi, pagg. 246-247. 185

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che la determina così com‟è, nella sua realtà fenomenica, “limitando l‟azione a ciò che è concretamente possibile”.187 Vi è da precisare che la “necessità” di cui si tratta è anch‟essa di natura storica, e perciò non è la “natura”, ma il prodotto sedimentato della libertà divenuta, cioè passata, che si oppone alla libertà diveniente, cioè attuale, che dalla prima nasce e “nelle condizioni sulle quali opera” trova “la sua delimitazione”.188 Ciò vuol dire che il concetto di Storia universale, per costituirsi come un universo di senso compiuto, entro la cui forma ideale sussumere le molteplici determinazioni della libertà spirituale, si definisce come una realtà ontologicamente altra da quella naturalistica, inerente la esclusiva fenomenologia della vita umana, ossia come una onto-antropologica, che ha in sé la sua dialettica polarità di libertà e necessità. Nondimeno, questo idealismo antropologico non è idealmente diverso dall‟idealismo naturalistico platonico, e neppure, come sappiamo dalla critica di Husserl allo storicismo, dall‟universo di senso razionalistico. Infatti, anche lo storicismo si definisce sul fondamento idealistico di un concetto di Storia come universo di senso astratto dal suo Negativo, che rispetto alla positività della storia antropologica è la realtà naturale; e inoltre anche il processo storico spiritualistico è concepito come teleologicamente orientato all‟affermazione della libertà positiva dalle resistenze del passato negativo, che rappresenta per l‟attualità dello Spirito individuale ciò che è la natura per lo Spirito universale. Non è un caso che lo spiritualismo dell‟atto, rimosso lo sfondo metafisico dell‟orizzonte storicistico, chiamasse “natura” proprio la libertà divenuta189. La determinazione di senso, che all‟interno dell‟orizzonte religioso ontologicamente fondato avveniva attraverso un giudizio logico di distinzione e attribuzione del carattere “sacro” e di esclusione del carattere “profano”, nel contesto storicistico di una unità istituzionale che costituisce la struttura formale entro cui “costanza” (Ranke) e

187

Ivi, pag. 248. Ibidem. 189 Si veda di G. Gentile sopr. il Sistema di logica come teoria del conoscere (1913), dove il rapporto tra il pensiero in atto e il pensiero pensato è posto all‟interno di una dialettica puramente spiritualistica. 188

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“continuità” (Droysen) si dispiega l‟avvenimenzialità temporale, è fondata sul “concetto di vita” che anima le concrete realtà etiche dell‟esperienza individuale e collettiva, per cui “non è il reale volere e progettare delle persone agenti il vero oggetto del comprendere storico”, ma il loro “significato” nell‟ambito del “movimento delle potenze etiche” di cui sono “elementi”. Infatti, “la forza morale del singolo diventa potenza storica in quanto partecipa al lavoro per i grandi obiettivi comuni”.190 Non sono, pertanto, i “contenuti” spirituali particolari a costituire l‟oggetto dell‟analisi storiografica, ma le unità formali tributarie di senso che costituiscono “la sfera etica”, intesa come “ciò che permane e resiste nel corso incessante delle cose”, ossia la struttura istituzionale che si oppone al divenire della Storia stessa e ne costituisce “l‟autentica realtà”. La comprensione storica per Droysen è “condizionata e limitata” dalla “appartenenza” dell‟interprete alle “potenze etiche” del suo tempo, cioè alle “concrete condizioni della sua particolare esistenza storica” in cui “si fonda anche la possibilità di partecipazione”.191 Le “forze etiche” sono, nell‟orizzonte di senso storico, ciò che le leggi naturali sono per l‟universo scientifico, con la essenziale differenza che, mentre ciò che avvalora la conoscenza scientifica è la permanenza dei fenomeni naturali fissata in leggi, ciò che consente la comprensione dei fenomeni storici è la loro relazione con le forme etiche stabilite, ossia la relazione che la libertà umana ha con la tradizione in cui è inscritta, entro la quale lo storico “trova la propria verità”.192 Inutile forse sottolineare come tra le molteplici realtà etiche della società, quali la famiglia, la nazione, la religione e lo Stato, sia proprio quest‟ultimo la “forza etica” più rilevante ai fini della definizione della realtà storica, concreto rappresentante e custode della tradizione etica di un popolo. Per cogliere a pieno il concetto di conoscenza della scuola storica è opportuno metterlo a confronto con l‟astratto concetto della realtà dei razionalisti, per i quali la conoscenza consisteva nel cogliere l‟essenza

190

H.G. Gadamer, Op. cit., pagg. 255-256. Ivi, pag. 257. 192 Ivi, pag. 259. 191

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delle cose depurata dagli aspetti contingenti e mutevoli. Fuori del contingente, per gli scrittori rivoluzionari, la realtà essenziale è quella immutabile, che non passa, l‟eterno, per cui “astrarre” voleva dire liberare la realtà dal fardello delle accidentalità non essenziali, e perciò, dal punto di vista del concetto, inutili. In tale processo di liberazione dell‟essenza dalla contingenza consiste la tensione spirituale del razionalismo illuministico e l‟antitesi liberale alle forme storiche di costituzione della realtà, ossia a quelle forme etiche che per gli storicisti sono datrici di senso storico. Se storiche infatti sono le manifestazioni contingenti dell‟Essere, il razionalismo, prescindendone programmaticamente, si manifesta a sua volta come l‟anti-storia della realtà storica. Se questa stessa realtà storica comprendesse, oltre al contingente, anche la sua essenza ideale, essa sarebbe il “concreto” rispetto allo “astratto” della sua supposta essenza razionale. Secondo la cultura anti-rivoluzionaria, invece, la via della saggezza è quella opposta: non spirito astraente ma spirito di concretezza, ossia visione della realtà storica per quello che è, con tutti i suoi nessi, visione degli insiemi e non di alcuni loro elementi più o meno arbitrariamente estrapolati, reverenza per il passato come tale, in quanto accumulazione di esperienze il cui ripetersi ne attesta la bontà e razionalità, azione non inventata in base a una presunta ragione pura, ma inserentesi metodicamente nel corso storico per completarne il senso che già in esso è presente e in sviluppo. Deriva da ciò la rivendicazione di tutto quanto possa raffigurarsi come organismo (esempio capitale, lo Stato articolato in ceti e comunità minori, in contrapposizione con lo Stato-macchina dell‟Illuminismo), la rivendicazione degli atteggiamenti psicologici di consenso dolce a queste realtà organiche dove ciascuno ha un suo posto e concorre all‟armonia del tutto, della funzione insostituibile del sentimento e delle immagini vive, suscitatrici di devozione e di amore 193

La differenza sostanziale tra le due visioni della realtà consiste nel supporre, da parte del razionalismo, che la realtà sia un insieme di parti accidentali prive di una intima ratio, per cui la loro combinazione contingente può mutare sulla base di un intervento esterno razionalizzatore. La “libertà” d‟azione e di pensiero consisterebbe 193

Valentini, Storia, cit., pag. 57.

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pertanto nella possibilità di modificare e di disporre della realtà sulla base del presupposto di ragione. La realtà sarebbe dunque tanto più “libera” quanto più disponibile alle manipolazioni della volontà razionalmente guidata. Ne consegue logicamente che la società ideale per i razionalisti è quella dis-gregata, labile, instabile e perciò disponibile a una stabilizzazione e organizzazione di tipo razionale. Da parte storicista e conservatrice, invece, la realtà non è un aggregato accidentale di elementi contingenti, che potrebbero anche non essere così come sono, ma un‟unità organica, che si sviluppa aristotelicamente sui fondamenti della sua natura propria, che hegelianamente diventa l‟intima legge di sviluppo spirituale. Ciò comporta che lo sviluppo sociale, come la vita personale, non sono affidati alla mera casualità contingente, ma obbediscono a una logica intrinseca che la conoscenza umana può riconoscere, ma che l‟opera dell‟uomo non può violare senza snaturare l‟insieme istituzionale storico e provvidenziale. La “comunità” sociale “organica” è ben più di un insieme di individui, ognuno portatore di diritti essenziali e uguali, ma è una unità etica, la cui razionalità è interna al suo processo di sviluppo, e non esterna al suo aggregato empirico. Ogni intervento sociale, perciò, deve trovare il suo significato razionale all‟interno della logica d‟insieme, ossia dell‟unità di senso eticamente costituita nella storia. Edmund Burke paragona l‟azione politica a un restauro secondo lo “stile dell‟edificio” istituzionale. Fuori della logica sociale, l‟azione umana diventa una scelta arbitraria, “privata”, legata a una razionalità “pura” che non appartiene alla ragione delle cose, cioè alla “necessità”; la quale non è “scelta” ma “sceglie”, ed è più importante di qualsiasi deliberazione, che non ammette discussioni né richiede evidenza. Ma questa necessità non costituisce un‟eccezione alla regola, perché essa stessa altro non è che una parte di quell‟ordine morale e fisico dell‟universo a cui l‟uomo deve, per amore o per forza, sottomettersi. Se invece quanto scaturisce inevitabilmente da necessità è fatto oggetto di una scelta, allora si infrange la legge, si disubbidisce alla natura, e i ribelli sono posti fuori legge, scacciati ed esiliati da questo mondo di ragione, di ordine, di pace, di virtù, di fruttuosa penitenza, nel mondo opposto, di pazzia, di

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discordia, di vizio, di confusione e di vani lamenti194.

La “necessità” contrapposta alla “pazzia”, senza alcuna mediazione razionale tra ciò che è stabilito naturalmente e ciò che è desiderato intellettualmente. La realtà storica, per il pensiero conservatore, è “parte dell‟ordine morale e fisico dell‟universo”, e non già un prodotto della sola volontà umana, la cui saggezza consiste anzi nel conformarvisi. Non c‟è propriamente “storicismo” nella posizione di Burke, ma tradizionalismo naturalistico. Questa differenza è importante per comprendere la posizione del liberalismo rispetto al conservatorismo. Il primo, infatti, teorizza una dissociazione della ragione umana dall‟ordine cosmico universale e la rifondazione di un ordine nuovo ispirato a questa istanza di liberazione prescritta come condizione propriamente umana. Il “proprio” dell‟umanità emancipata è la sua razionalità. Ciò vuol dire che l‟ordine in cui l‟uomo era tradizionalmente inscritto non era un ordine razionale secondo la ragione umana, ma secondo la legge del caso, sicché il contesto di senso tradizionale, che per Droysen era l‟orizzonte etico significativo ai fini della stessa comprensione storica, per la coscienza liberale acquistava, similmente alla polarità che abbiamo visto in Ranke, valore negativo di resistenza allo sviluppo della sua volontà. Le due tendenze, conservatrice e liberale, erano compresenti alla prospettiva storicistica, in quanto, come pure abbiamo visto, questa aveva assunto il proprio orizzonte di senso come una totalità razionale, che in realtà era, alla maniera platonica, una astratta unità concettuale, presupposta a ogni interpretazione storica195, costitutiva della sua rielaborazione mitologica. I due livelli di coscienza, conservatore e liberale, rappresentano i due momenti ideali dell‟affermazione dogmatica e della negazione dialettica di uno stesso universo di senso storicistico, del quale simbolizzano il livello della costante struttura formale, considerata “naturale”, e quello contenutistico della libera variazione individuale, considerata propriamente “umana”. Il momento storico propriamente umano è visto, nella prospettiva liberale, come un cosmo razionale da

194

E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, cit. da Valentini, Op. cit., pagg. 58-59. 195 H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 249.

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costruire, una realtà ideale da concretizzare, cioè da realizzare praticamente. Il che faceva supporre che l‟uomo abitasse due livelli di realtà: quello della realtà quotidiana, o della “forma esteriore”, lasciata al caso, e quella della dimensione razionale, o della “”forma interiore”, che è quella della libertà non formalizzata e determinata, in interiore homine. Il livello di coscienza razionalistico coincide con la teoria della validità della realtà ideale rispetto a quella naturale, ossia della libertà anziché della necessità, mentre l‟opposto vale per la coscienza storica dei conservatori. Sono entrambe posizioni in se stesse astratte fuori del comune orizzonte di senso storicistico, le quali comunque confermano la tendenza a costituirsi ognuna come un universo idealisticamente assoluto e perciò intellettualisticamente rappresentativo della parte come Tutto. Dal punto di visuale liberalistico, la sola realtà storicamente significativa viene considerata quella umanamente definibile in termini di processualità causale, ossia come prodotto dell‟opera umanizzatrice del lavoro umano. Ora, proprio il casualismo razionalistico fa della posizione liberalistica una forma di naturalismo e di materialismo inconsapevole. Viceversa, l‟organicismo conservatore, pure dichiaratamente “naturalistico”, si converte a sua volta in una forma di idealismo involontario, poiché rifiuta di adeguare il corso storico ad astratte leggi di ragione “privata”, concependo la “necessità” cosmica come adeguamento dell‟ordine naturale ai bisogni razionali dell‟uomo di pace, moralità e virtù, che non appartengono all‟ordine naturale ma solo a quello spirituale. Queste reciproche contraddizioni confermano l‟astrattezza e unilateralità tipica delle teorie che realizzandosi si convertono nel loro opposto principio ideale. Tipica a riguardo la posizione di Burke, il quale, non potendo negare la possibilità storica della rivoluzione, la giudica “pazzia” e arbitrio “privato”, ma non perciò la spiega come fenomeno storico-politico della società reale, e perciò non solo di quella astratta teorizzata dal razionalismo. Se la ammette come “suprema necessità”, essa non può essere esclusa neppure entro la società tradizionale, quella che per Burke è ideale, ossia razionale. Come può concepirsi la “pazzia” della rivoluzione all‟interno di un ordine sociale stabilito da forze oggettive e impersonali? Solo come opera dell‟uomo, essa è biasimata, mentre come azione della necessità, essa è ammessa, o almeno giustificata come extrema ratio. Questo motivo teologico è legato inevitabilmente 121


al Mito storicistico della Storia universale, il cui postulato diventa idea regolativa della stessa comprensione storiografica, “una specie di apriori della ricerca”.196 Ma l‟aspetto probabilmente più rilevante del discorso cui siamo giunti è che lo stesso fenomeno storico ha valore opposto e relativo al fine che serve. Se il fine è considerato “astratto”, cioè sistemicamente eversivo, la rivoluzione è giudicata biasimevole e assurda; se invece essa è un moto funzionale alla conservazione riformata del sistema, la rivoluzione è bene accetta e provvidenziale. La “concretezza” e “giustezza” e “razionalità” del sistema è misurata alla stregua della sussistenza effettiva del regime storico, cioè della sua capacità di tenuta istituzionale atta a garantire quella “continuità” dell‟orizzonte di senso costitutivo della sua stessa storicità, ossia della possibilità di definirsi come unitario processo storico. Per cui la rivoluzione non è che il risvolto evidente e manifesto della precarietà e inconsistenza storica del regime che essa vuole ribaltare, ossia una sua conseguenza. In questo senso, indirettamente la critica di Burke alla rivoluzione è in realtà diretta al regime storico che l‟ha prodotta. Solo un sistema malato poteva provocarla a proprio danno e a nessun beneficio. Ma tale non era la patria della Magna Charta, delle libertà concrete e storicamente acquisite dalla coscienza comune, e difese da una giurisprudenza saggia che è “l‟orgoglio dell‟intelletto umano”.197 Contro l‟astratta codificazione propugnata dagli illuministi, Burke oppone dunque la saggia decisione dei magistrati, la voce vivente del diritto storico. La legislazione codificata interviene imperativamente infatti anche sugli elementari diritti umani, quali la proprietà privata, violando il patto civile originario teso proprio a difenderla dagli abusi e dalle violenze. Ciò non fa della teoria dello Stato di Burke una “concezione privatistica”,198 ma stabilisce un ordine di valori che pone la società civile a fondamento dell‟azine di salvaguardia dello Stato, e non lo Stato come potere assoluto sulla società civile, tale da plasmarla a piacimento dei suoi reggitori. “Privato” è l‟ordine pre-politico della società civile, ma non l‟ordine dello Stato, eminentemente “pubblico”,

196

H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 250. Valentini, Op. cit., pag. 60. 198 Così Valentini, loc. cit., pag. 62. 197

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proprio perché si astiene da ogni ingerenza nel privato. Al contrario,l‟ingerenza indebita violerebbe la condizione “pubblica” del suo potere, diventando parte privata tra parti, snaturando perciò il suo ruolo di garanzia super partes. Proprietà e privatezza sono caratteri della società civile, e non della funzione dello Stato. Società vuol dire rapporti privati, cioè ordine gerarchico nato dalla dialettica sociale delle possibilità umane diseguali. La politica non può violare le gerarchie sociali costituite nel tempo, livellando le competenze omologando i diritti politici n virtù di una supposta uguaglianza dei meriti. Lo Stato dei conservatori romantici non può servire altri scopi, ma è esso stesso un fine. Non può perciò concepirsi come opposto agli interessi dei cittadini, ma solo come il contesto storico-sociale in cui quegli interessi trovano realtà concreta. Come i suoi interessi privati fuori dallo Stato, anche il singolo individuo è astratto fuori dal suo corpo sociale, che si forma nella continuità della sua funzione sociale, non per decreto arbitrario del Potere, e perciò esso non può scegliersi a piacimento. Il sentimento, per i romantici, è il convincimento morale della giustezza dei rapporti personali e sociali, e la spontanea adesione alla loro costituzione storica. Tale intima conformità allo stato di fatto o naturale, è il portato di una tradizione secolare che viene assunta a criterio regolatore dei rapporti civili e politici. Viceversa, la statuizione legale, coi suoi precetti astratti e meramente imperativi, esclude tale libera adesione alle norme formali, per cui la normativa razionalistica resta indifferente alla partecipazione dei destinatari ai suoi precetti obbligatori. Il Potere dello Stato razionalistico è impersonale, meramente formale, e così l‟ubbidienza deve prevedere solo un rapporto formale, privo di intima adesione, per cui lo Stato, quale potere erogatore di norme e di sanzioni, diventa esterno alla coscienza dei sudditi, e a volte estraneo, e perciò può essere osteggiato da i patrocinatori di una diversa visione politico-istituzionale. Per soppiantare la visione astratta del Potere, e nello stesso tempo per assimilare il sentimento di appartenenza a una comunità politica a quello di una nuova forma di Stato razionale, Rousseau vuole conciliare la forza collettiva con le singole volontà, teorizzando l‟origine popolare della sovranità, la quale, rispetto alla forma monarchica, non promana dall‟alto ma dagli stessi sudditi depositari. 123


Nella concezione di Rousseau, privatistico è l‟atto costitutivo della sovranità, che emana per investitura dei soggetti titolari, che sono gli stessi sudditi, che possono perciò revocarla nell‟esercizio e richiederla a sé. Ma un Potere “pubblico” che sia soggetto a giudizio privato e, inoltre, a revoca da parte degli stessi destinatari, si costituisce come un mandato fiduciario ai detentori pro tempore che depotenzia il suo carattere sovra-personale di esercizio “razionale”. Nei suoi confronti, il sentimento di adesione coincide con l‟interesse privato, e non con il convincimento morale della giustezza del suo esercizio paternamente sovrano. La revocabilità del mandato, dunque, ossia la rivoluzione, è legata al giudizio di non conformità del Potere sovrano agli interessi dei mandanti, ossia a un criterio autenticamente “privatistico” del suo esercizio, che contraddice la sua pubblicità puramente formale. “Pubblico”, pertanto, è quel Potere sovrano che non si esercita per mandato, in nome cioè di interessi di parte, fossero pure quelli della maggioranza del popolo, ma per volontà originaria dell‟organo costituzionale super partes. Da qui la prevalenza – a seconda della tendenza pubblicistica oppure privatistica del Potere – della funzione di Governo ovvero del Parlamento. Un Governo del re indica chiaramente il carattere pubblico e super partes del Potere sovrano; il Governo parlamentare, di contro, stabilisce il primato degli interessi delle parti sociali nelle deliberazioni decisionali. Diverso è anche il criterio della mediazione degli interessi pubblici con quelli privati. Nello Stato monarchico, infatti, il Potere governativo si esercita al fine di ottemperare a una volontà indipendente dagli interessi particolari, che intenda salvaguardarli nella loro interezza funzionale. Nello Stato parlamentare, invece, il Potere media gli interessi privati scegliendo le soluzioni governative più adeguate al livello di equilibrio delle tendenze politiche in contrasto. Nel primo caso, il fine razionale è lo Stato stesso come totalità socio-politica; nell‟altro caso, il fine razionale è l‟equilibrio degli interessi particolari, ossia la mediazione politica delle forze sociali, il cui rapporto storico condiziona, non solo i processo della vita civile, ma lo stesso esercizio del Potere. In questo caso, l‟esercizio da parte di organi pubblici non inficia il livello di coscienza privatistico che ne presiede la logica e ne determina l‟oggetto del suo contenuto pratico. Le teorie organicistiche, pensando all‟ordine sociale come a una 124


“costituzione naturale”, tendono a dimensionare il ruolo dell‟uomo a una funzione servile, al pari del pensiero razionale nei confronti dell‟ordine teologico. L‟emancipazione dell‟uomo dalla società tradizionale fa il paio con l‟emancipazione della ragione dalla teleologia divina. L‟uomo tradizionale, infatti, viene visto come il soggetto portatore di ragione “naturale” che deve essere ispirata e guidata dalla grazia divina. L‟interesse per l‟uomo quale microcosmo razionale è il portato e a un tempo la causa della emancipazione della sua principale facoltà – la ragione, appunto – da ogni pregresso vincolo eteronomo, sicché la critica contro l‟umanesimo razionalistico coincide con lo screditamento dell‟auto-sufficienza dell‟uomo quale creatura divina. L‟auto-fondazione della ragione, di contro, coincide con l‟affermazione del‟autonomia del soggetto che ne è il depositario, l‟uomo. La mediazione razionale tra valore ideale e condotta,pratica si riflette come dipendenza dell‟uomo da Dio attraverso un organo pedagogico-morale: la Chiesa o lo Stato. In tal senso, la rivoluzione non è altro che la volontà umana che si erge a ragione di se stessa, fuori di ogni vincolo organico col Tutto, ossia con la tradizione storica. La vera questione essenziale, la vera posta in gioco, non è primieramente politica, ma antropologica, vertente sulla possibilità o meno del‟uomo di ergersi a legislatore di se stesso, e quindi del mondo, almeno di quello storico da lui creato. Sul fondamento ottimistico dell‟antropologia razionalistica, si sviluppano le teorie dell‟autonomia del‟uomo dai poteri costituiti tradizionali, sociali, religiosi, politici e culturali Secondo de Bonald, in tutti i tempi l‟uomo ha voluto ergersi a legislatore della società religiosa e della società politica, e dare una costituzione all‟una e all‟altra, [pur non essendone in grado, e anzi] col suo intervento, non può che impedire che la società si costituisca, o, per parlare più esattamente, non può che ritardare il successo degli sforzi che essa fa per giungere alla sua costituzione naturale199.

Il che vuol dire che l‟intervento umano, della ragione astratta, in contrasto con il processo organico che teleologicamente si dirige verso il suo fine razionale, costituisce una indebita intrusione vanagloriosa

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Citato da Valentini, Op. cit., pagg. 86-87.

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che ostacola lo svolgimento “naturale” dell‟ordine mondano. “Naturale” sta qui per “divino”, relativo cioè alla Creazione. Secondo de Maistre, “nella sua sfera d‟azione l‟uomo può cambiare tutto, ma non può creare niente”,200 mettendo indirettamente in risalto due aspetti: a) che la sfera d‟azione dell‟uomo è diversa da quella della Creazione, e b) che la sfera della creazione non gli pertiene. Il pensiero tradizionalista tiene uniti i due aspetti, se infatti l‟uomo può avocare a sé la sfera creativa, pur distinguendola dalla sua attività pratica, realizza così a pieno la sua emancipazione da Dio e dall‟ordine del Creato. Realizzata tale acquisizione, la sua “azione” dovrà rispondere solo ai suoi precetti di ragione, cioè all‟ordine stabilito dalla sua creazione. Ora, nel momento in cui l‟essere viene fondato sul pensiero (“cogito ergo sum”), si elimina di conseguenza ogni dipendenza dell‟uomo (e non solo) dalla divina Creazione, e la coscienza intellettuale diventa così il luogo della creazione ideale, là dove prende forma la realtà. E allorquando il luogo della creazione diventa la coscienza, prima del mondo non c‟è più Dio ma le categorie a priori, ossia le forme ideali della coscienza stessa dell‟uomo facitor mundi. L‟Essere diventa così una realtà di coscienza, un oggetto di conoscenza. Fuori di questa conoscenza, c‟è l‟Essere “in sé”, qualcosa di indeterminato e finalmente irreale. Ma se ogni cosa acquista la sua realtà di ragione nella conoscenza, il mondo intero va ripensato nei termini di una realtà razionalmente conosciuta, e quindi riportato a ragione, rivoluzionato. La rivoluzione è la conseguenza storica del presupposto razionalistico, che perciò andava confutato per scongiurarla. Fino ad allora l‟attività creatrice dell‟uomo era stata l‟arte, l‟opera della fantasia, che dal piano della coscienza estetica e ludica in cui l‟aveva confinata Schiller, ora il razionalismo ideologico voleva estendere all‟assetto naturale dell‟antico regime. Come scrive de Bonald, l‟opposizione della monarchia e della democrazia è la “lotta tra due nemici inconciliabili: la natura e l‟arte”.201 Quella di natura è una costituzione stabilita dall‟intima necessità della società, mentre quella dell‟arte è un progetto ideale legato alla creazione umana, alla volontà che vuole realizzarlo

200 201

Cit. da K. Mannheim, Op. cit, pag. 265 n. Cit. da Valentini, Op. cit., pag. 87.

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per dare forma razionale alla realtà. Una ragione auto-fondata, che vuole emendare gli errori e i pregiudizi umani e divini. La rivoluzione intende fondare un mondo a immagine dell‟uomo, interamente umano: la apoteosi dell‟ottimismo antropologico di uno spirito liberato di ogni complesso di colpa originario. Al soggettivismo razionalistico, i tradizionalisti oppongono il “senso comune”, quale autorità dell‟opinione generale, il cui “consenso” è indice di verità di un‟idea. Le virtù cartesiane della chiarezza e distinzione non eliminano, infatti, l‟anarchia delle opinioni individuali, foriere dell‟universale scetticismo. Le tre forme di scetticismo, secondo Lamennais, sono il razionalismo cartesiano, il materialismo sensista e l‟idealismo kantianao, che sono tutte espressioni del soggettivismo, contrarie al “senso comune”. Per il pensatore cattolico, il “senso comune” era la vox populi, che per lui era anche la vox Dei, che coincidevano con la Chiesa quale unità dei credenti e dei pastori. “Ciò che il Popolo vuole anche Dio lo vuole, perché ciò che il Popolo vuole è la giustizia, l‟ordine essenziale, eterno, il trionfo dell‟umanità di questa sublime parola di Cristo: „Che siano uno, Padre mio, come voi e io siamo uno‟ ”.202 L‟unità mistica, tradotta in termini sociali, è la comunità dei credenti, la quale presuppone il comune orizzonte di fede entro il quale sussiste il senso comune. Questo, dunque, non può essere un valore assoluto, ma relativo all‟orizzonte della fede cristiana, solo nel cui ambito ogni atto di liberazione avanzato dal popolo coincide con la cristianizzazione della società. Libertà e cristianesimo sono idealità legate indissolubilmente, per cui la Chiesa, “pur rimanendo eguale nel suo fondamento, assume sempre nuove forme col mutare dei tempi […], affrancata da influenze del potere laico e attraversata da un forte impulso d‟amore e compenetrante con la forza della sua autorità spirituale tutta la società”.203 Questa trasposizione in termini liberali dell‟etica cristiana è una rielaborazione sociologica del mito della fraternità caritatevole, cioè una mito-logia tutta interna all‟orizzonte di senso cristologico, ma contigua alla tendenza razionalistica di assolutizzarne il piano di coscienza in orizzonte autonomo dal Mito originario, e quindi a trasformarlo in un mito

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Cit. da Valentini, Op. cit., pag. 94. Ivi, pag. 93.

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ideologico, privo di ogni senso storico. Ridotta a ideale, anche la Chiesa va perdendo la sua storicità determinata, per diventare modello astratto che il popolo dei credenti assume a ispirazione della sua azione collettiva. E‟ chiaro che sotto questa ottica populistica, anche la Rivoluzione francese, come quella russa di poi, possono essere interpretate come atti di volontà divina, sol perché fenomeni di rilevanza collettiva. In realtà ciò che è più rilevante è il dimensionamento della volontà universale in un orizzonte di senso proprio di una tradizionale Weltanschauung, entro i cui valori assiologici vengono trasfigurate le dinamiche politiche delle ideologie concorrenti, la cui portata eversiva e rivoluzionaria romane perciò fortemente incompresa. Ma la “tradizione” e il relativo “senso comune” che idealmente la caratterizza, caratterizzanti il “modo” d‟essere di un‟epoca o di una cultura (Chabod), è il “senso dell‟appartenenza” allo stesso orizzonte di senso ontologicamente fondato, il quale racchiude ogni processo ermeneutico articolato “nelle forme del comune possesso di determinati pregiudizi fondamentali e costitutivi”204 appunto del senso comune. In altri termini, la “tradizione”, come “forma” ideale o momento della dialettica del comprendere i fenomeni storici che accadono nel suo orizzonte di senso, non è altro che il Mito, alla luce del quale modello ideale ogni fenomeno interno al suo orizzonte di senso viene interpretato meglio di quanto l‟autore stesso possa farlo, trovandosi nel caso concreto e limitato della sua esperienza vitale contingente. In questo senso “il comprendere non è mai solo un atto riproduttivo [di senso], ma anche un atto [a sua volta] produttivo” di senso205, per cui esso, liberato da ogni connotato psicologistico che avvolgeva ancora la teoria ermeneutica romantica di Schleiermacher, diventerà con Heidegger un “esistenziale”. La coscienza mitica, decontestualizzata razionalisticamente dal suo orizzonte di senso, diventa “forma” ideale della comprensione, intesa come astratta “facoltà di giudicare”, ossia, in ossequio alla metodica scientifica, come “l‟attività del giudizio di sussumere un particolare sotto un universale e di riconoscere qualcosa come caso particolare di

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H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 345. Ivi, pag. 346.

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una regola generale”. Tale astratta “facoltà”, essendo privata del suo fondamento ontologico e quindi assolutizzata in senso neutralmente metodico, “manca [di] un principio [assiologico] che possa guidare la sua applicazione”, per cui il suo esercizio “non può essere insegnato in termini generali […], giacché non c‟è alcuna dimostrazione in base a concetti che possa dirigere l‟applicazione di regole ai casi particolari”.206 E dunque, non essendo classificabile tra le facoltà superiori dello spirito, la facoltà di giudicare è stata considerata razionalisticamente come una facoltà del conoscere, e precisamente la facoltà della conoscenza particolare del sensibile-individuale, relativamente alla sua perfezione o imperfezione estetica. Così come l‟atto del giudizio viene emancipato dal senso ideale della sua comprensione, il fenomeno esteticamente conosciuto viene colto in sé stesso, nella sua unità intuitiva del molteplice, che ne costituisce la sua coerenza immanente, esclusiva di ogni concetto trascendente, cioè del suo orizzonte di senso ideale. L‟atto ermeneutico della comprensione del senso, come intuizione della totalità, viene razionalisticamente ridotto a “judicium sensitivum” (Baumgarten), che Kant chiama “gusto” (Geschmack), definito come “giudizio sensibile sulla perfezione” estetica. Il Bello (kalòn) viene astratto dal Bene (hagathòn) e smette di essere platonicamente la sua realtà visibile, e anziché essere ciò che si mostra del Bene, e quindi la mediazione (méthexis) tra esso e il fenomeno, diventa un ideale d‟ordine estetico puramente formale, che non ha più i connotati dell‟ordine (tàxis) teleologico del mondo e di quello ontologico universale207. E così la sua “facoltà spirituale di discernimento” diventa un modo di conoscenza che non ha basi dimostrative ma soltanto convenzionali, la cui “specifica e peculiare forza normativa consiste nel suo sapersi sicuro del consenso di una comunità ideale” che lo condivide208. Il giudizio estetico espresso gal “gusto” si estende quindi in Kant “a tutto l‟ambito del costume e delle convenienze”, ma, pur rientrante nello “stesso ambito del giudizio riflettente, che sa cogliere nel particolare l‟universale sotto cui eso deve venir sussunto”, rispetto al “giudizio

206

Ivi, pag. 55. Ivi, pag. 549. 208 Ivi, pag. 62. 207

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determinante” è “sempre qualcosa di più che della semplice applicazione corretta di principi generali”. Ciò vuol dire che il “gusto”, così come del resto ogni giudizio, “non si esaurisce nel rappresentare la particolarizzazione di una regola o di un concetto generale” (casus in terminis), ma è sempre un “caso individuale” che “non rientra pienamente nella regola”, contribuendo perciò “a determinarla, completarla e correggerla”.209 Ma in che consiste dunque la differenza tra il giudizio “determinante”, ossia logico, e il giudizio “riflettente”, ossia estetico, espressa da Kant nella Critica del giudizio e criticata da Hegel come soggettivistica? La differenza sta, non già nell‟astratta relazione tra il particolare e l‟universale, essendo metodicamente neutra rispetto ai contenuti, ma nella natura del particolare e in quella dell‟universale. Infatti, se è vero, come afferma Gadamer, che “il gusto, come il giudizio, cono [entrambi] modi di giudicare il particolare in riferimento a una totalità, stabilendo se il particolare sta bene con tutto il resto”,210 è pur vero che “il particolare”, considerato fuori di quella “totalità”, è una realtà assoluta, priva di determinazioni, e perciò un ente naturale. La sua determinazione, se è il riflesso particolare di un‟Idea, è nel contempo sia estetica che morale, come voleva Platone, poiché, fuori di quella corrispondenza o partecipazione (), l‟ente particolare neppure logicamente “è”. Ciò che dunque consente all‟ente di essere ciò-che-è, ossia un ente determinato da un giudizio, non è la sua relazione con la “totalità” di riferimento ideale, la quale relazione, in sé neutra, si determina attraverso la natura di quella “totalità”. Se la “totalità” del giudizio è coincidente con l‟Idea che presiede quel giudizio, allora la determinazione dell‟ente avviene a priori, essendo l‟Idea stessa il modello astratto di ogni concreta determinazione fenomenica. Se, invece, la “totalità” è un universo di senso empiricamente definito sulla base della stessa corrispondenza storica tra astratto modello e concreta determinazione, allora il giudizio riflette non l‟Essere dell‟Idea ma la sua effettualità storica, ossia, appunto il “gusto” rilevabile in un determinato contesto di senso come criterio di giudizio. In questo caso, la corrispondenza è pensata come fine ideale da conseguire a posteriori

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Ivi, pagg. 62-64. Ivi, pagg. 62-63.

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rispetto al modello di valore astratto. In tal caso la determinazione del “gusto” non è inerente a una corrispondenza idealmente predeterminata, ma una corrispondenza da conseguire, e quindi storicamente variabile non nel senso dell‟ideale, che è fisso, ma nel senso della possibilità. Nel primo caso, della corrispondenza logica, ciò che “è” determinato, non può non esserlo, e quindi è necessariamente ciò-che-è. Nell‟altro caso, invece, il “gusto” non è un giudizio di essenza ideale, ma di esistenza empirica, per cui esso varia a seconda dell‟opinione comune, il cui “senso” non è idealmente predeterminato da un fondamento ontologico eterno, ma stabilito da un grado di corrispondenza relativo al livello di coscienza del contesto empiricamente referente. Ciò significa che il “gusto” varia a seconda degli ambienti sociali e dei contesti storici di riferimento, e che uno stesso fenomeno può essere giudicato secondo diversi gusti comuni ai diversi livelli di coscienza. Solo se il giudizio estetico si rifà al giudizio determinante, il “gusto” ha valore assiologicamente normativo all‟interno di una “tradizione” costitutiva di una “comunità ideale”. Se, invece, il “gusto” assume come parametro di valore il proprio giudizio estetico, deve coincidere anche con la relativa privatezza e soggettività del giudizio di realtà. In tal caso, la “totalità” di riferimento è quella della stessa che presiede il privato giudizio di realtà. Siamo qui di fronte a un evento extra legem, all‟arte del “genio”, che infrange l‟etica del buon gusto (l‟aristotelica mesotes) come vincolo sociale espresso in termini di “senso comune”, per costituirsi come valore a sé, paradigma autonomo da ogni tradizione. Ma la fondazione trascendentale dell‟estetica, proprio in virtù della neutralità metodica della relazione ideale, non poteva limitarsi alla sola autonomia dell‟arte, ma anzi rappresentò sul piano dello spirito tra traduzione razionalistica di quella autonomia dal valore che la scienza aveva acquisito nel campo della conoscenza della natura, sicché fu impossibile circoscrivere la rivoluzione estetica del “gusto” alla sola sfera dell‟arte, così come sarebbe stato impossibile delimitare il concetto di Rivoluzione politica al solo orizzonte sociale della tradizione. Gustare l‟arte significa, in senso razionalistico kantiano, liberare la rappresentazione estetica da ogni costrizione di regole, e cioè il suo contenuto da ogni implicazione con la realtà del mondo organizzato secondo criteri razionali. La bellezza estetica è la rappresentazione del mondo attraverso l‟ideale di bellezza che, per la 131


sua autonoma costituzione, “trascende tutti i concetti”,211 e che viene espressa solo dal “genio” artistico, che si serve, anziché dei concetti, della “immaginazione”, consistente nel “libero slancio inventivo” e in “un‟originalità capace di porsi come esemplare”.212 Le ricadute irrazionalistiche di questa teoria del “genio” sul campo politico sono a questo punto facilmente intuibili, in quanto già in nuce contenute nell‟ideale rinascimentale del Principe demiurgo, per cui “l‟irrazionalità del genio indica […] un momento di produttiva creazione di regole che si fa valere tanto nella produzione quanto nella fruizine”.213 Ciò vuol dire che l‟equivalenza di “geniale” con “irrazionale” fa della immaginazione creativa una facoltà metarazionale, produttiva di una “irripetibile forma”, ossia di una rappresentazione ideale non altrimenti esprimibile da nessun altro linguaggio razionale, poiché tale “ideale” non è quello della ragione, cioè della scienza del Molteplice, ma è la forma propria della “intuizione” del mondo, che è „idea del Tutto non riducibile alle sue parti determinate. La “produttiva creazione di regole”, cioè di criteri di valore e di giudizio, del “genio” è la facoltà mitopoietica propria del demiurgo, ovvero del demagogo capace di dare risposte al mistero del mondo, di carattere non razionale ma immaginifico, simbolico. L‟idea totalistica del mondo non può che essere simbolica, coerentemente immaginifica, e perciò “bella”. La bellezza del Mito è la sua rappresentatività “totale” attraverso i simboli particolari. Questa capacità mitopoietica viene da Kant presentata come libero gioco dell‟immaginazione e arte combinatoria delle facoltà conoscitive214, per cui il genio è considerato legittimamente significativo nel solo campo della produzione artistica, del bello estetico, non trasferibile in altro linguaggio, razionale o pratico, e perciò inimitabile. Ma, destrutturato l‟universo di senso religioso, quale legalità può imporre più fini etici diversi da quelli auto-imposti dalle singole attività spirituali razionalmente emancipate? Ogni livello di coscienza razionalisticamente “emancipato” era pensato come un

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Ivi, pag. 78. Ivi, pag. 79. 213 Ivi, pag. 78. 214 Ivi, pag. 79. 212

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universo a sé stante, rivoluzionariamente libero dalle leggi morali della tradizione. La figura del “genio” sopravanza il cosmo razionale e il mondo scientificamente strutturato, sicché anche il concetto di “gusto” è più universale di quello di genio artistico, perché esteso al bello di natura: è un concetto trascendentale, e non empirico. Solo l‟arte prescinde da ogni calcolo pratico di utilità, e perciò rappresenta l‟essenza del mondo umano più prossimo alla creazione senza scopo della natura. Proprio la fruizione antropologica del “gusto” nel campo della natura fa della facoltà di giudizio estetico un mezzo per giungere a un ideale teleologico della natura. “in questo senso la critica del gusto, cioè l‟estetica, è una preparazione della teleologia”, la quale “va legittimata come principio del giudizio”, pur non essendo costitutiva per la conoscenza della natura, facendo della “facoltà di giudicare […] il ponte fra intelletto e ragione”, ossia “la mediazione tra concetti della natura e concetti della libertà”.215 Il genio crea dunque analogamente alla natura, cioè senza uno scopo che non sia quello rappresentativo. E così anche l‟arte, la quale, come prodotto umano è comunque intenzionale, riguardata esteticamente viene gustata per la sua sola bellezza, senza cioè “alcun altro principio di giudizio, alcun criterio fornito dal concetto o dalla conoscenza” che non sia “quello della finalità rispetto al sentimento della libertà nel libero gioco delle nostre facoltà conoscitive”. Data questa riduzione della facoltà creatrice ad arte combinatoria dell‟immaginazione umana, “il bello nella natura o nell‟arte ha un unico e identico principio a priori, che risiede completamente nella soggettività”. Ciò vuol dire che il gusto estetico, e cioè il giudizio relativo, si esercita potenzialmente su ogni espressione artistica o naturale, e non ha alcun carattere normativo, ossia “non permette la costituzione di una estetica filosofica nel senso di una filosofia dell‟arte”.216 E‟ la definitiva emancipazione della volontà creatrice da ogni orizzonte di senso fondamentale, e la parallela consegna assiologia della produzione spirituale al “gusto”, ossia all‟opinione pubblica, a quel consenso sociale che andrà a sostituire vieppiù la normativa etica assente, non più fondabile ontologicamente. Il carattere trascendentale

215 216

Ivi, pag. 80. Ivi, pag. 81.

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del “gusto”, universalizzato a principio dell‟autonomia della volontà creatrice dell‟uomo, configura, con la liberazione di ogni livello di coscienza dal suo originario orizzonte di senso, da un lato, la costituzione individualistica di ogni autonomo giudizio di valore, e dall‟altro il carattere sociale della sua legittimazione morale, segnando così i caratteri teoretici e sociologici della svolta razionalistica del mondo moderno e il trionfo della dimensione polemica nei rapporti umani, ovvero la prevalenza (della libertà) del politico sul (la necessità del) governo sociale. Infatti, il correlativo economico della espressione estetica è la produzione socializzata del lavoro, il cui “valore” è demandato alla sua destinazione di senso sociale. Ma lo stesso valore artistico della produzione estetica è a sua volta determinato dal valore socializzato ovvero dal “gusto” del Mercato. L‟universalizzazione del valore dell‟apparenza come valore socializzato o “gusto”, coincide con il dominio teoretico della attualità storica dell‟Essere come esclusivo universo di senso ontologico, ossia della storicità degli enti fenomenici come determinazione temporale dell‟Essere-che-è, cioè degli enti molteplici, a esclusione dell‟Esserepossibile, cioè dell‟Uno (idealmente e quindi storicamente) indeterminato217. Il motivo positivistico del “dato”, che da estetico si universalizza in 217

Sulla indistinzione dei due momenti strutturali dell‟Essere, e la conseguente confusione dell‟indeterminazione con la negazione, si basa l‟intiero discorso teoretico di E. Severino (La struttura originaria (1958), Milano, 1981; Ritornare a Parmenide (1964), in Essenza del nichilismo, Milano, 1982), il quale non pare comprendere che la determinazione dell‟Essere è un giudizio logico, la cui portata ontologica deriva dalla credenza greca che l‟Essere sia un‟Idea, e come tale (idealmente) determinato (cioè distinto) rispetto all‟Essere indeterminato (o Uno naturale). L?Essere, se “è” (determinato) è molteplice, e quindi ente tra gli enti temporali; se “non-è” determinato, la sua essenza “è” comunque, in forma indeterminata. Sia l‟Essere-che-è, cioè l‟ente storico, che l‟Essere-possibile, cioè ideale, “sono” lo stesso Essere come Tutto, e non come Essere-determinato o Essere-possibile. Ciò vuol dire che l‟Essere-Tutto non può identificarsi né con l‟Essere-che-è, cioè con una sua molteplice determinazione storica, e neppure con l‟Essere-possibile, ossia con la sua unità ideale. Solo rispetto al Tutto, l‟Essere reale (Molteplice) e l‟Essere ideale (Uno) sono reciprocamente negativi, ossia logicamente “opposti”, mentre fuori della totalità che li comprende sono “contrari”, e cioè entrambi “reali” e quindi reciprocamente esclusivi. L‟opposizione logica creduta “reale”, ossia la contrarietà ideo-logica, è la condizione ontologica del dominio della dimensione polemica come relazione fondamentale di senso degli enti storicofenomenici.

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neutro concetto trascendentale, è a fondamento gnoseologico dello storicismo, che proprio sul modello estetico fonda la sua idea di produzione spirituale e di conoscenza storica come ri-conoscimento del “dato” spirituale218. L‟oggettivazione della vita spirituale in forme significative a sé stanti, irrelate da ogni sistema ontologicamente strutturato, comporta che la loro comprensione di senso consista in una mera “ritraduzione” del loro processo formativo, il cui “dato” storico si concretizza nell‟unità della Erlebnis come atto originario e sintetico della coscienza, il cui concetto costituisce per Dilthey “la base gnoseologica che fonda ogni conoscenza dell‟oggettivo”.219 8. L‟ermeneutica dell‟oggettività presuppone la fede nel controllo razionale dell‟esistente, ovvero la strumentalità di un sapere disincantato ed emendato da ogni pretesa di idealistica totalità, il cui desiderio ammantava la ricerca teoretica di un‟aura sentimentale che in seguito il Romanticismo rivaluterà in chiave anti-intellettualistica.220 [220. Ch. Taylor, The secular Age (2007) tr. it., Milano, 2009, pag. 179.] La totalità, nondimeno, è l‟istanza essenziale di una teoresi razionalistica che fonda la sua legittimità gnoseologica sulla sua normatività universale, che costituisce in legge di valore erga omnes il dato di coscienza oggettivato dal pensiero logico. Ed è proprio la relazione di emanazione che la ragione oggettiva stabilisce col suo ente di pensiero, con la sua creatura teoretica, a stabilire la possibilità di manometterlo per perfezionarlo a immagine del modello ideale. In tale possibilità tecnica consiste il Potere della conoscenza, che è per l‟appunto conoscenza di potere. Il modello formale di Potere razionale socializzato per mezzo di istituti giuridici entro una struttura di relazioni politiche è lo Stato assolutistico moderno, prototipo di quello totalitario del sec. XX. Lo stato assoluto tende a dar vita ad una società unitaria di „cittadini dello Stato‟, o di „sudditi‟, ad una „società borghese‟ che è essenzialmente una società economica. La stratificazione di quest‟ultima non viene più determinata dai diritti politici, ormai concentrati nello Stato, ma da differenze

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Si pensi alla gnoseologia di Croce e alla sua teoria della storiografia, su cui C. Marco, B. Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2004. 219 Ivi, pag. 93.

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economiche; essa è sostanzialmente società per classi. „Classe‟ in senso economico e sociale diviene una categoria universale, apparentemente utilizzabile in qualsiasi contesto. […] La società strutturata secondo lassi determinate in modo essenzialmente economico si rende atonoma nei confronti dello Stato e costituisce il fondamento, la „base‟ della struttura interna.220

L‟obiettivo dello Stato assolutistico, propriamente, è di costituire una società politica, ossia una condizione di universale dipendenza dal Potere secolarizzato, emancipato cioè da ogni vincolo limitante della Chiesa. E‟ questa condizione secolarizzata del Potere a riflettersi sulla realtà sociale interpretata in chiave politica come Potere appunto politico, avente in sé il proprio statuto etico di legittimità. Il processo poi di emancipazione della società dal Potere politico, e la sua costituzione in termini economici, è analogo a quello che ha condotto la Corona a perorare la sua causa di emancipazione dall‟ingerenza religiosa, entrambi contrassegnati dal principio di razionalità delle rispettive istanze, ossia dal valore universale della propria identità ideale. Al fondamento, quindi, di ogni processo storico di emancipazione sociale e politica dal controllo di una autorità superiore ed esterna al contesto di rivendicazione si ritrova il principio di universalità della ragione, la quale, per statuto teoretico, deve esprimere la realtà perfetta, l‟ideale non modificabile di valore universale. E poiché l‟universalità non è altro che la proiezione ideale della realtà empirica dell‟ente mondano, ogni entità storica può adottarla a principio di auto-determinazione razionale, affermandosi idealmente attraverso la negazione reale di quanto lo incude e lo limiti storicamente. Sicché l‟ente politico si definisce negando il limite religioso, e l‟ente sociale negando il vincolo politico e riducendosi così a realtà meramente economica. Tale fenomeno di negazione reale del limite ideale alla propria auto-determinazione razionale è stato indicato da Schmitt, per il suo carattere pandemio, come “l‟antireligione della tecnicità”, che ha come risvolto ed esito quanto indicato dallo stesso Schmitt col termine di “neutralizzazione”.221

220

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 39 C. Schmitt, Die europaische Kultur im Zwischenstadium der Neutralisierung (1929), tr. it. di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Milano, 2007, pagg. 197-216. 221

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La Neutralisierung consiste infatti nel riconoscimento del valore universale di una istanza particolare avanzata in nome della sua affermazione razionale, e quindi presuppone la tecnica idealistica di universalizzazione di una posizione razionale, ossia la sua razionalizzazione ideo-logica.222 Allorquando il processo di razionalizzazione viene promosso dalle forze storicamente interessate in termini di “progresso”, queste presuppongono la fede nel fondamento di valore da esse propugnato come una verità inopinabile, la cui credenza – anche se presuntiva, come nel caso del mito soreliano – costituisce la conditio sine qua non della legittimità del loro assunto ideologico, in base al quale il principio di realtà comprenda nella sua rappresentazione razionale l‟intero contenuto storico delle manifestazioni spirituali dell‟uomo, che vengono interpretate solo a partire da esso. L‟opera critica innescata dall‟adozione dello strumento di valutazione razionale di quella fede, lascia l‟adito a successive elaborazioni dialettiche, tese a evidenziare i limiti logici dei suoi fondamenti, in modo tale da emendare come irrazionale proprio quell‟aspetto fideistico che li legittimava alla coscienza dei suoi propugnatori. L‟opera corrosiva della religione tradizionale intrapresa dalla tecnica dialettica del razionalismo socratico venne completata dall‟idealismo platonico, il quale auspicava il passaggio dalla fede nella religione alla fede nella filosofia nei termini di una metanoia spirituale che saltasse “tutti i gradi intermedi” che nel corso dello sviluppo culturale delle società storiche, erano stati “caratteristici del pensiero delle élites dirigenti”.223 L‟”essenziale” del passaggio, “il più intenso e carico di conseguenze” della storia spirituale europea, effettuato nel sec. XVII, “dalla teologia cristiana tradizionale al sistema di una scientificità naturale”, viene ravvisato da Schmitt

222

Indicando nell‟economico lo stadio finale del processo di razionalizzazione della cultura e della società dell‟Europa moderna, Marx lo ha indicato come il fondamento tecnico stesso dell‟intera storia umana, universalizzando a sua volta i termini del processo storico europeo. In tale razionalizzazione, o universalizzazione di una posizione razionale, consiste l‟ideologia, la quale rappresenta appunto una posizione particolare nel suo aspetto ideale, legittimandolo come necessario. 223 [Le parole virgolettate sono di Schmitt e riferite al passaggio delle masse europee dei paesi industrializzati “dalla religione della fede nel miracolo e nell‟aldilà alla religione del miracolo tecnico, delle prestazioni umane e del dominio della natura”: Loc. cit., pag. 203.

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nel fatto che viene abbandonato il precedente ambito centrale, cioè la teologia, perché è un campo di lotta, e nel fatto che si cercò un altro ambito neutrale. Quello che fino ad allora era l‟ambito centrale viene perciò neutralizzato, cessando in tal modo di essere ambito centrale e si spera di trovare sul terreno del nuovo ambito centrale il minimo di accordo e di premesse comuni che 224 consenta sicurezza, evidenza, comprensione e pace.

Ora, esattamente la pretesa che un ambito divenga comune a tutte le parti in confitto, cessando su di esso ogni vertenza ermeneutica, costituisce l‟istanza essenziale di ogni razionalizzazione, la quale, affermando e ricercando l‟universalità delle adesioni alla sua tesi addiviene alla pacificazione appunto universale, eliminando ogni diversa interpretazione. Ma proprio questa affermazione esclusiva di una rappresentazione della realtà rappresenta l‟aspetto totalitario della ragione universalizzante, il suo carattere ideologico. Ne consegue che il passaggio da una ad altra “centralità” tetica non elimina affatto il carattere peculiare della razionalizzazione della concezione del mondo, sicché l‟acquisizione della posizione metafisica, o scientistica, con le sue proiezioni politicistiche ed economicistiche, sposta la referenza su altro terreno, neutralizzando la rilevanza dell‟antico, ma non il suo metodo cognitivo della realtà, che resta sostanzialmente lo stesso, anche se, come abbiamo detto, perfezionato tecnicamente dalle successive elaborazioni critiche. Risulterà dunque illusorio aspettarsi dalla metafisica e quindi dallo scientismo posteriore una pacificazione che non sia conseguita dal consenso universale sui fondamenti epistemologici della nuova ragione del mondo. Finché infatti il principio di realtà, che è di natura fideistica come ogni fondamento ontologico del mondo, sarà pensato come essenza razionale, la sua affermazione fideistica implicherà sempre la negazione delle sue antitesi, e dunque conflitto e negazione del dissenso. La questione essenziale non verte sui contenuti della fede, nuova o antica che sia, ma sulla fede che la sorregge, e che fa sì che la “essenza” della realtà non sia un semplice “concetto”,225 privo appunto della credenza che sia

224

Ivi, pagg. 208 e 209. La differenza tra “essenza” e “concetto” fu opposta da Hamann a Kart e richiamata da Schmitt in Ivi, pag. 209. La questione della oggettivazione della realtà fu discussa 225

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il fondamento della realtà. L‟elemento fideistico viene esorcizzato da ogni posizione revisionistica della ragione, e attribuito al fondamento criticato come irrazionale, ma in realtà è ineliminabile e consustanziale a ogni tesi razionalistica, che pretende cioè di essere universale, ossia sganciata da ogni tradizionale retaggio culturale autoctono. La fede razionale per antonomasia è quella filosofica, elaborata dalla cultura greca, la quale nondimeno conservando la distinzione tra la cultura propria e quella altrui, ritenuta barbara, manteneva un rapporto inscindibile con la dimensione politica della teoria, conservando quella concretezza esistenziale del pensiero, perduta nella modernità.226 Fu soltanto col Cristianesimo che, per l‟innesto col razionalismo ellenistico, si ebbe la definizione di una consapevole fede universale quale fondamento ontologico potenzialmente comune a ogni cultura umana e a ogni coscienza singolare. Il falso ritenimento che la tecnica potesse sopperire al problema del conflitto delle interpretazioni è analogo al rimedio ipotizzato dal soggettivismo religioso, che rinchiudeva nella interiorità individuale della coscienza la fonte dell‟universalità, quasi che la questione fosse di natura topologica e non ontologica. Pertanto, proprio perché la tecnica, divenuta strumento individuale, non perde ma aumenta la sua potenziale offensività conflittuale, così la volontà soggettiva, trovando la sua fonte normativa in sé stessa anziché fuori di sé, non cessa di essere centro di pulsioni dominatrici ed esclusiviste. Entrambe, sia la tecnica che la volontà soggettiva, sono “culturalmente cieche”, 227ma proprio in conseguenza della loro cecità, ossia incerta destinazione finale, questi falsi rimedi celano ciò che vorrebbero risolvere: l‟inconseguibilità di una qualunque verità comune che non sia comunemente riposta in qualcosa che trascende la particolarità della

ampiamente da Hegel nei suoi scritti teologici giovanili, in polemica eslicita appunto con le posizioni razionalistiche di Kant. 226 La giusta affermazione schmittiana per cui “tutti i concetti essenziali della sfera spirituale dell‟uomo sono esistenziali e non normativi” (Ivi, pag. 204), deve supporre per essere coerente il carattere non razionale del fondamento ontologico della realtà, e pertanto la dissociazione della fede nella verità (da quella teologica a quella nella tecnica) da ogni criterio di ragione, rielaborando il quale si era giunti “al nulla spirituale”, alla “morte spirituale” (Ivi, pag. 213.). 227 Ivi, pag. 211.

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soggettività, come aveva ben inteso S. Weil. Solo infatti il trascendimento della persona può evitare la fede nel potere illimitato dell‟uomo. non vi è altra “integrità” spirituale che questa cosciente rinuncia all‟identità dell‟Uno col Tutto. Ora, l‟oggettivazione concettuale della realtà, definendola entro uno spazio ideale dal quale la coscienza si pone fuori, pone la realtà stessa astratta dal suo fondamento ontologico di fede, lasciando indeterminata la questione sulla credenza nella realtà oggettivata. Credere nella realtà significa assumerla nel suo fondamento ontologico come realtà vera. Questa assunzione di verità costituisce il legame fondamentale, ossia la relazione di fondamento, tra la realtà della coscienza e la coscienza stessa. Se infatti la verità resta esterna alla realtà oggettiva, e riposta nella coscienza come una eventualità privata, non si stabilisce alcun legame tra la realtà oggetto della coscienza e la coscienza stessa, sicché la prima può essere scambiabile quanto l‟altra indifferente a tale cambiamento. La neutralità del giudizio di realtà in questo caso equivale a un esonero dalla responsabilità umana di giudicare i contenuti della coscienza come conformi al o difformi dal vero, essendo questo nient‟altro che la situazione contingente in cui si pone la coscienza per riflettere la realtà. Una situazione che è determinata, culturalmente, dalla visione ideologica dominante e socialmente dalle relazioni di Potere. Questa situazione di fatto è quella in cui si pone la neutralità di Pilato di fronte alla verità di Gesù. L‟atteggiamento neutrale di fronte alla verità conduce alla conservazione dello status quo ante, mentre l‟assunzione della verità come realtà trascendente la contingenza comporta il martirio, ciò che S. Weil chiama malheur, la pena di vivere, e Kierkegaard angoscia. Questa consiste nella intuizione della differenza tra la verità quale totalità comprensiva dl senso di ogni particolarità, e le singole determinazioni accidentali della realtà contingente. La consapevolezza della differenza tra ciò che persiste nella sua comprendente verità ontologica e ciò che semplicemente è nei termini della accidentale determinazione ontica, costituisce il rapporto essenziale della fede col giudizio razionale; rapporto che il razionalismo, universalizzando la parte rappresentandola come il Tutto, ha reciso. Ed è questo rapporto che viene rappresentato dal Cristianesimo con la Croce, simbolo del male di vivere entro l‟orizzonte di realtà contingente. “In ragione di questo legame essenziale tra la Croce e il malheur, uno Stato non ha il diritto 140


di separarsi da ogni religione” - ossia diventare religiosamente agnostico e “neutrale” nel senso di Schmitt -, se non nell‟ipotesi assurda di essere pervenuto a sopprimere la pena di vivere”,228 La condizione per poter conseguire l‟obiettivo della liberazione dal male di vivere è di vivere nella totalità dell‟Essere, ossia nella Verità e nella Libertà. Realizzare dunque il paradiso in terra.229 A ciò tende lo Stato totalitario moderno, quale “Stato economico omogeneo”, avanzando “la pretesa di conoscere esattamente lo sviluppo storico complessivo”,230 dirigendo i processi epocali messi in moto dalla volontà sovrana e assoluta del Potere del tutto secolarizzato ed emancipato da ogni vincolo trascendente, nel cui ambito viene “atrofizzato il senso del divino”.231 Fino all‟età dei Lumi, la società era concepita come “una sede di potere” divino, la cui sacertà taumaturgica si trasferiva sia alla reggenza della Chiesa che a quella degli Stati. A ogni livello, “il legame sociale era intrecciato al sacro”, che sosteneva l‟unità collettiva, altrimenti esposta al potere “controsacro del maligno”.232 Tale unità collettiva era la “comunità” in senso esistenziale e non solo stanziale, caratterizzata da un comune sentire e dalla stessa fede nella realtà, di cui si avvertiva la dimensione trascendente, che incombeva nella vita quotidiana come senso del limite alla volontà dei singoli membri. Su questo sentimento comune del limite si costituiva la sfera religiosa. Il senso di communitas consiste nell‟intuizione da tutti condivisa che, al di là del modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri mediante i nostri diversi ruoli codificati, siamo anche una comunità di esseri umani sfaccettati, fondamentalmente uguali, uniti in un‟associazione. E‟ proprio questa comunità sottostante che erompe nei momenti di capovolgimento o trasgressione e che legittima il potere dei deboli.233

228

S. Weil, L’amour de Dieu et le malheur (1942), in Ouvres complètes, IV, 1, Paris, 2008, pag. 371. 229 “Se non ci fosse alcuna pena in questo mondo, potremmo credere di abitare nel paradiso”: S. Weil, la Pesanteur e la Grace (1947), Parigi, 1988, pag. 146 230 C. Schmitt, Loc. cit., pag. 207. 231 Ch. Taylor, The secular Age (2007) tr. it., Milano, 2009, pag. 123. 232 Ivi, pag. 64. 233 Ivi, pag. 72

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Tutti i codici hanno bisogno di essere bilanciati, talvolta persino travolti dalla loro negazione, per evitare l‟irrigidimento, l‟infiacchimento, l‟atrofia della coesione sociale, la cecità, magari pure l‟autodistruzione finale. 234 L‟epoca della Rivoluzione francese è probabilmente il momento in cui l‟antistruttura è repentinamente eclissata e per la prima volta è stato seriamente contemplato il progetto di applicare un codice disinteressandosi dei limiti morali.[…] Una conseguenza dell‟eclissi dell‟antistruttura è stata proprio questa propensione a credere che il codice perfetto non esigesse limitazioni, che si potesse e dovesse applicare senza restrizioni. Questa è stata una delle idee guida dei vari movimenti e regimi totalitari della nostra epoca.235

L‟antistruttura non è altro che la condizione-limite originaria di ogni storicità dell‟Essere come manifestazione temporale degli enti mondani, ossia ciò da cui perviene ogni dato reale di ciò-che-è. Tale luogo originario che antecede ogni determinazione d‟essere di ciò che è, è il Nulla, che rispetto all‟esistenza biologica dei viventi è la Morte. Il negativo sociologico dell‟organizzazione sociale gerarchizzata per valori morali, capacità individuali e funzioni cetuali e la indistinta communitas dell‟antistruttura, in cui vige una condizione pre-civile radicalmente pregna di istintualità irrazionali non (ancora) domate dall‟ordine sistemico superiore, e dunque esposta alla violenza e all‟imprevedibile incombenza della accidentale mortalità. La condizione sociale originaria, caratterizzata da irrazionale spontaneità e scarsa funzionalità organizzativa, utile al fine minimae della sicurezza, viene a perdere il significato di luogo di esperienza e di incubazione cuturale delle risposte ai problemi della vita singolare e comune, e ad assumere il significato di una realtà inconsapevole e quindi abbisognevole di illuminazione spirituale. Il governo soteriologico della minoranza illuminata riflette in altri termini il paradigma mitemico della caverna platonica, l‟andito oscuro per antonomasia. La Morte come condizione-limite dell‟esistenza storica rappresenta la dimensione originaria di ogni ente storico mondano, il luogo in cui viene evocato il mistero della vita che si ri-evoca nei momenti di pausa

234 235

Ivi, pag. 73 Ivi, pag. 74.

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dalla civiltà e di - sia pure controllata e temporanea - fuoriuscita dalla weberiana “gabbia d‟acciaio” (stahlhartes Gehaeuse) della civiltà. Il cristianesimo assegna una centralità alla Morte quale dimensione escatologica in cui viene trasformata l‟esistenza naturale finita in una esistenza altra, segnata dall‟eterno. Il sentimento di dissociazione dalla dimensione mondana che ne deriva allontana Dio dal Potere ma anche dalla necessità naturale che vincolava insuperabilmente l‟esistenza umana. “L‟autonomizzazione della natura fu il primo timido passo verso la negazione del sovrannaturale”.236 Nondimeno, l‟attenzione verso la natura che si sviluppò nella cultura cristiana altomedievale a partire dalla riscoperta di Aristotele non è da intendere come “un motivo extrareligioso”,237 quanto una derivazione razionalistica della concezione idealistica che sosteneva la teologia dell‟immagine della creazione divina, tale che gli enti fenomenici che l‟osservazione empirica considerava sempre più rilevanti non fossero che la proiezione particolare del loro modello universale, risalente a Dio. In tal senso, la concezione del cosmo ordinato dalla mente creatrice divina e la varietà infinita delle singole rappresentazioni concrete erano aspetti di una stessa rappresentazione ideale del mondo. D‟altro canto, l‟attenzione intellettuale e morale crescente riservata agli aspetti concreti della vita reale, della natura in genere e dell‟uomo in particolare, stabilendo nuovi legami tra la gente comune che non fossero quelli legati al vincolo feudali superava in senso mistico le distanze frapposte dalla civilizzazione ai distinti e varii settori della società, costituendo così, per la natura spirituale di quei legami, il motivo anti-strutturale proprio della dimensione religiosa all‟organizzazione politica della convivenza umana. Un motivo che, se voleva essere correlativo al fondamento idealistico, non poteva che essere realistico, con le conseguenze che ciò comportava sul piano dell‟agire. Infatti, “il realismo delle essenze prefigura la condizione di un agente che concepisce l‟azione giusta come qualcosa che segue i modelli (essenze) che devono essere prima identificati nelle cose”. Se, invece, avesse voluto tralignare dall‟alveo realistico, propugnato dal tomismo, e abbracciare una visione volontaristica del potere divino,

236 237

Ivi, pag. 124. Come giustamente notato dal Taylor: Ivi, pagg. 127-129.

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come quella propugnata dal nominalismo di Occam, per cui Dio sarebbe sempre libero di determinare ciò che è bene, “allora anche noi, gli agenti dipendenti, creati, dobbiamo rapportarci a tali cose non alla luce dei modelli normativi che esse rivelano, ma nei termini dei superscopi autonomi del nostro creatore”, sicché “gli scopi a cui le cose servono sono estrinseci a esse”, e funzionali pertanto a una “ragione strumentale”, fondata su una causalità efficiente priva di ogni intrinseca finalità,238 in cui la verità è solo la conferma della efficacia della conoscenza, ossia una “scienza del controllo” (la scheleriana Leistungwissen).239 Sul piano etico, si passa “da un‟etica fondata su un ordine già operante nella realtà a un‟etica che considera l‟ordine come qualcosa di imposto dalla volontà”. Ciò implicava che l‟ordine formale era considerato solo interno alla coscienza mentre l‟ordine naturale esterno andava spiegato in termini meccanici. “Sia la scienza sia la virtù esigono che disincantiamo il mondo, che tracciamo una distinzione rigorosa tra la mente e il corpo e releghiamo tutto il pensiero e il significato nell‟ambito dell‟intramentale. Dobbiamo cioè stabilire un netto confine” tra la realtà interna al pensiero, soggetta a leggi formali, e la realtà esterna, da intendere “come un puro meccanismo. […] Nella dimensione etica, dove abbiamo a che fare con la prassi, è essenziale riuscire a trattare l‟extramentale come un meccanismo, e ciò significa assumere un atteggiamento strumentale, ovvero un atteggiamento ricostruttivo nei suoi confronti”, incluso “tutto ciò che non è puramente mentale, […] in primis le passioni”, che non vanno soffocate, alla maniera stoica, ma ricondotte “sotto il controllo strumentale della ragione”.240 Questa governa idealmente la natura, e dunque il meccanismo naturale diventa il modello paradigmatico del comportamento umano. Quello naturale non è un modello operativo spontaneo nell‟ambito umano,ma conseguibile solo attraverso uno sforzo di volontà in grado di ammansire le passioni nel senso conforme alla ragione. Questa libera disposizione della virtuosa volontà ha come premio la stima di sé, la dignità più elevata dell‟essere razionale. Dalla

238

Ch. Taylor, Loc. cit., pag. 132. Ivi, pag. 152. 240 Ch. Taylor, Loc. cit., pagg. 174-175. 239

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cartesiana générosité al Wuerde kantiano il passo sarà breve.241 L‟apparente libertà di azione umana garantita dalla concezione nominalistica della natura, in realtà circoscrive le possibilità della volontà dell‟uomo ai soli obiettivi controllabili, quelli cioè più prossimi alla sua portata contingente, senza però darsi cura delle conseguenze che le azioni possono innescare nei processi di più lungo periodo, che l‟uomo non può controllare non avendoli potuto tenere in conto. Tali processi sono gli eventi collettivi, dei quali l‟agente singolo non tiene appunto conto in quanto artefice dei suoi soli scopi individuali. L‟individualismo è dunque l‟orizzonte fenomenologico e teoretico del libero agire dell‟uomo emancipato dalla necessità delle leggi naturali. Nell‟universo della libertà individualistica, i processi collettivi vengono relegati a una spontanea disciplina degli interessi, ovvero a una regolamentazione comune sulla base di una artificiale omogeneizzazione dei modelli comportamentali previsti legislativamente erga omnes. Ciò che era stato l‟intervento provvidenziale divino nella condizione di vita moderna diventa tecnica di controllo, indotto o spontaneo, della società attraverso una pianificazione razionale dell‟agire. Da qui la funzione crescente del Potere governante la molteplicità sociale nel senso della sua conduzione razionalizzata. L‟état policé era il reticolo di vincoli istituzionalizzati entro il quale imbrigliare le volontà individuali per renderle compatibili coi fini comuni, a partire dalla pacifica convivenza sociale. Ed è questo ingabbiamento della vita umana nelle maglie della civiltà razionalistica dell‟Europa moderna che Rousseau criticherà rappresentandola come una struttura di corruzione antropologica delle originarie virtù naturali dell‟uomo. Ma questo esito degenerativo fu la conseguenza culturale della dissociazione dei vincoli di civiltà da quelli religiosi, in origine congiunti come “parti di una coerente prospettiva normativa” nello sforzo di conseguire il benessere esistenziale e morale dell‟uomo civilizzato. “Non dovrebbe perciò sorprendere che un qualche sentimento dell‟obbligo a universalizzare, da cui era soffusa la Riforma religiosa, si diffondesse anche alla riforma secolare”, così come inversamente “la conversione

241

Ivi, pag. 177.

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religiosa era ritenuta ovviamente un requisito essenziale per una vita ordinata”.242 La posta in gioco era l‟ordine sociale, conseguibile solo attraverso l‟educazione civile e religiosa che rendesse possibile la prevedibilità delle azioni umane, ossia il ripristino di una accertabile finalità messa in mora dall‟emancipazione della libera volontà da ogni condizionatezza naturalistica. E perciò “la guarigione spirituale e la salvaguardia dell‟ordine civile sembravano [dover] procedere di pari passo”.243 Si può dunque affermare che l‟ “etica dell‟interventismo statale, nell‟epoca dei governi assoluti, abbia contribuito non meno dell‟etica calvinista del Beruf all‟introduzione di un modello di vita razionalizzato, disciplinato e professionalizzato”.244 Il risultato di questa opera di razionalizzazione della società europea e di modernizzazione in senso civilizzatore della cultura generale fu, per un verso, la costituzione di una autorevole classe dirigente, consapevole del suo ruolo e dei suoi fini etico-politici, e per l‟altro, di pari passo alla sua stabilizzazione, la rappresentante di una cultura elitaria portatrice di valori ideali e religiosi esclusivi e solo lontanamente emulabili dalle incolte masse plebee, dando origine a quella biforcazione sociologico-culturale delle “due nazioni” che verrà rilevata da P. Burke come “il ritiro delle classi alte dalla cultura popolare”.245 Il loro ruolo elettivo veniva in qualche modo giustificato teologicamente dalla teoria agostiniana della minoranza dei salvati chiamata a governare i molti dannati e destinati, senza una guida, alla perdizione. L‟opportunità di un pio governo nasceva dunque dalla necessità di disciplinare la società indirizzandola a fini salvifici. 242

Ch. Taylor, Loc. cit., pag. 141. “In altre parole, il buon ordine della civiltà, e il buon ordine della devozione, non restarono in compartimenti separati e incomunicanti. Anzi, in certa misura si fusero e si condizionarono vicendevolmente. La spinta alla devozione, a condrre tutti i veri cristiani […] a una vita pienamente consacrata, condizionò l‟agenda della riforma sociale, dandole un impulso filantropicouniversalista. E le esigenze della civiltà, che implicavano una qualche forma di riordinamento della società, offrirono a loro volta una nuova dimensione sociale alla vita pia e ordinata”: Ivi, pag. 142. 243 Ivi, pag. 144. 244 Ivi, pag. 159. 245 P. Burke, Popular Culture in Early Modern Europe (1978), cit. da Ch. Taylor, Ivi, pag. 148.

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Il “processo di civilizzazione” europeo, di cui ha trattato magistralmente da N. Elias,246 non è altro che un progressivo allargamento in senso orizzontale di quanto le élites sociali avevano prodotto per auto-definirsi in termini di diversità rispetto alle altre classi sociali e caratterizzarsi nella loro posizione altolocata in virtù della intrapresa riorganizzazione razionale della loro esperienza. Ma questo processo di diffusione vieppiù universale della vergogna educata247 non sarebbe stato possibile – sia pure nei termini teorici di una sua concreta effettività – senza un principio di ragione che appunto nella sua potenziale universalizzazione trovasse la sua legittimazione intellettuale e morale. Sicché, era definibile razionale e morale quell‟atteggiamento di pensiero e di azione che fosse universalmente concepibile di valore comune. E proprio il contrasto tra questa istanza razionale e l‟empirica diversità di comportamenti culturali condusse, com‟è noto, i pensatori illuministi ad avanzare risentite riserve sulla razionalità della prassi umana e della Storia stessa. La riorganizzazione razionale dell‟esperienza dell‟Occidente, la cui “struttura interna subisce il proprio definitivo completamento” nel Medioevo, allorquando “si concretizzano quelle forme che saranno determinanti anche nell‟età moderna” fino al sec. XVIII. 248 proprio in quanto rifletteva, ovvero esigeva il riflesso, nella realtà empirica dei modelli coscienziali e sociali virtuosi, imponeva sia un perfezionamento tecnico delle capacità progettuali e realizzative di quei modelli ispirativi, che soprattutto una capacità di conservazione del mundus factum, il cosmo umanistico artificiale, che faceva convergere funzionalmente cultura e politica verso il conseguimento degli stessi obiettivi storico-ideali. Il senso razionale di questo impegno congiunto consisteva nella definizione e costituzione di un ordine locale che fosse nel contempo rappresentativo di un ordine universale. Al di là di ogni contingente possibilità di realizzazione

246

N. Elias, Ueber den Prozess der Zivilisation (1978), tr. it. in 2 voll., II Potere e civiltà, Bologna, 2010 . 247 “In un certo senso la civiltà consiste nel provare vergogna nei luoghi e momenti appropriati”: Ivi, pag. 187. 248 O. Brunner, Sozialgeschichte Europas im Mittelalter (1958), tr. it., Bologna, 19882, pag. 37.

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storica, il criterio di legittimazione dell‟ordine locale risiedeva nel modello paradigmatico razionale, potenzialmente esportabile in ogni dove. Questa proiezione idealistica della realtà era la conseguenza della stessa rappresentazione della realtà empirica come riflesso imperfetto dell‟Idea di essa, per cui la trascendenza del modello perfetto assicurava sia la legittimità dell‟ordine storico che la possibilità di perfezionarlo nel tempo ed eventualmente altrove. Difettando alle culture arcaiche questa proiezione idealistica, l‟immagine tradizionale delle forme di vita locali era confermata dalla stessa reiterata persistenza, ossia nella loro vigenza, la cui sacralità era riposta a sua volta nella tradizione. Ma questa forma di legittimità “qualitativa”, legata a criteri del tutto auto-referenziali e tradizionali, venne soppiantata, in seguito alla assunzione di parametri razionali di invalidazione, da una forma “quantitativa”,249 che riponeva nella sua capacità espansiva e assimilatrice il proprio fondamento morale di credibilità. Ciò comportava, rispetto all‟imperialismo antico di tipo essenzialmente militare, che la prospettiva moderna dell‟espansionismo ideologico dei modelli locali non assumeva che la forma etico-politica superiore fosse semplicemente egemone rispetto a quelle sottoposte al Potere militarmente dominante, lasciando le subordinate al proprio tradizionale ambito referente, ma implicava che proprio in virtù della intrinseca possibilità universalizzante il modello egemone fosse anche realmente unico e storicamente uni-versale. L‟intreccio tra egemonia arcaica e nuova prospettiva imperialistica del modello razionale caratterizza l‟ideologia dell‟Impero romano cristiano rispetto alla sua fase culturale pagana pre-costantiniana; modello che verrà portato alla sua piena e più matura consapevolezza con il progetto monarchico di Dante, in cui l‟espansionismo romano viene trasvalutato alla luce del messianismo ellenistico-cristiano risalente a Eusebio e ad Agostino,che ha perseguito a suo precipuo modo il disegno greco di razionalizzazione della civiltà umana e, modernamente con la Riforma, dell‟esistenza di ogni singolo uomo. La tendenza espansionistica tipica della civiltà europea cristiana e del

249

Riprendo la terminologia di G. Ferrero, Potere. I Geni invisibili della Città (1942), Lungro di Cosenza, 2005, pagg. 49 sgg.

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motivo civilizzatore che la sottendeva,250 derivava dall‟universalismo della sua cultura razionalistica, che impregnava la stessa teologia cattolica della Chiesa, la cui unità religiosa rappresentava il collante unitario che difettava alla molteplice realtà statuale medievale, priva di una guida politica unitaria analoga a quella religiosa. L‟organizzazione spirituale della Chiesa rese possibile l‟unica unità possibile nell‟Europa del Medioevo, frastagliata politicamente dall‟insuperato pluristatalismo cui si pervenne dopo l‟unità carolingia, sicché l‟interconnessione tra struttura ecclesiastica e tessuto sociale mondano creò le condizioni della stessa conflittualità storica tra Chiesa e Potere politico.251 Rispetto al periodo imperiale classico, oltre alla divisione territoriale in regni più o meno sovrani e nazionali, u altro elemento, sociale, differenzia i tempi nuovi: la prevalenza dell‟economia agraria rispetto a una urbana. Infatti, nell‟alto Medioevo “la città e il suo territorio persero la funzione trainante che avevano svolto all‟interno della struttura politico-sociale dell‟antichità”, a favore di una “agricoltura su base contadina e signorile”.252 Il rapporto signorile era costituito da un do ut des di protezione e aiuto fondato sulla fedeltà che “andava oltre l‟obbedienza”, in quanto il vincolo era legittimato da un ordinamento giuridico stabilito religiosamente, la cui violazione “distruggeva il rapporto di fedeltà e poteva provocare la resistenza del suddito nei confronti del signore che aveva agito ingiustamente”.253 Il carattere morale del rapporto consentiva inevitabilmente una certa discrezionalità interpretativa, legata sia al potere del signore di farlo valere in effetto alla bisogna che alla sensibilità dei sudditi a soddisfarlo. Nondimeno, proprio questa aleatorietà del rapporto rendeva il vincolo di fedeltà feudale soggetto a influenzamento morale da parte di un‟autorità carismatica in grado di porsi come referente integrativo, anche se informale, della normativa formale, per un verso creando un rapporto personale tra sudditi e signore che l‟autonomia socio-economica delle signorie agrarie locali rafforzava in senso eticopolitico, e per un altro verso delimitando lo stesso potere regale

250

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 43. Ivi. pagg. 46-49. 252 Ivi, pag. 53. 253 Ivi, pag. 55. 251

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nell‟ambito inviolabile di un ordinamento di tipo sacrale, che il re era chiamato a rappresentare degnamente mostrandosene all‟altezza soprattutto attraverso prestigiose azioni militari.254 L‟autonomia dal Potere statale era il risvolto esterno di una organizzazione sociale interna caratterizzata dall‟autodifesa della propria autarchia, che era sinonimo di un equilibrio di pace disciplinata, garantita dal signore, intorno al quale gravava l‟onore e l‟onere del governo. Questa economia contadina di tipo signorile si mantenne sino alla Rivoluzione francese, intaccata significativamente dall‟assolutismo illuminato, tesi a costituire lo staus razionale del “cittadino dello Stato”, soggetto direttamente al Potere centrale, che appropriandosi del potere di protezione, rese la signoria priva del suo originario significato.255 L‟apporto culturale più duraturo del sistema signorile fu la formazione di un‟etica del lavoro, che il cristianesimo ispirò è influenzò attraverso la pratica dei monasteri, ma che “non avrebbe potuto diffondersi così largamente se all‟interno della signoria fondiaria […] non si fosse sviluppata una struttura sociale che diede spazio ad una classe contadina consapevole”.256 L‟apporto istituzionale, invece, consistette nel porsi come il modello del potere sovrano, protettivo la sua comunità territoriale, che lo Stato razionalizzato moderno estese vieppiù in senso universale, fino a comprendere ogni ambito esistenziale regolamentato legislativamente. L‟originario Potere magico-sacrale del monarca persistette per secoli, realmente o simbolicamente, finquando il suo monopolio legittimo fu trasferito nel sec. XIX ai governi parlamentari, rendendosi astratto nella oggettività di un esercizio sostanzialmente anonimo, la cui titolarità fu messa in ombra dal ruolo giuridico, e perciò differenziandosi sostanzialmente dal primitivo rapporto carismatico-fiduciario che univa il signor al suo popolo. Con la razionalizzazione dei rapporti politici entro lo Stato moderno, il legame dei cittadini col Potere divenne astratto e del tutto formale, mediato dalla normativa regolamentare, più che dalle decisioni del rappresentante formale della volontà sovrana del popolo. Il portato di tale oggettivazione del Potere nello Stato razionalizzato

254

Ivi, pag. 57. Ivi, pagg. 62 e 64. 256 Ivi, pag. 65. 255

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moderno fu, a seguito della sua universalizzazione formale, la perdita progressiva della sua limitazione nei confronti dell‟autorità di un Governo morale, trascendente l‟esercizio contingente e che ne segnasse il limite extra-sistemico, non valicabile attraverso il procedimento di validazione formale. La giuridicizzazione universale del Potere nello Stato di diritto, riportando ogni criterio di validità decisionale nell‟ambito della formalità legale, ne deresponsabilizzava l‟esercizio, privandolo di ogni crisma di quella sacra moralità che invece caratterizzava il Potere dei sistemi socio-politici medievali. D‟altro canto, il processo di espansione del Potere centrale, regio e statuale, si rese possibile in conseguenza della correlativa perdita di autonomia locale proprio del sistema giurisdizionale che si andava disgregando, quello feudale, nel quale i rapporti vassallatici di tipo terriero venivano per principio legittimati dal vincolo morale di fedeltà dei potenti locali al loro re. La minaccia della indipendente proprietà allodiale, che il sistema feudale tendeva proprio a superare attraverso il possesso beneficiario delle terre signorili, sarebbe stata comunque inferiore in senso disgregatore del Potere regio di un suo disconoscimento morale da parte di riottosi e bellicosi signori locali, che invece il riconoscimento della legittima sovranità regale rendeva usurpatori. Tale non fu il duca Bolingbroke del Riccardo II di Shakespeare, che mosse contro il suo re a seguito di una ingiusta confisca delle terre avite e di un suo più iniquo esilio, che innestò la sua causa particolare alle riserve che nobiltà e popolo segretamente nutrivano verso una iniziativa bellica, la guerra contro l‟Irlanda, che dissanguava le risorse dell‟Inghilterra. La tragedia shakespeareiana rappresenta efficacemente la dinamica tra la legalità formale e la legittimità morale di un contenuto di comando, e la loro necessaria coerenza nel modello etico-politico feudale, senza la quale la vicenda relativa a un scontro di forze per il Potere assumerebbe tutt‟altro significato, quello appunto di un dramma emendato di ogni pathos tragico che la moderna teoria della lotta politica delle élites gli assegnerebbe. Sulla differenza che sussiste tra la tragedia antica e il dramma moderno ci siamo dilungati infra. Qui basti ribadire che la rappresentazione drammatica moderna delle vicende umane, rispetto a quella della tragedia antica, ha come suo connotato distintivo l‟esclusiva dimensione immanentistica dell‟orizzonte esistenziale dell‟homo oeconomicus, che nella civilizzazione razionalistica si trova 151


a fronteggiare non più la volontà divina ma la volontà politica del Potere, la cui logica universalisticamente pervasiva non è più vincolata ad alcuna trascendente remora morale che non sia un‟etica funzionale alla sua stessa affermazione e confermazione, privando le vicende umane da ogni intima “sofferenza” e trasformandole in mere “azioni” in cui “l‟eroe sta e cade unicamente per i suoi atti”.257 Quando, pertanto, si riscontra nell‟ordinamento feudale “il germe, pur se non pienamente sviluppato, di un‟organizzazione statuale ideata in forme razionali”,258 occorre integrare la giusta osservazione con la precisazione che lo sviluppo in senso razionale dell‟organizzazione statuale moderna è andato di pari passo con la perdita dell‟autonomia morale sottintesa alle forme di autonomia politica locale, tale che essa non costituiva soltanto una resistenza militare al vincolo di sottomissione feudale o statuale, ma anzitutto un limite ideale alla razionalizzazione universale del Potere. Il principio autonomistico, infatti, al di là degli esiti pratici di disgregazione di ogni disegno egemonico unitario, implicava il senso trascendente della fedeltà signorile, espresso dalla possibilità di avere molteplici legami, nessuno dei quali esclusivamente vincolante a scapito degli altri, “per cui l‟essere vassallo di più signori consentiva di mantenersi neutrali in occasione dei loro conflitti”.259 Questa condizione di neutralità, tuttavia, non coincideva con la “spoliticizzazione” nell‟accezione riduttiva schmittiana, ma era in realtà la stessa libertà di mantenere un‟autonomia di giudizio sulla contesa, che non implicava necessariamente l‟equidistanza e l‟estraneazione dal conflitto, ma la possibilità della sua valutazione sulla base di criteri non meramente opportunistici, ma di natura etica o religiosa. Così le articolazioni locali che persistettero per secoli non furono solo unità politiche e giuridiche, ma soprattutto comunità spirituali, man mano indebolite dal legame ligio (ligesse), che annetteva esclusivamente gli homines ligii al Potere sovrano del re,260 ma non comunque in modo tale da sopprimere il fondamento morale del legame feudale, contratto in ogni

257

Ved. S. Kierkegaard, Aut-Aut, tr. it. in Opere vol. I cit., pag. 156. O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 78. 259 Ivi, pag. 79. 260 Ivi, pag. 86. 258

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caso per giuramento. La stabilità del territorio controllato da un potere militare, o spirituale nel caso del clero signorile, veniva garantito sia dalla stanzialità, che divenne un requisito della libera cittadinanza, che dalla pacificazione interna conseguente al riconoscimento del ruolo egemone del potente che lo deteneva. La pace sociale, e la progressiva riduzione delle faide familiari tra potenti locali, fu dunque ottenuta attraverso un mutuo riconoscimento dei ruoli sociali, il cui principio razionale fu di tipo morale, la fedeltà, che funse da collante etico consociativo. Nella struttura ordinamentale delle antiche poleis tale principio razionale fu di tipo politico, per cui, diversamente che nello Stato romano, ove il godimento dei diritti politici veniva dissociato da quello dei diritti civili, il legame tra l‟aspetto giuridico e quello della cittadinanza erano indissolubilmente legati, nel senso della funzionalità dell‟attività giuridica alla vita politica.261 Il principio razionale era pertanto lo stesso criterio di valore politico, per cui anche i referenti normativi di tipo mitico-tradizionale finirono per diventare “un criterio di valutazione dei nòmoi positivi”, identificati soprattutto a seguito della dottrinarismo sofistico, con “le regole di condotta poste dal potere politico all‟interno delle varie organizzazioni sociali”.262 Analogamente, la plenitudo potestatis fu conseguita nel tardo Medioevo sottoforma di “istituto giuridico, dotato in quanto tale di un proprio meccanismo logico idoneo a governarne l‟attuazione nella pratica”, il quale “traduceva sul piano teorico uno degli avvenimenti più grandiosi del basso Medio Evo: la nascita e il rapido imporsi degli assolutismi, destinati a caratterizzare fino alla Rivoluzione francese la struttura politica dell‟Europa”.263 La relazione, dunque, tra sovranità politica ed effettualità del Potere fu risolta sul piano normativo nei termini di una sintesi logico-giuridica di due potestates, quella plena e quella ordinaria, concepite come antitesi dialettiche e non già come il riflesso sociologico di distinte condizioni etico-politiche. La razionalizzazione giuridica di concrete situazioni 261

L. Gernet, Diritto e civiltà in Grecia antica, Milano, 2000, pag. 38. M. Bretone-M. Talamanca, Il diritto in Grecia e a Roma, Roma-Bari, 2015, pag. 62. 263 E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma, 1966, pag. 120. 262

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storico-sociali, ai fini di una comune statuizione di valore erga omnes del Potere sovrano universale, si determina attraverso una trascrizione idealistica di concrete condizioni esistenziali, concepite come enti astratti di ragione prodotti dall‟immaginario giuridico dei canonisti del sec. XIII, intenti a teorizzare l‟assolutezza del Potere, sia di quello papale verso quello secolare, che quello monarchico verso le autonomie locali. Ma proprio il legame morale di fedeltà, che legava le singole comunità rurali o cittadine al loro signore, consentiva, come accennato, una certa libertà politica, soprattutto a quei comuni che meglio si erano provvisti di una congrua organizzazione amministrativa, in grado di contrapporsi alle pretese concorrenti del sovrano. Lo stesso legame associativo delle comunità urbane veniva suggellato da un giuramento costitutivo dell‟alleanza etico-politica (conjuratio),264 che fu l‟antesignano storico del contratto sociale e del potere costituente. Propria alla condizione politica è la determinazione polemica, e quindi l‟evenienza bellica come polo dialettico della sua dinamica, laddove la finalità strutturale della condizione civile è la pace, requisito essenziale dello sviluppo dei commerci e delle relazioni economiche. Paradossalmente, il massimo del Potere politico coincide con l‟equilibrio di pace in cui si nega la sua essenza polemica, comportando che il suo finalismo intrinseco è di negare ogni opposizione, e dunque la ragion stessa della sua effettualità, cioè di annullarsi. Questo rischio, immanente a ogni posizione politica consolidata nello status di Potere, tradizionalmente veniva scongiurato attraverso guerre espansionistiche o predatorie unitive all‟interno quanto divisive verso l‟esterno. Nello Stato razionalizzato moderno, la cui amministrazione è consolidata da una vincolante struttura giuridica, il rischio viene invece scongiurato attraverso lo spostamento del referente dialettico dal piano politico a quello sociale, assumendo elementi della società civile come determinazioni oggettive del contropotere, lottando contro le quali il Potere giustifica razionalmente la sua persistenza. Questa risoluzione paradossale, aumentando a dismisura l‟arbitrarietà del Potere nella individuazione dei suoi termini polemici giustificativi, incrina l‟assetto razionalizzato della sistematica

264

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 98.

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negazione politica del nemico, trasferendo nella dinamica sociale il proprio dell‟essenza politica, ovvero il polemos. L‟economicismo moderno, di conseguenza, pur essendo, secondo l‟intuizione di Schmitt, l‟esito della progressiva neutralizzazione dello Stato politico, non segna la fine del politico in quanto tale ma soltanto ne trasferisce l‟essenza polemica nel dinamismo sociale come attivismo economicoproduttivo. Il Mercato, quale luogo fenomenologico delle dinamiche economiche moderne, è la dimensione mimetica dello spirito del politico, emendato di ogni afflato teleologico, sia trascendente che immanente. Il fine trascendente era costituito dal Bene, che in senso filosofico era quello etico della polis, conseguibile attraverso l‟adozione di misure normative razionali, mentre in senso cristiano era quello spirituale, di natura escatologica, soggetto alla normativa morale. Finquando lo strumento razionalizzatore del diritto poté mediare tra le due istanze trascendenti, fornendo i paradigmi teoretici sia alla normativa teologica della Chiesa che a quella etica dello Stato, la coesistenza tra i due poteri istituzionali fu garantita dalla comune fruizione metodologica. Ma allorché la costituzione statuale assolutistica si emancipò da ogni destinazione trascendente del Potere, la stessa struttura giuridica ne risentì in senso politicistico, servendo non più un fine di giustizia ma la causa dello Stato. Infatti, come chiarisce Schmitt, Una comunità internazionale fondata su Stati indipendenti ha il nocciolo del suo ordinamento concreto nel fatto che sono Stati autonomi quelli che formano questa comunità, non altre formazioni […] che sono prive della qualità di Stato. Il diritto internazionale presuppone in ogni Stato un minimo di organizzazione statale interna ed una capacità di resistenza esterna. L‟autonomia e l‟indipendenza statale si dimostra nel fatto che lo Stato con propria decisione e a proprio rischio fa o non fa la guerra, cioè in guerra resta terzo neutrale.

Ciò vuol dire che la costituzione politica dello Stato coincide con la sua stessa destinazione politica, a esclusione di ogni altra. Non c‟è, per Schmitt, uno Stato che non sia politico, ossia predisposto per la guerra, il cui fine è di affermare se stesso, la propria potenza. La conseguenza è che la legittimità della guerra è fornita non dal suo fine razionale, etico, ma dal fine statuale, dalla circostanza, cioè, che sia lo Stato a volerla. 155


La guerra ha il suo ordinamento e la sua giustizia internazionale nel fatto che da entrambi i lati sono gli Stati [assunti qui dunque come organismi anche eticamente autocratici] a fare la guerra l‟un contro l‟altro. [Dunque è la situazione di fatto – la guerra statale – a stabilire il criterio di diritto.] La guerra fra Stati è quindi una guerra fatta da un ordinamento contro un altro ordinamento [sovrano], non una guerra di un ordinamento contro un sottordinamento. [La conclusione logica del ragionamento è che] le guerre quindi da entrambi i lati sono egualmente giuste dal punto di vista del diritto internazionale, ma solo perché e fintantoché da ogni lato è presente uno Stato.265

Il diritto internazionale, secondo la prospettiva di Schmitt, è l‟ambito della pura fattualità, lo scenario moralmente neutrale in cui si svolge l‟agonismo degli Stati, gli unici depositari dei valori etici; ma non in senso hegeliano di detentori dei valori religiosi nazionali, ma in quanto organismi politicamente strutturati, ossia giuridicamente razionalizzati. Lo Stato schmittiano è pertanto modellato sul paradigma della polis greca, che è l‟ispirazione ideale di ogni forma politica assolutamente autocratica. Ma ciò che qui rileva ai fini del nostro discorso è che la destinazione immanentistica dello Stato di diritto non è inscritta nella sua costituzione materiale, legata cioè alle dinamiche sociali che sottendono la sua realtà istituzionale, inevitabilmente pluralistica, ma in quella formale, tesa per sua natura logica ad assorbire ogni autonomia entro l‟alveo della legalità razionalizzata. Lo Stato razionale si forma, sin dalle origini, come Stato di diritto, in cui la ricerca della certezza della vigenza del Potere legale ispira la codificazione, l‟unità legislativa, che può garantire l‟unità del comando.266 Razionalità, unità e universalità sono dunque aspetti di una stessa esigenza strutturale del Potere di costituirsi come istituzione di dominio, sacrale e/o politico, esclusivo. In ambito religioso, la guerra assunse un significato missionario, che come posta morale aveva il “compito cristiano” di diffondere la verità custodita dalla Chiesa, e come riscontro mondano aveva la conquista territoriale, che assunse un valore di testimonianza

265

C. Schmitt, Neutralità e neutralizzazione (1939), tr. it. in Posizioni e concetti, cit., pag. 474. 266 M. Bretone-M. Talamanca, Il diritto in Grecia e a Roma, cit., pagg. 115-117.

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operativa della fede. Non fu difficile estrapolare, entro l‟orizzonte di coscienza cristiano, le vicende della vita terrena dal loro significato religioso, e conseguentemente dalla loro valutazione morale, sicché si poté pervenire anche per questo verso alla “coesistenza parallela e conflittuale” di due sfere culturali distinte ed egualmente cristiane, quella teologica dei chierici, confermata dalle virtù teologali, e quella cortese-cavalleresca della nobiltà, custode di un‟etica bellica ispirata alle virtù aristocratiche classiche recepite come espressione mondana delle virtù cardinali cristiane.267 La natura aristocratica ed elitaria del modello di vita cavalleresco si definiva in negativo attraverso il confronto con gli stili di vita dei ceti urbani e soprattutto di quelli contadini, caratterizzati da tenaci e radicate persistenze di forme culturali pagane, per cui la stessa portata esclusiva della sua spiritualità ne determinò i limiti della vigenza nei ranghi altolocati come etica dell‟onore, e la sua penetrazione nei ceti intellettuali come prodotto letterario, la cui particolarità diede origine a partire dal sec. XII a tradizioni nazionali in lingua volgare. L‟aspirazione a un Potere unitario di carattere e di cultura nazionale, tuttavia, non avrebbe potuto sortire un duraturo ideale se non fosse stato supportato da una prospettiva esistenziale comprensibile ed elementare quale era quella della pace, che il sovrano doveva garantire a ragione del suo proprio ruolo egemone nella difesa del diritto comune contro i varii diritti tradizionali locali (che pure non scomparvero del tutto, ma anzi furono riconosciuti anche dalle monarchie consolidate sotto forma di Landtage o di parlamenti rappresentativi degli stati generali, in quanto organismi rappresentativi della “nazione”, ossia del “popolo” in senso politico).268 Pace significava essenzialmente difesa dei deboli dalla potenza dei forti, e perciò rappresentava un concetto morale di limitazione – sia pure indotta - del potere umano di fronte alla debolezza del simile, in senso del tutto contrario a quella belluina “legge naturale” di prevaricazione che per Tucidide era insita nell‟animo umano. La monarchia rappresentava perciò non solo una istituzione politica

267 268

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pagg. 128-129. O. Brunner, Op. cit. pagg. 143 e 146 sgg.

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tradizionale ma soprattutto l‟immagine stessa del Governo unitario della pacifica consociazione delle diverse realtà locali, altrimenti rivali e potenzialmente in lotta. In tale direzione unitaria di pacificazione universale si muoveva tanto l‟anelito religioso della Chiesa romana cattolica, che il proposito regio di superamento dei diritti territoriali, sia attraverso istituzioni giuridiche efficaci che di un apparato amministrativo in grado di supportare anche finanziariamente il potere centrale superiore a quelli locali. Elias ha insistito sul “meccanismo di sviluppo della società occidentale”, costituito dalla attribuzione di poteri locali da parte del Potere sovrano a suoi vassalli e tendenza autonomistica dei signori territoriali nei confronti della autorità della corona.269 Questa dinamica storica, che Elias considera “un processo permanente” e non solo dunque “del primo Medioevo”, giocata esclusivamente sul piano dei rapporti di forza e bellici, nondimeno non costituisce che l‟elemento critico ed economico-politico della relazione vassallatica, ma non già quello etico relativo alla condizione di pacificazione territoriale e generale tra le signorie del regno. Tale sconsiderazione del motivo morale inerente al Governo del Potere è dovuta all‟introiezione dello storico della teoria polemologica della politica come mera lotta per il potere. La insuperabile debolezza di tale teoria è che non spiega se non tautologicamente con il suo indebolimento le ragioni della perdita del potere ottenuto per via di forza; perdita che è sempre legata alla natura inconcludente di un vuoto dinamismo che non si risolve in un principio trascendente, che trascenda appunto la forza del Potere nell‟autorità morale del Governo, ossia della sua giusta amministrazione. Non conseguendo il fine del Governo, il Potere non dura e decade, richiamando altro potere: questa la sua debolezza. Quanto al rapporto tra “forma economica” e relativo “apparato di potere”, la tesi per cui “finché nella società [feudale] prevalsero rapporti propri di un‟economia naturale, non fu possibile creare una burocrazia rigidamente centralizzata, un apparato di potere stabile che operasse con mezzi di preferenza pacifici e fosse costantemente diretto dal centro”,270 può spiegare l‟inesistenza del desideratum ma non la

269 270

N. Elias, Potere e civiltà, tr. it. cit., pag. 25 passim. Ivi, pag. 36.

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decadenza una volta realizzatolo. Conseguire infatti il Potere non equivale a riuscire a governarlo. Questa la ragione della decadenza di ogni Potere, anche il meglio strutturato in senso burocraticostatalistico, che sia privo della virtù di Governo. Le ragioni economiche sono immanenti ai fini morali, ma senza questi la forza del Potere è cieco e instabile, ha bisogno di continue prove di forza, di scontri, di conquiste e di nemici, anche interni, sicché la concorrenza tra ragioni economiche antagoniste non cessa se non votandosi a una ragione superiore e trascendente. L‟idea che tale ragione superiore alle forze minori fosse lo Stato, si è rivelato un mito, sia pure dopo secoli di perfezionamento sistemico. Il mito dello Stato coincide storicamente con la costituzione di una struttura istituzionale razionalizzata che fosse in grado di sminuire eliminandole progressivamente dallo spazio pubblico le forme tradizionali di socialità spontanea relative ai rapporti naturali tra gli uomini funzionali localmente alla loro sopravvivenza biologica, con forme di tipo razionale in grado di garantire il massimo controllo della vita sociale e la perpetuazione delle condizioni di potere del governo centrale. Rispetto alle forme naturali, quelle razionali emancipavano la modalità relazionale interna alla società dai pregressi vincoli di tipo personale e carismatico, sostituendole con ruoli funzionali alla struttura di Potere. L‟ipotesi di poter sovvertire l‟ordine spontaneo o naturale della società con un ordinamento ideale è chiaramente di origine razionalistica greca, mentre romano è il retaggio strumentale del diritto. L‟istituzione di una organizzazione burocratica è correlativa alla razionalizzazione dell‟autorità dello Stato. Ma lo stesso principio di autorità vassallatica, emendato di ogni rapporto carismatico personale, e venendo collegato alla astratta funzione potestativa, non è più garantito da alcun fondamento sacrale, e perciò esposto a una valutazione di mera convenienza che inficia l‟originario rapporto fiduciario. Questa situazione, però, non viene superata dalla burocratizzazione del Potere, in quanto “affinché la burocrazia operi con successo, è necessario che essa raggiunga in alto grado un comportamento responsabile” che può essere conseguito solo attraverso una ”disciplina” non diversa da quella religiosa o militare, la quale a sua volta “può esistere effettivamente solo se i moduli ideali [di comportamento] sono sostenuti da forti sentimenti”, tra i quali, oltre alla “devozione al proprio dovere”, è essenziale “un‟acuta percezione 159


dei limiti della propria autorità e competenza”.271 Tale “sentimento dei limiti” non è fornito dal sistema gerarchico bensì dal principio di gerarchia, alla cui fedeltà è demandato l‟atteggiamento etico dei funzionari. L‟aspetto mitico della credenza razionalistica è che tale sentimento etico possa essere ispirato dal sistema statuale stesso come “religione civile”, non considerando che ogni ideologia di Stato dipende dalla forza che lo Stato ha di imporla come fonte di legittimazione del suo Potere, ma non può legittimarlo preventivamente. Una legittimazione del Potere che sia a un tempo originaria e costitutiva del suo limite, non può che essere morale e trascendente la sua effettualità. Solo questa fonte indipendente dal Potere può garantirlo sia contro ogni minaccia usurpatrice che dalla sua auto-consuntiva decadenza. E‟ la condizione morale a giustificare e quindi finalizzare l‟azione economica. Un caso significativo della relazione tra economia e morale è rappresentata dalla colonizzazione delle crociate, il cui “impulso principale” si è detto “scaturì dalla carenza di terre dei cavalieri”.272 Questo fu senza dubbio la ragione economica dell‟impresa orientale, ma resta che essa fu dettata, prima ancora che dalla giustificazione religiosa, dall‟esigenza di affermare uno stile di vita signorile, proprio al ceto cavalleresco e non confondibile con le condizioni di adattabilità economica dei senza terra plebei, più esposti al mimetismo socioculturale attraverso la differenziazione del lavoro,273 che non trascendeva la sfera dei bisogni naturali. Ciò è tanto più vero considerando che “la dinamica specifica” dell‟accaparramento di terre disponibili “non mise in moto soltanto i meno favoriti” tra i cavalieri, ma “anche coloro che possedevano terre”, col fine di avere “più potere, cioè una maggior forza sociale”274 che consolidasse la loro posizione egemone. Ciò significa dunque che lo stesso potere funzionale al controllo sociale è lo strumento economico per realizzare il fine morale, che, non interpreto iuxta sua propria principia, può apparire

271

R.K. Merton, Social Theory and Social Structure (1949, 19683), tr. it. della III ed., Bologna 1983, vol. 2, pag. 409. 272 N. Elias, Potere e civiltà, tr. it. cit., pag. 57. 273 Ivi, pag. 62. 274 Ivi, pag. 58.

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come “ambizione personale” del signore. In ogni caso, proprio perché persistente nel variare delle condizioni economiche con cui la si voglia storicamente garantire, tale “ambizione” le trascende, e perciò stesso le giustifica eticamente. Che tale giustificazione debba essere razionale, ossia di significato universale, perché sia considerata valida, è un pregiudizio culturale, che non inficia il fondamento fideistico di quella posizione etica, sicché per il suo riguardo conquistare più terre significava espanderne la realizzazione, oggettivare l‟ideale dandogli forma sensibile, ossia civilizzare la condizione naturale trasformandola in mondo simbolico, riconoscibile come prodotto umano simile al modello ideale. Che il rispecchiamento simbolico dovesse avere significato razionale, riguardava solo la credenza razionalistica nella natura, appunto razionale, del suo fondamento ontologico, la cui intuizione restava però sempre una verità di fede. I mutamenti interni alla struttura sociale, quando non sono più il prodotto della correlazione originaria dell‟aspetto latu senso normativo (valori, stili di vita, motivi etici e religiosi) con le funzioni economiche di supporto (politiche, militari, finanziarie), intervengono in senso tendenzialmente eversivo dell‟ordine stabilito, ossia a detrimento di quella “pace” che nasce dall‟armonia esistenziale di quegli elementi. Lo diventano effettualmente, non in conseguenza della diversificazione economica interna alla sfera del lavoro, ma allorquando la razionalizzazione del sistema di Potere tende a renderli indipendenti da ogni relazione esistenziale. Questa è stata la tendenza interna alla modernizzazione delle forme di società medievali, che ha comportato, per un verso, un aumento crescente di instabilità socio-economica, e dall‟altro l‟esautoramento delle élites politico-culturali da ogni posizione privilegiata legata al suo tradizionale ruolo di mediazione tra valori condivisi e prassi sociale. In un sistema razionalizzato, pertanto, l‟ideale della “pace” è soppiantato da quello dell‟ “equilibrio dei poteri” che fanno a capo al sovrano, il quale, non potendo eliminare le dinamiche conflittuali interne al sistema, da esso stesso create, cerca di neutralizzarle. All‟uopo, la creazione di uffici dipendenti direttamente dal sovrano e da questi revocabili, che soppiantavano i distretti regi delle antiche contee, costituivano, sul modello ecclesiastico, il reticolo burocratico di quella embrionale struttura che sarà così caratteristica degli Stati moderni. Soprattutto il ceto dei giuristi svolse, nell‟ambito dell‟amministrazione regia, un ruolo notevole anche in merito alla 161


secolarizzazione della cultura, emancipando il diritto civile dai suoi fondamenti sacrali, antesignano del moderno “diritto borghese”. Il passaggio simbolico del Potere dalla proprietà della “terra” - che fungeva nel Medioevo da principio unitario a sua volta sostitutivo quello antico del “mare” -,275 al governo dello Stato, segna anche il grado di astrazione della struttura sociale da forme organiche di comunità esistenzialmente integrate a condizioni formali di convivenza, conseguenti allo status della cittadinanza politica, razionalmente indipendenti da ogni interrelazione esistenziale. In una società dalla struttura di Potere tendenzialmente anonima, il valore simbolico immanente alle relazioni sociali è il denaro, la cui funzione significativa276 vieppiù sostituisce nell‟immaginario collettivo i segni religiosi della Grazia divina. L‟essenza significativa della simbologia monetaria è appunto la destituzione di valore trascendente di ogni tradizione ermeneutica costruita sulla ricerca di un senso univoco del linguaggio attraverso il superamento del suo contingente uso polisemico, ossia l‟emancipazione del valore economico del denaro dall‟interferenza condizionante di ogni forma istituzionale di carattere culturale atta a frenare, per la intrinseca destinazione unitaria della sua rappresentazione sociale, la mobilità del corso monetario, simbolicamente espressiva di quella sociale. Orbene, la mobilità sociale è la condizione idealmente opposta alla stabilità dell‟ordine politico razionalizzato. Infatti, il processo generale di razionalizzazione della società comporta che la struttura istituzionale che ne è il prodotto sia a sua volta anche il produttore di senso, appunto, razionale, tale che i comportamenti socializzati, cioè sistemicamente omologati, siano riconoscibili come conformi al principio di ragione che ne sostiene l‟architettura. Riconoscibilità e razionalità dei comportamenti sociali 275

“Indubbiamente il mare per l‟Impero romano fu, nello stesso tempo, la base della sua unità politica ed economica”: H. Pirenne, Le villes du moyen age, cit. da N. Elias in Potere e civiltà, tr. it., pag. 79. 276 Per “funzione significativa” intendiamo con Husserl quella in cui “il segno ed il designato non hanno niente a che fare l‟uno con l‟altro”, per cui “ciò che funge come designante non viene interpretato per quel che è in se stesso, secondo quegli schemi interpretativi che gli converrebbero in quanto oggetto a se stante del mondo esterno”, ma secondo “schemi interpretativi che convengono all‟oggetto designato”: A. Schuetz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (1960), tr. it., Bologna, 1974, pag. 170.

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sono aspetti di una stessa condizione strutturale, entro la quale è possibile stabilire relazioni sistemiche, cioè prevedibili, e quindi necessarie e non opzionali, da parte del Potere garante dell‟ordine, che le fissa in una griglia normativa tipizzata. Per tale essenziale ragione, l‟aumento della circolazione monetaria interna all‟ente politico unitario, determina un movimento politicamente destabilizzante, ben più pericoloso di ogni tradizionale e circoscritta manifestazione antistrutturale che la religione poteva neutralizzare in senso ludico. L‟intensificazione dunque dei rapporti e dei traffici interni alla società feudale, spinsero l‟autorità sovrana a compensare la maggiore mobilità e la crescente labilità dei rapporti vassallatici con un‟istituzione razionalizzatrice di carattere etico-politico unitario, quale andrà ad essere lo Stato moderno.277 Sia la cultura che l‟esigenza politica che l‟identità nazionale conversero verso una oggettivazione dell‟ideale unitario, proprio della cultura medievale,278 che nello Stato trovò il suo referente statutario, a un tempo istituzionale e mitologico, in cui esprimere l‟aspirazione a una totalità mondana e antropocentrica che assommasse in sé, alla maniera antica, l‟organismo sociale vivente e, alla maniera cristiana, una comune unità spirituale. Le singole componenti di tale unità trina secolare, richiamavano una reciproca corrispondenza che integrava le loro distinte universalità in una forma comunitaria concreta impersonata appunto dallo Stato, che integrandole le trascendeva. Separate da tale forma statuale concreta, ognuna di esse rappresentava sì un ideale, dotato di un suo fondamento razionale, ma privo di ogni corrispondenza esistenziale che soltanto nella loro unità poteva pienamente corrispondere storicamente al suo modello teorico totalitario. Infatti, una cultura senza tradizioni nazionali finiva per diventare una astratta stilizzazione intellettualistica di reperti documentarii compendiati da una erudizione sistematica ma

277

Ciò non vuol dire che nella polis arcaica o nell‟Imperium romano non sussistessero tutti gli elementi presenti nello Stato moderno, ma essi erano in una fase embrionale e non razionalmente oggettivati come idealmente distinti e socialmente indipendenti dall‟organismo politico unitario, lo Stato appunto, che diventa modernamente il termine polemico della loro indipendenza. 278 O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 157.

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meramente accademica. Una realtà sociale mutilata dalla sua esperienza politica decadeva a sua volta in un contesto “civile”, fruttuoso dal punto di vista commerciale ma, come abbiamo visto, non pacificato e perciò abbisognevole di essere garantito dall‟ordine politico al quale si era illusoriamente sottratto, essendo storicamente comprovato lo stretto collegamento tra potere statale e vita economica.279 Infine, la stessa identità nazionale, orbata dei suoi referenti spirituali e universali, decade a una retorica declinazione di motivi patriottici, privi però di ogni risonanza etica che non sia funzionale alla propaganda di un Potere demagogico e imbonitore che svilendoli li umilia. Ma l‟anelito stesso alla loro interconnessione spirituale, la cui comprensione a ragione Schmitt riportava alla concreta esperienza esistenziale dell‟orizzonte politico,280 tradiva la modalità precipuamente occidentale di far coesistere l‟intuizione mistica dell‟unità con la conoscenza razionalmente distintiva dell‟universale, cercando di dialettizzare le due diverse e irriducibili dimensioni ontologiche attraverso la loro rispettiva riduzione omologante dell‟una all‟altra, finendo così per mancare sia l‟intento teorico di un pensiero concettualmente esaustivo, che il risultato pratico di edificare la forma reale di Stato ideale. Infatti, l‟assimilazione logica dell‟ordinamento divino a quello statale sacralizzato in una summa legibusque soluta potestas, secondo la nota definizione della sovranità di Bodin, sottraeva il diritto positivo alla sua fonte superiore e non arbitraria di legittimità morale, incrinando di conseguenza lo stesso principio gerarchico sul cui fondamento ontologico si ordinava razionalmente l‟organismo socio-politico, schiudendo la strada alla concezione neo-pagana della politica come lotta per il Potere, anziché come servizio etico funzionale al Governo morale.281

279

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 163. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizazioni e delle spoliticizzazioni, tr. it. cit., pag. 204. 281 Assegnando la decisione sovrana al principe, è bastato cambiare la sua titolarità nell‟assegnarla al popolo, per sovvertire l‟ordine gerarchico tradizionale in senso democratico, senza con ciò alterare il principio della sovranità come Potere assoluto, esonerato da ogni trascendente mandato morale, e perciò “illimitato”, privo cioè di limiti morali. In questa risoluzione mondana del Governo (jus) nel Potere (lex) è il 280

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Se dal punto di vista storico l‟esito totalitario dello Stato di diritto moderno appare solo una possibilità eventuale, che non si è realizzata ovunque e con la stessa modalità e intensità, dal punto di vista logico quell‟esito era intrinseco alla sua costituzione teorica, sicché quanto stigmatizzato dal punto prospettico razionalistico circa la realtà frastagliata della sovranità feudale, da una visuale ideologicamente disincantata la coesistenza medievale dei poteri appare una risorsa liberale e un antidoto all‟arbitrio di un Potere assolutistico. E proprio tale costruzione unitaria sia di senso razionale che di forma eticopolitica rappresenta il lascito durevole della cultura medievale all‟età moderna, che ne ha acquisito il retaggio ideologico perfezionandolo in senso universalistico e immanentistico. In tal senso, l‟elemento mitico comune, interno anche alla mito-logia statalistica moderna, è l‟ipostasi dell‟unità ideale come Bene, il cui valore teoretico è interpretato dall‟universalismo razionalistico, che nello Stato totalitario diventa realtà. Infatti, l‟ideale etico dello Stato diventa lo Stato stesso quale ente universale, la cui manifestazione poietica è la volontà del Potere. Proprio in quanto entità ipostatizzate, gli Stati affermano la propria volontà universale negando l‟omologa universalità degli altri Stati, e tale dialettica di affermazione-negazione è appunto la guerra. La concezione “cinetica” della storia, basata sulla concezione realistica della politica e di cui, alla stregua di Hobbes, si fa interprete moderno Schmitt, risale a Tucidide, il quale ritiene appunto che la storia non sia che la manifestazione della lotta per il potere, al quale sarebbero votati gli uomini per una insuperabile legge di natura.282 Nel famoso dialogo degli Ateniesi con i Melii (V 105) egli riporta infatti l‟affermazione dei

senso politico dell‟umanesimo secolaristico, che la modernità porta a maturazione ma che si annidava, come giustamente asserito dal Brunner, nella ideologia della cultura medievale. Nella tensione tra questi due princìpi andrebbe intesa la lotta tra papato e impero, che assume però storicamente l‟aspetto di una lotta per il Potere in quanto la stessa auctoritas religiosa fruisce degli stessi strumenti teorici della potestas politica, avendoglieli forniti attraverso l‟elaborazione canonistica e l‟ intellettualismo della teologia tomista. La formula del rex imperator in regno suo traduce appunto l‟assimilazione dell‟auctoritas imperiale di origine divina alla potestas regale di esercizio secolare. All‟affermazione del principio del Governo mirava la teoria monarchica di Dante, che la Chiesa contrastò intendendola con le categorie politologiche del razionalismo medievale. 282 Tucidide, La guerra del Peloponneso, III 45, 3.

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primi per cui “gli uomini, quando posseggono il potere, lo esercitano per impulso naturale”, a imitazione degli dèi, dai quali dunque non devono attendersi alcuna ritorsione di carattere etico.283 L‟indifferenza verso l‟etica e il richiamo alla legge di natura, non voluta dall‟uomo ma ricevuta per retaggio ancestrale dai suoi impulsi primevi, trova la sua legittimazione nella concezione naturalistica caratteristica della Weltanschauung greca, la quale appunto pone l‟orizzonte politico come la dimensione intrascendibile della storia umana. Questa visione, che il pensiero moderno recupererà attraverso il razionalismo classico in chiave di ciò che Taylor definisce “umanesimo esclusivo” o “autosufficiente”,284 si fonda sulla inconsiderazione di ogni possibilità di trascendimento della realtà sociale, e quindi dell‟ente collettivo popolo o polis o Stato, le cui dinamiche obbediscono a leggi non scritte e originarie alle quali l‟uomo dovrebbe conformarsi per il suo benessere politico. La prospettiva meccanicistica che essa presuppone e ispira viene ribadita dal razionalismo moderno con la teoria cartesiana della res extensa e, in ambito giuridico, della “conformità” (convenientia) a un diritto naturale, che per Grozio è proprio della natura razionale dell‟uomo. 285 La fede creazionistica non smentisce questa prospettiva naturalistica ma col Cristianesimo la restringe alla dimensione collettiva, alla socialità e alle sue forme politiche, che costituiscono il retroterra soteriologico della apocatastasi spirituale, conseguente a una metanoia individuale. La novità introdotta dalla fede cristiana è esattamente la possibilità di trascendere la dimensione politica, assegnando ad essa la sola realtà contingente e transeunte, e come tale priva di valore escatologico. Il suo messaggio salvifico annuncia che l‟intrascendibilità della sfera socio-politica, proprio perché legata alla dimensione naturalistica del bios, è dovuta alla inconsapevolezza della verità, ossia della conoscenza della realtà metafisica. Ed è su questo presupposto cognitivo, o gnostico, che avviene il recupero ellenisticocristiano della tradizione metafisica platonica e, nel Medioevo, della 283

Ved. K. Meister, La storiografia greca. Dalle origini alla fine dell’Ellenismo (1990), tr. it., Roma-Bari, 1992, pag. 65. 284 Ch. Taylor, The secular Age, tr. it., cit,, pagg. 34-35. 285 U. Grozio, De jure belli ac pacis libri tres (1639), I, Introd., § 10, cit. da Ch. Taylor, Loc. cit., pag. 168.

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tradizione metafisica aristotelica da parte della teologia tomista. Il modello, non solo teorico ma giuridico-istituzionale, di autorità ierocratica unica su un pluriverso frastagliato di poteri locali e di Stati feudali è la Chiesa, che tra i secc. XI e XIV ricercò una sua indipendenza “sia come potenza spirituale che all‟interno dello Stato della chiesa”.286 La sua curia da Roma amministrava in forma centralizzata i suoi uffici periferici, che rispondevano a un‟unica “suprema sovranità legislativa, giudiziaria e amministrativa”, quella del papa. Il papato, in conseguenza della sua potestà universale, non soltanto divenne “la principale potenza finanziaria occidentale”, che distribuiva ingenti risorse ai poteri secolari locali suoi alleati, ma sviluppò una scienza giuridica che assolse al compito di rendere il diritto canonico lo strumento più funzionale alla sua egemonia in Occidente.287 Ma, così come fu difficile instaurare un regime vassallatico unico che fosse anche omogeneo in realtà particolari e spesso rivali, parimenti lo fu per i principi cristiani locali poter stabilire un regime autocratico in materia spirituale, sicché le due sfere, religiosa e mondana, avendo ognuna pretesa universale, finirono per distinguere il rispettivo ambito di competenza e riconoscersi vicendevolmente.288 Se infatti le circoscrizioni ecclesiastiche poterono sostenersi grazie al patrimonio signorile locale in cui erano inserite, le autorità secolari beneficiarono a loro volta del patrimonio ecclesiastico attraverso il controllo governatorale di cui godevano sui beni degli istituti religiosi del loro territorio. Questo intreccio di interessi mondani e religiosi fu propiziato dall‟origine nobiliare dell‟alto clero, i cui esponenti, fino alla Rivoluzione francese, ricevevano prestigio aristocratico ai ruoli religiosi offrendo nel contempo prestigio morale alle casate di provenienza. Per tal via il clero andò a costituirsi come “un ceto accanto agli altri”, entro il quale il “prelato” “arrivò a detenere uno status non solo all‟interno della chiesa, ma anche in quel mondo dal quale la chiesa stessa era separata”.289 286

O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 109. Ivi, pagg. 113-116. 288 Ivi, pag. 110. 289 O. Brunner, Sozialgeschichte, tr. it. cit., pag. 112. “Con la Rivoluzione francese l‟antica società aristocratica perde definitivamente quello che era stato il suo punto di 287

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Questa promiscuità di condizione sociologica si riflesse sia negli istituti giuridici, che assunsero vieppiù uno statuto epistemologico autonomo rispetto alla originaria finalità ecclesiastica, che nel campo delle relazioni propriamente politiche, nel cui ambito l‟accezione di libertas, dall‟originario senso ecclesiale di “scioglimento dai legami di subordinazione da potenze mondane”, passo a indicare la condizione di affrancamento da ogni forma di Potere avvertita come illegittima. Questa istanza di legittimità spostava il referente normativo dal piano istituzionale, compreso quello ecclesiastico, al piano superiore della coscienza, o in senso storico degli usi e costumi sociali tradizionali, ovvero in senso trascendente della lex evangelica, che poteva fungere anche da ispirazione di movimenti ereticali in lotta contro la mondanizzazione della Chiesa (libertas ecclesiae). In ogni caso, il conflitto tra i due piani di coscienza, quello politico e quello religioso, si riflesse anche all‟interno della sfera teologica in termini di una sistemazione razionale dei fondamenti della fede a garanzia dell‟accertamento canonico dell‟ortodossia. Il massimo prodotto teoretico di tale razionalizzazione dei fondamenti della fede cristiana fu la scolastica, il cui intellettualismo spianò la strada metafisica all‟autonomia della ragione dalla fede. 9. Nell‟età dell‟assolutismo la “forma di sovranità esprime un mutamento strutturale dell‟intera società occidentale”,290 che abbiamo sopra indicato come il passaggio dall‟ idealismo della pace a quello dell‟equilibrio dei poteri. Infatti, quanto più cresce l‟interdipendenza tra settori sociali e commerciali, e l‟uso conseguente del denaro, “tanto più strettamente gli strati superiori di non lavoratori, guerrieri o nobili, vengono a dipendere dagli strati inferiori o medi. […] L‟ascesa di strati borghesi è appunto espressione di questa situazione”, in cui anche l‟aristocrazia sociale viene inserita “nel circuito della divisione del lavoro”, creando le premesse del processo capitalistico tipico dell‟Occidente.291 Il mutamento, per cui “né i re né i duchi né tutti gli

riferimento”, ossia il modello di “società di corte”, che in quella di Parigi aveva la sua origine storica e il suo centro di irradiamento. Ved. N. Elias, Potere e civiltà, tr. it. cit., pag. 11. 290 N. Elias, Potere e civiltà, tr. it. cit., pag. 8. 291

Ivi, pag. 78.

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altri detentori di ranghi inferiori poterono impedire la graduale trasformazione dei loro servitori in proprietari più o meno indipendenti di feudi”,292 provoca una inversione del senso della relazione eticopolitica; si passa infatti dalla protezione dei deboli da parte del Potere, alla protezione dai deboli, sempre più autonomi economicamente e competitivi militarmente. Il dinamismo socio-economico provoca conflitto, e questo va sedato. Il problema principale del Potere, man mano che procede la sua razionalizzazione, diventa la neutralizzazione dei confitti sociali. L‟antica etica aristocratica della fedeltà degli uomini virtuosi al sovrano, viene progressivamente soppiantata dall‟etica utilitaristica del minor danno tra gente scellerata. Ma le ragioni di tale apparente “automatismo sociale” sono inerenti alla stessa estensione dell‟etica feudale in senso orizzontale, tale che l‟assunzione degli stili di vita originariamente aristocratici da parte di sempre più strati sociali un tempo dipendenti dal ceto signorile, genera per emulazione una riproduzione in scala ridotta delle forme istituzionali culturalmente dominanti. Nasce il “sistema feudale” di relazioni protettive e competitive, suggellate da un giuramento sacrale, sostitutivo del diritto legale, tra singoli signori “nutriti da un pezzo di terra”, e la cui estensione genera “una radicale individualizzazione, rafforzata dalla mobilità e dalla tendenza espansionistica della società”.293 L‟etica individualistica moderna non sarà che il prodotto culturale dell‟assunzione universale del modello aristocratico feudale di libertà. L‟etica aristocratica, universalizzata genera l‟individualismo, che è la forma concettuale astratta di una relazione esistenziale storicamente concreta, fondata su rapporti sociali e personali. Proprio in quanto ideale astratto, l‟individualismo, che presuppone un rapporto egalitario, è la conversione opposta degli originari rapporti signorili, fondati su un principio socialitario gerarchico, stabilito sul sentimento del limite morale al quale era tenuta la volontà dell‟uomo, la sua potenza naturale e virile, che si arrestava sublimandosi in fedeltà signorile o anche in sentimento lirico curtense (courtoisie) di fronte alla intangibile dama; sentimento del limite che costituiva la condizione stessa della

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Ivi, pag. 84. N. Elias, Loc. cit., pag. 85.

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pacificazione e della coesistenza feudale, che verranno intaccate eticamente dall‟utilitarismo individualistico a seguito alla frammentazione territoriale e al dinamismo commerciale concorrente alla economia naturale. Dal rapporto polemico tra singoli razionalmente uguali nascerebbe, secondo la formula contrattualistica moderna, il patto di società garantito da un unico Potere integrativo sovrano, egemone sulle singole parti contraenti. D‟altronde, la stessa “feudalizzazione”, ossia il processo di “disgregazione della proprietà” e il relativo “passaggio della terra dal potere di comando dei re a quello, gerarchicamente graduato, dei guerrieri”, quando diviene principio universale di sovranità locale, astratto dal suo originario fondamento etico di fedeltà signorile e determinato dai nudi caratteri della proprietà terriera, provoca la “reazione di una nuova centralizzazione”,294 provocando quella conversione dell‟astratto ideale nell‟opposto reale che costituisce il movimento proprio di ogni teoria razionalistica della sovranità. Per altri versi, l‟analogia ideale che si può stabilire “tra il rapporto tra i singoli castellani nella società feudale e quello tra gli Stati nella società industriale”295 illumina il senso culturale della teoria polemologica di Schmitt sulle relazioni tra Stati sovrani, espressivi di una “ragione oggettiva” intesa come “eticità concreta”. In realtà il rapporto polemico, tra individui come tra Stati, proprio perché puramente funzionale alla determinazione del rapporto gerarchico tra vincitore e vinto, prelude a un esito pacificatore, che viene assunto come il fine stesso della contesa, e dunque la sua legittimazione morale. In questo senso la condizione di ogni coesistenza pacifica, così come l‟esito di ogni conflitto, è il superamento di ogni contingente egalitarismo polemico e la costituzione di una relazione gerarchica comunemente riconosciuta dalle parti. Dal punto di vista della teleologia irenica, il processo della “civilizzazione”, col suo progressivo intreccio di relazioni e differenziazioni delle funzioni sociali e divisioni del lavoro, rappresenta uno stadio di frammentazione polemica della convivenza sociale, produttore di una caotica dissoluzione che è logicamente opposta alla pretesa razionalizzatrice del Potere statuale invocato a

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N. Elias, Loc. cit., pag. 93. N. Elias, Loc. cit., pag. 91.

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rimedio. La relazione dialettica tra il processo di astrazione crescente dei rapporti sociali dis-organizzati, e l‟intervento sistematico del Potere, caratterizza l‟intera storia della civiltà occidentale, con la sua “creazione di sempre più estese interdipendenze e di sempre più ampie unità di integrazione”.296 Nondimeno, ciò che può apparire una “legge” sociologica, tendente al monopolio del potere da parte di un sola unità sociale,297 è solo la conseguenza dello stesso processo di civilizzazione fondato sul principio polemico dissolutorio di quell‟unità organica della comunità umana che la razionalizzazione statalistica vorrebbe ricostituire su un piano di controllo delle dinamiche sociali, anziché su quello del superamento governamentale delle loro tensioni polemiche. La tendenza all‟unità, che sarebbe immanente al processo monopolistico della forza sociale, non è determinata dalla pluralità contestuali delle forze ma dal misconoscimento (per assenza o per rifiuto) di un principio gerarchico che stabilizzi i rapporti tra le parti fungendo da criterio di legittimità. Questo criterio viene assunto dalla legge nello Stato di diritto; ma anche la normativa legale può essere rifiutata, provocando il conflitto, per cui non è l‟elemento della forza a essere determinante per la stabilità sociale ma il riconoscimento del principio socialitario, che elimina il conflitto. L‟insistenza sull‟elemento della forza nei rapporti sociali presuppone la mancanza di un principio comune di socialità condiviso dai gruppi sociali dirigenti, ossia la condizione pre-civile e hobbesianamente belluina. Ma anche in caso di mancanza, il detentore della forza sociale maggiore, conseguito il monopolio, per diventare ceto di Governo, deve tendere ad affermarne un principio gerarchico che legittimi la sua posizione di dominio. Solo nel caso in cui tale principio unitario sia creduto trascendente il mero esercizio della forza, è possibile superare la fase conflittuale e giustificare il sistema gerarchico delle relazioni sociali instaurando un Governo stabilizzatore. In tal senso le classi dirigenti di un sistema integrato sono quelle che rappresentano il principio di socialità dominante, incarnandolo nel loro ruolo di Governo sociale. E, nello stesso senso, si può dire che le lotte per il Potere monopolistico diventano religiose quando finalizzate ad

296 297

N. Elias, Loc. cit., pag. 122. Ivi, pagg. 137-138, 146-148.

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affermare un principio unitario di socialità, mancando il quale non vi è un assetto stabile di Governo, ma solo un dominio politico temporaneo. La costituzione di un assetto politico unitario attraverso il monopolio legalizzato della forza sociale, ossia la formazione dello Stato moderno, produttore di un “diritto universale”, riflette la condizione di equilibrio politico delle forze sociali, ma non lo risolve nei termini del Governo morale, per il quale è indispensabile superare lo stadio della cultura razionalistica e della congiunta secolarizzazione, caratteristiche del processo moderno di civilizzazione occidentale descritto da Elias. La credenza per cui sia l‟aumento di Potere politico a determinare l‟equilibrio sociale, è intrinsecamente errata. E‟ vero l‟opposto, ossia che è la limitazione del Potere, e quindi il riconoscimento del potere minore altrui, a consentire la pacifica convivenza tra le parti sociali, che lottano politicamente per tale riconoscimento. Finquando non esista un organo riconosciuto a tale riconoscimento, superiore alle parti in conflitto, e dunque di natura morale e non politica, il riconoscimento dei poteri sarà sempre l‟esito della loro lotta politica, e dunque precario e contingente, potendo cambiare i rapporti di forza. Le costituzioni democratiche degli Stati occidentali non sono che il riflesso istituzionale di questo tendenziale processo di controllo della lotta sociale tra gruppi politicamente organizzati e quasi del tutto neutralizzati, privati cioè di ogni referente ideale trascendente gli interessi di potere determinati dalla loro “interdipendenza” economica.298 La falsa credenza economicistica consiste nel ritenere che il controllo politico dei poteri monopolistici alla ricerca del dominio sia il fine riconosciuto dello Stato. Che, però, ciò non sia vero lo attesta la tendenza latente al superamento del controllo statale da parte della “sfera economica”, garantita in teoria dal Potere, attraverso il riconoscimento della sua autonomia funzionale dalla politica. Fenomeno che è intrinseco al processo stesso di razionalizzazione sociale e oggettivazione ideale degli elementi strutturali del sistema razionalizzato, di cui si è detto.299

298

N. Elias, Potere e civiltà, tr. it. cit., pagg. 157-158. Che l‟ipotesi naturalistica del “meccanismo monopolistico” non sia che un pregiudizio teorico al quale “viene collegato un valore che non ha nulla a che fare con il suo valore cognitivo” nelle questioni storico-sociali, ne è consapevole lo stesso N. 299

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Il passo successivo a quello della creazione dei monopoli di dominio fu la loro trasformazione da “privati” in “pubblici”, allorquando “gli organi centrali preposti alla regolamentazione e al coordinamento” delle funzioni socializzate “possono anche passare in altre mani e venire riorganizzati, ma non più dissolti come durante la progressiva feudalizzazione”, andando a costituire la loro istituzione “uno dei

Elias, che ne accenna in Potere e civiltà, tr. it. cit., n. 6 di pagg. 146-147. Diversamente, la teoria della emulazione etica (che dà origine a istituti signorili quali il prestigio, l‟indipendenza, l‟onore, la fedeltà, la dignità, la cortesia etc.) viene confermata dalla dinamica stessa interna alla formazione e crisi della feudalità, in quanto il processo di emancipazione dei poteri vassalli minori da quelli feudatari maggiori ripropone in scala locale l‟originario distacco del Potere politico-militare dei re dalla signoria morale della Chiesa, secondo la linea di oggettivazione razionale della realtà propria della Weltanschauung idealistica, che, secondo la definizione di Marx, identifica la realtà con il mondo pensato, per cui l‟astratta determinazione della realtà viene fatta coincidere con la sua concretezza, intesa come “sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi, del molteplice”: K. Marx, Introduzione (1857) a Zur Kritik der Politischen Oekonomie (1859), tr. it., Roma, 1979, pag. 189. L‟accenno marxiano non è qui peregrino in quanto l‟analisi storico-sociologica di Elias si basa tutta sul concetto paradigmatico di “distribuzione” (della terra) come struttura unitaria del processo di produzione (delle determinazioni socio-politiche) in un contesto economico (sistema feudale) di “libera concorrenza” di chances per l‟esistenza sociale. Come chiarisce Elias stesso, “sul piano funzionale, le lotte feudali, rispetto a una società più tarda in cui le funzioni sono più nettamente suddivise, sono analoghe alla libera concorrenza economica, […] oppure alle lotte per la supremazia tra Stati in un determinato sistema di equilibri territoriali, che comportano il ricorso alla violenza fisica” (Loc. cit., pag. 202). Secondo questo schema storiografico, restando sottaciuto l‟elemento analogico accomunante i diversi enti sociologici (famiglie, Stati, dinastie, signorie etc.), la lotta socio-politica diventa un processo indipendente dalla volontà umana dei gruppi in competizione, il cui risultato storico, entro un sistema non monopolistico, è “un nuovo ordine sociale fondato sul monopolio”, che “nessuno degli interessati in verità aveva perseguito o previsto” (Ivi, pag. 204). In altri termini, marxiani, in origine la “categoria più semplice”, quella appunto della distribuzione della terra nel sistema feudale, “appare come rapporto di semplici comunità di famiglie o di tribù in relazione con la proprietà”, che nel nostro caso sono le signorie territoriali, mentre “in una società più progredita”, quale quella del moderno Stato monarchico, “essa appare come un rapporto più semplice di una organizzazione più sviluppata” (Introduzione cit., pag. 190).

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fenomeni più caratteristici nella storia dell‟Occidente”.300 L‟ “ambito decisionale” del Potere collegato alle sue funzioni esprime la sua “forza sociale”, ossia il “dominio” (Herrschaft). Questo, dunque, è determinato dalle funzioni sociali, e varia in relazione alla forza sociale che ad esse è collegata, ossia al Potere centrale di cui esse sono emanazione, secondo un “meccanismo di interdipendenza” che spiega sia il processo di centralizzazione sociale che quello di civilizzazione che ha dato vita in Occidente alla “formazione degli Stati”.301 Una tale prospettiva d‟analisi, dando rilievo al solo dato della forza sociale, comprende il processo politico come l‟interazione di interessi molteplici e variabili, intrinsecamente privi di alcuna finalità etica e caratterizzata da una sostanziale “ambivalenza”, che costituisce, a dire di Elias, “una delle peculiarità strutturali delle società altamente differenziate” e “una delle più importanti matrici del comportamento civilizzato”.302 Ma la “ambivalenza degli interessi” altro non è che la dinamica dei puri processi economici dei gruppi sociali, osservati dal punto di vista della astensione da ogni giudizio di valore (la weberiana Wertfreiheit), la cui descrizione, nondimeno, non rendendo ragione di quella dinamica, la considera del tutto contingente e accidentale, ossia intrinsecamente irrazionale. Il paradosso di una struttura di Potere sempre più razionalizzata che provoca dinamiche di relazione interna di natura irrazionale, offre l‟immagine della dialettica contraddizione propria degli Stati moderni tra il modello di astratta unità formale che sostiene l‟impianto strutturale del dominio, e i prodotti reali della burocratizzazione delle funzioni del Potere, socialmente centrifughi e politicamente eversivi, fino a volte alla violenza rivoluzionaria.303 Ed è in questa situazione strutturale che si determina il passaggio ideale della funzione del Potere politico dalla garanzia della pace alla regolamentazione degli interessi concorrenti, che modifica la complessiva visione della realtà e della convivenza umana in senso naturalistico e anti-cristiano. Infatti, il “meccanismo monarchico”, neutrale verso ogni valore socialitario che non sia la stessa conservazione della struttura razionalizzata dello Stato, è il risultato 300

N. Elias, Loc. cit., pagg. 215 e 219. Ivi, pagg. 220-221. 302 Ivi, pag. 224. 303 Ivi, pag. 225. 301

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socio-politico del mutamento delle funzioni dirigenti delle élites sociali da un ideale di Governo (da parte dell‟Uomo virtuoso) a un ideale di Potere (del grande Manovratore). Questo cambiamento di prospettiva ideale segna il passaggio culturale – nel senso della tendenza sociologica – da una metafisica (ed etica) della trascendenza ispirata a una prospettiva escatologica dell‟esistenza umana (e della giustizia), tendenzialmente teo-centrica, a una metafisica (ed etica) dell‟immanenza mondana, tendenzialmente antropo-centrica, ispirata a una visione naturalistica della vita (e del diritto), corretta in senso umanistico-razionalistico. La figura idealtipica del chierico medievale, portatore e interprete dei valori morali, viene progressivamente soppiantata nell‟ambito della funzione pubblica, da quella dell‟intellettuale borghese, portatore e interprete di ideali mondani funzionali al sistema sociale, man mano che l‟ordine politico assolutistico tende ad assorbire nella sua sfera di potere le finalità etiche di cui era custode la Chiesa e che erano state salvaguardate dalla spada del braccio secolare costituito dall‟aristocrazia medievale. L‟antico organicismo etico-politico viene non soltanto contrastato in termini di lotta tra poteri sociali concorrenti, ma negato idealmente come funzionale all‟esistenza dello Stato razionale, il cui meccanismo di auto-conservazione segue un criterio oggettivo di sussistenza, la cui validità effettuale non viene garantita dalla Grazia di Dio. Proprio in quanto lo Stato non persegue più il Bene-Giustizia ma il bene-Potere, le sue dinamiche secolarizzate ubbidiscono a una razionalità naturale, valida etsi Deus non daretur, per cui il funzionario dello Stato non opera più in nome di valori trascendenti il suo ruolo contingente, ma espleta un servizio appunto funzionale al sistema politico, che nulla ha a che vedere con la fedeltà signorie al potere feudale garantito dalla religione comune. Il trapasso dalla cultura feudale e medievale a quella borghese e moderna, non è stato né immediato né completo, ma relativo agli orizzonti di coscienza delle concrete entità sociali e intellettuali del tempo. Il processo socio-culturale piegò in senso decisivo a favore della modernizzazione borghese allorquando il ceto aristocratico di origine medievale perse le ragioni morali del suo prestigio sociale, cioè la sua legittimità teologica al Governo, in conseguenza della razionalizzazione della concezione dei fondamenti di realtà. Ciò non significa che il rivoluzionario sanculotto fosse ispirato da Cartesio, 175


Bacone e Rousseau, ma che la borghesia francese del 1789 forniva alla sua ambizione politica una giustificazione etica di tipo razionale alternativa al Discorso sulla storia universale di Bossuet (1681) e al Saggio di teodicea di Leibniz (1710). E‟ ben vero che “per tutto il secolo XVII e soprattutto nel XVIII, questa élite del terzo stato, ossia la noblesse de robe, ribadisce di continuo che la sua nobiltà è altrettanto valida, importante e autentica della nobiltà di spada”,304 ma la determinazione al Potere che dimostrerà di avere durante la dittatura giacobina ha la sua origine intellettuale nella sostituzione rousseauiana dello “spirito” cristiano con la “cittadinanza” quale sostanza comune degli uomini razionali, la cui capacità di autodeterminazione politica era stata esaltata dai fisiocrati, i quali per convinzione ideologica “rifiutavano di prendere in considerazione la possibilità che il sovrano assoluto potesse abusare della sua autorità”. La stessa premessa fideistica che ha Rousseau nella sovranità popolare allorquando “mette il popolo al posto del sovrano illuminato fisiocratico”.305 Senza questo processo intellettuale propedeutico alla Rivoluzione politica, questa non avrebbe assunto il significato di una lotta contro, non già un ceto elitario, ma lo stesso istituto sociale del privilegio,306 ossia contro un principio di convivenza sociale fondato sull‟ordine gerarchico, dei valori prima che sociale, che aveva consentito per lunghi secoli l‟ordine etico-politico dell‟ancien régime, sicché è difficile pensare a questa evoluzione storico-culturale come a un “meccanismo” che si sarebbe “formato alla cieca e senza un progetto preventivo nel corso dei vari processi sociali”.307 Ciò che si può dire è che la borghesia, come componente sociale legata alla formazione dello Stato razionalizzato, era la classe dei tecnici, sorta dall‟acquisizione del potere intellettuale già detenuto dai chierici, mentre l‟aristocrazia era il ceto degli uomini liberi, ossia dei signori che dovevano alla propria condizione tradizionale il ruolo dirigente autonomo e autarchico nella società cavalleresca. La differenza essenziale tra queste diverse

304

N. Elias, Loc. cit., pag. 234. J.L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy (1952), tr. it., Bologna, 1967, pag. 67. 306 N. Elias, Loc. cit., pag. 236. 307 Ivi, pag. 239. 305

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componenti sociali risiede non già nella diversa modalità genetica della loro costituzione storica, ma nella loro diversa rispettiva legittimazione del loro potere. Infatti, mentre il ceto aristocratico, che derivava il suo ruolo dalla concessione regale della terra che segnava il suo dominio territoriale e le condizioni di sussistenza, era legato da un patto di fedeltà a un atto originario di carattere personale tra feudatario e vassallo, ossia da un vincolo morale che trascendeva le condizioni attuali di forza tra le parti contraenti, soprattutto se si trattava di discendenti, per i quali il vincolo era onorario e costituito dalla memoria del patto; il legame tra il re e i suoi funzionari borghesi era costituito da un vincolo di servizio che non implicava alcuna relazione personale, ma soltanto un astratto dovere verso il servizio stesso, ossia nei confronti della struttura amministrativa in cui tale servizio era inserito, la cui titolarità poteva anche cambiare senza alterare il rapporto formale. Che fosse pertanto titolare il re o il popolo della sovranità, non cambiava il formale rapporto di servizio con l‟amministrazione dello Stato. Con la nascita dello Stato razionalizzato e di una struttura burocratica che ne sorreggeva il sistema di potere monarchico, anche il ceto signorile deve trovare il suo ruolo entro l‟apparato istituzionale statale, ricercando incarichi e funzioni che ne confermino il peso sociale contro la concorrenza della nascente borghesia, con la conseguente alterazione del tradizionale rapporto morale con sovrano. Infatti, nella nuova situazione, il suo antico rapporto morale verso il monarca viene soppiantato da un rapporto funzionale col sistema statuale centralizzato. L‟accentramento amministrativo operato dall‟assolutismo non solo modificò i pregressi rapporti vassallatici, ma ruppe soprattutto l‟equilibrio tradizionale tra signorie locali e relativo contado, che in passato consentiva certo una minore influenza diretta del sovrano ma in compenso una maggiore tenuta sociale della struttura di dominio feudale. Concentrando il Potere a Parigi, la monarchia assolutista concentrò su di sé altresì le spinte eversive latenti nel regno, poiché il funzionamento del meccanismo burocratico veniva collegato alle direttive di comando coerenti, non a princìpi etici, ma con il funzionamento stesso. Lo Stato assolutistico assegnava le funzioni amministrative come il feudatario le terre, conservandone il potere di controllo centrale. Se però l‟assegnazione delle terre poté sviluppare un processo di autonomizzazione dei suoi beneficiari senza 177


che si alterasse la tipologia del rapporto feudale, di tipo essenzialmente morale, l‟incarico funzionariale legava invece gli assegnatari al Potere statale, neutralizzando l‟autonomia economica e l‟indipendenza politica dei nobili. Il feudatario sceglieva al pari del re assolutista chi doveva servirlo, ma anche il vassallo sceglieva di servire il suo feudatario anziché misconoscerlo e combatterlo. Il rapporto feudale era fiduciario e di tipo sacrale, e l‟inadempimento era una colpa morale e non giuridica. Un simile rapporto con l‟amministrazione statale era inconcepibile, in quanto uno dei due termini era divenuto impersonale e astratto. Il rapporto con il sovrano diventato Stato amministrativo aveva perduto insomma il suo carattere di esistenzialità, e ciò spinse molti esponenti dell‟aristocrazia, oltre che del clero, a combattere il Potere assolutista. Diverso il caso della borghesia. Infatti i borghesi erano cresciuti mercé i ruoli statali, non pervenendoci, come i nobili, in conseguenza del loro rango, sicché le funzioni pubbliche per loro erano occasioni di potenziamento sociale, e il rapporto con l‟amministrazione non era di servizio ma di lavoro, non vincolato ad alcun principio di fedeltà personale, ma solo all‟astratto e impersonale dovere professionale verso il Potere centrale. Se per la nobiltà il servizio al re costituiva il motivo morale di espletare le funzioni amministrative, per la borghesia il lavoro non aveva alcuna connotazione degradante, costituendo esso il mezzo del proprio sostentamento e del crescente peso sociale e quindi politico. Non fu molto difficile impossessarsi di un Potere che non dipendeva che nominalmente dal re una volta avuto il controllo tecnico dell‟amministrazione e dello strumento legale del suo indirizzo formale. Anzi, la sostituzione della volontà generale della nazione (reale, dell‟attività parlamentare; ideale, elaborata dalla filosofia) a quella personale e arbitraria del monarca di origine feudale, rappresentò una espressione di maggiore razionalizzazione del sistema venata di spirito umanitario. La piega razionalistica che assunse il regime monarchico, sviluppando una propria - anche se infedele – burocrazia amministrativa, provocò una reazione intellettuale nel ceto aristocratico, che si sentì tradito dal sistema del nuovo regime e quindi non più moralmente vincolato all‟antico patto di fedeltà. Esiste una relazione sottile ma infrangibile tra la visione del mondo feudale e il carattere religioso della sua etica sociale, fondata sulla morale della fedeltà al legame signorile, così come esiste una insopprimibile 178


relazione sociologica tra la condizione di neutralità morale308 della borghesia e lo spirito rivoluzionario dei suoi esponenti. Ma per passare dalla neutralità morale alla prospettiva rivoluzionaria, lo spirito borghese deve assumere una veste ideale, elaborare cioè un‟etica pubblica di valore universale che rappresenti il valore universale della nuova classe sociale che se ne fa interprete. In una parola, deve idealizzare lo Stato, portandone a perfezione l‟espressione storica. Ma in virtù di questa idealizzazione, l‟intellettuale razionalista accetta di perdere anche i suoi connotati sociali, e da esponente di una classe economica diventa testimone di una classe senza classe, interprete della volontà generale della nazione.309 Perdendo i suoi connotati esistenziali, il Potere diventa anonimo e perciò stesso rappresentabile al di fuori di ogni retaggio tradizionale. Ciò conferisce all‟autorità centrale un monopolio che dall‟uso delle armi andava alla riscossione fiscale, secondo modalità inusuali e tempi non consuetudinari che in un primo momento apparvero di una

308

Per “neutralità morale” intendo quanto Guizot chiamava “philosophie”, ovvero “tout opinion qui n‟admet, sous aucun nom, sous aucun forme, aucune foi obligée pour la pensée humaine, et qui laisse la pensée, en matière religieuse comme in toute autre, libre de croire ou de ne pas croire, et de se diriger elle-meme par son propre travail”: F. Guizot, Du Catholicisme, du Protestantisme et de la philosophie en France, in Méditations et études morales, Paris, 1864, pag. 56. 309 L‟ideal-tipo rivoluzionario del borghese intellettualizzato è quella di Rousseau, il quale è socialmente uno sradicato e culturalmente un erede dello spirito autocratico dell‟aristocrazia francese, e dunque a suo modo un “nobile illuminato”. M. Scheler affermò a proposito che “la filosofia francese fino a Rousseau [fu] essenzialmente una filosofia della nobiltà illuminata, o, comunque, una filosofia elaborata nello spirito di questo ceto” (Sociologia del sapere, tr. it., Roma, 1966, pag. 154). Il tratto nobiliare fu appunto nello spirito dell‟autonomia signorile e della sua posizione primaria nel paesaggio agrario umanizzato, la cui nostalgia fu il tratto caratteristico della letteratura romantica, soprattutto di nazione tedesca, ma che in Rousseau ebbe il suo precursore. E proprio Jean-Jacques impersonò meglio la profonda contraddizione, che travagliava l‟anelito romantico del moderno ceto intellettuale post-clericale, tra la vita bucolica della nobiltà medievale e l‟istanza razionalistica della costruzione di una società artificiale che superasse gli antichi privilegi aristocratici in nome di universali valori comuni, di conio propriamente borghese, fondati su un‟etica urbana rigorosamente coerente e di una “severità puritana”. S. Weil ha colto bene questo duplice stato d‟animo in Rousseau trattando de Le Sentiment de la Nature chez Vigny (1927-28), in Oeuvres Complètes, t. I, Paris, 1988, pag. 107.

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“pretesa assolutamente inaudita” ma che in seguito consentiranno una “costante crescita” della “forza sociale della monarchia”.310 In realtà, la crescita fu del Potere monarchico, ossia del sistema amministrativo razionalizzato, che nominalmente faceva capo al re ma che obbediva sempre più a meccanismi strutturali autonomi e propri di una complessa burocrazia di Stato, che scaricava sul sovrano formali privilegi politici e sostanziali dissapori sociali. Infatti il monopolio fiscale non intaccava soltanto le risorse finanziarie della nobiltà, ma soprattutto, attraverso gli esosi e frequenti prelievi, poiché “si appropriavano di diritti e tributi che un tempo spettavano esclusivamente al singolo feudatario”,311 ne minavano le stesse prerogative e libertà tradizionali, ossia la stessa figura sociale in seno allo Stato. Questa divaricazione tra gli interessi in generale della società e gli interessi della struttura amministrativa dello Stato sono all‟origine della dialettica tra Stato e società che divenne un luogo topico della pubblicistica politica a partire dalla Rivoluzione americana, e che rimane ancora oggi il nodo irrisolto delle società democratico-liberali in conseguenza del carattere non meramente economico della questione che però viene affrontata, per ragioni ideologiche, come se lo fosse. La resistenza al potere fiscale dello Stato ha infatti risonanza immediatamente economica per i ceti più deboli,312 ma non sono questi a farne una squisita questione politica, bensì quei settori della società che, pur essendo in grado di far fronte alle richieste fiscali, proprio per questa loro possibilità rivendicano più potere politico. Nel contesto della Francia del sec. XIII, la nobiltà non si opponeva al re in nome di una maggiore influenza sociale, che essa deteneva per tradizione, ma per condividere un Potere che aveva assunto carattere sempre più politico. In altri termini, il baricentro del Potere si era spostato (ovviamente, in senso tendenziale) dal reticolo delle relazioni vassallatiche, fondate sul rapporto di fedeltà personale, alla corte e al suo apparato di controllo amministrativo, concentrandosi su un sistema di relazioni impersonali misurate non più sul grado di fedeltà al re ma

310

N. Elias, Loc. cit., pagg. 265 e 269. Ivi, pag. 270. 312 N. Elias, Loc. cit., pagg. 278-279. 311

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sul grado di efficienza, determinando una radicale inversione della sua giustificazione razionale. Infatti, se la fedeltà feudale veniva comprovata nei momenti di difficoltà del sovrano o del feudatario maggiore, il dovere verso lo Stato monarchico veniva a perdere le sue ragioni funzionali nel caso di una sua cattiva amministrazione, che liberava i funzionari dal servire una causa persa. E poiché era stato il re assolutista a volere l‟identificazione ideale dello Stato con la sua persona, una cattiva gestione equivale a un cattivo regno. In questo senso, la Rivoluzione decapito fisicamente Luigi XVI ma idealmente lo Stato. Né fu un caso che il ruolo della monarchia crebbe con la Guerra dei Cent‟anni, in quanto la rottura del sistema politico per la minaccia esterna riportava in auge il ruolo militare della nobiltà e del tradizionale potere diffuso tra tutti i suoi membri locali, che andavano a costituire quel tipico potere policentrico della società feudale, che nel sovrano trovava il suo punto di equilibrio, reale o simbolico che fosse, e che lo Stato politico in senso moderno minacciava. Se però, come notava Croce in una sua Postilla, “l‟ideale della rivoluzione non può usurpare il posto del solo ideale che splende sulla società umana e che è la pacifica convivenza nazionale e internazionale nel lavoro civile”,313 a maggior ragione non potrebbe farlo l’ideale della guerra, “les moeurs s‟y refusent aussi bien que les lois”, per dirla con Guizot,314 per cui la soluzione della “pacification”, cioè dell‟equilibrio socio-politico, incombe anche dopo un lungo periodo di scontri bellici. Ed essa, se non vuole essere contingente ed effimera, non può non avere carattere morale, e dunque vertere sui principi di socialità che stabiliscono la convivenza, non solo civile ma dei rapporti esistenziali tra gli uomini. Tali rapporti, che diciamo morali per distinguerli da quelli di forza o politici, necessitano di un Governo che non si riduce alla sola regolamentazione degli equilibri sociali, al cui esercizio può adempiere un qualunque Potere superiore di controllo delle dinamiche politiche interne allo Stato, ma che investe proprio i limiti del Potere politico. A questo proposito, il principio della separazione della sfera spirituale da quella temporale, e dunque la distinzione dello stato

313

B. Croce, Il culto della rivoluzione, in Terze pagine sparse, Bari, 1955, vol. II, pag. 236. 314 F. Guizot, Loc. cit., pag. 59.

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religioso da quello civile, difeso non solo dallo Stato costituzionale contro l‟integralismo religioso ma anche dalla Chiesa contro l‟assolutismo politico dello Stato, e filosoficamente asserito modernamente da Cartesio; ebbene tale principio, patrocinato quale “moyen de pacification et d‟harmonie”315 tra i due poteri costitutivi della società cristiana, non ha funzionato. Per il semplice ma essenziale motivo che la loro rispettiva concezione, così come la loro reciproca distinzione, riguarda due ideali, ossia due forme razionali assunte come istituzioni storiche reali, ma che non si manifestano mai come polivalenti nell‟esperienza concreta dell‟uomo, bensì sempre in un loro ordine gerarchico, la cui priorità la Chiesa e la coscienza cristiana assegnano alla sfera spirituale, mentre lo Stato moderno razionalizzato in senso laico assegna viceversa alla sovranità della legge. Rispetto alla situazione della cultura e della società medievali, che concepiva l‟armonia delle due sfere in un ordine non egalitario, e perciò non conflittuale, l‟affermazione della logica politica assolutistica ha rappresentato un regresso, anzi “le mal qui travaille nostre société temporelle”. E questo Male epocale è lo stesso Guizot a indicarlo come “l‟affaiblissement de l‟autorité”. Je ne dis pas de la force qui se fait obéir; jamais le povoir n‟en eut davantage, jamais peut-etre autant; mais de l‟autorité reconnue d‟avance, en principe, d‟une manière génétale, acceptée et sentie comme un droit qui n‟a pas besoin de recourir à la force; de cette autorité devant laquelle l‟esprit s‟incline sans que le coeur s‟abaisse, et qui parle d‟en haut avec l‟empire, non pas de la contrainte, et pourtant de la nécessité.

C‟est là vraiment l‟autorité. Elle n‟est point le principe unique de l‟état sociale. Elle ne suffit pas au gouvernement des hommes. Mais rien n‟y peut suffire sans elle, ni le raisonnement sans cesse renouvelé, ni l‟intéret bien entendu, ni la prépondérance matérielle du nombre. Où manque l‟autorité quelle que soit la force. L‟obéissance est précaire ou basse, toujours près de la servilité ou de la rébellion.316

L‟autorità (auctoritas), ovvero il Governo morale della società, intesa non come corpo politico, corrispondente laico del corpo mistico in senso religioso, ma come comunità esistenziale, di cui l‟autorità è la fonte di “sottomissione interiore”, ovvero della libera e spontanea

315 316

F. Guizot, Loc. cit., pag. 67. F. Guizot, Loc. cit., pag. 70.

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adesione individuale ai precetti della fede, che sono i fondamenti incoercibili della moralità e pertanto della stessa socialità. Il Potere politico può imporre un rapporto di dominio tra diverse forze sociali, ma non può imporre un ordine morale che non sia già costituito in interiore homine come fede ontologica nella realtà della verità e nella speculare verità della realtà, la cui corrispondenza è invano ricercata dalla ragione in termini di “rispecchiamento” della res cogitans con la res extensa, già preconizzata da Platone. E questa priorità dell‟ordine morale della coscienza interiore rappresenta anche il limite insuperabile all‟ordine politico, al Potere di Cesare afferente alle relazioni sociali. Proprio in quanto ordine invisibile dello spirito individuale che si manifesta nell‟ordine visibile del consorzio sociale, esso non può essere presunto come un dato di natura o un presupposto di diritto, ma deve essere postulato come un compito morale assegnato alla responsabilità esistenziale dell‟uomo. L‟umana esistenza in quanto tale, cioè in quanto esistenza umana, richiama tale dovere morale, originario a ogni statuizione giuridica, a ogni normativa legale o canonica e alla stessa sovranità della ragione, il cui fondamento ontologico è esso medesimo un fondamento di fede. Tale limite potestativo non può esser assegnato allo Stato in quanto potere secolare, e emendarne la Chiesa in quanto potere religioso, ma va attribuito al Potere in quanto tale, cioè in quanto forza coercitiva operante sulla volontà umana allo scopo di indirizzarla teleologicamente verso un fine comune predeterminato. Il fine migliore, il più santo come il più razionale, deve rispettarlo per potersi costituire come potere legittimo. Per la semplice ragione che la libertà morale, e dunque la responsabilità esistenziale di ogni uomo, acquista il suo senso spirituale e storico a partire dalla consapevolezza della finitezza e della debolezza umana, ossia della diversità irriducibile degli uomini, la cui condizione di “étres finis et libres, c‟est-à-dire incomplets et faillibles” rende “l‟unité spirituelle, belle en soi, chimérique en ce monde”; è quella consapevolezza infatti a impedire che “de chimérique, elle devient aisément tyrannique”. Ciò cui gli uomini possono ragionevolmente aspirare non è pertanto la chimerica e tirannica unità, spirituale come politica, che esige come precondizione

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di possibilità l‟uguagianza degli uomini, la fine appunto della libera responsabilità morale, ma è “l‟harmonie dans la liberté, la seule unité à laquelle ici-bas les hommes puissent prétendre”.317 Armonia equivale a Governo morale, ossia a rispetto del limite dell‟esercizio della forza da parte di ogni Potere quale condizione della sua legittimità morale. Un Potere che non riconosca da sé questo insuperabile limite morale, può essere efficace, ma non duraturo, e dunque non in grado di garantire quella pace che è crocianamente il “solo ideale che splende sulla società umana”. Secondo la nota teoria di Montesquieu, “ogni governo ha una natura e un principio che gli appartengono”, ed egli chiamava “spirito di moderazione” la virtù di sapersi limitare nell‟esercizio dei pur riconosciuti privilegi aristocratici, considerando che “due cose riescono perniciose all‟aristocrazia: l‟estrema povertà dei nobili, e le loro ricchezze esorbitanti”.318 Ma tale virtù viene collegata al carattere nazionale dei popoli, sia in senso naturalistico che in senso politico, sicché “i popoli selvaggi, i quali conducono una vita durissima, e i popoli dei governi dispotici, presso i quali favoriscono esageratamente un uomo solo, mentre bistratta tutti gli altri, sono ugualmente crudeli”, mentre, a suo dire, “la mitezza impera nei governi moderati”.319 Orbene, questo concetto di moderazione si avvicina piuttosto alla virtù della prudenza di evitare gli eccessi, e quindi i rischi connessi alle possibili reazioni, anzi che all‟ideale morale di saper rinunciare a servirsi del proprio potere nelle relazioni con i più deboli antagonisti al fine di non ledere la loro umana dignità, cioè la comune essenza spirituale negli uomini. In questo senso, morale, il limite di cui si discorre a proposito del Potere non è equiparabile all‟uso moderato della sua forza, ossia relativo a una gradualità del suo esercizio concreto, che inerisce a una contingente considerazione politica degli effetti conseguenziali, ma pertiene a un ordine di discorso altro rispetto a quello politico, e caratterizzato da un orizzonte di coscienza in cui l‟antagonista politico viene considerato non solo inter-locutore, come

317

F. Guizot, Loc. cit., pag. 83. Ch. Montesquieu, Esprit des Lois (1748), tr. it., Torino, 1965, vol. I, pagg. 127 e 131. 319 Ivi, pag. 169. 318

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avviene nei dialoghi filosofici o nei dibattimenti giudiziari, ma referente. In questo orizzonte di coscienza, la libertà di autolimitazione del potere ha un‟accezione diversa da quella politica, relativa al senso coerente al “tipo di governo” idealmente preferito, ossia alla forma di Stato.320 Lo Stato considerato antonomasticamente da Montesquieu è quello di diritto, ossia “la società nella quale esistono delle leggi”, per cui conseguentemente “la libertà non può consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere”. Ossia, “la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono”.321 Non diversamente si era espresso Locke nei Due trattati sul Governo allorquando scriveva che “la libertà dell‟uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per consenso nello Stato”.322 Entro lo Stato di diritto, “ogni governo ha una natura e un principio che gli appartengono”,323 ma, in ossequio alla propria preferenza ideologica, Montesquieu asserisce che “la libertà politica si trova [solo] nei governi moderati”.324 Ma cosa intende l‟Autore per governo “moderato”? Quello, egli dice, nel quale “non vi è abuso di potere”. Ma poiché, aggiunge, per “esperienza eterna, ogni uomo, il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti”, ecco che “la virtù stessa”, ossia il principio di libertà che informa il regime politico, “ha bisogno di limiti”; i quali limiti, essendo l‟abuso stigmatizzato di natura politica, non possono per Montesquieu che essere anch‟essi politici, per cui “perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere”, attraverso una costituzione in base alla quale “nessuno sia costretto a compiere le azioni alle quali la legge non lo costringe, e a non compiere quelle che la legge gli permette”.325 Una giusta esigenza,

320

Ch. Montesquieu, Esprit des Lois, tr. it. cit., vol. I, pag. 272. Ivi, vol. I, pag. 273. Si veda anche XXVI, 15, tr. it. cit., vol. II, pag. 163. 322 Jh. Locke, Two tratises of Government, II, cap. 4, § 22, cit. Ivi in nota a vol. I, pag. 273. 323 Ivi, vol. I, pag. 127. 324 Ivi, vol. I, pag. 274. 325 Ibidem. 321

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risolta con una tautologia. Infatti, dire che il potere vada limitato con altro potere, secondo regole stabilite dalla legge, significa affermare che il potere di fare le leggi può anche prevedere di condizionarne l‟efficacia. Che possa abusare anche il potere legislativo, lo intuisce lo stesso Montesquieu quando precisa a un di presso che “la condizione” di essere liberi, ossia soggetti solo alle leggi, deriva dall‟essere “governati da leggi civili”,326 da quelle cioè che “procurano la proprietà”, e non da “leggi politiche”, che sono quelle che “procurano la libertà” dalla condizione naturale.327 Le leggi politiche, dunque, stabiliscono l‟imperio della legge in generale, ossia la condizione di libertà dalle necessità inique della condizione naturale, che possiamo indicare in termini weberiani come razionale rispetto ai valori, laddove le leggi civili, che garantiscono la proprietà, rappresentano il secondo livello di libertà entro il regime legislativo, quello che possiamo dire razionale rispetto ai fini. Ciò che, a suo modo, vuole insomma dirci Montesquieu è che la determinazione concreta della libertà dell‟uomo non è data dalla legislazione in generale, ma solo da quella che salvaguardia il suo potere patrimoniale, ossia il controllo dell‟uomo sulla natura. Orbene, se noi localizziamo in senso storico tale “natura”, e traduciamo in termini economici e militari il senso del “controllo” umano, otteniamo il rapporto di signoria esercitato su beni e uomini di un determinato territorio. Ed è questa appunto la libertà in senso medievale, il cui modello ideale lo Stato di diritto razionalizzato vuole estendere universalmente. La condizione personale, nello Stato di diritto, per estensione erga omnes diventa condizione civile comune. In virtù di tale universalizzazione di diritto di un originario status personale, il diritto civile, che regola la condizione soggettiva dei cives, si identifica con lo stesso diritto politico, che ne regola la condizione oggettiva, per cui lo Stato di diritto garante della libertà civile è di conseguenza la migliore forma politica di Stato, garante della libertà politica. La razionalizzazione politica, o universalizzazione legale, di una condizione empirica concreta trasforma una situazione esistenziale in una tipologia giuridica, attribuendola di un crisma di moralità che si trasfonde in sentimento

326 327

Ivi, vol. II, pag. 169. Ivi, vol. II, pag. 163.

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etico di “pace sociale”. Infatti, secondo le parole di Montesquieu, la “libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino”.328 Ma il rimedio è puramente retorico, poiché, se è vero che per esperienza eterna l‟uomo tende a sopraffare l‟altro uomo, solo la paura di una ritorsione potrebbe dissuaderlo a provarci. E che altro sarebbe la divisione dei poteri se non una larvata minaccia di ritorsioni a chi volesse abusare del proprio? Una logica di guerra interna al corpo politico, che determina un equilibrio delle forze nello Stato, che Montesquieu chiama “governo moderato”. Da qui la nota teoria della divisione dei poteri per la quale “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”.329 Ma il rimedio divisorio è anche astratto, smentendo quanto dallo stesso Montesquieu asserito circa l‟analogia tra “ciò che possiamo vedere negli individui, lo riscontriamo pure nelle varie nazioni”.330 L‟uomo reale, infatti, è il depositario di un libero arbitrio, ed agisce secondo una unità volitiva in cui egli è legislatore ed esecutore a un tempo; e se sbaglia, non sempre è perché vuole sbagliare. Sbaglia perché la sua legislazione è imperfetta, perché è un essere limitato che ha bisogno di aiuto. Questo aiuto correttivo può provenire dagli altri uomini, formando il consorzio sociale; oppure da un ente metafisico, il Logos greco o il Dio ebraico-cristiano. La prima ipotesi, è la strada perseguita dallo Stato costituzionale moderno, patrocinato da Montesquieu, in cui il vettore del Potere è la risultanza di un equilibrio delle forze sociali. Ma nella logica dell‟economia delle forze, la divisione dei poteri sussegue a una fase di accumulazione del Potere, caratterizzata dallo Stato assolutistico che

328

Ivi, vol. I, pag. 276. Ibidem. 330 Ivi, vol. I, pag. 169. 329

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nella Francia del sec. XV si andava a definire come un modello europeo. Dalla sua costituzione, a partire dal monopolio fiscale, si desume che “l‟unità sociale che nasce dall‟interdipendenza degli individui possieda peculiarità strutturali e obbedisca a leggi differenti da quelle del singolo e che non potrebbero dunque essere comprese se si prendesse questi come punto di partenza”.331 Ciò indurrebbe a ritenere che la formazione dello Stato moderno razionalizzato fosse accompagnata dalla progressiva presa di coscienza di una ontologia sociale che non rifletteva più l‟immagine speculare del microcosmo antropologico della metafisica tradizionale, ma una nuova prospettiva teoretica, di natura sociologica, in cui i gruppi umani agiscono secondo leggi oggettive e non discrezionali; ossia che la convivenza sociale fosse affrontata dalla coscienza moderna all‟interno delle leggi della res extensa. In realtà le cose agli albori dell‟età moderna stavano diversamente, come conferma anche il resoconto degli ambasciatori veneti alla corte di Francia. Quello, citato da Elias, di Marino Cavalli attribuisce l‟unità del regno francese alla “obbedienza del popolo ai suoi re” - 332 che notoriamente non è una virtù fiscale -, i quali, da Carlo VII il Vittorioso (1422-1461) a Francesco I (1515-1547) non hanno fatto altro che spogliare la nobiltà dei suoi beni accumulando ingenti ricchezze, “il che, oltre al tener sempre ricca la corona, unita, e in riputazione estrema, fa che ella sia sicura dalle guerre civili: perché, non avendo principi se non poveri, non han spirito né modo di tentar cosa alcuna contra il re”, come solevano fare i grandi signori di un tempo.333 Se è pur vero che il sistema assolutistico, trasformando il re da “proprietario di terre e dispensatore di terre […] in un re che dispone di mezzi finanziari e dispensa rendite in denaro”, spezza “il circolo vizioso in cui erano vissuti i signori al tempo dell‟economia naturale”,334 è altrettanto vero che la crisi che si andò determinando nel 1789 precipitò la corona in un isolamento sociale che era la

331

N. Elias, Loc. cit., pag. 286 N. Elias, Loc. cit., pag. 288. 333 Ivi, pag. 289. 334 Ivi, pag. 290. 332

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conseguenza del suo stesso assolutismo politico, che la privava dell‟antico sostegno feudale della nobiltà locale. L‟obbedienza al Potere non equivaleva a consenso, né tampoco a fedeltà monarchica. Anzi, la struttura centralizzata della monarchia assoluta fu tanto più efficiente nell‟amministrazione fiscale quanto perniciosa nell‟erosione dei valori aristocratici che sostenevano moralmente il sistema. Essa infatti affermò il suo sistema razionale di controllo territoriale del regno sostenendo surrettiziamente il principio della cittadinanza egalitaria, contro il principio delle autonomie locali, fondato sulla disuguaglianza dei rapporti sociali, e dunque su un principio gerarchico. L‟equilibrio sistemico nei due casi è molto diverso. L‟uguale sudditanza al Potere genera infatti individualismo e indifferenza morale alle sorti comuni, laddove lo spirito di ceto impediva l‟unità nazionale intorno a una rappresentanza unica e superiore. In tal senso, come ben compreso già da Tocqueville, fu l‟assolutismo monarchico che consentì la sua conversione nel radicalismo democratico. Infatti, il trionfo della Rivoluzione segnò la preminenza del principio delle volontà individuali, che per Sieyès rappresentavano “i soli elementi della volontà comune”, contro l‟esprit de corps dei gruppi sociali intermedi, “sia che questi gruppi fossero ordini privilegiati tradizionali, classi sociali o corporazioni con uno status speciale”, ritenuti portatori di interessi parziali ed egoistici.335 L‟ “equilibrio” politico che il re assolutista manteneva, attraverso il monopolio della forza economica e militare, “tra le tensioni esistenti all‟interno di ciascun settore” sociale336 non nasceva da un rapporto fiduciario stabilito entro un comune orizzonte di valori condivisi, ma si reggeva sulla convergenza in direzione centralizzata verso la polarità unica del Potere politico della spontanea dialettica sociale tra ceti dirigenti e popolazioni locali, che tanto depotenziava il ceto aristocratico tradizionale quanto caricava la burocrazia del sistema centralizzato di una funzione politica impropria a una classe di tecnici, che pertanto essa non poteva espletare, pur mantenendo alta l‟efficacia del regime assolutistico. E‟ ovvio che i re assolutisti non intendessero promuovere una organizzazione della società da essi dominata che

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J.L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, tr. it. cit., pag. 104. N. Elias, Loc. cit., pag. 294.

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preludesse una svolta rivoluzionaria, e in questo senso non ci fu da parte loro alcuna pianificazione razionale del sistema perseguita nei secoli,337 così come è pacifico che una ideologia individualistica non produca ipso facto una condizione rivoluzionaria. Il rapporto tra piano ideale e piano razionale, infatti, non è diretto, come pretende l‟idealismo da Platone in poi, ma è mediato da un reticolo istituzionale che, sistemizzato, diventa una struttura di Potere, funzionale cioè al dominio di chi ne è a capo. In questo senso, sistemazione e razionalizzazione indicano lo stesso processo funzionale al Potere. Ma proprio la sistemazione del reticolo istituzionale in senso funzionale al Potere, avviene in base a un principio razionale, che non deriva dalla natura, al pari dell‟istinto animale, ma dalla cultura di un popolo, e più esattamente dalle sue classi dirigenti, che lo elaborano e lo interpretano nel Governo sociale, il quale è perciò sempre espressivo di un ideale mondo-di-senso. Ogni mondo-di-senso è una totalità indivisa di elementi ideali individuali e di elementi reali collettivi stabiliti in una relazione variabile di possibilità legate tanto alle qualità della sintesi singolare di ogni coscienza umana (che indichiamo come livello di coscienza) quanto alle storiche condizioni esistenziali in cui l‟uomo viene a trovarsi in quanto componente di un gruppo sociale (che indichiamo come orizzonte di coscienza). In ogni caso, la realizzazione di quelle possibilità è legata alle forme culturali fruite da quel gruppo e che sono determinative del loro significato sociale, il cui valore simbolico è perciò culturalmente inscritto entro l’orizzonte di coscienza di quel gruppo. Chi è al Governo della società, ne dirige i valori costitutivi del suo orizzonte di coscienza. Chi invece guida la società esercitando il Potere, stabilisce le modalità tipizzate delle relazioni di convivenza attraverso coerenti modelli normativi. Ma questa distinzione dei ruoli direttivi non ha niente a che veder con la divisione dei poteri di cui parlava Montesquieu, poiché la distinzione dei ruoli inerisce a condizioni di esistenza non omologabili, e quindi non univoci nella loro destinazione razionale, e indivisibili nelle loro rispettive funzioni. Il processo moderno di razionalizzazione del Potere consiste invece nella ideale identificazione delle due funzioni in uno stesso organo

337

N. Elias, Loc. cit., pag. 297.

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deliberativo, lo Stato razionale di diritto, la cui attività sovrana e impersonale si auto-determina come la deliberazione della volontà generale, prima monarchica e quindi collettiva. Il Potere moderno, eliminando dalla sfera decisionale ogni limitazione di carattere extrametodico, destinandola alla sfera privata, tende a neutralizzare ciò che Max Scheler chiamava i “fattori spirituali di determinazione” culturale,338 la cui funzione regolativa viene a perdere, nello Stato razionalizzato, il suo essenziale carattere dirigente, ossia di Governo morale della forza. Nella tipologia sociologico-politica caratterizzata dalla divisione dei poteri, il Governo diventa elemento esecutivo strutturalmente interno alla dinamica politica, perdendo così il suo significato autoritativo. Ora, il trapasso dalla fase integrativa della potestà con la autorità, tipica del periodo medievale, alla fase assolutista della integralità del Potere, propria dell‟evo moderno, ha un aspetto propriamente pubblico, legato a forme di pensiero socialmente dominanti all‟interno dell‟orizzonte di coscienza dal significato istituzionalizzato, distinto dall‟aspetto privato, legato a forme di pensiero minoritarie e comunque prive di valore istituzionale. Dal punto di vista culturale, il monopolio della sfera pubblica da parte dello Stato assolutista comporta la selezione dei valori rilevanti in senso funzionale al Potere politico, per cui gli ostacoli frapposti a tale monopolio hanno anch‟esso un carattere ideale-privato e un carattere pubblico-istituzionale e in tal senso va interpretata la lotta che ha impegnato la Chiesa contro le pretese dello Stato secolare, i modelli ideologici del quale, peraltro, non sono che una traduzione politica dell‟integralismo religioso di origine ecclesiastica. A questo proposito, ciò che rileva ai fini della determinazione della Weltanschauung moderna, e quindi della differenza rispetto alla visione del mondo medievale, non è l‟univocità dei motivi interni all‟orizzonte di coscienza sociale, ma la rilevanza pubblica dei livelli di coscienza politicamente omologati. Ciò comporta che a qualificare lo spirito del tempo non sia la varietà dei modelli culturali coesistenti all‟interno di uno stesso mondo-di-senso, quello che oggi si direbbe il “pluralismo dei valori”, ma la rilevanza pubblica di alcuni di essi a

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M. Scheler, Wissenssoziologie (1924), tr. it., Roma, 1966, pag. 72.

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scapito di altri, ammessi o tollerati ma nella sfera privata. Essendo nota, dai tempi di Socrate, l‟impotenza delle idee nella direzione del corso degli eventi, ai fini della loro rilevanza sociale esse necessitano di una oggettivazione istituzionale che le affermi di valore comune, ossia ne socializzi il significato nel senso della sua rilevanza pubblica. In questo precipuo senso, i detentori del Potere sociale sono anche, e soprattutto, detentori di un potere ermeneutico, tributario di significato alle opere umane. E‟ questo il senso funzionale ed etimologico attribuito da Platone al Demiurgo, il quale ha il potere di rendere (ergon) demion, cioè “pubblico”, l‟operato umano, riportando all‟unità ideale, ossia universale, il molteplice. La capacità poietica, cioè creatrice, del Demiurgo è indicata nel Sofista e confermata nel Simposio come il passaggio “dal non-essere all‟essere” (), attraverso il quale si perviene all‟ordine. Ed è in virtù di tale ordinamento che il Demiurgo nel Politico viene chiamato “governatore” ().339 Per intenderne il ruolo, occorre ricordare che Platone aveva stabilito nel Politico tre livelli di sapere: quello tecnico o artigianale, quello legislativo o politico, e quello teoretico o filosofico. Circa il livello politico, la sapienza relativa concerneva la possibilità di trovare il “giusto mezzo tra opposti eccessi”, presumendo che il legislatore politico conosca la differenza tra la conoscenza pratica e quella teoretica, detenuta dal filosofo. E‟ questi infatti che, conoscendo le ideali “norme supreme” che regolano la vita cosmica e dunque anche quella politica, possiede “il vero sapere politico”. Come è stato giustamente notato, “il rapporto tra conoscenza filosofico-politica e attività pratico-politica, in tal modo, risulta analogo al rapporto di essere e di azione sussistente fra la sfera delle Idee e la sfera dell‟anima: in ambedue gli ambiti ciò che è sopraordinato e che dà forma e che è quindi produttore di bene, agisce su ciò che è subordinato”.340 Ciò implica che la stessa distinzione interna all‟ambito politico si fonda su una gerarchia strutturale di valori non omologabili, ossia non riducibili l‟uno all‟altro, per cui sarebbe improprio sia negare il ruolo del legislatore, che misconoscere quello

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Ved. a proposito il commento di G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pagg. 503-536. 340 K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, cit., pag. 77.

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del governatore. In tal senso, la stessa funzione demiurgica è distinta tra un livello ordinamentale, di carattere strutturale e sistemico, e un livello amministrativo, di carattere operativo e funzionale. Il mito politico platonico di pervenire all‟unità di questi distinti livelli di coscienza e operativi, è legato alla concezione idealistica del “rispecchiamento” pratico della perfezione ideale, che avrebbe superato il divenire delle imperfezioni dei fenomeni sensibili, ed è lo stesso mito ereditato prima dalla teologia politica cristiana di cultura ellenistica, in chiave teocentrica, e quindi dalla filosofia politica moderna, in chiave antropocentrica. Storicamente, esso ha legittimato il potere ermeneutico di determinare l‟ambito della realtà significativa, detenuto nell‟evo di mezzo dalla Chiesa in termini di monopolio della verità scritturale, e acquisito in età moderna dallo Stato assolutistico attraverso la creazione dello Spazio Pubblico politico quale l‟unico ambito di significazione riconosciuto di rilevanza sociale. L‟accezione di “pubblico”, cioè di significato avente rilevanza comune, è stata contesa originariamente tra i rappresentanti della tradizione religiosa antica, i sofisti e i filosofi, in relazione alla possibilità di collegare quel significato ordinato dal Potere a un valore universale, superiore dunque alla disponibilità arbitraria della forza politica. La pubblicità patrocinata dai filosofi, e che finalmente ha prevalso come criterio di validità teoretico-scientifica, è quella di carattere universale, ricercato attraverso il discorso condotto con metodo logico, quello appunto della filosofia, per la quale soltanto o “spazio pubblico” di senso universale è razionalmente valido, cioè “vero”. La verità di un asserto razionale è nella sua universalizzazione, ossia nella sua possibilità di essere esteso in senso logicamente universale. Questa possibilità era riservata alla sapienza dei filosofi, che Platone voleva, com‟è noto, porre alla guida ideale degli Stati. Ma stabilita la possibilità di coniugare i due distinti momenti gerarchici in un Potere unitario che li assommi entrambi, ecco che si ipotizza la realizzazione dello Stato ideale. da qui nasce la contesa totalitaria tra l‟imperium teologico-ecclesiale medievale e quello politico-statalistico moderno. Rispetto alla analoga creazione dell‟ambito della antica politeia greca, la creazione razionalistica moderna dello Spazio Pubblico ne rappresenta per l‟appunto la sua proiezione universale, inerente cioè tendenzialmente ogni ambito della vita sociale, interpretato in termini 193


di relazione politica, e dunque funzionali al Potere. E la creazione dello Spazio Pubblico risale al processo di razionalizzazione dello Stato in senso della impersonale e anonima struttura burocraticoamministrativa garante dell‟ordine razionalmente costituito, con la quale il Potere ha trasferito entro la sfera politica il tradizionale ambito dei valori socialmente significativi, riservato alla religione e ai suoi custodi, cioè alla Chiesa. La razionalizzazione in senso universalistico dello Stato e il processo culturale di secolarizzazione sono aspetti intimamente connessi alla stessa funzione totalitaria del Potere moderno, che assegna alla scienza lo stesso valore universalistico assegnato alla politica. Dal punto di vista sociologico, la correlazione strutturale tra Papa vescovi e clero con la nomenclatura feudale di Re vassalli e popolo viene ad essere alterata dalla razionalizzazione amministrativa in senso della indipendenza funzionale della titolarità del Potere da ogni vincolo di rapporto carismatico, tale che la sua oggettivazione istituzionale lo rendesse neutrale rispetto ai contenuti, ossia agli stessi fini. La neutralizzazione dei fini ai quali è preposto l‟ordinamento, rendono questo una mera struttura di potere, funzionale alla sua sola stessa conservazione e quindi al Potere immanente che esprime. Con la perdita dei fini dello Stato cade anche la questione della legittimazione morale del Potere, e quindi del suo Governo etico, incarnato dalla Chiesa, che diventa per lo Stato assolutistico moderno l‟istituzione che ne minaccia la supremazia espressa dalla sua legislazione secolare. Il passaggio dalla integralità medievale all‟assolutismo moderno può anche essere indicato appunto nei termini del passaggio dalla legittimità morale del Potere alla sua sola legalità formale. E proprio il formalismo legato alla struttura di Potere dello Stato moderno ha indotto a credere molti analisti a un “meccanismo” istituzionale generatore di una forza sociale indipendente dalla volontà umana.341 Ma la stessa struttura di potere statale, per poter svolgere le sue funzioni politiche di dominio sociale, deve trovare un referente antropologico, consapevole portatore di una interpretazione della realtà e dunque protagonista dei moderni processi di civilizzazione. E‟ pertanto vero storicamente che “a partire dalle primissime epoche della

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N. Elias, Loc. cit., pag. 301.

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storia occidentale fino all‟epoca nostra, le funzioni sociali tendono sempre più a differenziarsi sotto la forte pressione della concorrenza”,342 ma è altrettanto vero che le dinamiche che sottendono tale processo epocale sono interpretabili alla luce di una ontologia fondamentale entro il cui orizzonte di senso gli eventi fenomenici sono significativi. Tale ontologia, determinativa di significati interni al relativo mondo-di-senso, è stata elaborata dal pensiero filosofico greco e rielaborata dalla metafisica cristiana di età ellenistica, giungendo attraverso le sue forme intellettuali medievali, sino all‟età moderna. Ciò che fonda l‟orizzonte di senso non coincide con le sue forme simbolicamente rappresentative, che variano in rapporto alle storiche determinazioni culturali socialmente egemoni. Se nell‟analisi storica si perde di vista, ovvero si ignora del tutto, il fondamento di cui il processo culturale è elaborazione di senso, si perde di vista la dinamica che lo presiede, rappresentandola come spontanea o priva di senso, oppure fatale o divina. Tale dinamica è sempre correlata ai termini di oggettivazione istituzionale delle forme simboliche rappresentative della realtà, che ne determinano l‟orizzonte sociale di senso. I termini di oggettivazione delle forme simboliche aventi un significato socializzato sono dunque sempre istituzionali, e come tali presidiate da un Potere (trans)formativo e di controllo. L‟esistenza del Potere è legata al suo ruolo, giustificata dunque dalla sua stessa funzione sistemica, per comprendere la quale occorre chiedersi anzitutto quale sia l‟essenza immanente allo Stato moderno, il suo principio costitutivo. Rispondere che esso sia “la forza”, non chiarisce ancora i termini della necessità del suo monopolio concentrato in un solo detentore. Può infatti sussistere anche una forza diffusa, come quella che caratterizzava il sistema feudale, o quella che oggi caratterizza il potere giudiziario. Invece la razionalizzazione del Potere tende alla concentrazione della forza nell‟apparato centralizzato dello Stato, il quale apparato la distrae dalla società, così come il re assolutista la sottraeva ai signori feudali. La tendenza accentratrice del Potere assolutistico è dunque simmetrica alla tendenza disgregatrice della società moderna, conseguente alla “progressiva differenziazione delle funzioni sociali” ricordata da Elias.

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Ivi, pag. 303.

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Ora, se vi è un processo il più distante dalla disgregazione sociale a opera di forze tra loro concorrenti è quello della vita naturale. Infatti, la natura “presenta una concorrenza reale ed effettiva e, presentandola unificata, coerente e integrata”,343 laddove la vita razionalizzata della civiltà moderna è un‟esistenza “sradicata”, direbbe S. Weil, dai suoi fondamenti comunitari, che sono appunto quelli sociali e che il pensiero classico considerava costitutivi dell‟essere umano, aristotelico . Proprio in quanto processo innaturale, cioè non spontaneo e inscritto nell‟ordine dei processi naturali, la disgregazione sociale necessita di un impulso istituzionale che sia ancora più artificiale, del meccanismo razionale che deve presiedere, la cui forza correttiva abbia la meglio delle tendenze spontanee e naturali insite nel comportamento umano e che, riguardo al sistema, sono irrazionali. In questo senso, la forza unitiva dello Stato razionalizzato esprime una contro-tendenza rispetto a quella spontanea dell‟esistenza umana, cioè di quella socialità antropologicamente propria alla sua natura. Questa contro-tendenza anti-sociale è ciò che indichiamo col termine di “civilizzazione”, la quale consiste nella razionalizzazione dei comportamenti umani resi funzionali, ossia compatibili, alla struttura artificiale del sistema Stato. La “civiltà” è dunque lo stile di vita adattato, ossia razionalmente conforme, al sistema di relazioni anti-sociali e rappresentate idealmente come più reali di quelle sociali in senso naturale, e perciò vere. Il principio che informa la visione del mondo razionalizzato è una immagine antropologica, una intuizione dell‟uomo, sul fondamento della quale viene giustificata razionalmente la sua esistenza. L‟intuizione che sorregge l‟antropologia dell‟uomo civilizzato moderno è la stessa che fondava la credenza ontologica della sapienza occidentale dagli albori della esperienza greca, secondo la quale l‟uomo sia per natura ragionevole e che la sua vita più autentica debba perciò avere uno stile razionale. Su questo fondamento ontologico, la costituzione dello Stato moderno non fa che esprimere in forma sempre più consapevole l‟istanza razionalizzatrice insita nella credenza antropologica originaria, secondo la quale il grado di razionalità della

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F.J.E. Woodbridge, An Essay on Nature (1940), tr. it., Milano, 1956, pag. 162.

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vita umana ne misura anche l‟indice della sua qualità esistenziale. Conformemente a questa credenza fondamentale, le istituzioni umane devono tendere ai fini della loro legittimazione morale a realizzare uno stile di vita il più razionale possibile. E nel perfezionamento di tale processo di razionalizzazione dell‟esistenza umana consiste il “progresso” della civiltà. E pertanto la funzione essenziale dello Stato consiste nell‟investimento della sua forza politica, ossia del Potere, ai fini di una “totale riorganizzazione del tessuto sociale” in senso conforme al sistema di rapporti razionalizzati. Questo, per un verso, spiega quanto riscontrato dall‟analisi sociologica di Elias circa il rapporto inversamente proporzionale tra il Potere statale centrale e l‟autonomia delle forze sociali locali, e per l‟altro chiarisce la funzione di contenimento del Potere delle tendenze politicamente centrifughe che sorgono continuamente dalla vita sociale e che determinano l‟accentuazione della tendenza razionalizzatrice del sistema, tesa a normalizzare quei settori sociali non sufficientemente omologati. Tenuti presenti questi due elementi di analisi, possiamo comprendere inoltre l‟intima radice totalitaria dello Stato razionalistico, che nel sec. XX rivela la sua compiuta fisionomia ideologica, insita come possibilità già però al principio della sua costituzione originaria nell‟età antica.344 La credenza ontologica che l‟uomo ideale sia per natura un essere ragionevole, nonostante l‟empirica smentita, determina il dovere di costituire uno spazio civico di razionalità in cui tutti i membri del consorzio sociale, a prescindere dalla loro posizione sociale, possano

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Alla luce di queste considerazioni, le teorie riguardanti la costituzione olistica della società antica in analogia con quella totalitaria moderna, sono comunemente viziate da una stessa incomprensione del fenomeno politico come forza razionalizzatrice del Potere artificiale dello Stato in funzione disgregatrice delle relazioni sociali naturali. Infatti, l‟analisi che tende a distinguere l‟azione politica dal suo fine costitutivo a essa immanente, non riesce a spiegare storicamente la “legge di Tocqueville”, ossia il rapporto tra libertà concessa e aumento di libertà richiesta. Infatti, ogni concessione di libertà da parte del Potere comporta la simmetrica negazione del monopolio della sua funzione. Soltanto l‟interiorizzazione del sentimento del limite della razionalità potrà conseguentemente estendersi al Potere razionalizzatore dello Stato. Ma ciò richiede un correttivo culturale ben più radicale e fondamentale di uno meramente istituzionale, che lasci impregiudicato il fondamento ontologico della fede razionalistica occidentale.

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prendere le decisioni politiche di interesse comune. Questo spazio, organizzato e sistematizzato razionalmente per costituire una struttura duratura e non occasionale, è lo Stato, il luogo pubblico per definizione. I contenuti della decisione politica, ossia la volontà del Potere, vertono su una esigenza fondamentale: rendere i comportamenti umani più razionali rispetto a quelli spontanei, ossia renderli conformi al modello di vita ideale. all‟origine del Potere c‟è pertanto la pretesa etica di rendere gli uomini migliori in riferimento al valore di quanto essi stessi saprebbero spontaneamente essere. L‟aspetto etico di tale pretesa consiste nella creazione delle possibilità comuni a tutti i membri sociali di essere migliori. La creazione delle possibilità di migliorare la condizione umana è il potere di perfezionare la natura stessa; potere che la tradizione di pensiero occidentale considera eminentemente politico. Lo Stato moderno nasce da questi presupposti fideistici, ne è la loro versione reale. Il prodotto socio-culturale di tale processo storico è la “civilizzazione”, lo spazio ideale entro il quale, mercé una struttura istituzionale, si trasforma in senso razionale il comportamento naturale dell‟uomo. Lo spazio ideale è lo stesso spazio politico, per cui il mondo civile rappresenta il luogo di realtà in cui si rispecchia storicamente l‟ideale modello antropologico. Ciò che ai fini del nostro ragionamento più rileva è che l‟ambito della sfera politica venga concepita come la forma ideale di esistenza umana, quella appunto razionale, la quale si determina in contrapposizione alla forma naturale, legata a comportamenti non regolamentati, essenzialmente belluini. In tal senso, l‟azione politica è la pratica di una discriminazione ideale tra ciò che è razionale da ciò che non lo è, ma è naturale. Il giudizio teoretico tra l‟essere e il nonessere si traduce nella discriminazione politica tra l‟amico (appartenente all‟insieme ideale) e il nemico (estraneo a tale insieme). Il giudizio politico, pertanto, presuppone un giudizio logico, stabilito su un fondamento di realtà, cioè su una fede ontologica, rimossa la quale l‟atto politico diventa mera volizione arbitraria, e l‟atto politico per antonomasia, il Potere dello Stato, mera volontà di potenza. In ogni caso, la determinazione politico-ideale consiste nel potere di assegnare il Luogo-di-realtà, che possiamo indicare come Topontico. Il Topontico è lo spazio ideale politicamente assegnato alla convivenza razionale dell‟uomo, ai suoi comportamenti normalizzati secondo il 198


sistema garantito dal Potere. Il potere di assegnazione è un potere di trasformazione, per mezzo del quale nell‟esistenza umana si determina un passaggio da una condizione di non-essere a una condizione d‟essere, del tutto analoga a quello che per Platone era attuato dalla filosofia. Il legame tra la politica e la filosofia non verrà più reciso nel corso dell‟intera storia della civiltà occidentale, perché stabilisce il senso razionale dell‟agire politico. La lunga digressione, che fa da premessa a quanto stiamo per dire, è resa necessaria allo scopo di chiarire la natura del Potere e, soprattutto, le ragioni della esistenza dello Stato: perché la maggioranza degli uomini debba sottostare alla volontà di una minoranza che li obblighi a uniformarsi a determinati modelli normativi di comportamento. Tale dovere nasce appunto dalla fede ontologica nella natura razionale dell‟uomo che soltanto il Topontico politico può garantire. Ed è tale fede ontologica a trasferirsi per emanazione mistica nel rimedio politico, assegnandogli un potere taumaturgico, quello di assegnare l‟ambito di realtà entro il quale le azioni e i comportamenti umani hanno senso comune, ossia vengono omologati come atti razionali, riconosciuti degni di esistenza e quindi di protezione politica. Ed è questo ambito di realtà contraddistinto da un orizzonte di coscienza politico-razionale che viene indicato con il termine di “Storia”, che per la coscienza razionalistica è intrascendibile, in quanto fuori di essa ci sarebbe il Niente, il luogo del negativo, ossia il regno della natura. Ed è appunto entro questo orizzonte che si pone l‟analisi di Elias allorquando afferma che “l‟individuo non ha molte possibilità di scelta” in che mondo vivere. Egli infatti “nasce e cresce all‟interno di un determinato ordine con determinate istituzioni; con maggiore o minore esito, viene condizionato da esse e in base ad esse”. E anche se le trovasse “poco gradite […] non può certo ritirare la sua adesione ed isolarsi dall‟ordine esistente”.345 Non potrebbe farlo senza negare la realtà stessa, ossia il fondamento di fede razionale che la sostiene, ponendosi perciò fuori dal mondo. E‟ appena il caso di aggiungere che la riserva teoretica, e il conseguente rifiuto politico della “realtà” costituiscono l‟atteggiamento tipico del filosofo. Elias stesso aveva affermato poco prima che “l‟adesione che il singolo dà a un certo

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N. Elias, Loc. cit., pag. 299.

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modo di convivere con gli altri, la giustificazione, in base a motivi determinati, dell‟essere inserito in una formazione statale o vincolato ad altri in qualità di cittadino […] e non di cavaliere […] avvengono a posteriori”,346 segno che la sua “adesione” non è un semplice “residuo” paretiano, ma un atto consapevole di ubbidienza alla necessità, ossia di volontario e rassegnato adeguamento alla realtà quale viene rappresentata dall‟ordine costituito. Si dà il caso, però, che la Storia stessa è un catena di vicende che vede come protagonisti uomini che non si rassegnano alla realtà data, ma lottano per cambiarla. Lo Stato razionale, col suo apparato ordinamentale, opera nel senso di debellare tali tendenze eversive attraverso il “monopolio della costrizione” con lo scopo di conseguire un “condizionamento sociale che abitua l‟individuo fin da piccolo ad un costante ed esattamente regolato controllo di sé”, stabilendo così in lui “un più stabile apparato di autocontrollo” quasi “automatico”, mentre nella società crea delle “zone pacificate”, ossia dei “campi che di norma sono al riparo dall‟impiego della violenza”.347 Il modello ideale di Stato, nell‟orizzonte di coscienza razionalistico, resta sempre quello platonico, fondato sulla dicotomia tra mentalità naturalistica dei cavernicoli non illuminata dalla ragione e quindi preda del particolarismo anarchico delle volontà, e mentalità razionale di una minoranza di uomini civilizzati, in grado di portare a unità ideale la molteplicità caotica dei fenomeni naturali. Il punto decisivo è l‟idea che l‟unità del cosmo sociale sia data dalla stabilità politica, che questa sia proporzionale al livello di monopolio della forza sociale, e che questo monopolio si ottenga ramificando le funzioni sociali in una progressiva interdipendenza degli individui, tale da inibire l‟aggressività delle pulsioni spontanee per non compromettere la loro “esistenza sociale”.348 Il punto derimente è dunque questo: l‟esistenza umana, fuori della dimensione socializzata nel senso del Topontico politico, non è (considerata) reale. E sulla fede determinata da questo giudizio di realtà si fonda la legittimità del Potere di Cesare e dello stesso processo di civilizzazione, che consiste nel riportare il

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Ibidem. N. Elias, Loc. cit., pag. 306. 348 Ivi, pag. 307. 347

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molteplice all‟unità ideale. Dato per vero questo assunto, ne consegue che l‟opera di razionalizzazione della vita sociale avviata dallo Stato assolutistico sia non solo altamente benemerita ma oltremodo necessaria ai fini della qualità della vita umana. Ciò stabilisce una relazione tra benessere sociale e razionalizzazione della cultura, cioè delle forme di rappresentazione ideale della realtà. Più queste vengono depurate da residui irrazionali, maggiore è la loro veridicità e fruibilità sociale. In questo senso, l‟opera di razionalizzazione culturale coincide con quella di demitizzazione della tradizione teologica cristiana, ossia con la secolarizzazione, come meglio vedremo in seguito trattando delle teorie di Blumenberg. Per restare alle analisi di Elias, l‟elemento problematico delle sue considerazioni storico-sociali è l‟irresoluta contraddizione tra l‟istanza unitaria dell‟ideale razionale di società rappresentato dallo Stato assolutistico, e la varietà crescente di funzioni interne alla struttura sociale, indispensabile alla sopravvivenza del Potere. Tale diversa e opposta declinazione delle forme di organizzazione razionale, unitaria quella del Potere e molteplice quella sociale, comporta una intestina tensione istituzionale che nei singoli si riflette in termini esistenziali di “autogoverno psichico”,349 che è il modo con Elias chiama la rassegnazione al destino, oggetto topico della tragedia antica. Ciò che muta nella versione moderna secolarizzata è il rapporto non più eroico, come ab antiquo, tra il protagonista moderno e la Storia in cui agisce, rispetto alla razionalità della quale il suo cimento appare velleitario e destinato perciò alla disfatta. Esso infatti, lottando contro l‟apparato della ragione istituzionalizzata, mostra un deficit di socializzazione, una diseducazione perversa contraria alla spinta indotta dal Potere “a trasformare tutta la sua economia psichica nel senso di una continua e uniforme regolazione della sua vita pulsionale e del suo comportamento in ogni aspetto della vita”.350 Abbiamo sottolineato la chiusa in quanto essa comprende il senso immanente a ogni processo di razionalizzazione, che è quello di uniformare l‟esperienza molteplice al modello paradigmatico stabilito come spazio pubblico,

349 350

N. Elias, Loc. cit., pag. 311. Ivi, pag. 313.

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attraverso la sua progressiva universalizzazione, la quale costituisce l‟intima istanza di ogni ideologia totalitaria. Con la formazione della società moderna, a opera dello Stato assolutistico, non viene più chiaramente distinto lo spazio pubblico da quello privato, ma questo viene inglobato nel processo di razionalizzazione istituzionale e considerato anch‟esso espressione della volontà politica, soggetta alla decisione di essere o di non essere entro l‟orizzonte di realtà stabilito dal Potere. in tal senso, affermare che “tutto è razionale” vale a dire che “tutto è politica”: significa in entrambi i casi che “ciò che è reale è razionale e ha valore politico”. Che l‟uomo sia un essere imperfetto, non è solo la teologia ad affermarlo ma la stessa acquisita coscienza antropologica. Ciò che resta controverso è se la perfettibilità umana sia possibile entro lo spazio politico, e non piuttosto in un piano che trascenda l‟ordine naturale, di cui quello politico sarebbe appunto la versione perfezionata e più razionale; un piano spirituale. Se la sapienza greco-romana ha creduto nella prima ipotesi, quella politicistica di impronta naturalistica, la coscienza cristiana ha invece perseguito la seconda, quella spiritualistica, per cui, dal punto di vista cristiano, al di là della concreta condotta della Chiesa e della sua produzione teologicopolitica, il processo politico-culturale che ha condotto alla formazione dello Stato moderno è fondamentalmente legato a una errata posizione metafisica e antropologica. Infatti, la sconsiderazione della realtà spirituale partecipe della natura umana ha determinato risposte sociopolitiche coerenti a un piano di coscienza assolutamente naturalistico, che pone al centro di ogni considerazione teoretica l‟identità di verità e necessità, la cui unilateralità culturale, misconoscendo il fondamento spirituale della libertà, e dunque il movente di un agire non condizionato da fattori naturalistici, ha provocato l‟instabilità tanto delle rappresentazioni teoriche dell‟esistenza umana che dei regimi politici. Il ricorso alla forza, quale vettore di stabilità sociale e contenuto del Potere politico, è un tentativo di modellare la volizione umana entro alvei di necessità normativizzati, tendenti ad eludere il più possibile la casualità individuale a vantaggio della predeterminazione di comportamenti standard razionalizzati, sulla presunzione che l‟efficacia dell‟intervento correttivo sui comportamenti spontanei sia legata alla conoscenza dei processi naturali, ossia dei comportamenti generalizzabili secondo leggi universali. Ma proprio perché l‟azione 202


potestativa del Potere agisce su moventi generici e indifferenziati, le diventa impossibile raggiungere la sfera dell‟individualità in cui si esprime la libertà umana, sicché la sua tendenza ad annullarla è dovuta alla necessità stessa di riportarla al livello operativo della genericità, in cui è possibile appunto il suo controllo e quindi efficace l‟azione istituzionale in cui consiste. Ora possiamo meglio comprendere come il passaggio dalla condizione naturale a quella civile altro non sia che il progresso da uno stadio di minore a uno di maggiore razionalizzazione dell‟esistenza umana, ma pur tuttavia stadi interni a uno stesso processo ideale di rielaborazione di un comune fondamento ontologico che ignora la libertà spirituale, l‟essenza umana più profonda, molto più della socialità, perché riguarda l‟uomo anche fuori dei rapporti naturali e collettivi, che non a caso Gesù chiedeva di rescindere a chiunque volesse seguirlo. Questa essenza spirituale infatti non pertiene al piano politico o di Cesare, strutturato economicamente ai fini del controllo delle forze fisiche della vita sociale, ma alla sfera dei rapporti altruistici, dove dominante è il sentimento del limite della potenza dell‟attore, individuale come istituzionale, in considerazione della realtà indipendente dell‟altro; indipendente dal nostro riconoscimento, e quindi assoluta. La condizione di assolutezza di una realtà che non dipenda dalla nostra volontà teoretica o di dominio, ma che riguarda ciò che trascende i limiti della nostra personalità naturale, della nostra identità politica, non può che riguardare la dimensione del divino o della Verità, declinata però non secondo i paradigma della naturalistica necessità o costrizione invincibile di una forza superiore, ma come libertà e volontaria adesione, ossia come fede. Questa è la sfera morale, alla quale deve presiedere un organo di Governo etico diverso da quello del Potere politico, i cui princìpi la Morale trascende. Fu il Cristianesimo che, per dirla con Ricoeur, introducendo nell‟alveo esistenziale dell‟uomo la “dimensione della vita morale, fa scoppiare il quadro propriamente politico della vita umana”,351 liberando l‟esperienza umana da quella fatale necessità che per la sapienza pagana legava l‟esistenza dell‟uomo alle leggi inviolabili della natura. Con la

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P. Ricoeur, Histoire et Verité, cit. in C. Marco, Libertà e Liberalismo. Pensiero e politica della ragione in Occidente, Lungro di Cosenza, 2004, pag. 264.

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coscienza cristiana la sfera della socialità, costitutiva della natura ragionevole dell‟uomo, non viene negata a favore della dimensione noetica, alla maniera platonica, ma viene trascesa, cioè limitata all‟ambito della dimensione naturalistica, anch‟essa voluta da Dio, ma non più l‟unica a caratterizzare l‟esperienza umana, come era per l‟antropologia antica. Il carattere trascendente del limite dell‟affermazione di sé al quale ci richiama la coscienza morale, destina il Potere politico entro questa limitazione, entro i suoi limiti naturalistici. E soltanto entro la dimensione naturalistica il Potere può espletare la sua forza di dominio. Ma non essendo l‟unica dimensione umana, la sfera morale gli rimane intangibile, fuori della sua portata. Da qui il senso politico della lotta dello Stato assolutistico a negare realtà pubblica alla religione della fede cristiana, espellendo da essa, cioè dall‟ambito del suo dominio assoluto, ogni ingerenza morale, sia della sfera intellettuale che della potenza istituzionale e dottrinale della Chiesa. Negare spazio pubblico alla Morale, equivale ad affermare l‟onnipotenza del Potere e della cultura naturalistica di cui è espressione ideale.352 Viceversa, riconoscere il limite al Potere politico e al sapere razionale, significa ammettere l‟intangibilità dell‟ordine della creazione divina, e quindi dei rapporti sociali spontanei fondati sulla gerarchia dei valori tradizionali, in capo ai quali c‟è la legge di Dio e non quella dello Stato. Il Potere sconvolge l‟ordine sociale tradizionale, facendo della politica la ragione del mondo, lo strumento umanistico per sovvertirlo, mutando l‟ordine gerarchico che lo caratterizza. Niente può rimanere fuori del Tutto. Questo ni-ente è ciò a cui la ragione nega realtà significativa, il meta-fisico, ostracizzato dal metodo scientifico di conoscenza dell‟ente. Una conoscenza manipolatrice, tendente a possederlo come prodotto della sua possibilità di farne qualcosa anziché altra. Attribuire valore significativo all‟ente, significa distoglierlo dal niente e dargli realtà. La prerogativa massima del Potere è di attribuire significato alle cose. Circoscrivere l‟ambito significativo allo spazio pubblico, significa controllare entro quello spazio tutto ciò che vi rientra. Un Potere che

352

Giusta pertanto l‟affermazione di E. Severino secondo il quale “la metafisica ha preparato la dimora della violenza, ed è anzi la violenza stessa nella sua forma più originaria e più pura”: Téchne. Le radici della violenza (1979), Milano, 2010, pag. 215.

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guarda al tutto come suo campo di controllo e che non venga limitato da un principio trascendente è tendenzialmente totalitario.353 Se dunque ci chiediamo a quale stadio di razionalità appartenga l‟epoca medievale, in riferimento alla costruzione della società politica moderna, la risposta appare scontata. Ma sarebbe la risposta giusta a una domanda sbagliata. Infatti, la domanda corretta è: possiamo considerare il processo razionalistico di civilizzazione un percorso storicamente necessario? Oppure esso è soltanto il possibile esito storico di una ipotesi onto-antropo-logica? Dai risultati fallimentari per l‟esistenza umana cui è pervenuta la civiltà europea nel sec. XX, la risposta sembrerebbe scontata, ma per convincersi della impraticabilità storica del paradigma ontologico razionalistico occorre che la possibilità dell‟esito totalitario non venga intesa come un‟opzione degenerativa contingente e arbitraria rispetto ad altre ireniche di determinate versioni ideologiche aberranti, ma che ogni possibilità elaborata sul fondamento di quel paradigma conduce a un analogo esito totalitario, essendo totalitario il principio stesso di ragione. Questo principio, infatti, determinandosi per negazione dell‟altro-dasé, afferma esclusivamente sé stesso, rappresentando il proprio sé come il tutto. Nella riduzione di tutta la realtà al sé consiste la reductio ad unum sia del metodo razionale di pensare che della pratica politica, e pertanto, non soltanto i sistemi di pensiero razionalistici, ma anche lo Stato razionalistico sono fondamentalmente totalitari. La forza politica dello Stato razionalistico o assolutistico è la stessa forza teoretica della ragione che procede per esclusione dall‟orizzonte di potenza del Sé tutto ciò che non gli appartenga, l‟altro, appunto. E poiché la considerazione dell‟altro è la premessa di ogni sentimento morale, il processo di affermazione dello Stato assolutistico si sviluppa come esclusione di ogni considerazione della realtà non sussumibile entro il suo orizzonte di coscienza-potere, e dunque come formalizzazione istituzionale del Potere esclusivo di ogni forma sociale di carattere impolitico. Il sistema medievale, entro il quale convivevano distinte e diverse costellazioni sociali, costituiva un 353

“La storia dell‟Occidente è il progressivo impadronirsi delle cose, cioè il progressivo approfittare della loro disponibilità assoluta e della loro infinita oscillazione tra l‟essere e il niente”: E. Severino, Loc. cit., pagg. 222-223.

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ostacolo formale alla razionalizzazione sistematica del Potere unico centrale, e quindi, così come la sua economia naturale, doveva essere superato da una organizzazione statalistica che riportasse la diversità socio-economica all‟unità politica, nelle forme ricordate da Elias. Ciò che però Elias non considera è che il processo di normalizzazione razionalistica della struttura assolutistica di potere statuale, se aveva come obiettivo politico empirico il superamento del sistema feudale, e dunque la lotta contro le resistenze nobiliari ed ecclesiastiche, l‟obiettivo ideale del sistema di potere razionalistico è l‟annichilimento di ogni forma di pensiero e di ogni prassi sociale di carattere etico, assunto come l‟oggettivo polo dialettico della sua auto-affermazione politico-culturale. Se questo è chiaro, allora possiamo comprendere come il processo di secolarizzazione della cultura moderna proceda di pari passo con la tendenziale eliminazione istituzionale di ogni forma di Governo morale della società, avvertito come concorrente al monopolio del Potere dello Stato assolutistico. In tal senso, era necessaria la lotta contro il potere concorrente sia della nobiltà feudale che della Chiesa, condotta in termini di dissacrazione di ogni valore morale e sentimentale trascendente il piano di realtà politico, quello appunto del Potere. La conseguenza spirituale di questa strutturazione razionalistica della vita sociale è la sublimazione economica della volontà, ovvero il fenomeno che Weber ha indicato come “trascendenza infra-mondana”, consistente nella razionalizzazione utilitaristica degli impulsi vitali in forme produttive di beni materiali. L‟etica del successo prende il posto, nella stessa società di cultura cristiana, dell‟etica della santità. Un‟altra conseguenza della “civilizzazione”, non meno gravida di risultati esistenzialmente devastanti per l‟uomo, è l‟aumento del Potere di controllo istituzionale su pressoché ogni aspetto della vita sociale si accompagna alla crescente incapacità di controllare i processi messi in moto dallo stesso Potere di indirizzo normativo dello Stato di diritto. Il che fa dire a Elias che “come quello sociale, anche il processo individuale di civilizzazione a tutt‟oggi si è svolto in massima parte in modo cieco”.354 “Cieco” in senso kantiano di un agire non guidato dalla ragione, attivistico. Come ha notato a suo tempo H. Arendt,

354

N. Elias, Loc. cit., pag. 317.

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l‟agire umano produttivo di processi incerti e imprevedibili, non riguarda alcuna sua facoltà teoretica legata alla contemplazione o alla stessa ragione. In questo tipo di azione – il cui effetto è stato straordinario per l‟età moderna, sia per l‟enorme estensione delle facoltà umane sia per la nuova coscienza storica che ha prodotto – si sono avviati processi dei quali non è dato prevedere l‟esito, così che l‟incertezza anziché la fragilità, diventa il carattere decisivo delle cose umane.355

Questo esito paradossale della civilizzazione, non soltanto collega destini individuali a destini collettivi, ma è l‟indice di quell‟errore di cultura della credenza ontologica razionalistica, di cui si diceva sopra, che produce, nelle sue incessanti rielaborazioni dello stesso paradigma mitico, mito-logie che non trascendono il suo orizzonte di coscienza, e perciò riproducono in forme diverse gli stessi esiti irrazionali, e quindi “comportamenti incontrollabili” (Zwangshandlungen), contraddittori rispetto al Potere panoptico di controllo dello Stato moderno, e per questo “socialmente privi di utilità”.356 Ciò significa, in altri termini, che il dominio della sfera del valore economico, proprio di una cultura socializzata in senso razionalistico, produce comportamenti devianti non controllabili dal Potere, in quanto espressivi di una condizione umana che la cultura razionalistica tende per principio a escludere dalla realtà informata ai suoi princìpi. Ma a seguito di questa rimozione dell‟irrazionale, le manifestazioni sociali extra-sistemiche, anziché essere comprese entro il processo di universalizzazione dei valori della ragione, vengono, in virtù del processo universalistico stesso, marginalizzate dal sistema, il quale non potendole discriminare senza ammetterne l‟esistenza, ne ignora la genesi auto-poietica interna al sistema, ovvero le classifica come occasionali devianze criminali, socialmente marginali. Le conseguenze sociologiche di tale rappresentazione della realtà sono analoghe a quelle teoriche, nel senso che, se per un verso i fenomeni eversivi prodotti dalla civilizzazione vengono (almeno in pare) puniti da non culturalmente assorbiti se non psicologicamente come fenomeni

355 356

H. Arendt, The Human Condition (1958), tr. it., Milano, 201419, pag. 171. N. Elias, Loc. cit., pag. 318.

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di assuefazione, per altro verso, l‟intrascendibilità dell‟orizzonte politico del sistema induce l‟agire eversivo ideologicamente più motivato e consapevole, a organizzarsi politicamente e ad agire a sua volta come legittima forza sociale, chiedendo di essere riconosciuta tra le altre forze sociali. In questo modo i movimenti fascisti europei tra le due Guerre andarono al Potere democraticamente secondando una prassi istituzionale formalmente corretta, pur con l‟intento chiaramente eversivo di rovesciare il sistema che tendeva ad emarginarli ma che si rivelò del tutto impotente a contenerli. Di fronte alla portata sociopolitica di questi fenomeni eversivi, il giudizio realistico di parecchi ascoltati osservatori di dogma razionalistico – si pensi, in Italia, solo al giudizio di Croce sul fascismo – si rivelò di una miopia teoretica più che incresciosa, sbalorditiva per la loro incomprensione storica. Ma vi è di più. Ancora dopo l‟esperienza devastante dei regimi totalitari per la civiltà europea, dopo la seconda Guerra mondiale, che aveva mostrato plasticamente le conseguenze tragiche della teoresi razionalistica portata agli estremi ideologici, tutti i paesi che negli anni Trenta del Novecento avevano rigettato il sistema democraticoparlamentare per quello fascistico, tornarono ad adottarlo come antidoto politico-istituzionale al fascismo e al comunismo, non prendendo consapevolezza che anche la forma parlamentare era una variante ideologica dello stesso principio totalitario che sottende la teoria razionalistica della sovranità democratica, confermando con ciò quanto sopra affermato circa la confusione tra possibilità istituzionalmente diverse ma idealmente interne allo stesso orizzonte di pensiero, e cambiamento di paradigma ontologico. Così come il realismo filosofico non è che la forma speculare dell‟idealismo, anche lo statalismo è la forma secolare dell‟ecclesialismo, espressioni di una medesima concezione razionalistica e perciò totalitaria della realtà. Il pensiero antico, compreso quello greco, fin quando si era mantenuto all‟interno di una particolare dimensione sociale, conforme all‟organicismo naturalistico, quella comunitaria, distinta dalle altre per credo, lingua e costumi, ha concepito il sentimento del limite come la conseguenza di quella stessa insuperabile particolarità, collegata alla volontà divina e perciò necessaria. Allorquando il pensiero razionalistico ha ricercato una legittimità del mondo diversa da quella mitico-comunitaria, ritrovandola nella logica universalizzante, ecco che il piano della realtà fenomenologica si è trasferito in una 208


dimensione meta-fisica di elitaria accessibilità ma oggettivabile in termini razionali attraverso una metodica tecnica, e quindi riproducibile. La politica, intesa come arte (o tecnica) della riproduzione della società ideale attraverso il Potere legislativo, è una concezione che appartiene alla metafisica idealistica che ancora domina il nostro orizzonte di coscienza. Riprodurre la realtà, in termini politici, significa formarla secondo l’idea, e dunque non crearla dal niente, come l‟opera di Dio ha creato l‟universo, ma farla nascere dall‟Idea: costruirla. La poiesi particolare della creazione idealistica è che la realtà da essa determinata è razionale, cioè “vera” e non semplicemente funzionale (utile) o estetica (bella). Affermare che qualcosa sia razionale significa che è di valore universale, non dipendente cioè dalle credenze umane delle culture particolari, e perciò affermabile al di là di ogni comprensione particolare, oggettivamente. La razionalizzazione del mondo elimina la soggettività per affermare l‟oggettività del valore universale. Ciò vuol dire che tale valore universale non perde la sua oggettività se non venga compreso, e dunque può essere imposto anche con la forza, cioè politicamente. La differenza rispetto al processo dialogico, è che nell‟ambito politico la mediazione del deuteragonista dialettico si può superare affermando direttamente il risultato razionale, ossia realizzando la realtà ideale. La struttura di Potere messa in piedi dallo Stato assolutistico moderno non è che la definizione sistematica della realtà formalizzata secondo l‟idea razionale, ossia la razionalizzazione del mondo in custodia politica, lo Spazio Pubblico. Questo mondo custodito dalla politica è lo Stato. La costruzione dello Spazio Pubblico statale riproduce in forma razionale il materiale sociale, quale si è venuto casualmente accumulando sulla base dell‟esperienza spontanea degli uomini. Ciò vuol dire che la realtà strutturata razionalmente dallo Stato è costruita espungendo dall‟esperienza sociale le forme di convivenza irrazionali rispetto al modello ideale, e perciò non utilizzabili. Questo scarto ontologico operato dalla politica sulla realtà sociale è ciò che comunemente va sotto il nome di “riforma sociale”. Considerando, però, la intima natura razionale di tali riforme politiche della vita sociale, la loro portata universale si riflette sulla coscienza culturale tradizionale come “progresso civile”, ossia come processo di civilizzazione. A questo punto è opportuno chiedersi il perché di questo processo di 209


razionalizzazione del mondo, della sua necessità. Se infatti esso è stato perseguito per secoli fino alla sua realizzazione novecentesca, segno che il mito che lo ispirava è stato creduto vero per tutto questo tempo dalle classi dirigenti europee. La radice nella verità di tale credenza va riportata alla coscienza della finitezza umana, ispiratrice dei possibili rimedi. Fin quando l‟uomo ha creduto al volere degli dèi, ossia a quella Necessità che lo legava indissolubilmente ai destini naturali, egli non ha neppure pensato alla possibilità di emanciparsi, se non contingentemente a opera di eccezionali eroi, a loro volta di sangue divino. L‟uomo credente negli dèi non pensava di valicare il Limite della propria condizione umana, della propria natura. Solo allorquando ha creduto di poter attingere al sapere assoluto, alla verità, attraverso il metodo razionale, ha creduto anche di emanciparsi dal giogo della Necessità. In tal senso, la filosofia è stato il maggior atto d‟orgoglio teoretico dell‟uomo emancipatosi dalle credenze mitiche. E questa hybris l‟uomo moderno ha riversato costruendo politicamente la società ideale, non bastandogli più il semplicemente pensarla, realizzando così il progetto platonico della Repubblica di liberare la cieca umanità dalle tenebre delle superstiziose rappresentazioni mitiche del mondo. Ma per addivenire alla realizzazione di tale progetto razionalistico, la civiltà culturalmente demitizzata ha dovuto credere nella inesistenza degli dèi per poter rimuovere il sentimento del Limite che comportava la credenza in quella esistenza. E dunque la nuova posizione razionale ateistica dell‟uomo emancipato dal mito non è altro a sua volta che una nuova credenza, sostitutiva di quella antica nell‟esistenza degli dèi. Credere nell‟esistenza del Limite, o non crederci ha dunque la stessa valenza mitica? La risposta dipende dalla capacità che l‟uomo si è ascritto di poter superare quel Limite, sfidando la necessità naturale sul terreno della durata, cioè sulla vittoria contro l‟edacità del tempo. Soltanto dimostrando di poter realizzare l‟ideale l‟uomo può sconfiggere il Limite della morte. Per i Greci ciò avveniva attraverso la memoria (Mnemosyne), il gesto memorabile da tramandare ai posteri oltre la vita del suo attore. La costruzione dello Spazio Pubblico è stato un modo di partecipare i cittadini all‟agire razionale, mirante a edificare uno Stato non soggetto a termine, dalla durata illimitata: ideale, appunto. La sfida contro gli dèi non poteva che avere questa posta in gioco, la costruzione della città eterna. L‟uccisione degli dèi 210


doveva segnare l‟avvento del tempo dei figli, mortali ma capaci di costruire il loro regno eterno. Il razionalismo si consuma attraverso il parricidio del mito che ha generato la sua elaborazione. Divino è, nel regno umano, colui che incarna l‟ordine ideale della Città per averlo costituito, il Demiurgo politico. Il suo compito è di negare la condizione mortale dell‟uomo come destino,divinizzando, se non l‟uomo empirico, la sua opera. Lo spostamento d‟attenzione dalla natura divina ai prodotti umani segna la dimensione stessa della sfida antropologica intrapresa contro la mortalità per mezzo della poiesi idealistica, della creazione degli enti di ragione.357 Il mondo della produzione e del lavoro diventa nell‟età moderna il luogo in cui si realizza l‟ideale. In questa centralità della praxis, la sfera politica si collega sempre più funzionalmente all‟economia, fino a diventare gestione della intera vita umana come esistenza razionalizzata, fuori del cui ambito c‟è il kaos delle società tradizionali. L‟ambito dell‟esistenza umana razionalizzata è quello della Storia, il campo ideale in cui si può narrare il processo della vita razionale dell‟uomo, il senso universale della sua fenomenologia. Fuori della Storia persistono culture non civilizzate e mentalità non razionalizzate, preda della necessità della mera sopravvivenza naturale. L‟universalismo razionalistico, anche sul piano storico, si determina attraverso l‟esclusione dialettica dell‟altro-da-sé, del Negato. Il Negato è colui che vive fuori della Storia, l‟alienato socio-culturale dal processo di civilizzazione razionalistico. Il rischio di alienazione socio-culturale è immanente a ogni processo di acculturazione, ma nella esperienza socio-culturale dell‟Occidente il fenomeno ha assunto i termini della minaccia esistenziale, proprio in conseguenza del carattere universale del processo di progressiva razionalizzazione della civiltà. Se dunque nell‟età medievale registriamo una varietà di luoghi di socializzazione (culturali, familiari, locali, religiosi, artigianali, etc.), la

357

Diversamente da quanto sostenuto da E. Severino, noi pensiamo che la civilizzazione occidentale in senso razionalistico sia un processo conflittuale contro il nichilismo, ossia contro il destino della necessità della finitezza umana, segnata dalla consapevolezza, solo umana, della morte. Questa lotta contro la necessità coincide con la stessa rimozione del Limite che divide la sfera mortale da quella divina.

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nascita dello Stato assolutistico riduce tali spazi tendenzialmente a uno: quello politico, lo Spazio Pubblico. Soltanto chi è all‟interno dello Spazio Pubblico partecipa della vita dello Stato. rispetto alla grande dicotomia tra chi è dentro il sistema e chi ne resta fuori, la stessa proliferazione delle funzioni sociali diventa secondaria, perché conseguenziale alla stessa struttura onnicomprensiva del sistema politico razionalizzato. Se questo è chiaro, lo è anche il termine polemico del Potere, che è un termine oggettivo non meno di quello positivo della volontà politica più forte. Il termine polemico contro il quale si manifesta il Potere politico razionalizzato è la società stessa in quanto luogo della coesistenza spontanea delle gerarchie, della tradizione impolitica, della credenza mitico-religiosa, dei conflitti non normativizzati, dove regna l‟anarchia dei poteri e l‟assenza delle leggi razionalmente valevoli per tutti, dove l‟uomo è lupo all‟altro uomo: il regno della vita naturale. La società come ambito naturale di vita, contrapposta alla vita civile nello Stato razionale, è il luogo del Negativo, del non-essere ideale, dove si rifugiano gli emarginati dalla Storia, i Negati appunto. L‟altra società, quella “civile”, in cui regnano i rapporti razionalizzati, è abitata da uomini ragionevoli, civilizzati, ossia inclusi entro l‟orizzonte di controllo del Potere universale. Fuori di questo mondo razionalizzato dal Potere resiste nel Medioevo la Chiesa, quale società altra e non omologata entro lo Spazio Pubblico dello Stato. La forza della Chiesa, che pure combatte la sua battaglia politica contro le pretese assolutistiche dello Stato, è riposta soprattutto nella sua capacità di influenza intellettuale nelle élites e di presa religiosa sugli strati sociali inferiori. Ma le resistenze intellettuali opposte dalle sue istituzioni e dalle sue tradizioni di pensiero non hanno retto l‟urto della secolarizzazione della cultura moderna, in quanto la teologia stessa era impregnata di razionalismo, fungendo da fucina mitica a ogni successiva elaborazione filosofica, sicché l‟attività di razionalizzazione universale ha trovato i suoi confini nelle civiltà di mondi socio-culturali diversi da quelli occidentali, verso i quali si è diretta l‟attenzione globale delle ideologie democratiche, il cui scopo è quello di inglobare le realtà dei Negati entro l‟orizzonte di senso razionalistico della civilizzazione occidentale, concepito sia come una opportunità di dominio che come una missione morale di chi ha benessere verso chi non ne ha. La stessa Chiesa di oggi, abbracciando del tutto la prospettiva ontologica 212


razionalistica che la sua teologia ha così tanto contribuito a diffondere, propone questo rapporto quantitativo come scala di doverosa attenzione degli abbienti verso i fratelli non abbienti, abbandonando ogni prospettiva soteriologica di carattere spirituale a favore del miglioramento delle condizione di vita materiale legate all‟incremento della produzione e dei consumi delle realtà più povere, e quindi al protagonismo del Potere politico ed economico su sempre più ampia scala mondiale. Il rovesciamento della visione dell‟Essere nella dimensione dell‟Avere è il risvolto prassistico dell‟onto-logia razionalistica, il cui universalismo esclusivistico ispira l‟etica dell‟inclusività, ossia dell‟espansione indefinita del dominio ontologico in ogni ambito dialetticamente escluso, in una lotta strenua quanto impossibile contro il Negativo che essa stessa produce per partenogenesi. Infatti, qualunque lotta per la redenzione economica presuppone la povertà del redento, sicché ogni intervento mirato alla inclusione politico-culturale dei popoli esclusi entro l‟orizzonte della civiltà razionalistica, deve supporre la loro negazione dialettica, ossia un giudizio di irrilevanza della loro esperienza esistenziale. La prassi razionale, dettata dal “modello ideale” che, come già Marx affermava consapevolmente, “sta all‟inizio del processo lavorativo”,358 trasforma ciò che non è nell‟Idea in prodotto ideale, in ciò che è secondo la sua Idea. Quest‟opera di trasformazione, che pone in essere quanto non lo era, è per Hegel il processo stesso del divenire della Storia quale sviluppo razionale dell‟Idea totale o Spirito (Geist), il cui “prodotto è l‟intera esistenza etica di un popolo”, mentre il “modo” in cui l‟Idea “si produce nel tempo” è la “libertà”, definita pertanto da Hegel come “il modo in cui l‟Idea fa emergere ciò che essa stessa è e diventa progressivamente ciò che essa è secondo il suo concetto. Questo far emergere si dispone in una serie di figure etiche, la cui sequenza costituisce il cammino della Storia”.359 Il processo della volontà umana, inserito nel processo produttivo della Stria impersonale, perde la sua responsabilità morale e diventa libertà

358

K. Marx, Il Capitale, lib. I § 3. G.W.F. Hegel, Vorlesungen ueber die Philosophie der Weltgeschichte (1822-23), tr. it. di S. Dellavalle, Torino, 2001, pag. 23. 359

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oggettiva, ossia momento funzionale alla realizzazione dell‟Idea, “quale è secondo il suo concetto”, ossia secondo il suo modello universale. E ogni realizzazione storica dell‟Idea, costituisce una forma etica in cui si comprende l‟intera realtà etica di un popolo, di cui lo Stato è l‟espressione istituzionale. Ecco dunque teorizzato lo Stato etico, ossia l‟eticità dello Spazio Pubblico che in esso si determina e dal cui Potere è presieduto. Lo Spazio dello Stato, il Topontico politico controllato dal Potere, diventa il luogo della razionalità, e dunque della verità della realtà. Ciò che è razionale e vero si manifesta entro lo Spazio Pubblico, fuori del quale c‟è il Niente, la Negazione, lo scarto irrazionale della natura. L‟interdipendenza sistematica, che costituisce il tratto caratterizzante della civilizzazione in Occidente,360 si spiega appunto con il processo di razionalizzazione della realtà attraverso lo Stato, tale che il suo Potere non sia un mero esercizio di dominio del forte sul debole, ma sia rivestito di un crisma etico che surroga la condizione di salvezza promessa dal messianismo escatologico cristiano e, come quello religioso, è pregno di un forte carattere ascetico teso alla “moderazione degli affetti e alla regolazione delle pulsioni” spontanee al fine di “subordinare le inclinazioni momentanee alle esigenze di una più ampia interdipendenza”.361 La vita razionalizzata è costituita infatti da legami e relazioni stabilite secondo criteri funzionali al meccanismo complessivo della società artificiale regolata dallo Stato, il cui ambito diviene perciò la natura perfezionata dall‟uomo per l‟uomo. Così come il modello ideale per definirsi astrae dal divenire delle imperfette relazioni concrete del mondo-della-vita, parimenti la realtà razionalizzata si determina astraendo il proprio ambito ideale dal divenire scomposto della natura. In questo senso, la società liberale moderna rappresenta essenzialmente un modello astratto di esistenza umana, intendendo per “astrazione” la “modalità dell‟essere totale che si realizza come realtà finita, come fenomeno storico, nel tempo”.362 Ed è questa modalità, come abbiamo visto, che Hegel chiama “libertà”, per cui la relativa civiltà che ne è espressione è

360

N. Elias, Loc. cit., pag. 320. Ivi, pagg. 321-322. 362 C. Marco, L’ordine pigro. Nascita e declino dell’Europa civile, Lungro di Cosenza, 2012, vol. I, pag. 203. 361

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quella che abbiamo indicato come “civiltà liberale”. Il meccanismo sociale sotteso al funzionamento dello Stato moderno, in virtù del processo di universale razionalizzazione del sistema di vita da esso regolato, tende a rapportare ogni singola articolazione interna al sistema alla sua prevista funzione, sicché ogni rapporto funzionale viene spersonalizzato e reso anonimo, ossia astratto da ogni altra considerazione di carattere esistenziale. ciò comporta che le relazioni inter-personali assumono significato solo all‟interno del sistema di valori riconosciuto come valido, mentre viene problematizzata in termini anti-economici ogni relazione extra-sistemica, da quella affettiva alla malattia, a ogni forma di devianza sociale allo scopo di neutralizzarne la carica anti-politica. Da qui il bisogno strutturale di coinvolgere il più possibile quei settori marginali della società refrattari alla socializzazione in senso razionale, in modo tale che “le strutture civilizzatrici si diffondono costantemente anche all‟interno della società occidentale; così l‟Occidente nel suo complesso – strati inferiori e strati superiori in ciò unificati – tende nello stesso tempo a diventare uno strato superiore e di centro di intreccio d‟interdipendenze da cui si dipartono le strutture civilizzatrici, diffondendosi in zone sempre più vaste della terra”.363 La istanza universalistica del sistema liberale provoca una tendenza omologante dei comportamenti socializzati che rende più fluidi i confini socio-culturali tra esponenti di tradizioni diverse, al fine di rendere più fruibili i contenuti della produzione economica e della comunicazione finalizzata al consenso. Ciò ha comportato una significativa riduzione delle differenze e dei codici di comportamento degli strati superiori e inferiori in senso di una generalizzata stratificazione mediana, al cui interno avviene un incessante flusso e riflusso osmotico che agevola il ricambio indolore delle classi dirigenti. Ma l‟aspetto più significativo di questa tendenza sociologica è inerente alle sue possibilità di fruizione universale, che sono sicuramente dovute all‟ “inglobamento di nuovi spazi umani nell‟intreccio di interdipendenze” generalizzate, ma ancor più alle ragioni che fanno mutare “la struttura della società [tradizionale] e

363

N. Elias, Loc. cit., pag. 325.

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quella dei rapporti umani in generale”.364 Queste ragioni e queste possibilità sono dovute alla radicalizzazione dei motivi esistenziali dell‟uomo civilizzato ai suoi elementi più elementari, alle sue esigenze primarie, le più naturali e perciò stesso le più universali, legate alla sopravvivenza biologica in senso della nutrizione e della sicurezza fisica. Quelle che erano le istanze più diffuse nella società a economia naturale, e che costituivano i contenuti salienti della cultura di base dei popoli, vengono acquisite su un piano di promozione della vita che ne consenta la traducibilità in termini razionali universali. Questa traduzione in termini universali delle istanze particolari di tutti i popoli della terra è resa possibile appunto attraverso la loro rappresentazione razionale, emendata di ogni forma culturale particolare, di ogni tradizione antropologica entro il cui ambito quelle istanze elementari avevano significato esistenziale. La razionalizzazione in senso universale delle istanze elementari dell‟uomo è insomma resa possibile attraverso la loro astratta rappresentazione naturalistica, emendata di ogni riferimento ai loro fondamenti ontologici, immancabilmente religiosi e fideistici. Questo “sradicamento” dei fruitori della civilizzazione razionalistica dalle culture storiche particolari equivale a una generalizzata e sistematica rimozione culturale dei paradigmi fondamentali del senso della vita umana, ossia di ogni sua rappresentazione in base a significati spirituali, per definizione invisibili e indisponibili dal Potere umano, e perciò “sacri”. La rimozione del sacro è dunque la condizione di fruibilità universale del processo di civilizzazione razionalistico, la quale pertanto non riguarda il mero allargamento delle possibilità di vita, e neppure tanto l‟influenza degli stili di vita occidentali, ossia le garanzie di una evidente trasformazione delle strutture socio-economiche, quanto la dislocazione dei referenti culturali comunemente significativi da un livello di coscienza spirituale, inerente alle risposte sul senso della vita, a un livello di coscienza naturale, legato al soddisfacimento dei bisogni materiali. Una volta rimossa la relazione esistenziale tra il senso della vita umana, nel suo significato eterno e non contingente, e le giustificazioni trascendenti della sua concreta finitezza, viene cancellato anche il limite di sopportazione morale di ogni contingente

364

N. Elias, Loc. cit., pag. 328.

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condizione sfavorevole, che viene imputata a ragioni anch‟esse contingenti, di natura politico-economica, riportabili appunto alla insufficiente civilizzazione delle società locali e insufficiente razionalizzazione culturale, e in tal senso superabili da una trasformazione delle condizioni di vita tradizionali, legate ancora a moduli significativi di natura trascendente e religiosa, considerati mitici. Ma è la concentrazione del significato culturale dei rapporti umani al livello della coscienza naturalistica che, consentendo l‟espansione universale del suo modello ideale di sviluppo, genera nel contempo una universale instabilità socio-politica, cioè la condizione opposta all‟ordine politico e alla pace sociale alla quale era finalizzata l‟esistenza dello Stato e dello Spazio Pubblico da esso garantito. Il concetto stesso di ordine politico cambia rispetto al concetto sociale. In senso politico, l‟ordine è conseguito dall‟equilibrio delle forze sociali razionalizzate entro lo Spazio Pubblico. In senso sociale, l‟ordine è dato dalla struttura gerarchica dei rapporti tra i ceti. Se l‟ordine politico presuppone un equilibrio dinamico tra forze attive, ossia un adattamento circostanziale e continuo del Potere ai movimenti sociali, l‟ordine sociale, viceversa, si fonda sulla stabilità dei ceti e dei rapporti secondo forme di comunicazione rigidamente stabilite dalla tradizione.365 Ciò comporta che l‟ordine politico appaia a quello sociale come la sua negazione, la sua forma concorrente, mentre a sua volta l‟ordine sociale appare a quello politico come il luogo dell‟immobilismo oggetto di trasformazione da parte del Potere razionalizzante. Storicamente, questa tensione tra i due sistemi di vita è rappresentata dalla rivalità della monarchia assolutistica con la nobiltà dell‟aristocrazia signorile, e più in generale dalla lotta della ragione di Stato contro i princìpi trascendenti custoditi dalla Chiesa. In termini concettuali, dalla lotta della logica politica, che tende all‟astratta 365

N. Elias, Loc. cit., pag. 341. Non va confusa la stabilità tra i ceti con l‟equilibrio interno ai distinti ambiti sociali, dove la vita dei singoli esponenti può essere più o meno sicura e più o meno pacifica. Ciò che si vuol ribadire è che “il fossato che divide i vari stati (Staende) è ancora profondo, anche se sul piano spaziale essi [nobili e popolani] sono vicini; costumi, atteggiamenti, vestiario e divertimento sono diversissimi tra gli uni e gli altri. Sotto tutti gli aspetti, i contrasti sociali sono più accentati e la vita appare più variopinta” : Ivi, pag. 342.

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uniformità dei comportamenti e dei giudizi significativi secondo un criterio di potenza, contro la coscienza morale, che tende invece alla individualità e diversificazione dei comportamenti significativi, secondo un principio di relazione improntato sul reciproco riconoscimento. Sono due modalità diverse di rapporti umani, e dunque di concepire la libertà. La modalità politica non attribuisce importanza decisiva al riconoscimento del Potere da parte della parte della parte debole del rapporto, in quanto decisiva è la forza oggettiva del dominus. La modalità morale, invece, è determinata dal libero convincimento delle parti, la cui relazione non esclude né la forza del maggiore né il bisogno del minore in potenza, ma della sua qualità ne decide il rapporto personale di fedeltà. La curializzazione (Verhoeflichung) dei rapporti tra cavalieri e monarca366 costituisce la prima forma di neutralizzazione politica delle autarchie e autonomie sociali a favore di una forma astratta di relazione di potere, politicamente determinata, in cui non è più l‟autonomia del “libero cavaliere”367 a decidere del rapporto vassallatico ma la condizione di inclusione o non nello Spazio Pubblico monarchico. In altri termini, non è più la condizione di emancipazione dal lavoro e il libero riconoscimento della sovranità a determinare lo status aristocratico ma la condizione di dipendenza dal “meccanismo della monarchia”,368 ossia di appartenenza involontaria o coatta all‟ambito del Potere. Il prestigio nobiliare nello Stato assolutistico passa non più attraverso il merito personale o il titolo ereditario conseguito pei servigi resi, ma attraverso il favore del monarca monopolista, che lo può rendere reversibile o accrescerlo, e a capriccio persino annullare per disgrazia contingente del titolato. La caratteristica della società razionalizzata, come più volte ricordato, è il grado crescente di razionalizzazione dei rapporti umani in senso funzionale, tali cioè da dislocare sempre più il loro senso simbolico dal piano dell‟immutabile valore a quello dell‟oscillante significato, provocando una nozione di razionalità dell‟agire desunta dal contesto valoriale entro il quale l‟azione umana ha significato, ossia dal suo

366

N. Elias, Loc. cit., pag. 338. N. Elias, Loc. cit., pag. 346. 368 Ivi, pag. 350. 367

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orizzonte di senso socializzato. Elias insiste sul dato della mobilità sociale e della conseguente interrelazione dei gruppi, già per altro messa in evidenza da analisi precedenti che, da Weber a Mannheim, avevano messo in luce come “da un punto di vista sociologico, un cambiamento decisivo ha luogo quando si perviene a quello stadio dello sviluppo storico, in cui gli strati, precedentemente isolati, cominciano a comunicare l'un l'altro e si realizza una certa circolazione sociale”.369 E, in riferimento alla “trasformazione subita dalla nobiltà nel senso di un comportamento civile”, aggiunge che nella “ristrutturazione della società” che ha portato “a questa trasformazione dei rapporti interumani, anche l‟economia affettiva del singolo si trasforma”, per cui “l‟immagine che l‟uomo ha dell‟uomo diviene più ricca di sfumature, più libera di emozioni momentanee” e meno esposta a una loro “visione manichea”, ossia, in una parola, diviene più “psicologica”, nel senso che sviluppa un “orientamento in base all‟esperienza”.370 Questa linea interpretativa si sviluppa a partire dal presupposto che sia la fine del monopolio culturale del clero a provocare quella che Mannheim ha chiamato la “probematicità del pensiero moderno”, conseguente alla molteplicità delle interpretazioni del mondo, il cui esito gnoseologico fu l‟epistemologia, la quale a suo dire cercò di superare l‟incertezza delle interpretazioni “muovendo non già da una teoria della realtà dogmaticamente concepita o dall‟ordine del mondo che era stato giustificato da un sapere trascendente, ma dall‟analisi del soggetto conoscente”.371 Ora, a noi pare che questa linea interpretativa, che indichiamo come anti-metafisica in senso critico kantiano, pur registrando il percorso culturale più significativo della civilizzazione moderna, non sia la più idonea a comprendere le dinamiche interne al processo di razionalizzazione in atto nella società medievale per mezzo della forza politica, in quanto la tendenza che esprimono quelle dinamiche si afferma contro una opposta tendenza dialettica, precipuamente cristiana, tesa a privilegiare l‟uomo spirituale su quello naturale precristiano e fautrice di una libertà spirituale non determinata

369

K. Mannheim, Ideologia e Utopia (1936), tr. it., Bologna (1957), 1972, pag. 10. N. Elias, Loc. cit., pagg. 354-356. 371 K. Mannheim, Op. cit., pag. 15. 370

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coattivamente ma scaturente dalla responsabilità morale dell‟uomo, che trova i suoi maggiori referenti in Gioachino da Fiore e in Francesco di Assisi, promotori di una ascesi religiosa di senso opposto alla centralizzazione e al disciplinamento delle energie morali dell‟uomo, quali invece si determinarono per opera della Chiesa e dello Stato assolutistico, che del centralismo ecclesiale fu la versione secolarizzata. La modernizzazione della cultura medievale segna l‟affermarsi della civiltà razionalistica contro l‟opposta tendenza spiritualistica. Come ha ben ricostruito Berdjaev, “il passaggio dalla storia medievale a quella moderna segna una specie di svolta dal divino all‟umano, dalla profondità di Dio, dalla concentrazione nell‟intimo, dal nucleo spirituale interiore, alla manifestazione culturale esterna”, sicché “tutta la storia moderna è una marcia dell‟uomo europeo che lo allontana sempre più dal centro spirituale, il cammino della libera messa alla prova delle energie creatrici dell‟uomo”.372 Il passaggio dalla cultura religiosa a quella laica non esclude ovviamente la prima, così come nessuna epistemologia basata sulla logica può eliminare il suo postulato ontologico,373 ma segna il predominio del sistema razionalistico della conoscenza, politicamente garantito, teso al dominio della natura, anziché al trascendimento della dimensione naturalistica dell‟esistenza umana, determinando quell‟ “approccio realistico” che considera l‟uomo, non in quanto esperienza spiritualmente singolare, ma nella sua relazione con gli altri, “nella sua situazione sociale”, fuori della quale l‟esistenza singolare sarebbe nell‟ottica realistica “artificiosamente enucleata”.374 Elias chiama “realistico” quell‟approccio alla realtà costituito da ciò che M. Scheler chiamava il “sapere di dominio” (Herrschaftswissen), sul quale si fonda la civilizzazione occidentale, e che ha per scopo il potere tecnico sulla natura e su noi stessi in quanto legati a un sistema di bisogni, che sono appunto “reali” ma la cui relativa conoscenza riguarda “soltanto quegli elementi e quei lati del mondo reale, che si ripresentano in maniera uniforme in base alla regola cause uguali,

372

N. Berdjaev, Il senso della Storia (1922), tr. it., Milano, 1971, pag. 111. K. Mannheim, Die Strukturanayise der Erkenntistheorie (1922), tr. it., Milano, 1967, pagg. 91-92. 374 N. Elias, Loc. cit., pagg. 357-359. 373

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uguali effetti”, ma non gli elementi non uniformi e che pertanto sfuggono alle “leggi del contatto spazio-temporale dei fenomeni”.375 Questa forma di conoscenza, propria delle scienze empiriche, ricerca preventivamente la concatenazione dei fenomeni contestuali a un determinato ambito spazio-temporale, ossia la previsione degli eventi stabilita sulla base della loro sequenza dotata di senso. Orbene, il significato dei fenomeni interni all‟orizzonte di senso della cultura signorile medievale non è “razionale” nel senso della logica del dominio, ma nel senso interno all‟orizzonte religioso della salvezza escatologica, e quindi un significato non riducibile nei termini di un “mutamento dell‟economia psichica nel suo complesso” in rapporto all‟ambiente ai soli fini dell‟adattamento politico.376 Questa induzione adattiva entro lo Spazio Pubblico dello Stato costituisce appunto il contenuto razionale dello sforzo del Potere assolutistico. Ora, esattamente rispetto a questa tendenza induttiva del Potere l‟ideale religioso dell‟etica signorile rappresentava un limite insuperabile, lo stesso che incontra la conoscenza scientifica di fronte alle questioni metafisiche.377 E nel superamento di tale limite metafisico-eticoreligioso che la tendenza intellettuale della cultura razionalistica si interseca con il processo politico assolutistico dando vita alla “struttura spirituale” moderna. Senza l‟incontro dei “fattori ideali” con quelli “reali”, quali appunto i fattori politici ed economici, in senso lato istituzionali, non soltanto “lo spirito” ma anche la forza politica sarebbe stata “impotente nel senso di un‟azione dinamica sulla società e la storia”.378 In tal senso, il cambiamento delle relazioni tra gli uomini, degli stili di vita e delle forme di pensiero, ossia il processo di “razionalizzazione”, proprio in quanto processo che, a detta di Elias,

375

M. Scheler, Philosophische Weltanschauung (1928), tr. it. in Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, 1988, pag. 246. 376 N. Elias, Loc. cit., pag. 359. 377 “La scienza positiva non può spiegare e rendere comprensibile né un‟essenza pura stessa, né l‟esistenza di qualcosa dotata di essenza pura. La riuscita dell‟opera della scienza positiva dipende proprio dal fatto che essa, con cura rigorosa, escluda dal suo ambito le questioni d‟essenze”: M. Scheler, Loc. cit., pag. 250. 378 M. Scheler, Sociologia della conoscenza, tr. it. cit., pag. 72.

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“per quanto possibile dovremmo cogliere nella sua totalità”,379 non può essere rappresentato storicamente nei soli termini della destinazione politica dell‟agire, poiché questa rappresentazione che si vorrebbe “realistica” è viziata a priori da un presupposto di corrispondenza ideale tra la “struttura dell‟apparto di potere” e la “struttura della società”380 che invece rimangono distanti quanto lo è il mondo-dellavita rispetto al mondo-di-senso che vorrebbe determinarlo esclusivamente rispetto ad altre possibili rappresentazioni. E‟ proprio infatti delle rappresentazioni realistiche assumere le differenze individuali e dei gruppi come interne alle “stesse leggi della società umana”,381 stabilite ne varietur dall‟interprete come l‟unico valido codice euristico. La rappresentazione politicamente vincente delle dinamiche socioculturali di un determinato contesto storico varia la sua portata significativa col variare del referente spazio-temporale, sicché nella prospettiva diacronica allargata a comprendere i termini di svolta relativi all‟insorgenza e al tramonto dei suoi contenuti culturali, notiamo, all‟interno di un determinato orizzonte di senso politico dominante, una sfasatura a volte significativa tra la forza incontrastata di vettori istituzionali relativi a quell‟orizzonte di Potere e le persistenze nella società di valori culturali anacronistici, ovvero di tendenze premonitrici di forme culturali non (ancora) istituzionalizzate. La coesistenza di queste varie forme culturali, solo alcune di esse socializzate attraverso le istituzioni di Potere, costituisce un “intreccio” sociologico solo in riferimento al processo complessivo di interazione dei suoi distinti segmenti vettoriali presunti in movimento nel senso della “civilizzazione”, ma la sua incisività sulla “struttura dei rapporti interumani” può essere limitata entro l‟esclusivo orizzonte di coscienza razionalistico, mentre può risultare del tutto inefficace in relazione ad altri orizzonti di coscienza, considerati contestualmente eretici o inattuali, e perciò marginalizzati dal Topontico politico. E lo stesso Elias pare sospettarlo allorquando asserisce che “non si tratta di una totalità originariamente armonica in cui i conflitti vengono introdotti

379

N. Elias, Loc. cit., pag. 361. Ivi, pag. 362. 381 Ibidem. 380

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casualmente”, ma “costituiscono un elemento integrante della sua struttura”, e “comunque vadano le cose, queste spinte civilizzatrici si compiono in larga misura indipendentemente dal fatto di essere o meno gradite ai gruppi e alle unità in cui hanno luogo”, ossia indipendentemente dalla distanza culturale che può separare le forme ideali istituzionalizzate dalle credenze reali dei suoi fruitori sociali, a opera di “potenti meccanismi di interdipendenze il cui orientamento generale non può essere mutato da nessun gruppo”.382 La “struttura” egemone di controllo delle pulsioni “naturali” dell‟uomo, respinte a livello inconscio, proprio in conseguenza della sua astratta impersonalità, diventa lo sfondo fenomenologico della storia moderna intesa come processo di civilizzazione, la cui comprensione “esige una ricerca sociogenetica” che faccia emergere insieme alla “struttura complessiva di un determinato campo sociale e dell‟ordine storico entro cui esso si modifica”, anche la “struttura e la conformazione” dei “conflitti” delle energie pulsionali, che costituisce il campo specifico della “ricerca psicogenetica”. Esaminando “i rapporti tra i diversi strati di funzioni reciprocamente collegati all‟interno di un campo sociale” che si determinano e mutano “a seguito di uno spostamento più o meno rapido dei rapporti di forza”, possiamo avere la prospettiva della “totalità di un campo sociale”.383 Questa struttura egemone di controllo dell‟intero campo sociale è appunto l‟organizzazione del Potere nello Stato moderno, così come è stata configurata nella teoria razionalistica della sovranità e realizzata istituzionalmente. Ma esattamente la rappresentazione oggettiva di questo livello di realtà istituzionale si rivela insufficiente ai fini della comprensione dei “modi dell‟essere e della struttura essenziale di tutto ciò che è”.384 Infatti, la stessa oggettività della struttura istituzionale del campo sociologico, assunto come la totalità dell‟orizzonte fenomenologico, rimarrebbe inspiegabile e casuale senza il riferimento alle ragioni profonde del suo significato essenziale, che non è strutturale, ossia relativo al sistema di relazioni degli individui e dei gruppi sociali, ma ontologico e relativo ai fondamenti di realtà, che sono di natura fideistica. In tal senso,

382

N. Elias, Loc. cit., pag. 368. Ivi, pag. 372. 384 M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pag. 248. 383

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intendere il processo di razionalizzazione come “l‟orientamento che va assumendo il carattere degli uomini in determinate formazioni sociali” di un determinato periodo storico in relazione alle tensioni tra uomini e gruppi sociali, significa lasciare inspiegate sia le ragioni essenziali di quelle dinamiche, sottostanti alla registrata proliferazione delle funzioni sociali, da quella nobiliare a quella borghese, che “la crescente centralizzazione di alcuni luoghi di dominio”.385 Il senso ideale delle relazioni sociali non è nella loro interconnessione entro una struttura formale, ma nel significato ontologico del suo sistema simbolico-istituzionale; significato che è in relazione ai fondamenti di senso della realtà che la struttura simbolica esprime. E‟ infatti da tale fondamento di senso della realtà che dipende la rappresentazione storica dell‟esperienza dell‟uomo.386 Ciò che di specifico ha la razionalizzazione moderna rispetto alla prospettiva antropologica medievale è che l‟unità ideale del genere umano non venga più rinvenuta nella natura divina dell‟uomo ma nella unità politica dello Spazio Pubblico, nel quale si esaurirebbe l‟intera vita etica dell‟uomo socializzato. Poiché questo contenimento dell‟uomo entro l‟orizzonte politico è già stato il tratto specifico della civiltà antica, la modernità parrebbe costituire un ritorno alla Weltanschauung pre-cristiana della civiltà classica. L‟uomo moderno, proprio in quanto costruttore del suo mondo socio-politico sarebbe per Bergson homo faber, laddove il modello classico propenderebbe per le sue qualità teoretiche di homo sapiens. Ma, sia pure nelle sue distinte articolazioni storiche, tra la razionalizzazione antica e quella moderna sussiste nondimeno una continuità d‟intenti il cui senso originario va rinvenuto, non già nelle forme espressive che esso assume nel corso del tempo, ossia nelle strutture istituzionali che lo esprimono, ma nella istanza che le forme storicamente varie esprimono. Questa istanza, proprio in quanto persiste nel tempo, è originaria e sottostà a ogni espressione formale, a ogni realtà istituzionale, che l‟esprime strumentalmente e in relazione

385

N. Elias, Loc. cit., pagg. 374-375. “Ogni teoria della storia ha il suo fondamento in un tipo determinato di antropologia, a prescindere dal fatto che lo storico, il sociologo o il filosofo della storia ne abbia coscienza e consapevolezza o meno”: M. Scheler, Mensch und Geschichte (1926), tr. it. in Lo spirito del capitalismo cit., pag. 261. 386

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alla quale si costituisce come una “struttura significativa” destinata a un fine culturale. Attribuire alla struttura istituzionale un significato indipendente da quello che essa esprime, equivale a rimuovere dalla sua oggettiva rappresentazione simbolica il contenuto essenziale del suo essere, sostituendolo con la ricerca genetica delle sue modalità costitutive, espressive di meri rapporti di forza politici o sociali. Ma la ricostruzione genetica di un processo storico, se ricostruisce i dati reali della sua manifestazione, non chiarisce il senso unitario del suo significato essenziale, che l‟analisi sociologica abbandona al caso e alla fortuita contingenza, cioè a quella irrazionalità che il processo stesso della civilizzazione doveva negare. Questa incongruità teoretica della gnoseologia sociologica limitata al “sapere di dominio”, lascia inspiegato il senso culturale del processo di civilizzazione, costituito dalla conversione della condizione naturale della realtà in un cosmo razionalizzato dall‟uomo. Non si dà, da Tucidide in poi, processo storico senza una unità di coscienza che, attraverso la rappresentazione degli avvenimenti che si succedono nel tempo, ne costituisca il suo significato unitario trascendente la varietà delle manifestazioni fenomeniche, fornendole di un significato unitario. Per l‟ontologia greca, ereditata dalla teologia cristiana e quindi dalla filosofia moderna, questo senso unitario della realtà, tributario di realtà, è il Logos, il significato riposto dell‟essere di ciò che è storico, ma che a sua volta non ha storia, e dunque trascendente la realtà storica.387 In questo essenziale senso razionalistico, la costituzione dello Stato, e non segnatamente di quello assolutistico, doveva assolvere a questo compito di umana razionalizzazione della realtà naturale, con gli strumenti del Potere politico. Era questo fine immanente al Potere che lo legittimava metafisicamente e religiosamente da parte dell‟autorità spirituale della Chiesa, lo stesso fine che giustificava il controllo delle passioni umane attraverso codici di comportamento etico da esso stabiliti. Lo Stato razionalmente istituito come Potere universale non era che la forma moderna del Logos stoico e di quello divino platonico-cristiano. Considerarlo nella sola prospettiva della “volontà di potenza” che esso

387

M. Scheler, Zur Idee des Menschen (1913), tr. it. in La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Roma, 1997, pagg. 63 sgg.

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manifesta ci consente di pervenire alla ricostruzione della sua istituzione formale e della sua strutturazione materiale, ma non ci rende il senso essenziale della sua realtà storica, la ragione della sua esistenza, che coincide con la stessa ragione quale “principio della costruzione del mondo”.388 Senza questo fondale metafisico, le manifestazioni delle vicende umane perdono, con il loro significato essenziale, anche il loro senso finale, l‟unico che possa consentire all‟analisi storica di determinarne il processo fenomenologico, la curva di gittata, delle sue forme istituzionali, ossia la tensione che ne anima il movimento, dalla loro costituzione al loro tramonto. Tale tensione, che accompagna la parabola della loro esistenza, è sempre in relazione alla forza spirituale che l‟anima, costituita dalla fede che la coscienza umana nutre verso il suo fondamento di realtà, significativo per l‟esistenza storica dell‟uomo. Senza la fede in questo fondamento ontologico, non si dà alcuna storia umana, alcun processo razionale, ma solo casuale e più o meno caotico sviluppo di forme culturali dell‟homo faber. Ma la stessa tensione – sia intesa in senso della fede spirituale che della volontà di potenza – deve a sua volta essere razionalmente spiegata perché assuma l‟importanza significativa che il motivo ermeneutico prescelto dall‟interprete vuole attribuirle. Ed è a questo livello di coscienza che l‟analisi storico-sociologica deve farsi da empirico-intellettiva ad antropologica e metafisica. Infatti, ogni contenuto di realtà, razionalmente determinato nella sua genesi storica e nella sua particolarità funzionale, rimarrebbe privo di connessione di senso unitario se non venisse riportato a un medesimo fattore trascendente le singolari finitezze e originario rispetto alla loro transeunte costituzione temporale. Per la sapienza greca, questa Unità trascendente la singolarità dei fenomeni è data dall‟Idea, nella cui unità si rispecchia come dal modello eterno la stessa accidentalità della loro contingente manifestazione, che ad essa deve dunque ispirarsi per conseguire la sua possibile perfezione terrena. Questa possibilità ontica è conseguibile attraverso l‟adozione del metodo razionale quale criterio

388

W. Dilthey, Erfahren und Denken (1892), cit. da M. Scheler, Mensch und Geschichte, tr. it. cit., pag. 267.

226


di giudizio della poiesi come della prassi. Ed è esattamente la realtà di tale possibilità a costituire per la cultura occidentale di matrice greca la “civiltà”, così come è il processo di razionalizzazione del mondo umano a costituire la “civilizzazione”. Ciò che la prospettiva di pensiero razionalistico cela dietro il processo di razionalizzazione del mondo è il fondamento ontologico e il principio di realtà da cui tutte le Idee discendono come sue elaborazioni razionali, ossia il Mito, il quale è l‟autentico luogo della totalità. Infatti il Mito, in quanto principio originario e in-determinato di ogni elaborazione e determinazione razionale della realtà, è il l‟ambito generativo della libertà poietica in senso hegeliano, mentre come sostrato materiale della realtà ideale, oggetto della “attività conforme allo scopo” (Marx), esso coincide con la stessa Natura. La dissociazione razionalistica della essenza ideale della realtà da quella materiale, elaborata in età moderna da Cartesio, risale alla stessa ontologia greca, la cui rappresentazione dicotomica dell‟Essere doveva celare l‟origine mitica del pensiero filosofico, irriducibile alla ragione in quanto principio archetipo del processo razionale. La rimozione filosofica del fondamento mitico del logos razionale rappresenta il parricidio ontologico della cultura occidentale di matrice razionalistica greca, mentre la ricerca teoretica della compiutezza sistemica di ogni costrutto razionale tradisce il nostalgico rimorso dell‟unità originaria perduta. Tuttavia, l‟unità ideale, teoreticamente conseguibile attraverso il metodo dialettico, per poter servire alla vita umana, deve fungere da modello di convivenza politica. Da qui l‟ideale etico della Repubblica platonica, rispecchiamento politico dello Stato razionale, del quale quello assolutistico è la versione moderna emancipata dal mito teologico cristiano. Per la sapienza cristiana, che ha mantenuto l‟impianto metafisico greco, l‟Unità suprema è Dio, tale che ogni sapere ne dipenda e vi conduca, sicché “tutto ciò che chiamiamo civilizzazione costituisce soltanto il luogo necessario e il meccanismo esteriore, indispensabile al suo apparire”, e nella cui unità mistica i singoli istituti storici della civiltà cristiana trovano la radice della cultura che li ha prodotti.389 Vi è una dimensione privilegiata all‟interno della quale la

389

M. Scheler, Zur Idee des Menschen, tr. it. cit., pag. 67.

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civilizzazione in senso razionalistico trova il suo locus amoenus, quella della Parola. La Parola, intesa come luogo originario di ogni discorso, rappresenta l‟orizzonte poietico di elaborazione del Mito. La progressione dei processi di elaborazione delle cifre simboliche legate all‟espressione linguistica produce nella comunicazione umana, all‟interno della complessiva civilizzazione culturale, una parallela regressione di altre cifre culturali, anche codificate ma riferibili a universi simbolici meno elaborati e maggiormente legati alla espressività fisica di esperienze elementari o a moti pulsionali di natura istintuale, tanto che si può affermare che la civiltà letteraria sia l‟espressione formalizzata più cospicua ed elaborata della civilizzazione occidentale, sia in senso funzionale che della sua memoria documentale. La letteratura delle culture civilizzate svolge sul piano della comunicazione teoretica ciò che il pudore svolge sul piano delle relazioni sociali: una funzione di controllo e di sublimazione dei moti istintuali in direzione della loro regolazione razionale.390 Talché possiamo dire che la decadenza della civiltà traspare anche in termini di decadenza stilistica e di regressione delle forme di comunicazione letteraria a favore di altre più informali e volgari. Il carattere privilegiato della forma letteraria su altre forme di comunicazione non è casualmente legato alla Parola quale origine dei logoi, ma è dovuto alla possibilità insita nella sua elaborazione razionale di esprimere la qualità più caratteristica del logos, la sua universalità. La possibilità di esprimere in una rappresentazione simbolica l‟universalità del logos equivale alla possibilità di oggettivare lo stesso processo noetico, trasferendolo dal piano del pensiero a quello fenomenico. Tale possibilità, trasferita dal piano contemplativo del theorein a quello operativo della prassi sociale, costituisce il contenuto politico del processo di civilizzazione, nel cui orizzonte il Potere ha in scala sociale la funzione analoga a quella del Super-Io nella auto-costrizione individuale. La tensione teoretica finalizzata a conchiudere in un sistema razionalmente autarchico, e dunque di significato universale, l‟anelito all‟unità ontologica perduta, trasferita sul piano della prassi e della costruzione sistematica del

390

N. Elias, Loc. cit., pag. 379.

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Topontico politico, genera la funzione totalitaria del Potere, espressiva, in termini di vigenza erga omnes, della universalità della volontà razionale. Ed è propriamente questo passaggio dell‟istanza universale del logos razionale dal piano teoretico e della coscienza ideale, a quello pratico della coscienza sociale a segnare il primato moderno della strumentalità politica come agire universalmente significativo. L‟universale politico, cioè l‟ideologia, è l‟espressione infra-mondana della trascendenza teoretica, il risvolto pratico del razionalismo idealistico, così come l‟estetismo raffinato del curialismo del sec. XVI è l‟espressione simbolica dell‟ ordine gerarchico affermato dalla nobiltà di spada contro l‟emergente aristocrazia dei “bourgeois gentilhommes”.391 Ciò comporta storicamente che “l‟uniformità dei modi di comportamento delle unità occidentali di dominio” non sia soltanto “una conseguenza della reciproca interazione tra i gruppi” sociali, legata alla similare “divisione delle funzioni nelle varie nazioni occidentali”,392 ma l‟espressione formale della comune adozione di un modello ideale di civiltà la cui orizzontale espansione emulativa presupponeva una medesima matrice culturale, che dai ceti dirigenti giunge agli strati popolari, almeno a quelli più abbienti e coltivati, come generale “comportamento civile”.393 La stessa versione pandemia dei modelli curtensi è la espressione sociologica del potenziale universale della loro razionalizzazione socializzata,394 così come la struttura piramidale del Potere feudale propendeva verso l‟unità ideale monarchica, che indica l‟esito cui giunge il superamento del “sistema dell‟equilibrio precario tra unità in libera concorrenza tra loro” a favore della costituzione di monopoli,395 cioè una tendenza semplificatrice dell‟organo decisionale, atta a contrastare quella che nel Gorgia platonico Socrate, sia in relazione alle passioni dell‟anima che ai costumi sociali, definiva “disordine” (). L‟organo decisionale, che per Platone “è presente in ciascuno di noi”, è il

391

N. Elias, Loc. cit., pagg. 390-393. N. Elias, Loc. cit., pag. 395. 393 Ivi, pag. 396. 394 Ivi, pagg. 399 e 409. 395 Ivi, pagg. 399 e 409. 392

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Governo, il quale non esprime la mera forza della volontà, cioè il nudo Potere, ma è chiamato ad affermare la “legge” (), per mezzo dell‟ “ordine” () “regolato” () dal Potere. Il  è la legge morale con cui la “virtù” (), che è il Bene trascendente le relazioni di forza, vince la volontà di potenza, e che esprime il senso ideale della tensione storica tra Chiesa e Stato, non risolvibile sul piano della mera polemica politica. Nondimeno, il passaggio dal piano valoriale a quello normativo, di cui si fa strumento operativo, sul modello storico-istituzionale della Chiesa, un artificio umano di significato mistico, lo Stato, è fondato su di una credenza, residuo mitico della mentalità magistica, che pone un idolo istituzionale a mediare tra cielo e terra in funzione soteriologica. Credere nel potere taumaturgico del re, ovvero del Potere monarchico dello Stato, rientra in quella dislocazione dell‟orizzonte del sacro dal carisma trascendente di Cristo a quello immanente dell‟Imperatore cristiano che la teologia politica cristiano-alessandrina ha teorizzato un millennio prima dell‟assolutismo moderno, istituzionalizzando una tendenza di cultura che trascrisse in termini di universalità l‟unità ideale del molteplice, quanto andava ascritto in termini di infinitezza, ossia di trascendenza di ciò che è totalmente altro rispetto al mondo finito. La confusione-identificazione della totalità, inclusiva dell‟altro da sé, con l‟universalità idealistica, esclusiva dell‟opposto a sé, è all‟origine della conversione (Werdendung), a opera del Potere demiurgico, della trascendente unità mistica di Cristo nell‟Idea della universalità immanente dell‟unità ideologica, che ha caratterizzato l‟intero processo della civilizzazione europea. Rimuovere la questione metafisica che sottostà alla formazione dello Stato in Occidente, per una considerazione meramente funzionalistica della sociologia del Potere, significa non comprendere le ragioni del processo storico, il senso della sua progressione o involuzione rispetto al modello paradigmatico, operando nella stessa guisa parricida e obnubilante della rimozione razionalistica delle origini mitiche del pensiero filosofico. L‟esito teoretico di tale parricidio ontologico è l‟incessante rielaborazione critica dei sistemi logici con cui il pensiero razionale ha cercato di mascherare la rimozione del suo fondamento mitico, con la conseguenza pratica di rendere instabili le strutture della mediazione, ossia le istituzioni del Potere, garanti dell‟ordine cosmico umanamente costituito, insomma lo Spazio Pubblico della socialità razionalmente 230


statalizzata quale proiezione oggettiva dell‟Idea. Il senso della rimozione filosofica dei suoi fondamenti mitici è riposto nel metodo stesso della oggettivazione idealistica dei contenuti di realtà, che risulta impraticabile nei confronti del sentimento metafisico, i cui contenuti fondamentali sono fideistici e non razionali, per cui la loro elaborazione logica può offrire una “immagine del mondo” (Weltanschauung), cioè delle “mutevoli forme di espressione di variabili situazioni, storiche e sociali, di vita”,396 ma non l‟essenza spirituale che le origina e che è in-finita e non oggettivabile concettualmente, e coglibile solo intuitivamente, “col cuore”, direbbe Pascal. Nell‟oggettivazione condotta col metodo razionale dalla coscienza umana si cela un sentimento metafisico di mancanza (penìa) misto a un sentimento di brama (poros), ossia di nostalgia dell‟Infinito e di anelito al Potere, che sono le costanti psicologiche dell‟agire umano nel mondo razionalizzato che si è costituito, in posizione mediana tra il cielo ideale e la terra naturale, come “civiltà”, sospesa tra il non-essere della informe natura e l‟essere formato di ragione. La civilizzazione della universale cultura occidentale procede attraverso la rimozione di questa intuizione ontologica fondamentale alla vita umana, la quale intuizione, in quanto sentimento di fede e non oggetto di pensiero, è originaria rispetto a ogni formalizzazione razionale oggettivante, di ogni reductio ad finitum del pensiero, e perciò in-finita e trascendente. L‟Infinito sentito per fede è il Mito della cultura greca ed è il Dio della tradizione ebraico-cristiana. Quando la elaborazione razionale del Mito, la mito-logia, ne oggettiva i contenuti simbolici in forme logiche, in concetti, e ne fa oggetto a sua volta di fede, ossia forme di culto, così come riduce l‟Infinito alla sua determinazione finita, altrettanto trasforma la originaria fede trascendente in idealistica idolatria, in culto ideo-logico, che è il surrogato immanentistico della vera fede, cioè della fede nella verità dell‟Essere. La originaria fede miticoontologica, trascritta in simboli razionali e affermata dalla filosofia come credenza nei valori ideali universali, pur rimossa dalla civiltà razionalistica, non si è mai veramente estinta, e risorge come anelito verso l‟Infinito in ogni periodo, della esistenza personale come dell‟età

396

M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pag. 244.

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storica, di crisi di quei valori ideologici conseguente incredulità nei coevi idola tribus, a conferma delle asserzioni di Scheler che l‟uomo non ha la scelta di formarsi, oppure di non formarsi, un‟idea metafisica e un sentimento metafisico [che] sta a fondamento dell‟uomo stesso e del mondo [ma] ha – consapevolmente o inconsapevolmente, come acquisizione propria o per tradizione – sempre, necessariamente, una tale idea e un tale sentimento. […] L‟uomo può, bensì, rimuovere artificialmente la coscienza chiara di questa sfera, in quanto si nutre dell‟ involucro sensibile del mondo: l‟intenzione rivolta alla sfera dell‟Assoluto continua poi a sussistere, ma la sfera stessa rimane vuota quanto a contenuto determinato. [Allora] può riempire anche questa sfera dell‟ assolutamente essente e di un bene altissimo, con una cosa finita e con un bene finito, che egli tratta nella sua vita “come se” fosse un Assoluto: il denaro, la nazione, un uomo caro, possono essere trattati in tal modo [ma] questo è feticismo e servizio tributato agli idoli. 397

Con un‟avvertenza. Se l‟essenza di ciò che è propriamente umano è il sentimento dell‟Essere infinito, la coscienza della sua presenza, ovvero l‟angoscia della sua assenza, ineriscono non già la realtà della sua esistenza, come credeva invece Kant, che rimane indipendente dalla sua razionale dimostrabilità, ma bensì la fede in quella realtà, il sentimento intimo che consente di agire nel mondo in modo difforme da chi quella fede non ha e si sente perciò povero senza i talleri kantiani in tasca. Infatti, solo chi attribuisca all‟esistenza di quei talleri, ossia al loro possesso e disponibilità della volontà umana, un valore assoluto, fa del “denaro” un Assoluto, ovvero un “idolo”. La vera fede riguarda la realtà non razionalmente dimostrabile in quanto non oggettivabile, che la ragione esclude dalla sua sfera di realtà in quanto mitica, laddove la falsa fede, l‟idolatria, inerisce alla credenza nei soli oggetti di ragione, ossia alla certezza oggettivamente dimostrabile della loro realtà finita, erroneamente creduta infinita. La credenza nella realtà dei soli enti di ragione è la stessa che attribuisce valore di realtà ai soli prodotti ideali posti in essere dall‟uomo ragionevole, ossia dall‟uomo della Storia. La credenza storicistica che la Storia umana sia quella inerente i soli prodotti della sua opera razionalizzatrice del mondo, e insomma della civilizzazione,

397

M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pagg. 244-245.

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è anch‟essa una immagine di origine idealistica e pre-cristiana. Ma è, appunto, soltanto una credenza, la cui verità dipende a sua volta dalla fede nella possibilità della rimozione razionalistica della realtà del Mito dalla sfera esistenziale dell‟uomo. La verità della Weltanschauung razionalistica è legata a una fede, è dunque anch‟essa una verità di fede, il cui postulato fa le veci dell‟intuizione mistica.398 La superiorità del fondamento ontologico ebraico-cristiano su quello filosofico del razionalismo pagano è nell‟aver riconosciuto l‟essenza della verità come Mistero. La concezione della verità come Mistero, e non come realtà di ragione, segna la differenza insuperabile tra un‟immagine del mondo riducibile a produzione razionalizzata, e un‟immagine del mondo non riducibile alla sua oggettività razionale, opera della sua produzione ideale. Infatti, mentre il mondo prodotto dall‟opera civilizzatrice dell‟uomo costituisce l‟orizzonte di realtà manipolabile dal Potere umano, la realtà non riducibile alla

398

“Giudicare e presumere la verità sono la stessa cosa”, affermava Husserl, “così come rappresentare e rappresentare oggetti. Il giudizio, però, è ora fondabile e ora n, e ciò rinvia alla possibilità che si fonda nell‟essenza dei corrispondenti giudizi del render-evidente o del suo contrario”: E. Husserl, Vorlesungen Ueber Bedeutungslehre (1908), tr. it. a cura di A. Caputo, Milano, 2008, pag. 339. Il carattere del predicato è tale che induttivamente subordina elementi molteplici all‟unità universale che esso esprime, ma non esiste alcuna necessità logica che la natura universale del predicato contenga realmente l‟unica e medesima ragione che rende questo predicato una necessità per tutte le sue specie, ovvero che se le specie in esso sussunte non partecipino solo di fatto all‟unità comune. Nel sillogismo aristotelico si suppone infatti che la giustezza di ogni elemento particolare derivi i suoi predicati dalla sua dipendenza dal suo universale, ossia dipende dalla sua verità. Ma la verità dell‟universale è solo presupposta, e così pure la sua validità in tutti gli enti particolari in esso compresi. Ciò comporta che la relazione stabilita tra tutti gli enti partecipi al giudizio universale non può mai logicamente essere convertita nel giudizio generale per cui ogni ente compreso nell‟unità comprendente sia omologo ad essa. La validità di tale conversione (Wendung), ossia di tale omologia, è solo frutto della credenza nella verità del principio universale, il quale “permette di trasmutare una data coesistenza di rappresentazioni in coerenza tra i loro contenuti”. Se il metodo induttivo è un “ideale logico” che conserva la sua validità metodologica, il convincimento della verità delle sue premesse è extra-metodico e fornita dall‟esperienza, che resta perciò indipendente dal metodo induttivo. Da qui il carattere “strumentale” con cui si compone la conoscenza induttiva col materiale dato. Ved. a proposito i chiarimenti di R.H. Lotze, Logik (18802), tr. it. a cura di F. De Vincenzis, Milano, 2010, pagg. 321-327.

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civilizzazione rimane interna all‟unità di senso trascendente la finitezza dell‟esistenza e dell‟opera dell‟uomo, ossia interna all‟orizzonte stesso dell‟Infinito non oggettivabile e non manipolabile dalla volontà umana. Mentre l‟unità dell‟orizzonte di senso razionalistico è puramente ideale e non concreto, perché definito sull‟esclusione del divenire, del suo non-essere ciò che solo idealmente è, l‟unità dell‟orizzonte di senso trascendente è inclusiva di ciò che non-è razionale, e pertanto è un orizzonte di coscienza totale, ossia infinito, e come tale non riducibile mai alla storia dei processi, delle opere e delle forme strutturali delle istituzioni umane nel tempo. Proprio ciò che, pur essendo razionale in quanto ragione dell‟esistenza, ma non oggettivabile in senso universale, perché appartiene alla singola coscienza in maniera unica e irripetibile, è il luogo della trascendenza dalla finitezza della realtà, in cui l‟uomo partecipando intuitivamente della realtà infinita, trova il senso autentico, perché unitariamente totale, della sua esperienza esistenziale. E la trova in sé stesso, nella sua coscienza trascendentale, che, venendo prima di ogni giudizio, permane al di là della finitezza contingente di ogni sua opera. Nella elaborazione di questo pregiudizio si consuma quella personale aderenza alla verità che Platone rappresenta come il porto di approdo della “seconda navigazione” della coscienza, ma che è lo stesso dal quale essa era, più o meno inconsapevolmente, salpata. Ed è questa totalità singolare che il Mito rappresenta a mezzo di simboli, la cui trascrizione razionale è l‟oggetto del pensiero filosofico. In carattere simbolico del Mito nasce proprio dalla impossibilità di oggettivare in senso logico-universale la rappresentazione dell‟esperienza totale-singolare, la quale perciò può esser soltanto immaginifica, allusiva e metaforica, ossia appunto simbolica. In riferimento alla rappresentazione della civilizzazione offertaci dalla sociologia storica, allorquando il processo di razionalizzazione della civiltà occidentale è inteso, alla maniera di Elias, come un movimento di integrazione socio-politica relativo alle dinamiche dei gruppi o unità sociali, sicuramente essa registra una situazione reale, documentandola con dovizia di elementi documentali, il cui indubbio interesse però non supera la circolarità ermeneutica di una spiegazione dei fenomeni storici del tutto tautologica, in cui il significato degli avvenimenti è riportato alle loro stesse dinamiche, che a loro volta li spiegherebbero. In realtà, la genesi storica dei fenomeni sociali non ne è la spiegazione, 234


ma soltanto la loro rappresentazione sociologica, ossia, appunto, la descrizione delle dinamiche e delle relazioni che ne costituiscono l‟orizzonte avvenimenziale. Ciò che l‟analisi storico-sociologica trascura è la considerazione meta-empirica delle forze spirituali che sottostanno a quelle dinamiche di natura economica e politica, e che le legittimano su un piano di coscienza che non coincide con il piano di realtà oggettiva sul quale si muove l‟analisi storica. Nel caso, forse il più significativo a riguardo, della giustificazione razionale delle organizzazioni di potere monopolistiche, la tendenza riscontrata storicamente da Elias lascia impregiudicata la questione della loro legittimazione etica, facendola coincidere con la loro stessa effettualità, ossia con la loro possibilità di sussistere storicamente. Ma questa trascuratezza, in realtà, è una adozione, inconsapevole o meno, della ricordata teoria hegeliana della razionalità del reale, che a sua volta costituisce la versione teoretica della necessità storica espressa nell‟apologo ateniese del diritto del più forte riportato da Erodoto a proposito della vittoria sui Melii. Questa ragione della forza, rappresentando la dinamica storica dei fatti, assegna alla stessa forza il criterio di giustificazione di se stessa, assegnando il merito dei fatti, come il Callicle platonico, alla loro stessa fattualità. Ma l‟adozione di tale criterio trova la sua validità razionale nel presupposto che l‟evento racchiuda in sé la sua stessa ragion d‟essere, per cui basta illustrarne la genesi per portarlo alla luce. Ed è questo procedimento che infatti adotta la storiografia razionalistica, la quale pertanto non considera mai la possibilità, che anima invece la ragione dei deboli, che l‟esito della forza, pur essendo reale sul piano effettuale dei rapporti socio-politici, possa apparire negativo su un piano di coscienza diverso da quello del vincitore, e dunque possa giustificare la resistenza di chi non l‟approvi, senza apparire perciò stolto e velleitario come il duca di Montmorency rievocato dal Ranke appare a Elias, il quale dalla sua vicenda trae la legge storico-sociologica generale per cui “la mutata struttura della società, ormai, condanna ad una sicura rovina le esplosioni emotive e le azioni che non sono guidate da una adeguata previsione”, per cui “dai i rapporti ormai dominanti, chiunque non approvi il potere assoluto del re deve procedere ben diversamente”399 rispetto al proprio

399

N. Elias, Loc. cit., pagg. 364. Si noti la reiterata notazione avverbiale, che sottolinea

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statuto deontologico. L‟inadeguatezza della rappresentazione realistica della Storia consiste nella rimozione dell‟essenza della dinamica storica, quel “Negativo” che l‟universalità del giudizio di realtà esclude in quanto non rappresentabile in ciò-che-è. L‟onto-logia di una Storia positiva non rende la ragione del Tutto, ma solo dell‟universale affermazione. Da qui il carattere iniquo del Potere, che non con-prende la ragione del Negativo, la concretezza dell‟esperienza esistenziale della coscienza umana, trascendente la finitezza delle cose del mondo. Dalla coscienza trascendentale nasce l‟istanza filosofica di una “chiarificazione dell‟esistenza”. Di contro, l‟intersecazione delle relazioni socio-economiche che hanno portato al “legame indissolubile” tra “i monopoli della costrizione fisica e dei mezzi di consumo e di produzione”, formando in tal modo “il lucchetto delle catene che tengono legati gli uomini tra loro”,400 non spiegando le ragioni essenziali della sua costituzione, non fa alcun riferimento alla dinamica sotterranea che anima la stessa struttura di potere monopolistica e che la rende perciò instabile e precaria. La descrizione infatti dello “schema delle costrizioni di interdipendenza”, per cui “ogni monopolizzazione di chances trasmesse ereditariamente in determinate famiglie provoca certe tensioni e certi squilibri nel contesto sociale implicato”, non spiega le ragioni delle tensioni se non riferendole alla loro stessa “causa” che le avrebbe originate, “ossia alla loro genesi”.401 Un cane che si morde la coda. E‟ pur vero che i pochi hanno sempre cercato di frenare gli impeti dei molti, in considerazione di quell‟ ordine virtuoso di cui si è detto citando il Gorgia platonico, e che oggi anzi appare più evidente come le “costrizioni dell‟interdipendenza premano per provocare modificazioni nel carattere e nella struttura psichica degli uomini”,402 ma se essa è una tendenza sociologica costante, se non proprio una legge, ciò non spiega le ragioni né della sua persistenza né tanto meno

l‟irreversibilità dei processi storici analizzati, e l‟accentuazione del carattere razionalmente costrittivo del dovere di accettazione dello status quo da parte del dissidente 400 Ivi, pagg. 413-414. 401 Ivi, pag. 417 402 Ivi, pag. 418.

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della sua contingente negazione. Ciò che la rappresentazione dei fenomeni sociali non considera è esattamente il dato di realtà non oggettivabile delle loro dinamiche, cioè i diversi livelli di coscienza interni a un comune orizzonte di senso ontologico, cui corrispondono le forme simboliche di rappresentazione della realtà relative alle istituzioni espressive e prescrittive di quelle modalità culturali sulla base delle quali agiscono i singoli. Questo piano di realtà non oggettivabile costituisce, delle forme istituzionali oggettive, non soltanto il sostrato volitivo e psichico costitutivo della mentalità dei gruppi sociali, ma anche la destinazione teleologica dell‟esistenza umana, cioè il senso della vita che legittima le forme di comportamento sociale. In questo senso, la saldezza o la debolezza di una struttura di potere è legata tanto alla detenzione minoritaria degli ambiti di potere, quanto alla credenza maggioritaria nella loro legittimità morale. Il mondo aristocratico europeo fondato sul rapporto signorile tra nobili e contadini “non è mai un mero rapporto di potere”, e dunque sarebbe riduttivo pensarlo “come arbitrio”, in quanto ispirato a un‟ideale “ordine” fondato sulla giustizia, dalla quale “l‟idea autentica di „signoria‟ non è separabile”.403 L‟intreccio delle relazioni sociali, non suffragato da un comune movente legittimativo, di per sé non garantisce della stabilità delle strutture istituzionali all‟interno delle quali prendono forma quelle relazioni, poiché la forma istituzionale, anche quando fortemente prescrittiva, per espletare la sua funzione normativa razionale secondo lo scopo, deve essere supportata dalla adesione di chi ne fruisce, ossia di un elemento di credibilità legato al riconoscimento del suo significato sociale. Ed è a questo livello di coscienza noetica - prepolitica in quanto fideistica e meta-politica in quanto morale - che si pone il ruolo essenziale del Governo etico della società, che i processi di civilizzazione tendono a rimuovere dal piano della rilevanza sociale, proprio in considerazione della sua natura trascendente i rapporti di

403

O. Brunner, ALeG, pag. 75. “In questo mondo aristocratico-contadino, evidentemente, vi furono in larga misura abusi, sfruttamento, oppressione e perciò molte lotte che ne determinarono la dinamica interna. Ma tutte le lotte furono condotte appunto per amore del diritto e non hanno mai intaccato l‟ordine fondamentale in quanto tale”: Ibidem.

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forza sociale, rispetto al cui contingente equilibrio, esso costituisce il limite non valicabile di legittimità del Potere, che perciò tende ad incorporarlo all‟interno della sua struttura normativa in termini di legalità, ossia di relazioni formali, prodotte dalla storia e quindi modificabili ad libitum. Ed è questo il piano di coscienza in cui si pone l‟analisi storico-sociologica di Elias, per il quale la questione della educazione spirituale dell‟uomo (paideia), così essenziale nella formazione (Bildung) aristocratica europea e per la stessa tenuta della struttura istituzionale dello Stato pre-moderno, diventa uno “schema di comportamento sociale”, i cui contenuti, egli avverte con toni marxiani, “inculcati al singolo fin da piccolo in modo da diventare una seconda natura, e la cui permanenza è consolidata in lui da un potente controllo sociale sempre più rigorosamente organizzato, non debbono essere intesi in base a finalità umane universali e al di fuori della storia, ma come un prodotto della storia”, appunto. Ma donde è sorto tale prodotto e quale ne sia il senso, non è detto. Ciò che l‟Autore dice è che “esso è scaturito dalle specifiche forme relazionali che si sono venute creando nel corso della storia”, quasi per spontanea partenogenesi all‟interno di quello che egli indica come “il contesto globale della storia occidentale”, e in particolare, per sortilegio magico, “dalle costrizioni delle interdipendenze che le modificano e le sviluppano”.404 Insomma da una determinazione esterna alla coscienza, intesa come una tabula rasa, il cui equilibrio armonico con i “compiti sociali”, non ancora raggiunto per insufficiente civilizzazione, potrà comunque essere conseguito in maniera “permanente” in futuro. Ma in che modo? Ed ecco la risposta, come al solito tautologica, fornita dal profetante sociologo: “soltanto quando la struttura delle relazioni interumane sarà tale, quando la cooperazione fra gli uomini funzionerà in modo che tutti coloro i quali operano nella complessa catena dei compiti comuni possano almeno trovare questo equilibrio” e diventare perciò finalmente “civili”,405 rimanendo sottinteso, e neanche poi tanto, che il processo di civilizzazione sia tanto necessario per l‟uomo quanto fatale per l‟umanità, e dunque irreversibile. Ed è esattamente questa

404

N. Elias, Loc. cit., pagg. 419-420. Le parole in corsivo sono state da noi evidenziate. 405 Ivi, pag. 429.

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rappresentazione razionalistica della storia che, rimuovendo l‟elemento mitico che l‟ha generata, sfocia nel mito ideologico, in cui necessità e wishfull thinking si confondono sostenendosi a vicenda. 10. Chiaramente diversa da quella di Elias è l‟impostazione storiografica di O. Brunner, che sottolinea come “la vita spirituale è una parte connaturale della struttura complessiva dell‟essere umano e delle forme di associazione degli uomini”,406 per cui, considerando il concetto etico cardine delle relazioni feudali, afferma che “il peculiare concetto della fedeltà in quanto impegno reciproco, che viene a cadere se da una delle parti viene violato il diritto”, fa sì che, in caso di confitto di interessi, “da entrambe le parti questi interessi non sono mai intesi come contrasti di potere bensì sempre come una lotta per il diritto, per la giustizia […] oggettiva, che in ultima analisi si fonda su Dio”. E infatti, come lo storico austriaco non manca di sottolineare, l‟abbinamento di diritto soggettivo e diritto oggettivo, non soltanto “conferisce all‟azione politica una compattezza straordinaria”, ma costituisce anche un “correttivo interno” di carattere morale che funge da limite alle pretese della ragione di parte, rendendo così “impossibile di battersi per sostenere un punto di vista basato meramente sul potere”.407 Ed esattamente sul diritto regale di stabilire la giustizia, ossia sul diritto del re “a decidere ciò che è giusto”, che successivamente il potere assolutistico tese ad affermare le sue prerogative anche in materia religiosa.408 Quanto la questione religiosa abbia inciso nella costituzione dello Stato assolutistico non dipende soltanto dalle vertenze teologiche e dalle lacerazioni ecclesiastiche interne ai territori riformati, ma anche dalla posizione politica assunta dalla nobiltà in conseguenza della sua professione. Infatti il conflitto religioso, che si concluderà con la pace di Westfalia del 1648, va inteso, in relazione al principio di sovranità, nei termini di un riconoscimento di legittimità del suo esercizio, poiché il forte legame tra il Potere e la sua

406

O. Brunner, Adeliges Landleben und Europaischer Geist (1949), tr. it., Bologna, 1972, pag. 59. Da ora ALeG 407 O. Brunner, ALeG, pag. 20. 408 Ivi, pag. 24.

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legittimazione religiosa influenzava considerevolmente, e a volte decisamente, il rapporto di fedeltà al sovrano imperiale da parte dei vassalli, i quali, pur nella diversità di condizione economica, “erano tutti uniti da uno spirito comune e da un comune mondo culturale”, dominato dal sentimento, prima che dal concetto, della “virtù”.409 All‟interno di questo orizzonte di coscienza della Cristianità occidentale, è possibile indicare, attraverso le dinamiche sociopolitiche in cui si articola la loro relazione, nell‟ordinamento secolare – inteso come ceto nobiliare e sistema di vita feudale - e nella Chiesa – “intesa come organizzazione e comunità spirituale che raccoglie tutto l‟Occidente, clero e laici” – le “categorie essenziali che servono a descrivere la struttura dell‟Europa medievale”, poiché è dalla loro tensione e dalla loro contrapposizione che “nasce la dinamica decisiva della storia europea”, e segnatamente la “storia dell‟ethos e del mondo culturale della nobiltà europea”, che nell‟eredità classico-cristiana di “virtù” ritrova la “costante struttura aristocratica di fondo dell‟Europa”.410 L‟unità etico-politica del mondo medievale poté conservarsi nei termini e nei limiti della articolazione particolaristica della struttura feudale, che consentiva quel rapporto organico tra autorità spirituale e autorità secolare che fu disintegrato dalla pretesa assolutistica dello Stato di riordinare quella struttura in senso centralistico e tale da ledere la libertas ecclesiae. Il contrasto delle signorie locali al centralismo assolutistico non verte dunque soltanto sulla opposizione di forze sociali minoritarie, religiose e secolari, a un potere sovrano fagocitante, poiché la tendenza “monopolistica” a ingrandire i possedimenti locali è una riconosciuta costante sociologica legata al contesto economico di tipo naturale, che interessava tanto le acquisizioni familiari dei nobili che i patrimoni ecclesiali; il contrasto allo Stato assolutistico verte essenzialmente sulla pretesa che il Potere razionalizzato in senso normativo e burocratico potesse fondare la legittimità sovrana, non più sul fondamento religioso della corrispondenza alla lex Dei, ma sulla funzionalità politica della struttura istituzionale. L‟assolutismo può manifestarsi come tendenza economica monopolistica politicamente

409 410

O. Brunner, ALeG, pagg. 53 e 59. Ivi, pagg. 60 e 72.

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accentratrice ma essenzialmente consiste nell‟auto-legittimazione del suo Potere sovrano. “La conseguenza” di questa posizione ideologica statalistica “è un fondamentale mutamento di struttura della cristianità” nel senso del “parallelismo” e della “contrapposizione” tra gli Stati e la Chiesa intesa, non più “come Corpus Christi mysticum, come cristianità, ma come una Chiesa di chierici, ordinata giuridicamente e basata sulla gerarchia”,411 ossia come una istituzione di Potere. Ciò che è mutato nelle relazioni tra le due autorità, a partire dal sec. XII, non è in primis la loro struttura interna, o il nomen juris, bensì la loro reciproca considerazione in base alla propria posizione ideale. In altri termini, il Potere statuale è intervenuto a incidere i rapporti vassallatici e quelli ecclesiastici tradizionali in conseguenza della sua auto-determinazione razionale, dalla quale è dipesa la legittimazione della sua istanza universalistica, che implicava l‟esclusione di ogni sua limitazione, ergo i suoi rapporti con l‟autorità morale della Chiesa, detentrice e custode dei valori morali, cattolici per definizione. La tendenza alla “fuga dal modo”, ossia l‟istanza escatologica, del cristianesimo era stata già neutralizzata ab antiquo dalla teologia politica alessandrina, per cui il rigurgito integralistico della “volontà di agire nel mondo” in vista della sua nuova “cristianizzazione”, ossia della affermazione esistenziale dei valori cristiani,412 nasceva dall‟esaurimento di quella “unità spirituale” che l‟Impero cristiano aveva costruito e tentato di preservare storicamente, ma che si fondava teoricamente sul connubio di sapere profano e di sapere sacro che entra in crisi già nel Medioevo e che si manifesterà alle soglie della modernità già all’interno dell’universo teologico, e quindi all‟interno della cristianità. Il fenomeno della radicalizzazione delle posizioni religiose nel senso della “interiorizzazione” del messaggio evangelico, che svilupperà l‟opposta “tendenza alla mondanizzazione, secolarizzazione, razionalizzazione che contraddistingue la nuova Europa”,413 è possibile in quanto gli elementi del radicalismo religioso e profano sono interni alla teoresi sincretistica della teologia cristiana,

411

O. Brunner, ALeG, pagg. 61-62. O. Brunner, ALeG, pag. 62. 413 Ivi, pag. 63. 412

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che recepisce l‟universalismo razionalistico antico in chiave antropologica cristiana. L‟universalismo razionalistico di matrice greca, declinato in chiave antropologica, si trasforma in messianismo etico, ossia in una istanza redentrice di carattere religioso, in cui viene a perdersi il senso cristiano della redenzione individuale a favore di una prospettiva soteriologica onnipervasiva del mistico logos cosmico interpretato come ratio divina, la “parola di Dio”. La matrice idealistica del razionalismo, comune sia alla cultura laica che a quella religiosa, è il fondamento filosofico del rispettivo universalismo teologico-politico, cioè il “monoteismo metafisico”col quale sia la Chiesa che lo Stato giustificano teoricamente la loro pretesa assolutezza, cioè reciproca autonomia e indipendenza sovrana. Infatti, tanto l‟unità mistico-religiosa della Chiesa che l‟unità misticopolitica dello Stato costituivano due ambiti universali ugualmente partecipi della volontà ordinamentale divina, ognuno dei quali era sovrano in regno suo. La contesa politica tra imperium ed ecclesia, condotta con armi filosofiche e avente per posta l‟egemonia sulla società intesa come popolo di Dio, produsse un contenzioso di carattere squisitamente ideologico che rappresentò il modello paradigmatico di ogni costrutto ideologico moderna. La filosofia aveva perduto, già in parte con Platone ma decisamente con l‟innesto cristiano, il suo originario carattere contemplativo, per diventare uno strumento tecnico-dialettico di rappresentazione della realtà funzionale al suo controllo culturale e al suo dominio politico. La deriva ideologica della filosofia non fu però accidentale ma legata al suo stesso postulato gnoseologico intellettualistico, che emancipandola da ogni relazione con la fonte mitica, la potentia Dei absoluta di Occam, la costituiva come teoria scientifica del mondo. Da questa pretesa prese origine, con la ricezione di Aristotile, per un verso la sistemazione scolastica, e per l‟altro e più decisivo verso lo studio di purificazione del pensiero filosofico da ogni tradizionale connessione teologica. E fu contro tale razionalismo che insorse il misticismo religioso e le correnti pauperistiche ed escatologiche dello spiritualismo cristiano. Ma la conseguenza più rilevante della separazione delle sorti della Chiesa da quelle dell‟Imperium fu la crisi della visione escatologica del Potere, strettamente connessa alla confluenza della “fine dell‟imperium come fine del mondo”. Ciò privò la struttura imperiale della sua sacralità religiosa, schiudendo la strada allo statalismo nazionalitario e alla 242


“concezione della storia delle singole nazioni europee”.414 Ma la tensione tra naturalismo e spiritualismo si produce anche all‟interno dell‟universo teologico cristiano come contrasto tra l‟intellettualismo obiettivistico del tomismo e il volontarismo nominalistico di Ockham, il quale ultimo tendeva a separare la fede dalla ragione e il pensiero dall‟essere, concependo gli universali concettuali di valore puramente simbolico. Le “summe”, ovvero le sintesi filosofico-teologiche, dell‟alto Medioevo lasciano il posto all‟esame critico delle cose concrete (res in rerum natura), non più filtrate dalle determinazioni generali (res apparens in intellectu), prodotto della nostra conoscenza, mentre acquistano crescente rilevanza contro l‟autorità umana e magisteriale la gnoseologia e la logica formale. Il nominalismo, con la preminenza del formalismo in logica, provocò una scienza dei concetti distante dall‟essere, con la conseguenza che “quanto più i concetti perdevano contatto con l‟essere, tanto più facilmente si lasciavano manipolare”, con una ricaduta sul piano etico nel formalismo e sul piano politico nell‟intransigenza, mentre la teologia, allontanandosi dal piano della storia della salvezza, “diventa un campo di esercitazione dell‟abilità logico-dialettica”.415 Prevalse nella Chiesa una concezione, ancora una volta, sincretistica tra le posizioni tomiste e quelle agostiniane, il cui “nucleo centrale è aristotelico”, destinata a essere una filosofia scientifica del mondo “ma fatta da chierici per chierici”, e perciò orientata esclusivamente alla “sfera ecclesiastica”, lasciando ad altre correnti di pensiero laiche di perseguire la libera ricerca teoretica, e operando nel mondo esterno solo nei termini di un impegno pratico di testimonianza religiosa.416 Con la rinuncia della teologia a ripensare in termini filosoficamente aggiornati, e soprattutto unitarii dopo la Riforma, la storia del mondo e l‟esistenza dell‟uomo, e ripiegando in una concezione ecclesiastica e vagamente culturale della cristianità, la Chiesa segna quel divorzio tipicamente moderno dalla Storia, che è stato tanto devastante per

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O. Brunner, ALeG, pagg. 66-68. Ved. E. Iserloh, Il nominalismo. Le università fra “Via antiqua” e “Via moderna” (1968), in Storia della Chiesa dir. da H. Jedin, tr. it. Milano, 1993, vol. V/2, pagg. 6569. 416 O. Brunner, ALeG, pag. 71. 415

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l‟Europa politica quanto prevedibilmente per la sua civiltà, determinando la scissione esistenziale tra virtutes theologicae, di stretta natura religiosa, e virtutes cardinales, che sostanziano l‟etica mondana e aristocratica.417 Il divorzio tra le due forme di etica non ridimensiona la tradizione aristocratica risalente alla saggezza greca, ma la concentrazione teologica in un sapere esclusivamente ecclesiastico sicuramente depriva il senso eroico della virtù classica di quel finalismo soteriologico che la cultura cristiana le aveva moralmente assegnato e di cui la Chiesa si faceva, se non depositaria, quantomeno garante istituzionale. Lasciare alla sapienza mondana la cura della filosofia dopo averla esaltata quale ancilla philosophiae comportava delle conseguenze pratiche nella formazione civile delle classi dirigenti europee in conseguenza del venir meno della trasvalutazione cristiana dell‟etica eroica antica, per la quale l‟agire virtuoso era indissolubilmente legato alla conoscenza del Bene, e quindi all‟orizzonte del sapere teoretico. La trascrizione in chiave universale di humanitas dell‟antica virtù aristocratica greca fu operata, attraverso la Stoa, dalla filosofia politica romana, segnatamente da Cicerone, da Seneca e da Boezio, le cui opere, “conosciute e diffuse dappertutto, hanno mantenuto in vita una ininterrotta tradizione antica della humanitas”, che il cristianesimo inserì nella sua dottrina morale, soprattutto grazie all‟opera di S. Ambrogio, per il cui tramite “l‟etica dell‟antico mondo nobiliare divenne apertamente una solida componente della dottrina della Chiesa di Roma”.418 Il processo di cristianizzazione della società europea interessa soprattutto il rapporto di potere dei nobili verso i loro sudditi, i quali, in quanto deboli, vanno protetti e difesi da parte dei loro signori. Ed è appunto questo “intersecarsi del potere spirituale e di quello secolare” a caratterizzare “il carattere sacrale della monarchia” altomedievale, fino alle lotte per le investiture, allorquando “i due poteri si disgiungono”.419 Prima di allora, la politica non era intesa, come invece

417

Ivi, pag. 72-73. O. Brunner, ALeG , pagg.76-77 419 Ivi, pag. 77. 418

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avverrà dopo con Machiavelli, come una tecnica di conquista e conservazione del potere, ma era ab antiquo inserita entro la filosofia pratica come arte di governo, legata cioè a principi di ordine morale. Era la tradizionale destinazione morale a consentire alla cultura cristiana di pacificare i rapporti tra gli autonomi signori feudali conferendo al loro potere guerresco, il “diritto”, una destinazione comune trascendente, la “pace di Dio”, e scaricando verso mete militari esterne la tensione territoriale. Fu così che “attraverso le crociate, [la Chiesa] prese direttamente nelle sue mani la guida del mondo feudale dell‟Europa occidentale dalla Spagna alla Siria, proponendogli uno scopo”.420 All‟interno, quindi, di una dimensione etica normativizzata nel senso del “diritto”, si inseriva il servizio alla causa cristiana, alla cui luce le stesse imprese belliche acquistano valore di servizio morale a Dio: gesta Dei per Francos. Dall‟ “impasto” di ambizioni profane con scopi religiosi nasce una “cultura cristiana dei laici”, interpretata dalla nobiltà europea come cultura cavalleresco-cortese, che ruota intorno all‟etica di ceto della virtù signorile, ossia quella “dignità cavalleresca, che collega in una unità ideale l‟infinita stratificazione dei signori, dai re e principi fino agli „scudieri‟ semi-contadini”, divenendo un “modello umano vincolante”.421 L‟aspetto grandioso di questo spirito cavalleresco, che lo rese affascinante per lunghi secoli, fino alle estreme propaggini della sensibilità romantica, risiede nella forza morale scaturita dalla sublimazione degli istinti vitali dell‟uomo virtuoso, che non iscaccia la sua forza naturale, rimuovendo il loro carattere virile, ma li sottomette volontariamente, per libera e consapevole dedizione mistica, a una destinazione trascendente, perseguita in campo terreno dal miles christianus come viatico post-mortem. Ed è proprio la destinazione ultronea e trascendente del servizio umano al “Dio cortese” a rendere la paideia cavalleresca una forma di virtù più sublime e raffinata rispetto a quella dell‟areté classica, circoscritta all‟ambito mondano e sociale della vita politica; a farne insomma una vocazione essenzialmente poetica, la cui aura ammantava tanto le

420 421

Ivi, pag. 78. Ivi, pagg. 79-80.

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rappresentazioni ludiche ed equestri che i resoconti letterari di gesta d‟armi e d‟amore in lingua volgare ma d‟intento didascalico, tesa a rappresentare “una immagine ideale del modo di vivere della nobiltà” che “trova la sua più efficace espressione nella poesia”.422 Questo carattere essenziale dello spirito cavalleresco, a un tempo sociale-religioso e poetico-letterario, in quanto modello antropologico non declina in senso culturale ma in senso sociologico, essendo espressione di un‟etica aristocratica che poteva trovare una sua interpretazione esistenziale solo a seguito di determinate condizioni storiche che preservassero i suoi esponenti, nella lotta per la sopravvivenza, da quelle forme più acri di competizione per il dominio che li avevano caratterizzato un tempo ma dalle quali si erano culturalmente emancipati per raffinamento “cortese”. Ciò non toglie niente al valore personale della nobiltà europea, che fino al sec. XVIII conservò il suo stile di vita e la mentalità aristocratica, ma è la sua posizione di ceto sociale che verrà minata, sia dallo Stato assolutistico che, definitivamente, dalla Rivoluzione francese. In altri termini, se il modello culturale sopravvisse come ideale antropologico ai destini della nobiltà europea, venne a mancare, con l‟eversione della feudalità, le condizioni della sua attualità storica, sicché, col mutare delle condizioni politiche del suo dominio, anche la rilevanza ideologica di quel modello sociale di vita e di pensiero ebbe il suo declino inevitabile.423 La questione storica essenziale non è propriamente la “inevitabile contraddizione tra ideale e realtà”,424 in quanto l‟ipotesi di una corrispondenza dei due piani è essa stessa elemento idealistico, che può disarmare la causa perorata ma il più delle volte sospinge verso il superamento delle contraddizioni contingenti; nel nostro caso, storicamente, è rilevante la distanza che il mutamento degli assetti politico-economici della società europea provocati dall‟assolutismo ha prodotto tra l‟ideale aristocratico e la conduzione degli affari politici,

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Ivi, pagg. 81 e 82. Significativa a riguardo la sorte della grande letteratura politica controrivoluzionaria dei Chateaubriand, dei De Maistre, dei Donoso Cortes, a fronte della più modesta ma più attuale letteratura dei Tocqueville e dei Constant. 424 O. Brunner, ALeG, pag. 84. 423

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ossia la dissociazione tra etica e politica, che nell‟ orizzonte di coscienza razionalistico è stata salutata come una conquista del moderno spirito scientifico, mentre essa ha segnato i destini della civiltà cristiana. A seguito di tale dissociazione, infatti, la civiltà europea viene a perdere la sua precipua identità cristiana per manifestarsi come semplice “processo di civilizzazione”, ossia di razionalizzazione delle strutture del Potere, delle forme di convivenza sociale e degli stili di vita. Ed è questa perdita dei fini trascendenti dell‟azione civilizzatrice a essere indicata come “progresso” culturale della coscienza moderna. D‟altro canto, la decadenza della civiltà signorile, che si sviluppa nell‟arco di cinque secoli, per i processi di lungo periodo che segneranno infine l‟affermazione politica della ideologia borghese, non è riducibile alle sue dinamiche socio-politiche, ma coinvolge i fondamenti di pensiero che sorreggevano la sua etica e il connesso sentimento della vita. Non è casuale infatti l‟esito poetico della mentalità cortese, il quale non va interpretato come un tentativo di “evasione” dalle contraddizioni della realtà, per cui “la funzione psicologica e sociale della poesia [sarebbe stata] quella di creare le illusioni che celano il contrasto con la realtà”,425 ma semmai come la declinazione culturale in ambito mondano della spiritualità cristiana, centrata sull‟agapè, che poneva al centro dell‟atteggiamento virtuoso la “misura”, cioè il sentimento del limite verso il debole, anziché sul polemos, incentrato invece sulla superiorità della forza del Potere. La poesia, infatti, che ammantava la letteratura cavalleresca e lo stile personale di vita dei più veraci cavalieri, era il modo di conciliare esistenzialmente l‟etica delle virtù signorili con il mondo della vita; il modo, cioè, di colmare la distanza tra l‟ideale e il reale attraverso la vita vissuta. Era, se vogliamo, la risposta laica alla istanza di coerenza avanzata dalla spiritualità cristiana più consapevole, che trova sul versante religioso l‟espressione non meno poetica della proposta francescana e gioachimita. Se ci chiediamo le ragioni essenziali della impraticabilità dell‟etica cavalleresca nell‟ambito civile, come per altri versi della spiritualità francescana e gioachimita in ambito religioso, esse vanno trovate nella

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O. Brunner, ALeG, pagg. 86-87.

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destinazione aristocratica dei suoi contenuti di valore, la cui esclusività elettiva non poteva godere di quella portata universale che invece caratterizzerà le forme di pensiero razionalistiche. Dello stesso potenziale espansivo che avvantaggiò il messaggio cristiano rispetto a ogni etica particolare o aristocratica, fuirà l‟ideologia politicistica moderna, che porrà come fine virtuoso dell‟agire pratico non più la salvezza dell‟uomo, proprio dell‟ideale di ceto cavalleresco, ma il Potere del sovrano assolutista, potenzialmente infinito e che interessava chiunque. La virtù cavalleresca era il pendant civile della santità in ambito religioso: vocazioni elettive inevitabilmente destinate a pochi prescelti, che presupponevano una organizzazione di vita fortemente gerarchica nei valori, e soprattutto autarchica nella gestione; aspetti che mal si conciliavano con la struttura di potere sia della Chiesa che dello Stato centralistico. E su questi aspetti essenziali prevalse la logica universalistica e accentratrice delle rispettive ideologie assolutistiche, che concepivano l‟unità della fede e rispettivamente l‟unità della legge come il criterio stesso sia della sovranità che dell‟ordinamento cosmico. Ed è questo il senso essenziale della corrispondenza sociologica del “monoteismo metafisico” di cui parlava Dilthey con il “monoteismo giuridico” di cui parlava Schmitt. La norma formale del cosmo cavalleresco è l‟ordine del discorso, in cui lo strumento della ragione agisce nella espressione simbolica della parola. Quest‟ordine presuppone l‟ordinamento naturale, ossia la fede nella giusta ripartizione dei ruoli cosmici destinati dalla volontà divina, nel cui ambito stabilito l‟uomo virtuoso deve mantenere il suo diritto, senza eccedere, senza smodare squilibrandolo in favore della insania. Lo squilibrio dell‟ordine cosmico produce infatti “follia”, che si manifesta nell‟uomo come villania, atteggiamento opposto a quello cortese. Nondimeno, la condizione della preservazione dell‟ordine cosmico non dipende solamente dall‟ atteggiamento virtuoso del nobile signore, ma anche dal suo riconoscimento da parte dei suoi subordinati. Presume, cioè, una condizione di equilibrio naturale di rapporti sociali che invece naturale non è ma è politico, cioè legato a reali condizioni di forza sociale. Questa presunzione naturalistica è sempre storicamente indizio psicologico di decadenza sociale delle aristocrazie, le quali hanno perso la memoria degli sforzi umani per raggiungere la loro 248


posizione di dominio, adagiandosi sul loro presunto consolidamento tradizionale. Esse trascurano di considerare che lo sforzo di contenimento delle spinte eversive dal basso, una volta conseguito il successo sociale, le élites devono indirizzarlo in senso culturale, ossia applicarsi a diffondere la propria mentalità gerarchica anche nei subalterni per farne un patrimonio ideale comune. Ma esattamente questa spinta divulgativa veniva impedita da un‟etica di censo destinata a una casta sociale divisa dal popolo da una barriera antropologica insormontabile. Finquando la sfera nobiliare viveva in un‟aura culturalmente rarefatta e inaccessibile al contadiname analfabeta e rozzo, occupato col suo lavoro faticoso a garantirgli l‟agio di una vita priva di impegni per la sopravvivenza, la distanza sociale era sigillata da un vincolo morale di tipo religioso, che faceva della comune appartenenza cristiana l‟organico orizzonte esistenziale. Ma da quando la stabilità del cosmo feudale fu compromessa dal potere sovrano, che prese a scardinare la struttura stessa di contenimento dell‟ordine tradizionale, la massa subalterna divenne oggetto di contesa tra opposti universalismi ideologici, il cui tratto ideale comune era quello di rimuovere ogni mediazione sociale che potesse rappresentare un ostacolo alla propria affermazione di potere. In questo processo di mutazione dell‟impianto strutturale della società feudale, la religione finì per perdere il suo carattere di collante morale per diventare uno strumento culturale di legittimazione del Potere della istituzione ecclesiastica in lotta contro altri poteri concorrenti. E divenendo da patrimoni morale comune alla cristianità, a strumento ideologico di legittimazione del Potere mondano della Chiesa, lo stesso uso improprio della religione legittimò la ricerca di una altra fonte di legittimazione del Potere politico, che fino ad allora aveva inteso se stesso come una diretta emanazione della potestà divina. La crisi della unità cristiana, della fede nella comune appartenenza all‟unica cristianità, e la crisi del monoteismo metafisico sono correlate, ma solo sul piano religioso, mentre il principio metafisico dell‟unità come valore morale venne conservato, ma declinato in senso politico e non più religioso. Dalla molteplicità gerarchica della struttura politica interna all‟unità di fede cristiana (omnia potestas a Deo), si passò gradualmente alla molteplicità religiosa interna all‟unità politica, in cui il criterio unitario era costituito non più dalla fede comune ma dalla coerenza politica (ciuius regio eius religio). E‟ 249


sempre opportuno ribadire che il principio politico, per definizione, è conflittuale, e quindi l‟ordine politico stabilito da un Potere superiorem non recognoscentem è essenzialmente contrario all‟ordine sociale, che si basa sul riconoscimento dei ruoli. In tal senso, il Potere politico non può essere il garante dell‟ordine sociale, ma semmai il suo eversore. Ciò comporta che l‟unità dei gruppi sociali non può mai essere politica, essendo politici i conflitti sociali; l‟unità sociale può essere solo di tipo morale, ossia conseguita mercé un principio etico accomunante, rappresentato dal Governo. Non a caso, lo Stato politico moderno, non soltanto non ha eliminato la conflittualità sociale, ma l‟ha eletta a principio discriminativo delle relazioni sociali. La condizione per la quale lo Stato può dominare la società è dunque quella di annullarla nel suo essere costitutivo, strutturalmente gerarchico, attraverso l‟imposizione di un ordine artificiale, quello di dipendenza universale dal suo Potere, fondato su una unità fittizia di carattere giuridico-formale. L‟ordine politico si fonda pertanto sul disordine sociale, il quale a sua volta è generato dalla rimozione del principio di legittimazione morale della convivenza,di natura spirituale e religiosa. E pertanto l‟assunto razionalistico per cui l‟unità sociale possa conseguirsi attraverso lo Stato, e dunque etsi Deus non daretur, è essenzialmente errata, poiché l‟unica unità conseguibile per via politica è quella appunto politica, mentre l‟unità che possa unire quanto è strutturalmente diverso, è di natura trascendente le forze sociali, e appunto morale. Nello stesso senso, l‟affermazione storica del Potere statuale assolutista, se ha dissolto l‟unità morale della cristianità europea, non è pervenuto ad alcuna unità alternativa a quella etico-religiosa della “civiltà” in senso umanistico, aprendo la strada al perenne conflitto tra le nazioni e interno ad esse. Solo il genio di Dante, “l‟unico laico che possedette pienamente l‟intera cultura del suo tempo”,426 intese che l‟unità civile dell‟Europa (humana civilitas) non potesse conseguirsi coi soli mezzi politici, ma necessitava della confluenza del Potere entro l‟alveo monarchico del Governo etico, fondato sulla morale cristiana (communio sanctorum). Era l‟unità culturale vagheggiata dal Petrarca ma di portata universale e non circoscritta al ceto dei letterati. L‟intera

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O. Brunner, ALeG, pag. 95.

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tradizione umanistica neo-platonica ricerca l‟armonia perduta dell‟uomo col cosmo naturale e morale dell‟universo che chiamava “magia”, che altro non era che la corrispondenza di ogni cosa col Tutto. La figura del “cortegiano” italiano, emulo del quale è il gentleman inglese e l‟honnete homme francese, ha dismesso le sue vesti guerresche, brandisce la penna ed è armato solo di sapere. Non confligge più con la corte ma vi vive entro la sua “società” aristocratica, intesa in senso moderno come un “settore della vita pubblica”, costituito non più da ceti ma da “un aggregato di individui”, legato da un consensus comune di carattere morale che sarà il fondamento dello Stato rinascimentale.427 La versione dichiaratamente religiosa di questo umanesimo è quella di Erasmo, il cui proposito è di “rinnovare la cristianità attraverso la restaurazione dell‟antichità: vetera instaurare” a opera del principe cristiano, al quale dedica la sua Institutio. Ciò che lega l‟esperienza rinascimentale italiana di impronta nazionale all‟umanesimo universale erasmiano è la tendenza alla rappresentazione letteraria del mondo che nella cultura trovi quell‟armonia esistenziale in vano perseguita dalla politica e dalla religione ecclesiastica ormai separate e in conflitto. In guise diverse, ma animate dallo stesso stupore per l‟uomo e per le sue divine qualità, l‟intera produzione letteraria delle generazioni a venire disegna un progetto epico di rinascenza spirituale dell‟Europa che si mantiene a un livello solo apparentemente estetico, ma che in realtà, dietro la “visione estetica della vita e al culto della forma”428 coltiva l‟intento grandioso di una rifondazione morale della civiltà attraverso l‟elaborazione di un archetipo mitico di carattere radicalmente umanistico, e perciò epico ed eroico. Nella rappresentazione mitico-letteraria di un mondo ben incardinato sui suoi fondamenti ontologici, e perciò fascinoso e incantato, l‟uomo trova naturalmente il suo ruolo mediatore tra cielo e terra in una realtà di mezzo, quella della dimensione spirituale, in cui storia e desiderio si intrecciano nel disegnare un‟esistenza armonica, che si riflette nella vita di corte e nelle gesta dei romanzi cavallereschi

427 428

O. Brunner, ALeG, pag. 106. O. Brunner, ALeG, pag. 111.

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quanto in quella rurale dipinta dalla poesia arcadica e dai romanzi pastorali. Questa letteratura, se da un lato conferma l‟esistenza di una “coscienza unitaria della cultura aristocratica europea”,429 per altro verso delinea un percorso dichiaratamente letterario che non ha il suo epicentro nella ragione, ma che non è neppure solamente estetico, ma bensì tende a una complessiva rappresentazione dell‟esperienza esistenziale dell‟uomo (singolare, nazionale e universale) che anticipa, in chiave eroica e virtuosa, quella del romanzo borghese. Era il modo spiritualistico di rappresentare l‟unità umanistica dopo la dissoluzione di quella feudale e di quella religiosa, una respublica christiana ma culturale e letteraria, alternativa all‟unità sovrana degli Stati del sistema politico europeo, in reciproca lotta per il potere; una unità perciò universale rispetto a quella particolare degli Stati nazionali. Nella nuova mitografia letteraria del periodo umanistico e rinascimentale la Storia non è sicuramente più una rappresentazione allegorica del piano della salvezza divina che attraversa popoli e secoli dagli albori della civiltà sino al giudizio universale. Questa historia mundi di carattere teologico era già stata abbandonata dall‟alta scolastica,430 e verrà invece recuperata solo da Dante con la Monarchia in una inedita chiave umanistica che fonde l‟antica virtus romana con il disegno escatologico cristiano e aspira a una rinascenza spirituale e non meramente politica e statalistica, come quella propugnata da Machiavelli. La frantumazione politica dell‟Italia era però compensata dalla unità universale cristiana e dall‟autorità della Chiesa, che perciò dovevano entrare nel disegno complessivo proposto da Dante di una Monarchia cristiana universale, fondata appunto sulle antiche e cristiane virtù. Rispetto alla libertà cittadina e della stessa unità nazionale, il disegno dantesco era di ben altra e più alta missione. Ma l‟elemento più pregnante di quel disegno era la preminenza accordata al disegno politico imperiale di istituire il diritto razionale, inteso però non in senso meramente etico ma soteriologico e non giusnaturalistico, opposto diametralmente dunque a quello che sarà interpretato dall‟assolutismo politico e che “minò i fondamenti del mondo

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Ivi, pag. 116. O. Brunner, ALeG, pag. 118.

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aristocratico”.431 L‟età moderna non inaugura ma porta a compimento una rottura ontologica, un paradigma metafisico su cui poggia la struttura aristocratica della civiltà europea e la sua immagine del mondo, per cui a tramontare non è solo il Medio Evo o il feudalesimo ma una Weltanschauung che “aveva dominato per più di due millenni”.432 Tale visione del mondo era quella greca, che in Platone trovava il suo massimo rappresentante filosofico, colui che aveva “scritto opere d‟arte per esporre della filosofia”, ossia si era servito di immagini artistiche per iniziare alla verità (philìa) ed educare la coscienza all‟uso della ragione (sophìa) “indirizzata alla conoscenza delle potenze irrazionali della vita”.433 Il livello di coscienza noetico, quello proprio della intelligentia spirituale, solo all‟interno di un più vasto e originario orizzonte, rappresentato in forma artistica, riesce a pervenire, per mezzo della sua visione ideale, a una conoscenza concreta della realtà. Ma la concretezza della realtà risiede nella sua molteplicità e dunque nel suo divenire, ossia nella sua storia, sicché la vera conoscenza consiste nella armonia, cioè bellezza, tra i due momenti, che non fanno confusi. A

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O. Brunner, ALeG, pag. 121. “La vittoria dell‟assolutismo distrugge le premesse di un atteggiamento autenticamente aristocratico”: Ivi, pag. 125. La novità e originalità del disegno dantesco, non colto neppure dal Brunner, fu la portata universale del motivo etico nobiliare, liberato di ogni connotazione particolaristica, di censo o di nazione, e affidatario di una missione redentrice di portata mondiale. In questa prospettiva, infatti, veniva superata la cogente limitazione dell‟etica di ceto aristocratico medievale, la sua dipendenza sociologica dal potere, dal quale non veniva emancipata attraverso un piano di evasione estetica, ma mercé un progetto eticopolitico grandioso che Dante faceva coincidere con la stesse sorti della civiltà cristiana. Solo un Impero cristiano avrebbe potuto rivalutare il ruolo delle aristocrazie virtuose della società feudale, che lo Stato assolutistico minacciava e la Chiesa trascurava a pro della sopravvivenza della istituzione ecclesiastica. Solo all‟interno di un ordine cristiano, politicamente garantito, sarebbe stato possibile coltivare ed affermare le antiche virtù aristocratiche. Tornava sotto aggiornate spoglie l‟istanza di fondo che aveva animato la teologia politica alessandrina e che propiziò l‟incontro dell‟universalismo imperiale romano con l‟universalismo etico cristiano, che aveva piegato il logos storico verso una missione etica terrena. 432 O. Brunner, ALeG, pag. 129. 433 E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 32.

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questo compito è preposta la ragione, la quale distinguendo rigorosamente i due momenti, ha la funzione kantiana di determinare il limite che separa la verità (cioè la distinzione armonica) dall‟errore (la confusione degli elementi ontologicamente diversi). Questo duplice carattere dell‟Essere, ideale e a un tempo fenomenico, attribuisce anche alla sua conoscenza una qualità paradossale, “ma il paradosso, ineliminabile per il pensiero platonico, mantiene tuttavia in grazia di esso il suo significato: la frattura esistente fra la sfera ideale e quella fenomenica non significa nient‟altro che il principio di tutta la coscienza dell‟umano pensiero”.434 La consapevolezza di questa “frattura” metafisica genera il senso del Limite, che è razionale, in quanto individuato dalla ragione, ed è etico, in quanto conseguente alla ragionevolezza dell‟agire pratico. La rappresentazione di questa totalità, distinta e conflittuale, non può essere meramente logica, ossia dialettica e polemica, ma deve essere inclusiva anche dell‟esperienza della finitezza del divenire, la cui coscienza non è intellettualmente astratta ma esistenzialmente sofferta dall‟uomo. E proprio perciò il principio della coscienza, che è quello stesso della struttura dell‟Essere, richiede una rappresentazione che sia a un tempo simbolico-poietica e logico- razionale, che soltanto la narrazione filosofica può offrire come mito-logia, ossia come racconto archetipo (Mythos) della verità nel suo divenire se stessa.435 11. La tradizione platonica. Se il luogo del confronto della forza – personale, nella civiltà eroica; sociale, nella civiltà politica – è lo spazio pubblico di esercizio della politeia, lo spazio, del tutto privato, della “corrispondenza di sentimenti”, è la philìa, che univa in modo elettivo e disinteressato gli uomini che la coltivavano. Questo carattere di disinteressata spontaneità donava alla relazione filetica un‟aura di

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E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 35 .

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Secondo Hoffmann, “Platone ha creato delle allegorie con cui descrive il modo come raggiungiamo prima e dopo la vita, al di fuori del mondo fenomenico determinato dallo spazio e dal tempo, la chiara contemplazione delle idee, che per noi quaggiù sono concepibili solo in quanto insufficienza, enigma e riflesso. Egli ha mitologizzato il modo con cui Dio dona la partecipazione al mondo nell‟atto in cui, da architetto, configura i cosmo secondo il modello delle idee”: Op. cit., tr. it., pag. 54.

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moralità, che faceva del sodalizio amicale un modus vivendi acconcio al livello di coscienza dell‟uomo virtuoso, a cominciare dal filosofo. Questi insegnava per il piacere di donare la sua sapienza agli amici che lo circondavano, senza alcuna ricompensa, tanto che “le grandi comunità che furono fondate da Platone, da Aristotele, da Zenone e da Epicuro, non sono pensabili senza philìa”. E perciò dovette suonare così stridente alle orecchie del filosofo la pratica del sofista “mercante di sapere”.436 Il sapere, quale ricerca di ciò che trascende la dimensione della vita puramente naturale destinata alla morte, e quindi di ciò che resiste all‟edacità del destino di morte che involge l‟esistenza anche dell‟uomo, è il compito della filosofia, ma è altresì l‟aspetto morale della sua coltivazione da parte della coscienza razionale. La particolare philìa coltivata dalla filosofia è appunto tesa alla verità trascendente, alla cognizione morale, e pertanto a valori iper-individuali che legano gli uomini al di là della loro particolarità empirica. Tale legame morale che lega gli amici è quello proprio della comunità volta al bene. Essa è dunque il modello ideale della convivenza umana che dovrebbe tradursi in realtà esistenziale non lacerata dal polemos. Una polis fondata sulla philìa sarebbe una comunità duratura fondata sul Bene, coincidente dunque con la relazione umana disinteressata e volontaria.437 Un altro modello di socialità, rispetto a quello politico. E se la convivenza politica è definita dalla misura sociale della forza, ossia sulle possibilità offensive degli uomini verso gli altri uomini coesistenti nello stesso ambito territoriale e urbano, la convivenza filetica consiste nella comune ricerca di superare la condizione politica, di cui misura è appunto la forza, coltivando il philein, l‟amicizia, l‟aspirazione comune al Bene, che diventa pertanto principio ( aitìa) comunitario. Ma la ricerca del Bene fondativo della comunità filetica dei sapienti, è indirizzata anche alla definizione razionale del Bene, del principio morale inteso “come arché, da cui derivano solo delle copie in tutti i casi particolari dell‟amabilità”. Il fondamento dell‟essere è

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E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 72. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 75.

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morale, e il fondamento morale è razionale. Il Bene è dunque fondamento di ragione, “dialetticamente sufficiente”, che interrompe il caos dei rimandi simbolici del pensiero, e dunque dell‟infinita incomunicabilità legata all‟esercizio irrazionale della volontà, e nel quale fondamento perciò “il pensiero è in grado di posarsi”.438 Come sempre, l‟originalità della posizione teoretica platonica non consiste nella scoperta della philìa, la quale agiva da modalità relazionale già nella rappresentazione epica degli eroi (si pensi solo ad Achille e Patroclo); la novità in Platone è l‟averla posizione all’inizio della vita comunitaria, in sostituzione dell‟archetipo politico tradizionale, il polemos, che Eraclito aveva posto a fondamento di tutte le cose e sulla base del quale Tucidide aveva giustificato eticamente i soprusi della guerra. Il parricidio platonico non si rivolge al solo padre spirituale della Grecia, ma alla stessa tradizione di cui il pensiero eracliteo era espressione, e la cui mentalità consegnava la coscienza alle tenebre. Questa tradizione di pensiero e questa mentalità consistevano nella credenza eleatica che “tutto è immerso nel divenire” (panta rèi). A questa credenza, che condanna l‟opera umana, e la sua stessa convivenza, alla finitezza dell‟imperfezione, Platone oppone la Verità, non una mera opinione tra tante, ma un fondamento epistemico, nel quale “il pensiero è in grado di posarsi”. Un terminus a quo a partire dal quale inaugurare una nuova tradizione, per cui la lotta contro il Mito perseguita dalla filosofia aveva dunque il significato di una confutazione “de‟ primi ed oscurissimi incunaboli della società” (Leopardi) finalizzata alla nuova forma di convivenza. Con Aristotile, l‟afflato aristocratico platonico, che caratterizza la comunità filosofica solidale nella contemplazione della verità insita nel Bene, viene a stemperarsi a favore di una esigenza pedagogica universale, che sostituisce al ruolo degli interpreti filosofi, mediatori tra il cielo delle idee e la prassi concreta, la funzione sociale dell‟etica, intesa come virtù generalizzata attraverso il metodo della ragione, che “come rende teoricamente generale il particolare per mezzo del concetto, così procede anche sul piano pratico: essa vuole anche che il sommo bene dell‟individuo (la felicità), diventi proprio di tutta l‟umanità, e pone

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E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 78.

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questa comune felicità al sommo del sistema dei beni”.439 Ciò comporta che l‟elemento concretamente esistenziale della mediazione, l‟aristocrazia di spirito, diventi elemento astrattamente intellettuale, legato al metodo pedagogico universalmente fruibile, la cui adozione generalizzata è consentita dalla stessa potenzialità, socialmente neutra, della ragione, con la quale l‟etica stessa va a coincidere. La stessa ragione, per il suo carattere universale, è etica e dunque chiunque ne adotti il metodo può applicarlo nella prassi come agire virtuoso. Mentre la concezione etica di Platone si basava sulla elettività del sentimento filetico, che era la condizione stessa della ricerca noetica della verità per mezzo del ragionamento metodico, e che costituiva il presupposto fondamentale e non naturalistico del modus vivendi improntato filosoficamente al Bene, la democratizzazione dell‟etica operata da Aristotele si fonda sul presupposto di credenza che “la morale è „generale‟ e innata in ogni intelletto”, ossia è un dato di natura collegato alla stessa socialità antropologica, per cui il perfezionamento etico consiste, sul piano logico, nella estensibilità universale del principio di ragione, e sul piano sociale dalla sua generalizzazione cetualmente indiscriminata, la quale diviene il criterio stesso della sua qualità. Il passaggio da una visione etica aristocratica a una democratica, eliminando la mediazione del ruolo specifico del filosofo, identifica la virtù con la ragione, ossia lo strumento con il suo fine. Se, dal punto di vista logico, l‟esaltazione del metodo filosofico priva la ragione di ogni intrinseca limitazione morale, spostando il problema della Giustizia () all‟interno della dimensione del diritto, interpretando il limite del Potere nei termini ottativi della “moderazione” (), cioè di una modalità di esercizio equo della forza (); dal punto di vista sociologico, rende superfluo il ruolo pubblico della aristocrazia sociale, le cui funzioni vengono assorbite dai funzionari della ragione, i cittadini virtuosi (). La trascrizione della soggettiva philìa in termini di astratta epieikeia, socializza i contenuti della equità del Potere, ossia la forma del diritto, ascrivendola alla sensibilità comune, anziché a un intangibile principio metafisico, superiore alla stessa ragione, la quale pertanto in Aristotile diventa onnipotente e

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E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 86.

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incoercibile, e dunque facoltà autarchica, non abbisognevole di alcuna limitazione che non sia interna alla stessa opinione razionale condivisa. Una dòxa razionale, la cui credibilità è pur sempre legata alla coscienza comune, che resta politica e diventa criterio sociale del Bene. Con la rimozione della soggettività morale, e dunque del fine trascendente l‟utilità comune, questa stessa utilità, intesa nel senso del bene sociale, diventa il fine politico ricercato dalla filosofia, quale metodo razionale di gestione del Potere. Il ripiegamento politico della ragione, in nome di un‟istanza realistica del pensiero che indirizza l‟attività filosofica in direzione pragmatica, crea le premesse teoretiche della ideologia razionalistica totalitaria. Platone, prospettando un modo vero di convivenza, relativizzava la convivenza sociale tradizionalmente politica, contestandone il suo supposto carattere di necessità, che invece Aristotile riafferma assegnando alla socialità una costituzione onto-antropologica nel cui concetto sussume la philìa, l‟istinto naturale che la ragiona sviluppa in philanthropia.440 Il senso del rapporto filetico viene capovolto. Infatti, mentre in Platone era un sentimento elettivo che rendeva uguali in virtù del Bene ricercato, in Aristotile la philìa è una condizione naturale comune di partenza sulla quale si applica l‟enérgheia del dirozzamento razionale. La attività razionale la distingue dalla passività del pathos ma l‟agire etico risolve la differenza ontologica di essere universale ed ente singolare nella prassi razionale, in cui consiste la comunità regolata dal diritto, lo Stato. “Dove c‟è sempre „comunità‟, là c‟è sempre anche philìa e dike: è la stessa sfera [etica] cogli stessi limiti”. La differenza tra le comunità etiche particolari e quella statuale risiede nella circostanza che solo lo Stato persegue “l‟utilità comune”, che è la sommatoria degli interessi delle singole realtà sociali particolari.441 “Ogni amicizia si fonda sulla comunione”,442 la differenza è solo modale, non di qualità sostanziale, per cui anche all‟interno delle forme statuali, i sistemi degeneri sono deformazioni del modello empirico, sottospecie dei regimi idealtipicamente classificati, cui

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E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 90. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 97. Ivi, pag. 100.

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corrispondono altrettante manifestazioni di philìa.443 Il realismo aristotelico consiste essenzialmente nella incredulità delle forme ideali poste da Platone come idoli di ragione alternativi agli idoli del Mito arcaico, ma non meno oggetto di questi a culto e dunque a essere venerati come “veri”. Nondimeno, il razionalismo aristotelico, ammettendo la realtà storica del male come degenerazione del bene ideale, rende questo una finzione idealtipica, smentita dalle forme reali di organizzazione politica. Ed è proprio questa distanza tra essere e dover essere che, smentita in teoria ma constata nella vita pratica, a rendere la enérgheia razionale un motivo opzionale che si rende necessario solo attraverso l‟appello alla ragione comunitaria, ossia a quella ragion di Stato dettata dall‟utile, sia pure comune, che sarà il paravento etico che maschererà ogni ideologia assolutistica. La rappresentazione, di origine medico-naturalistica, delle molteplici forme empiriche di regime politico contrasta con una concezione monoteistica del divino,444 sicché lo stesso pluralismo religioso impedì di concepire una koinonìa pan-ellenica di tipo politico. L‟etica aristotelica non poteva sopravvivere alla polis greca, proprio in quanto etica dello Stato. La ragione ordinatrice della vita politica, perduta la sua finalità empirica con la fine della libertà politica dei Greci a seguito dell‟occupazione romana dell‟Ellade, diventa strumento di potenza rivolto a contenere le passioni umane, e da ragione di Stato diventa ragione dell‟Io. E così come costituiva uno stato patologico la dipendenza politica da una forza esterna a quella della volontà etica dei cittadini della polis, così lo era la dipendenza della volontà soggettiva dalla forza delle passioni. Circoscritta la razionalità dell‟esistenza alla dimensione soggettiva e coscienziale, i processi fenomenici esterni alla coscienza razionale diventano moralmente ininfluenti se l‟uomo li considera accidentali, ossia “esteriorità indifferenti che l‟uomo deve accettare come essere animale, dato che sono presupposte, ma da cui, come essere razionale e morale, è libero”.445 La ragione nella filosofia

443

“Amicizie e organismi statali sono forme comunitarie che possono essere intese, per analogia, in modo da distinguere fra il genuino e l‟adulterato, la specie e la sua degenerazione”: E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 98. 444 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 120. 445

E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 127.

259


storica, come già in quella platonica, torna a essere indipendente dalle regole del mondo comune, le quali assumono valore sulla base del loro possibile significato razionale. “Gli oggetti esterni diventano pregevoli o cattivi se si pongono in relazione col vero bene o con l‟autentico male [i quali] si debbono cercare solamente nell‟uomo in se stesso”446 e non nei caduchi rapporti politici e nella relativa logica che li sostiene. Il logos della coscienza personale trova il suo valore nel suo essere parte di un valore universale, presente nell‟uomo ma che regge “la totalità del mondo”. In quanto manifestazione particolare di un ordine universale, “anche l‟uomo, in quanto animale, voglia o no, deve servire al fine del cosmo; come dice Eraclito, persino nel sonno”. E nel secondare questo destino cosmico, la volontà di essere partecipe del finalismo universale, risiede la libertà dell‟uomo.447 Si noti come, in questo estremo razionalismo stoico, l‟identità singolare ritrova attraverso la ragione la solidarietà di specie, la quale tradisce la profonda insicurezza culturale in cui è immersa la coscienza deprivata della sua antropologica socialità politica. La originaria mancanza metafisica del fondamento, propria del razionalismo autarchico, viene compensata dalla generalizzazione cosmica di quello che rimane pur sempre un metodo di conoscenza della realtà, una gnosi che diventa rassicurante esistenzialmente non perché vera in conseguenza di una ricerca personale elettivamente partecipata per philia, ma in quanto condivisa per supposizione antropologica. Infatti, un logos che sia universalmente comune perde il suo carattere aristocratico per assumerne uno naturalistico, sia pure di sola specie umana. Il cosmopolitismo stoico nasconde, dietro la facciata ottimistica, una profonda e insanabile angoscia esistenziale, un profondo senso tragico della vita privo dell‟antica redenzione religiosa. Una filosofia che si propone di conseguire la felicità, presuppone una condizione infelice dell‟uomo, che rimuove attribuendone la causa all‟ignoranza del Bene, che si suppone comunque agire nell‟ordine cosmico. Ciò che l‟intellettualismo greco non riuscì a spiegare non è l‟origine del male, che risiede nell‟ignoranza dell‟uomo, ma le ragioni della sua coesistenza con l‟ordine razionale del mondo. Se la civiltà

446 447

Ibidem. Ivi, pag. 128.

260


greca classica aveva inteso circoscrivere l‟ambito di razionalità umanamente possibile alla dimensione, grandiosa a tratti ma comunque ridotta, della polis, la concezione ellenistica della stoa ambì ad assicurare alla razionalità l‟intera umanità, fuori di ogni coordinamento politico. E su questa pretesa palingenetica fu arato il terreno di semina del Cristianesimo, che rappresentò la manifestazione più universale di civilizzazione intesa come “rinascita di antica saggezza in un animus non più antico”.448 Tuttavia, il cristianesimo delle origini, nella predicazione di Gesù di Nazareth, non era una filosofia ma una “pura religione dell‟intenzione, indipendente da ogni atro complesso di valori”, una religione del “sentimento”.449 Il contrasto tra l‟eros filosofico e l‟agàpe cristiana passa attraverso la differenza tra “l‟amore del sapere” filosofico e la “fede nel sapere” religiosa. Infatti, mentre la filosofia platonica è una “religione culturale”,450 la fede cristiana è una religione della fede, che ha un carattere del tutto fattuale, poiché in essa “tutto viene rapportato alla redenzione compiuta da Gesù di Nazareth”.451 I grandi mediatori che interpreteranno la parola di Gesù, in una forma “rimasta poi sempre decisiva”, saranno Giovanni e Paolo, due “Giudei di cultura greca”, che posero al “principio” il Logos, lo stesso “principio eracliteo, come veniva tramandato dalla stoa”.452 La forma greca fu essenziale alla definizione e diffusione del Cristianesimo, in quanto funse da modello spirituale da inverare attraverso la novità della Rivelazione. La relazione tra i contenuti del messaggio evangelico e la forma della recezione divenne quella tra il volontarismo cristiano (la fede) e l‟ intellettualismo greco (la comprensione di essa): fides quaerens intellectum. “Dalla congiunzione di Platonismo e di Cristianesimo uscirà un umanesimo quale non aveva prodotto la civiltà araba e giudea del tardo Medioevo”.453 La socratica

448 449 450

E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 137. Ivi, pagg. 138-139. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 40.

451

F. Schleiermacher, Glaubenslehre (1821, 18302), tr. it. di S. Sorrentino, Brescia, 1981, vol. I, pag. 208. 452 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 143. 453

Ivi, pag. 146.

261


consiste nella

capacità umana di riconoscere l‟Essere, sia questo inteso in senso eleatico che idealistico o ebraico, che la filosofia porta a consapevolezza. Il Cristianesimo, prima di tale consapevole sapere, pone la certezza della fede nella realtà di ciò che diverrà oggetto di conoscenza. La fede, quale condizione di conoscenza della verità, resta distinta dalla verità stessa quanto dal sapere che la riguardi, sicché il fedele non è Dio e neppure il metodo con cui Lo conosce, ma senza la fede in Dio non c‟è né oggetto di conoscenza né metodo di apprendimento. E‟ questo il senso profondo della volontà di accogliere tale fede, cioè di convertirsi alla verità. La metànoia propriamente è un mutamento di prospettiva da cui avere la visione della realtà. La filosofia greca poneva la verità alla fine del processo dialettico, rimuovendo l‟archetipo mitico, mentre il Cristianesimo pone la verità all‟inizio della conoscenza, non facendone un suo prodotto, ma solo la sua giustificazione razionale. Il sapere è un posterius rispetto alla certezza della fede, che dunque è il prius della conoscenza, la sua condizione ontologica. La fede consente, pertanto, il libero sviluppo del sapere, il quae, però, senza la fede perde il suo fine trascendente, che è appunto anche il suo inizio. Lo smarrimento della civiltà antica è legato all‟oscuramento del sapere, privo della luce della originaria verità. La stessa frantumazione delle dottrine filosofiche riflette la mancanza di un principio comune che ne indirizzasse anche lo scopo teoretico. Questo principio comune a ogni sapere umano è appunto la fede ontologica che l‟Essere (Dio) è, e per i cristiani Egli, incarnandosi nell‟uomo, si è tradotto anche in esistenza, e dunque esiste nel Cristo storico. La fede nella Sua verità passa attraverso la certezza della realtà di Cristo. I pensatori greci avevano confutato la mitologia arcaica in quanto idolatrica e fantasiosa, ma il Principio della conoscenza che i cristiani pongono per fede ha anche un fondamento di certezza, e dunque è irrefutabile anche per via di esperienza sensibile, del tutto assente invece dalla narrazione mitica pagana. La lotta che la fede e in seguito anche la teologia cristiana condusse sin dalle origini contro l‟idolatria, condannata aspramente d‟altronde dalla stessa catechesi vetero-testamentaria, aveva per oggetto non già il fondamento della verità, come invece per i razionalisti greci, ma bensì i suoi contenuti fideistici. Ma questa giustapposizione di miti avrebbe condotto al relativismo delle verità religiose, e dunque a ciò che 262


Nietzsche chiamò il “nichilismo storico”, se il Cristianesimo non avesse concepito il fondamento divino oggetto della sua fede come la stessa Verità, ossia intendendo la verità, non più alla maniera filosofica come il concetto del ragionamento metodico, ma come il Mistero di Dio. Se porre il Mistero all‟inizio e alla fine della ricerca sapienziale, significava relativizzare il sapere privo della Verità unica, che è Dio, porre la fede a fondamento epistemico della conoscenza umana significava fare di Platone l‟anello di congiunzione del sapere antico con quello cristiano. Platone infatti aveva compreso che il luogo della verità non coincideva compiutamente con la realtà, incrinando la sicurezza esistenziale nata dalla identità eleatica di Essere e mondo. In quella crepa si era insinuata la coscienza metafisica dell‟alterità. Il limite culturale della sapienza greca fu quello di surrogare la fede rimossa nel Mito con l‟idolo politico, con un prodotto tutto umano, la cui perfezione era affidata al metodo razionale di costruzione. Anche la costituzione politica, come ogni altra opera umana derivava il suo grado di perfezione tecnica dal criterio col quale era stata eseguito il suo modello ideale, ossia dalla sua maggiore o minore razionalità. Non vi era differenza tra l‟opera artigianale e l‟opera politica, se non quella relativa alla fama che ne aveva presso gli uomini. Ma la fama stessa era una qualità umana, contingente e accidentale e finita come ogni qualità umana. Una volta che la civiltà politica, che era la realtà vivente della religione filosofica greca, aveva mostrato la sua fragilità storica, si dissolse anche la fede idolatrica che quella civiltà aveva animato, lasciando il pensiero, già orfano del Mito, anche senza oggetto. E la crisi dell‟oggetto trascinava con sé inevitabilmente il pensiero che a esso si era applicato, lasciando angoscia e smarrimento nelle coscienze, propense alla piega religiosa del filosofare e al misticismo.454 Su questo terreno morale e psicologico agì efficacemente la predicazione cristiana. Porre infatti come oggetto di pensiero e fondamento eterno e stabile, non una realtà mondana legata alla fragilità della finitezza umana, ma Dio stesso, significava rassicurare l‟uomo e la sua coscienza a una esistenza e a una fortezza inviolabili, che rivelò la sua ulteriore e maggiore efficacia spirituale al crollo dell‟Impero romano.Con la presa della spiritualità cristiana, la

454

E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 155.

263


tensione teoretica, l‟eros platonico, fu indirizzata verso l‟unio mystica, scompaginando e ricomponendo in guise diverse i problemi fondamentali della filosofia. Dalla prospettiva spirituale cristiana, l‟con Dio sarebbe avvenuta attraverso l‟, che non è un “sapere”, non è una gnosi, ma una fede. La necessità insita nel sapere in senso razionalistico, per cui sapere qualcosa significa volerla, diventa nella prospettiva cristiana una volontà di sapere ciò che già si possiede (Agostino). Una questione di “buona volontà”, cioè un atteggiamento morale, liberamente assunto dalla responsabilità del singolo uomo. Ciò che è l‟ignoranza per il sapere greco, guaribile per mezzo del logos e della paideia,455 diventa negligenza e malevolenza nella coscienza cristiana, redimibile con la grazia divina. L‟etica eudemonistica greca, è un‟etica salvifica per i cristiani. La conciliazione greca dell‟uomo col cosmo attraverso il logos, generatrice della serenità propria del filosofo, per il cristiano è un processo di avvicinamento a Dio che non ha termine nell‟aldiquà mondano, anche perché ogni contatto con l‟assoluto è di natura mistica e interiore, che non si esaurisce nella prassi. L‟intera vicenda evangelica del Cristo va interpretata sulla base di una lettura simbolica, di una fenomenicità che rimanda sempre a un altrove, a un altro piano di coscienza invisibile nel quale il significato degli avvenimenti vissuti assume un valore recondito e non determinabile verbalmente, quasi che la coscienza sia irretita dalla fascinazione dell‟imponderabile mistero della fede, entro il quale si esaurisce la portata intransitiva del thaumazein, entro il cui orizzonte di senso acquistano lo stesso valore esegetico le parole, le situazioni, lo sguardo, le emozioni, e tutto ciò che costituisce l‟esperienza esistenziale di Gesù. Ciò comporta che le parabole evangeliche, sulle quali si è esercitata l‟intelligenza millenaria dei teologi, non esauriscono nella letteralità la loro potenzialità ermeneutica, in conseguenza della definizione di una cifra esegetica ortodossa custodita dal dogma ecclesiastico, poiché il piano della convenzionalità può avere un significato socialitario, funzionale alla identità ecclesiale, ma in quella intuitiva con Dio, stabilita da un dialogo che si pone su un piano di coscienza non comunicabile, e dunque non definibile nei termini del logos, in quanto aperto alla

455

E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 166.

264


discrezionalità graziosa di Dio. Nel riconoscimento spontaneo, cioè per volontà di fede, della predominanza dell‟Altro si apre lo spazio della dimensione morale, nel cui orizzonte di coscienza si compie la testimonianza della fede. La fenomenologia interna a questo orizzonte di coscienza, che sul piano della coscienza filosofica appare caotica e prodotto mostruoso, acquista il suo significato ontologico nel suo stesso fondamento, il  del Cristo, che è mitico per la ragione dialettica, ma che per la fede rappresenta il presupposto simbolico di ogni possibile rappresentazione razionale della Storia spirituale dell‟uomo ( ).456 Se consideriamo in paragone a questa coscienza fascinosa la condizione mitica rappresentata nella Repubblica dalla caverna, notiamo che la differenza essenziale tra le due condizioni di coscienza extra-razionale risiede nella volontarietà della fede di contro alla patologia della alienazione dalla verità logica. Nella condizione umbratile, infatti, è del tutto assente il consapevole consenso all‟Essere, costituito dall‟agàpe, l‟amore cristiano, la cui philìa rende superflua la funzione costrittiva del Potere, indispensabile all‟ordine politico, privo appunto di quel consenso, senza il quale il filosofo non può portare la luce nella vita umbratile. L‟ordo amoris vagheggiato da Platone attraverso l‟adozione politica della ragione, diventa il programma di fede del Cristianesimo, la sua sacra missione di volontaria conversione universale destinata a ogni uomo di buona volontà. Ciò che incatena l‟uomo al peccato originale di essere naturale è la sua mancanza di amore, non già la sua ignoranza del Vero. Se questa ignoranza è superabile attraverso il duro tirocinio della filosofia, l‟accidia della rilassamento morale può essere vinta da ogni uomo attraverso la sola volontà di riconoscere il sommo Bene che è in lui in quanto creatura divina. Il Logos iperuraneo del dialettico – posto che sia lo stesso adorato da Gesù - si è incarnato a exemplum di ogni uomo per la sua redenzione. La filosofia, liberatasi dal Mito, costituiva come suo polo dialettico la Natura, che diventò per la ragione il luogo del non-umano, della necessità da cui difendersi per mezzo della ragione, la cui funzione liberatoria è decantata dall‟epicureismo.457 Il Cristianesimo,

456 457

Ved. “La Parola e il Verbo”, in “Coscienza storica” n. 4. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pagg. 169 sgg.

265


di contro, assorbe la Natura nella creazione e la rappresenta il vincolo originario di finitezza peccaminosa sul quale agisce la fede per vincerne la resistenza alla comunione con Dio. Anche per Platone i vincoli naturalistici sono pregiudizi doxastici da confutare e lasciare agli ingenui, ma la charitas cristiana, diversamente dalla ragione, non opera a fini di perfezionamento della vita politica, ma per inaugurare una nuova visione del mondo, che ha il Cristo, Verbum caro, come modello esistenziale, e non il logos filosofico. La differenza, come spiega Paolo, nel suo inno all‟agàpe, è che “l‟amore non viene mai meno, mentre la profezia, le lingue e le scienze cesseranno”,458 perché esso rappresenta la condizione di perfezione. Se la filosofia è la turris eburnea in cui trova riparo la coscienza offesa dagli errori del mondo, la fede per il cristiano è sentimento vivificante di riconciliazione col mondo attraverso l‟atteggiamento agapico. “La lettera uccide, lo spirito vivifica”, come dice Paolo ai Corinzi. Non è il logos filosofico quella “salda pietra” della comunità umana che credeva Platone, ma l‟agàpe. L‟amore non esclude ma comprende anche il peccato. Per Agostino, “la coscienza del peccato è l‟inizio della saggezza”, non la sua negazione.459 Il Cristianesimo prese presto coscienza della sua “opposizione radicale alla civiltà greco-latina in seno alla quale si sviluppava”, ma anche della opportunità di trovare “in questa tradizione antica, qualcosa di buono che potrà utilmente assorbire nella propria cultura”,460 anche se, per quanto intrecciate in un sincretismo più o meno stretto, le due identità culturali, la greca e la cristiana, ebbero “una parte del tutto diversa nella costruzione dell‟umanità occidentale”.461 La differenza tra la disposizione agapica e quella razionalistica dei filosofi è nella inconseguibilità di una reale universalità da parte della conoscenza, la quale non coincide con il vero sapere, ma crea solo l‟illusione della differenza tra uomini eccezionali e quelli comuni. Il vero sapere non si consegue entro la dimensione della gnosi, che

458 459

E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 180. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 173.

460

H.I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique (1938), tr. it., Milano, 1987, pagg.325-326. 461

E. Hoffmann, Ibidem.

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distinguendo tra spirito e carne giunge all‟indifferenza morale, ma in quella della fede, per cui gli uomini veramente eletti non sono i sapienti ma i santi. “La gnosis fa dell‟uomo un essere gonfio, saccente, intimamente fiacco. L‟agàpe invece fa del cristiano la salda pietra per la edificazione della comunità dei santi”.462 La fede è dunque il vero orizzonte universale dell‟esperienza umana, sicché la comunità dei santi non è un sodalizio di eletti, al pari di un circolo filosofico, ma è la convivenza improntata ai valori morali, alla quale tutti possono partecipare, indipendentemente dalla loro posizione sociale, qualifica politica e origine etnica. La comunità cristiana, diversamente da quella politica, non esclude alcuno, perché l‟elemento unitivo dell‟amore è patrimonio di ogni creatura divina. Il piano della universalità morale supera le determinazioni sociologiche della vita politica e giunge alla condizione di con-pazienza, di partecipazione affettiva alle sorti del prossimo, che è la vera condizione etica della socialità, inconseguibile dallo spirito utilitaristico della socialità politica. Soltanto la solidarietà amorevole genera letizia (), perché inclusiva e volontaria, non certo la supposta serenità esclusiva e passiva del logos.463 Il modello della comunità cristiana è chiaramente la famiglia, in cui l‟amore solidale è fatto di reciproco e spontaneo sentimento, nato dal semplice riconoscimento dell‟appartenenza. La sapienza profana, secondo Paolo, non indica “come bisogna sapere”, cioè la modalità giusta per pervenire alla conoscenza vera, che non è dettata dall‟uso tecnico della parola, come vorrebbero i dialettici, ma dall‟amore verso Dio, ossia dalla fede ontologica nella Sua realtà. E se si ama Dio, ossia lo si conosce per ciò che è, il Padre creatore, viene da Dio ricambiato e riconosciuto come figlio. Nel stesso passo della 1Cor, 8 Paolo allude significativamente alla conoscenza filosofica, “per idea” (), per indicare che quella “per immagine” non è la vera conoscenza di Dio, ma solo l‟aspetto enigmatico della verità. L‟ viene da Paolo riferito alla stessa conoscenza ideale, che com‟è noto per Platone era quella vera rispetto alle immagini riflesse dai sensi. Il decisivo “punto di separazione” () è che la gnosis è una conoscenza che non perviene alla verità, e come tale non rasserena

462 463

Ivi, pagg. 184-185. Ivi, pag. 187.

267


lo spirito umano.464 Pertanto la filosofia non può essere la risposta ricercata dall‟uomo di ogni luogo e tempo, quale invece per Paolo è la parola di Cristo, che può giungere a tutti i figli di Dio, indistintamente, ricercandola nel proprio cuore. Proprio perché singolare e comune, essa è vera e rappresenta il vero fondamento unitivo () della convivenza umana.465 Anche per Agostino”ogni perfezione procede dall‟amore, il quale è superiore a ogni ragione”. Ma l‟ impossibilità del cristiano di confutare il valore sapienziale della scienza profana, lo spinge a destinare il suo enorme prestigio in un ambito di realtà del tutto umano, la civitas terrena, segnato dal peccato della sua stessa finitezza. Il Cristianesimo ha scoperto, o meglio ha recepito la rivelazione di, un orizzonte di coscienza meta-fisico, intravisto dal sapere antico ma mai penetrato, il regno dello spirito, che “non è di questo mondo”.466 Nondimeno, l‟antitesi agostiniana è meno radicale di quella che può apparire in generale, in quanto il peccato non può mai scalfire il buon fine della creazione, sicché lo sforzo umano deve tendere ad “avvicinare la città terrestre alla condizione primigenia [della creazione divina] nonostante lo stato di peccato”, non già attraverso le istituzioni politiche, ma “una disposizione del cuore”.467 Infatti, per Agostino non si raggiunge la condizione di perfezione realizzando il modello ideale, alla maniera platonica o stoica, poiché la perfezione, ossia la verità,

464

E‟ giusto quanto affermato da Hoffmann sul “punto di separazione” tra la posizione di Platone, che consegue la conoscenza vera “per mezzo della dialettica”, e quella di Paolo, che la raggiunge “per mezzo dell‟agàpe” (Op. cit., tr. it., pag. 193), ma la polemica di Paolo è rivolta alla gnosi filosofica, e non solo all‟estasi, in quanto la filosofia pretende di raggiungere la verità attraverso lo strumento della ragione. Ma per Paolo la gnosis è fallace in quanto non è veramente universale, essendo riservata solo ai filosofi, e, diversamente dall‟agàpe, che tutti possono sentire, non soddisfa le esigenze dell‟ intera esistenza umana. 465 E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 199. 466

“Non si tratta dell‟opposizione di stato „cristiano‟ e „non cristiano‟, né dell‟antitesi tra „Stato‟ e „Chiesa‟; si tratta piuttosto dell‟antitesi della „città divina invisibile‟ e dello „stato temporale visibile‟. La patria dell‟uno si trova nel mondo celeste, l‟altro ha le sue radici quaggiù”: E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 201. 467 Ivi, pag. 205.

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non è nel processo storico ma nell‟evento trascendente, per cui la stessa civiltà, quale natura artificiale creata dall‟uomo, non può aggiungere alcunché alla condizione della sua antropologica finitezza, e dunque il theorein filosofico, che contempla la realtà visibile, non può giungere a quella “confidenza o fiducia incondizionata nell‟invisibile”, cioè in Dio, che è invece propria della pistis.468 Il peccato, per Agostino, ha una funzione catartica, di punizione divina, sicché le stesse istituzioni politiche, quali lo Stato e le sue leggi, quando non si lasciano guidare dalla giustizia divina, sono rappresentative della collera di Dio. Questa posizione è stata interpretata come opportunistica e dettata dal bisogno di mantenere verso il Potere imperiale un atteggiamento moralmente limitativo, per cui la teoria della grazia divina sarebbe di tipo irrazionalistico rispetto alla dottrina del diritto naturale.469 In realtà, in quanto naturale il diritto non avrebbe potuto frenare la potestas temporalis del sovrano assolutista, l‟imperatore, in considerazione della sua funzione simbolica, rappresentativa della volontà di Dio, la quale soltanto poteva dunque limitare la volontà imperiale. La volontà teocratica, denunciata a proposito da Troeltsch,470 sorge allorquando la potestà spirituale si ponga come un Potere direttivo verso quello statuale, secondo un “rapporto formale di obbedienza, senza riguardo alla propria opinione sul valore o sul non-valore del comando in quanto tale”.471 Ma dalla distinzione del potere spirituale da quello secolare non deriva logicamente il controllo della Chiesa sullo Stato, che invece è il contenuto della pretesa ideologica di omologare la potestà spirituale, e dunque il Governo morale, alla potestà civile, ossia al Potere politico. Se “la cristianizzazione dell‟impero condusse a questo”,472 lo si dovette alla trascrizione in senso politico della gloria di Dio, cioè a una lettura platonica della Città di Dio quale modello ideale di quella terrena, che però non appartiene ad Agostino, per il

468

K. Loewith, Meaning in History (1949) , tr. it., Milano, 1979, pag. 186.

469

E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1969, vol. I, pag. 218. 470 Ivi, pag. 219. 471 472

M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, tr. it. cit. vol. I, pag. 209. E. Troeltsch, Loc. cit., pag. 223.

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quale “c‟è solo una storia, perché Cristo è venuto una sola volta”, sicché “la civitas Dei non ha alcun rapporto con lo Stato di Platone. La dottrina dello Stato ha l‟intento di salvare la città empirica per mezzo di una partecipazione all‟idea della giustizia; la civitas Dei invece non vuol salvare la città terrestre, ma metter in guardia da essa”.473 Il limite della realtà terrena, della sua finitezza, è lo stesso del suo divenire, di natura ontologica, per cui sarebbe vano trovare in questa sua dimensione un rimedio che non sia esso stesso caduco e imperfetto. Per Agostino, come per Platone, la superiorità dell‟Essere sul divenire è la premessa metafisica per ogni correttivo, ideale per il greco, morale per il cristiano. Ed è questo convincimento, il dualismo metafisico, che farebbe di Agostino “un vero platonico”.474 In realtà, il dualismo caratterizza anche la visione gnostica, contro la quale Agostino ha polemizzato, e di per sé non chiarisce l‟elemento essenziale della sapienza greca, che è il suo razionalismo, entro il quale si pone la riflessione di Platone. Questi infatti sostiene da razionalista che “il vero pensiero consiste nell‟affermazione dell‟essere di ciò che è”; che poi, per Platone, sia “l‟essere delle idee, poiché viene pensato esistente solo ciò che viene pensato in quanto idea”,475 fa parte della sua mitologia, che verrà rigettata non a caso da Aristotile come inutile superfetazione fantastica. Ciò che rimane stabilito è che l’Essere sia identico al pensiero, comunque venga giustificato razionalmente questo assunto identitario, il quale, se accettato, comporta la esclusività del metodo razionale sulla conoscenza intuitiva o basata sulle sensazioni. Ed è questa determinazione metodica a creare le premesse del monismo intellettualistico, essenzialmente gnoseologico. Ma ciò che più rileva è che tale determinazione metodica è puramente postulatoria, ossia è una posizione di credenza, ipotetica, sul cui fondamento fideistico si basa la Weltanschauung razionalistica greca. Il suo accoglimento, eleggendo il metodo razionalistico a criterio di validità dei contenuti della fede, condizionerà l‟intero sviluppo della teo-logia cristiana, a scapito di altre correnti di pensiero, considerate eretiche, in quanto ritenuto l‟unico a poter giustificare il monoteismo. In questo

473 474 475

E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 206. Ivi, pag. 208. Ivi, pag. 207.

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senso, lo stesso razionalismo greco poté essere considerato a giusta ragione dai teologi cristiani un preludio teoretico al monoteismo, poiché entrambi postulavano la ragione (il logos) come l‟unica via di accesso alla verità. Che l‟ente di ragione fosse indicato come agathòno come Dio, e che al posto della polis ci fosse la Chiesa, era questione terminologica, in ogni caso l‟orizzonte di senso razionalistico veniva confermato, e con esso la visione monistico-universalistica, e dunque totalistica della realtà e dell‟ordine comunitario, consegnato anche dai cristiani alla logica politica, sia pure sacralizzata come lotta contro il male. Come “in Platone, anima e città sono connessi, così lo sono anche in Agostino anima e storia”, ed in questo senso è giusto affermare che “tutto il mondo dell‟antichità è ancora vivente in Agostino”.476 Nondimeno, “l‟impegno ecclesiale gl‟impose in tutta la sua urgenza il problema del significato e dei limiti di una cultura autenticamente cristiana”,477 non viziata dal politeismo e dall‟immoralismo pagani. La cultura profana doveva essere studiata non già per le sue intrinseche qualità teoretiche, ma in quanto servizio allo studio della Sacra Scrittura. Ed è questo atteggiamento sincretistico di Agostino a renderlo, se non il prototipo, quanto meno l‟interprete più significativo della “cristianizzazione della cultura antica”.478 Per comprendere i termini della diversitas tra i due orizzonti di pensiero, è essenziale riferirsi al loro rispettivo fondamento ontologico, determinante per le successive elaborazioni teoretiche, segnatamente nel campo delle relazioni sociali e politiche, che andranno a costituire i paradigmi del pensiero teologico-politico occidentale. La premessa ontologica della gnosi greca, che è la medesima di “ogni filosofia che osi aspirare ad essere una filosofia metafisica”, comporta la “tensione concettuale all‟afferramento di un Uno-Tutto in sé differenziato che determina la realtà nella sua totalità a partire da Un solo principio”.479 La pretesa totalistica della teoresi razionalistica è di ridurre al proprio principio uni-versale ogni realtà fenomenica della

476 477 478 479

E. Hoffmann, Loc. cit., pagg. 218 e 212. M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma, 20103, pag. 94. Ivi, pag. 96. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum (1998), tr. it., Milano, 2000, pag. 204.

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natura ed esistenziale dell‟uomo stesso, trascrivendola in termini di pensiero. Il limite empirico contro il quale si è venuta a scontrare il razionalismo sin da Socrate è costituito dall‟azione. Il pensiero speculativo trova il suo limite nell‟azione politica, o meglio nell‟agire politico, il quale è un fenomeno collettivo, cioè oggettivo, mentre il pensiero è sempre soggettivo e riferibile a una soggettività empirica o trascendentale. L‟attenzione riposta dal cristianesimo sulla volontà, fa della  l‟atto noetico fondamentale, che è fondativo della religione, in quanto genera una interpretazione () che istituisce il rapporto religioso.480 L‟agire politico considerato dalla filosofia, quale tecnica logica di portare alla luce ciò che è nascosto, non è l‟azione, cioè la volizione di potere, la libertà di realizzare il desideratum, ma la relazione. L‟azione, infatti, si dirige verso l‟altro, mentre la relazione è con l‟altro. L‟azione è atto imperativo, volizione tesa all‟obbedienza dell‟altro. La relazione è invece atto di riconoscimento dell‟altro come con-partecipe. La stessa dialettica è relazione dia-logica. Il Potere non ricerca dialogo ma obbedienza. La “virtù” politica coincide con la capacità di riconoscere l‟altro quale membro dell‟unità sociale. Il giudizio filosofico sull‟altro non verte sule sue singole azioni, ma sul rapporto di relazione che il cittadino ha nella vita sociale, dipendente dal suo modo di pensare. La filosofia si propone di correggere il cattivo pensare, non gli atti compiuti. La persona è unità razionale e spirituale, ma non sociale per i Greci. Dai singoli atti non si può pervenire all‟unità, che dunque incombe sugli individui-attori come Potere superiore esterno. La polis antica era lo spazio dell‟agire socializzato, pre-politico e politico. Il rapporto tra i due momenti dell‟agire è lo stesso che tra la socialità fondata sulla doxa e l‟agire razionale, quello appunto politico o del Governo. La superiorità assegnata dal filosofo al‟agire razionale determina la superiorità del Governo razionale su quello fondato sulle opinioni false. L‟equazione di politica e ragione consente il buon Governo, la cui qualità consiste appunto nell‟ispirazione razionale, e non nella efficacia della sua forza. L‟ammissione di un Potere fondato

480

S. Sorrentino, Introd. a M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana (1991), tr. it., Cinisello Balsamo, 19992, pag. 18.

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sulla dòxa consente la distinzione tra esso e il Governo razionale. La superiorità e bontà di questo sul mero Potere è fondata sulla coscienza razionale dei detentori, non sulla posizione di forza sociale. E poiché le posizioni di forza sociale pre-esistono alla costituzione di un Governo razionale, questo diventa il fine dell‟agire politico virtuoso, cioè razionalmente guidato. Platonismo e Cristianesimo pongono entrambi l‟Amore come mediatore tra gli uomini. L‟eros platonico è unità ideale; l‟agàpe cristiana è unità trascendente. L‟unità dell‟amore è alternativa all‟unità politica, fondata sulla necessità di unire il molteplice. La forza dell‟amore è desiderio di unità, di completezza metafisica. L‟unità ideale è universale, astratta dalle particolari relazioni. L‟unità trascendente è personale, concreta. Se l‟unità universale è immanente e perseguibile con la forza politica, l‟unità personale è trascendente e di natura spirituale, elettiva e non perseguibile normativamente. L‟unità politica è somma del molteplice ottenuta attraverso l‟obbedienza. Il principio unitivo di agàpe è la scelta (libertà ed elezione), non l‟obbedienza (necessità e convenienza). Il principio volontaristico sul quale è fondato tanto l‟attività del pensiero che della morale cristiana, produce l‟agire, il cui senso razionale + atto di ragione. Ma actus è anche scontro, attività è conflitto di atti, sicché l‟atteggiamento razionale della volontà è commisurare il mezzo al fine, l‟attività allo scopo da conseguire. Questo è il senso razionale dell‟agire politico, la cui essenza è la regolamentazione del conflitto: cruenta, con la guerra; pacifica, col diritto. Universalizzare normativamente il conflitto razionalmente regolato, non lo elimina. L‟eliminazione del conflitto avviene a livello di coscienza morale. L‟azione morale, infatti, è un agire contrario – e non semplicemente opposto – all‟atto politico conflittuale. Non è, come a partire da Socrate pensa la filosofia, il conflitto razionalizzato, ma il contrario del conflitto, ossia la non-azione, la rinuncia all‟azione, che sposta il piano dell‟agire da quello del diritto al piano morale. Razionalizzare il conflitto significa renderlo economico, non eliminarlo. Per tale fondamentale ragione, l‟azione morale non può contenere l‟azione economica. L‟agire morale rinuncia all‟azione. Morale è l‟azione che non si compie. Non è un altro fare, di tipo razionale, ma è rinuncia al fare. In questo senso, il limite che la morale oppone al Potere del fare non è un altro Potere, di tipo razionale 273


rispetto a uno di tipo naturale, ma consiste nella rinuncia alla forza dell‟azione, ossia al diritto. Rinunciare al diritto è porre l‟altro (il prossimo) al posto del Sé, e dunque rinunciare alle ragioni del Sé significa trascendere la personalità per la Giustizia. Ed è in questo spazio di rinuncia alla ragione della prevalenza del Sé, propria della esclusività dialettica, che si stabilisce il con-loquio tra gli uomini, a partire da quello con Cristo, la “luce” divina che illumina la conoscenza. In essa, siamo oltre il soliloquio della coscienza intellettiva, incapace di conoscere “nulla di immutabile” finquando l‟intelletto “conosce ed ama se stesso”.481 Occorre trascendere il Sé nella luce della carità per l‟altro. Perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Solo se non consideriamo l‟ordine un bene in sé, in quanto conseguimento dell‟Unità sociale con la politica, possiamo porci la questione morale. E soltanto quindi se non consideriamo l‟Unità di Eros in sé possiamo intendere il valore dell‟Agàpe cristiana. E dunque, amare è bene? Se amiamo l‟esistente, è male. L‟esistenza (), dal punto di vista cristiano, non è un bene, in quanto fine di creature finite. La credenza nella immortalità porta a immaginare l‟esistenza come bene. L‟esistenza immortale per i Greci era la società politica, in cui vige il principio di obbedienza, che “libera dalla costrizione del presente permettendo di sopportarlo”.482 Sopportare non equivale a liberarsi. L‟unità che libera è armonia degli opposti. Non si può conseguire con la politica, che costringe i contrari alla pace per necessità, non per scelta. Gli opposti sono parti di una unità: simboli che si congiungono in un senso comune. I contrari sono elementi individui che polemizzano contendendosi il dominio. Il pòlemos nasce dalla “incapacità di assumere noi stessi come fine”, con la conseguenza di chiamare “bene una volontà che ci assume come fine. Il potere consiste nell‟essere un fine per le volontà degli uomini”.483 Solo i diversi possono incontrarsi nell‟Amore. Diversi sono l‟Assoluto e il relativo; l‟Infinito e il finito; Dio e l‟uomo. L‟Amore è la loro mediazione, il Logos in senso cristiano. Soltanto “ciò che è al di sopra

481 482 483

Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9. S. Weil, Cahiers, III (1941-„42), tr. it. Milano, 1988, pag. 304. Ivi, pag. 311-312.

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del dominio è il punto di unità, cioè la limitazione del potere”.484 Mediazione è unità su un piano superiore a quello del conflitto. L‟unità politica, ossia modernamente il pactum civilis, rimane invece sullo stesso piano del conflitto e si può rompere. Il piano superiore a quello politico che genera conflitto è la devozione. Il piano del conflitto è il dominio, sempre reversibile, e quindi instabile. Il piano della devozione è l‟obbedienza (, con-sensus), cioè il riconoscimento volontario dell‟ autorità. Il dominio esige la sottomissione per affermarsi. La sottomissione dell‟altro è l‟effetto del dominio. L‟obbedienza, che per Agostino è “madre e istitutrice di tutte le virtù nella creatura ragionevole”,485 è la condizione dell‟autorità. Non c‟è autorità senza spontanea obbedienza, cioè devozione. Essendo la devozione obbedienza volontaria, non genera paura nell‟autorità, perché non fondata sulla forza cogente del Potere. Il piano della devozione è quello della legittimità morale. Non c‟è durata fuori della legittimità ma solo persistenza nel dominio, cioè resistenza del Potere al confitto. “E‟ necessario abbassarsi per elevarsi”,486 ossia riconoscere l‟autorità obbedendo e conseguire l‟umiltà. Questa la ragione fondamentale per cui lo Stato giusto debba essere “fondato sulla religione”,487 poiché la Giustizia è la mediazione tra Dio e gli uomini soggetti alla Sua autorità, che governa il mondo. La mediazione giusta è il Governo dell‟autorità. Il caos, così temuto dallo spirito greco, è la conseguenza del porsi l‟uomo come fine del mondo, perché allora il mondo diventa senza fine. Solo ciò che non dipende da un mezzo è fine. “Dio è l‟unico fine. Ma non è in nessun modo un fine, poiché non dipende da alcun mezzo. Tutto ciò che ha Dio per fine è finalità priva di un fine. Tutto ciò che ha un fine è privato della finalità”. [Ivi, pag. 346.] L‟obbedienza trasforma in libertà la necessità della finalità, facendo di questa il riconoscimento del Governo di Dio, e dunque della autorità morale, legittima, che ne viene ispirata. Andare oltre il piano dell‟unità politica, significa riconoscere il singolo come una unità esistenziale. l‟uomo concreto è una unità correlata ad

484 485 486 487

Ivi, pag. 332. Agostino, Civitas Dei, XIV, 12. S. Weil, Cahiers, III, cit., pag. 333. Ivi, pag. 330.

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altre unità. L‟unità cristiana è spirituale, non razionale, sicché la communitas ecclesiale non è la società politica, la polis o l‟Imperium. Confondere la formale unità politica con la concreta coesistenza esistenziale è esiziale per l‟uomo. Gesù predica la distinzione. “L‟unione al di sopra della distanza è la molla del bello”. E dunque non l‟unità formale ma “la distanza è l‟anima del bello”, e ciò vale anche per la conoscenza. “La conoscenza delle distanze osservate mediante le cose ci insegna l‟obbedienza, strappa da noi l‟arbitrario, che è causa di ogni errore”.488 Arbitrario è ciò che nega la distanza, ossia la differenza, il limite tra l‟Unità spirituale e la collettività sociale tenuta insieme dal Potere; chi nega la differenza tra la realtà della coscienza e quella del mondo. Lo sforzo di Platone di trovare un fondamento di resistenza al divenire non può conseguire alcun risultato se permane all‟interno della ricerca di una astratta unità formale del molteplice, ossia all‟interno della sfera politica e del Potere. Solo trasferendo la coscienza dal piano politico a quello morale, da quello cioè della pretesa a quello dell‟obbedienza è possibile riconoscere il limite al Potere, e giungere alla differenza. La differenza è l‟invariante ontologica, e come tale non appartiene al divenire, ai rapporti empirici, alle variazioni soggette al Potere. Ma la differenza non è neppure la coscienza singolare, astratta dal divenire esistenziale. la coscienza astratta è una unità immobile, una Idea. L‟atto di coscienza astrae dal divenire delle cose. La differenza media e trascende l‟atto di coscienza e le variazioni che costituiscono l‟oggetto di coscienza che le porta ad unità. La realtà molteplice non va fissata al limite, altrimenti diventa un‟immagine astratta di realtà, priva di divenire, ossia di futuro. Il limite diventa modello e non più differenza. Il modello è l‟Idea di ciò che è, ossia l‟esistente astratto dal suo divenire, dalla sua imperfezione reale. L‟idealismo sopprime il divenire ponendo la realtà possibile al posto di quella attuale, facendone una “immagine dell‟immobilità”. Il limite non va neppure risolto nel divenire, cioè nel futuro, poiché il mistero legato alla libertà non può dominare la differenza, che lo trascende in quanto fine, il quale è la differenza stessa. Il fine è la differenza, non il divenire, il futuro, l‟avvenire. “Uscire dalla caverna

488

Ivi, pag. 349.

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significa imparare a non cercare la finalità nell‟avvenire”.489 La finalità non è né i presente (l‟unità della coscienza), né il futuro (il divenire), ma ciò che li trascende. E ciò che trascende il tempo della finitezza è l‟eterno, Dio. Il limite invariante, la differenza tra la coscienza e il divenire storico, è Dio. Più l‟uomo si pone vicino al limite, più è vicino a Dio, cioè riconosce la Sua realtà trascendente e Gli ubbidisce. Ubbidire a Dio significa riconoscere la realtà eterna, trascendente la temporalità del divenire, la dicotomia presente-futuro. Il razionalismo confonde l‟eternità con l‟universalità, che è la fissazione del presente in un modello ideale, astratto dal divenire e trasfigurato in idolo, in immagine ideale. L‟obbligo di considerare di valore comune tale immagine è la legge, che fissa una fattispecie valida erga omnes, per cui tra l‟evento concreto e quello ideale prevalga l‟ideale come realtà-che-deve-essere. Questa imposizione legale de-finisce al presente un processo in divenire, senza liberarlo della sua finitezza, ma solo astraendolo dalla sua concretezza. Il legalismo è all‟origine del razionalismo, ed entrambi sono logiche di Potere, semplificazione della realtà molteplice al modello unitario. Semplificare la realtà equivale a privarla del suo significato concreto, ossia della sua situazione in relazione, sostituendo questa con una fattispecie astratta. L‟astrazione immobilizza la realtà al presente idealizzato, al modello. Il legalismo romano e il razionalismo greco sono aspetti di una stessa visione idealistica del mondo, di uno stesso orizzonte di coscienza, costituendo la risposta della cultura pagana alla esperienza della finitezza dell‟esistenza umana. La coscienza razionalistica elabora una rappresentazione astratta della realtà, assumendone il modello come l‟unico “vero” rispetto ad ogni altra rappresentazione “falsa”. La realtà vera deve prevalere su quella falsa, sicché il mondo reale secondo la legge è quello stabilito dal Potere. la civilizzazione secondo questa visione del mondo non è che la progressiva razionalizzazione della realtà conforme alla sua rappresentazione ideale, stabilita dal Logos, ossia da colui-che-vuole perché può (ha la potenza di) volere. Ma cosa vuole il Potere? Dal punto di vista metafisico, il Potere tende a negare il valore simbolico degli eventi e delle opere umane del mondo

489

S. Weil, Loc. cit., pag. 352.

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a favore del significato univoco, stabilito attraverso i rapporto causale. Nel rapporto simbolico non c‟è nesso stabilito tra eventi predeterminati, cioè necessarii, ma solo corrispondenza tra eventi possibili, cioè liberi. Il rapporto causale stabilisce valida la domanda che ammette una sola risposta. Il rapporto simbolico sceglie invece tra le domande le possibili risposte. Il Potere dell‟Idea è il dominio della risposta unica sulle possibili domande: è ideo-logia. La risposta unica è perciò totalitaria. Porsi dalla parte della domanda, è parteggiare per il male sofferto dalla risposta unica. Stare dalla parte della sofferenza è cercare la risposta giusta alla domanda che la ragione giudica sbagliata. Questo significa redimere, salvare. Nella ragione non c‟è salvezza ma dominio del logos, cioè necessità, ordine. Il Dio che ordina il mondo è l‟Onnipotente: il Dio della Legge. Il Dio che salva il mondo è il Misericordioso: il Dio dell‟amore. I sofferenti sono gli esclusi dalla ragione del Potere, quelli a cui non serve la risposta della verità ideale a soddisfare la loro domanda esistenziale. infatti la risposta ideale è una, mentre le domande sono infinite. Dare una sola risposta alle infinite domande è ciò che il Potere chiama “ordine”. L‟ordine del Poter è la legge, la risposta unica di valore universale. La logica del diritto è la logica del Potere, il dominio, l‟imperium. Come può questo conciliarsi con la charitas? E dunque, perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Perché l‟ordine è selettivo, e perciò la sua universalità è parziale, ossia razionale. Solo la parte razionale della coscienza è soggetta all‟ordine, mentre la parte irrazionale è abbandonata al caos, priva di risposte. La parte razionale è quella astratta dal divenire delle emoioni e delle situazioni esistenziali dell‟uomo, cioè dalla processualità concreta della possibilità. La Giustizia corriponde alla possibilità, salvando dal caos ciò che viene escluso dall‟ordine razionale. Ciò che salva dal caos, dunque, non è l‟ordine razionale, cioè il Potere, ma la Giustizia, cioè il senso dl limite che nasce dalla coscienza della differenza e perciò della possibilità o libertà. Il Governo orale è pertanto il katechon che si oppone alla dissoluzione del caos provocato dal Potere astraente che ordina i soli enti razionali. Ogni Potere che ordina afferma negando e producendo disordine. Senza il Governo morale che limita l‟assolutezza del Potere ordinamentale, questo produce disordine. Limitare il Potere con la morale è limitare l‟errore che la ragione 278


chiama verità. la verità è l‟errore senza limiti, unico e assoluto, non confutato. Tutto ciò che è portato all‟Unità è considerato vero. Ma la verità unica che non si distingue dalla sua falsa universalità, è falsa anch‟essa, è cioè un idolo.La convertibilità del Vero col Falso è l‟estremo approdo nell‟assurdo della ragione del mondo, che è “stoltezza di fronte a Dio”. La stolteza del razionalismo pagano è quella di considerare come proriamente umano ciò che nell‟uomo si lega alla natura, e perciò è universalizzabile alla stregua di una legge naturae. Ma l‟uomo non è sola natura, è anche spirito (), che non può essere governato idealisticamente col Potere razionale, ma solo con la convinzione della fede. Affermare la realtà dello spirito equivale ad affermare la differenza, e quindi l‟unità dei contrari, di spirito e natura. “Concepire l‟unità dei contrari è il movimento proprio della parte divina dell‟anima”.490 I due rispettivi orizzonti di coscienza, quello paganodella “cultura” e quello cristiano della “religione”, al di là della stessa dimensione escatologica del messianismo proto-cristiano, non erano facilmente componibili in una unità essenziale conseguibile con gli strumenti tradizionali della filosofia ellenistica, gli unici a disposizione oltre l‟area culturale semitica. Ciò comportò una inestinguibile tensione intestina al pensiero cristiano che, anche quando adottivo di paradigmi teoretici profani, persistette nei termini di un afflato trascendente, sia in senso mistico, quale l‟ plotiniana, un distogliersi progressivo dall‟ambito del sensibile per un ripiegamento dell‟anima in se stessa,491 che nei contenuti della dottrina morale insiti nella reditio in se ipsum di Agostino, dove “lo scopo del ritorno pensante nell‟interiorità è „l‟essere in accordo‟ con l‟assoluto”, ossia “con la verità stessa che si realizza nel tempo”.492 L‟accordo con la ratio eterna di Dio è insieme una auto-riflessione, in quanto essa vive nel pensiero ed è premessa di ogni pensiero. Ed è questa “auto-concordanza” del pensiero con la verità di Dio a costituire per Agostino la “saggezza che sa se stessa e che appunto viene intesa, come l‟intellectus, nel senso di luogo delle

490 491 492

S. Weil, Loc. cit., pag. 358. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, tr. it. cit., pag. 210. Ivi, pag. 217.

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idee”. Saggezza, intellectus e idee, intesi come momenti costitutivi dell‟Essere di Dio, riconducono a un’unica natura divina quanto il neoplatonismo aveva attribuito “a due distinte dimensioni dell‟essere divino (l‟Uno e lo Spirito)”, concependo il Dio cristiano insieme come unità e relazione, in cui il pensiero è nello stesso tempo manifestazione della volontà finita e dell‟amore infinito, e duenque nella conoscenza è insita la possibilità di “elevarsi a tale infinito”.493 Il movimento totale interno all‟Unità teo-logica non è teoreticamente esclusivo, ma concepisce la inclusività come trascendenza del sé nell‟Essere di “ciò che è”, in quell‟assoluto e immutabile. E “poiché questo essere è identico alla verità che pensa se stessa, esso è anche quanto vi è di più stabile e, quindi, è quella meta che inaugura l‟ascesa interiore stessa e in cui questa si acquieta”.494 L‟identità agostiniana di felicità con sapienza, e di sapienza con Dio, fa della conoscenza un percorso verso Dio non puramente intellettuale, ma accanto allo studium sapientiae occorre affiancare l‟aspetto morale e quello religioso o soprannaturale.495 L‟aspetto morale non viene affrontato da Agostino come ricerca del benessere pratico o della virtù civica, alla maniera ellenistica, ma come questione metafisica, ossia come conquista della verità razionale, ma suggerita dalla fede. “Il realismo del pensiero agostiniano si afferma in questa concezione: non possiamo raggiungere Dio direttamente se non per mezzo della fede, la sola realtà che ci sia immediatamente accessibile mediante la ragione è la nostra anima; è da essa che occorre partire e di essa servirsi per elevarsi a Lui”.496 Oltre la ragione, su un piano mistico, pur non disgiunto dall‟intelligenza intellettuale. Non vi è in terra all‟uomo concesso altro mezzo per giungere alla conoscenza di Dio che quello della ragione. In mancanza, all‟anima semplice non resta che l‟autorità della fede, che però svela la realtà misteriosa di Dio solo dopo la morte, diventando anch‟essa sapienza.497 L‟unità ricercata dalla filosofia diventa sapienza morale in senso

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Ivi, pagg. 219-221. Ivi, pag. 217. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 159-160. Ivi, pag. 166. Ivi, pag. 169.

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cristiano allorquando l‟intelligenza e l‟erudizione abbiano Dio come fine trascendente. "Una cultura strettamente e direttamente subordinata al cristianesimo”, cioè al “servizio della vita religiosa”, una sua “funzione”.498 Ed è questo carattere a distrarre il sapere dalla potenza mondana, dalla mera unità formale del molteplice empirico, e a indirizzarlo verso il valore trascendente, “l‟amore supremo di Dio”. come dirà in una epistola, “subordinata al fine della carità, la scienza è molto utile; in se stessa, senza questa subordinazione, si è rivelata non solo superflua ma addirittura perniciosa”, quando si cerca “più la scienza della santità”.499 Perché tale giudizio riduttivo della cultura pagana? Qual era il suo maggior difetto? La risposta va ricercata, per alcuni, nella perdita della sua “funzionalità” sociale, ovvero sul “carattere di disimpegno e di evasione” assunto dalla letteratura romana ed ellenistica, lontana ormai dalle reali esigenze comunitarie; funzionalità che invece costituisce “uno dei caratteri più distintivi della letteratura e dell‟arte cristiana”, dal quale “discende la loro, direttamente o indirettamente, larga accessibilità e perciò, in definitiva, il loro carattere popolare”.500 Ciò darebbe adito a una interpretazione della cultura cristiana in direzione della attività di propaganda missionaria e catechetica, che sicuramente coglie un aspetto rilevante della situazione, ma non quello decisivo. Esso va individuato nel carattere proprio del filosofare come confutazione razionale del Mito e dunque come teoresi auto-referente, metodicamente auto-noma, e priva perciò di quei fondamenti di fede teologica che invece costituivano l‟orizzonte di pensiero e di azione del cristiano. In altri termini, l‟accusa verso la cultura pagana era di essere fondamentalmente atea. Ma questa grave limitazione della cultura ellenistica non impedì l‟adozione dei suoi strumenti intellettuali, a cominciare dalla lingua greca, che divenne la lingua scritturale e della chiesa. E proprio l‟elaborazione razionalistica della lingua aveva condotto al pluralismo filosofico e alle altre eresie, come quella gnostica, fatte tutte risalire da Tertulliano e da Ippolito “all‟influsso

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Ivi, pag. 285 Epistula 55, ed Enarratio in Psalmum 118, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 289. M. Simonetti, Op. cit., pagg. 10-11.

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depravatore della filosofia greca”.501 Ma era “difficile, per non dire impossibile, a un cristiano impegnato nel campo delle lettere evitare il contatto e l‟influsso della cultura greca, anche se programmaticamente rifiutati”.502 Si pensi solo che nel Vangelo di Giovanni Cristo è presentato come Logos, cioè principio divino di razionalità universale, che secondo Giustino era presente anche se in forma parziale e impefetta nei filosofi, le cui dottrine, in ciò che di vero hanno, appartengono dunque ai cristiani, custodi della verità rivelata.503 Il più vicino al monoteismo cristiano era considerato senza dubbio Platone, anche se la sua distinzione rigorosa di anima e corpo si adattava meno della dottrina aristoteica del sinolo al dogma ebraico-cristiano della resurrezione dei corpi alla fine del mondo.504 In ogni caso, l‟elemento discretivo dalla tradizione ellenistica, e il più connotativo della cultura cristiana, fu la storicizzazione del Logos fattosi carne, che eliminava radicalmente ogni possibilità di incontro contenutistico con una cultura impregnata di mitologia politeistica. La battaglia cistiana contro il politeimo pagano, per i suoi tratti anti-mitologici, riabilitava paradossalmente la critica filosofica al Mito arcaico, perseguendone dunque in chiave cristiana il suo fine teoretico: la razionalizzazione del sapere, e di conseguenza della civiltà. La versione cristiana del processo filosofico di razionalizzazione del mondo consisteva nell‟assegnare alla ricerca della verità una meta precostituita dalla fede nel Christos-Logos, ossia un fine morale di senso religioso. Da qui la critica serrata di Agostino, tanto all‟orientamento estetico della cultura pagana tradizionale, propensa a godere delle sue spressioni letterarie e artistiche, anziché a servire la gloria di Dio, che alla mera e vana erudizione, “la tentazione più pericolosa, perché non porta ad altro che a una perversione radicale della mente”.505 Da qui soprattutto l‟orignalità paradigmatica della spiritualità agostiniana nel panorama dell‟intera tradizione patristica cristiana, il “valore eterno dell‟umanesimo” del suo “cupo ascetismo”, in grado di concepire

501 502 503 504 505

Ivi, pag. 28. Ivi, pagg. 35-36. Ivi, pag. 39. Ivi, pag. 41. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 293 e 294.

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quanto agli altri scrittori cristiani era riuscito in parte: la “rottura profonda” con la tradizione ellenistica ormai irrimediabilmente decaduta, e l‟impegno alla ricostruzione di una “cultura nuova”, una cultura appunto cristiana.506 Nondimeno, di questa nuova cultura di impronta cristiana bisogna bene intendere il senso, per comprenderne il successivo sviluppo in età medievale. Infatti, non può essere del tutto “nuova” una cultura che intenda rimanere filosofica,507 sia pure solo in senso tecnico, mentre dal punto di vista dei fini teoretici dispiegarsi come del tutto cristiana, votata al sapere di Dio, anziché alla falsa felicità agognata dalle dottrine pagane. In ogni caso, anche per Agostino, la ricerca della sapienza rimaneva “il tipo di vita intellettuale più elevato che possa offrirsi all‟anima umana”.508 Sicuramente più elevata della vita activa dedita alla pratica delle virtù politiche. Ma la sapientia alla quale fa riferimento Agostino è la contemplatio veritatis, che trascende la verità filosofica, costruita sui sillogismi, e riposi nella speciale verità della fede, che viene prima di ogni ricerca razionale in quanto ne è il fondamento: “videatur mente quod tenetur fide”.509 Il senso profondo di questa tensione, che è teoretica e insieme morale, va rintracciato nel sentimento agapico di partecipazione spirituale di tutto l‟uomo allo spirito divino del mondo, che nell‟uomo è razionale. La “mente” è appunto la parte più ragionevole dell‟anima dell‟uomo, la cognitio intellectualis che ricerca il Bene “per se stesso e non come mezzo a qualche altra cosa”,510 come invece l‟ethica dei filosofi greci, protesa al bene politico. Il summum bonum al quale è votato l‟ardore teoretico è quello stesso che motiva l‟agire morale: l‟amore di Dio, la charitas. Infatti, come Agostino afferma, “nesun frutto è buono se non nasce dalla radice della carità”.511 Questo fondamento mancava alla sapientia pagana, che non riusciva,

506

Ivi, pagg. 296-297.

507

“Sant‟Agostino non ha mai rinunciato alla cultura filosofica”: H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 301. 508 Ivi, pag. 303. 509 510 511

Agostino, De Trinitate, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 305. Agostino, De civitate Dei, VIII, 8. Agostino, De spiritu et littera, 14, 26.

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né poteva, trascendere l‟orizzonte filosofico, al quale la fede cristiana aveva donato la luce eterna divina, che “non è soltanto un principio cognitivo, ma è anche fonte e guida di moralità” (lex est ratio divina et voluntas Dei).512 Ne deriva una duplice funzione (officia) della intelligenza umana: la sapientia, dedita alla contemplazione della verità eterna, e la scientia, dedita alle cognizioni pratiche utili alla vita sensibile e all‟ordine delle azioni temporali.513 Solo il primo officium è propriamente cristiano, mentre al secondo si è applicato il sapere filosofico tradizionale, che ha indirizzato la ragione verso scopi meramente terreni, senza arrivare al sapere di Dio, guidato dalla carità. Un sapere meramente terreno è una cognitio historica, inerente alla vita empirica dell‟uomo, la quale può assumere una sua funzione morale allorquando serve alla intelligenza della manifestazione sensibile della parola di Dio, cioè “in quanto si applica alla conoscenza del contenuto della fede”.514 Questa ammissione della importanza del sapere profano, così decisiva sulle sorti delle future elaborazioni teologiche del Cristianesimo, introduce surrettizamente nell‟ordine del discorso sacro un dato spirituale ineliminabile, relativo all‟unica possibilità umana di giungere alla comprensione della parola di Dio attraverso la scientia, la quale pertanto viene mondata del suo carattere negativo a seguito della sua fruibilità per la sapienza teologica. E su questa premessa gnoseologica l‟intero patrimonio culturale profano può essere riabilitato se concepito all‟interno del piano di salvezza cristiano. Ed è qui infatti la premessa teorica della teologia della storia agostiniana, la quale, mercé lo strumento tecnico filosofico, proietta in scala universale il percorso spirituale della coscienza cristiana, facendo della storia individuale il modello della storia dell‟umanità. Il suo concetto di “sapienza”, consistente nel “penetrare in ciò che si crede, ancorché, nell‟accostarsi alla sapienza, la ragione contribuisca a preparare l‟uomo alla fede”,515 accreditava l‟idea che uno strumento

512 513 514

B. Mondin, Etica e Politica, cit., pag. 18. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 309. Ivi, pagg. 311-312.

515

F. Copleston, A History of Philosophy (1950), vol. II, Mediaeval Philosophy, tr. it., Brescia, 1971, pag. 67. Da ora HPh.

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teoretico, concepito per rispondere a questioni legate alla vita naturale dell‟uomo, ossia alla “scienza”, il cui fine è “l‟azione”,516 potesse servire a risolvere questioni legate alla sua vita spirituale, finalizzata alla beatititudine della visione di Dio, costituendo una petizione opposta, ma non meno aleatoria, di quella filosofica di voler conoscere l‟essenza della realtà rimuovendo dalla conoscenza i suoi fondamenti ontologici, ossia quella fede che il cristianesimo considera non solo l‟arché ma il contenuto stesso della gnosi religiosa. Inoltre, l‟ipotesi che l‟elaborazione razionale, ossia filosofica, del dato rivelato potesse giungere a giustificarlo scientificamente per rederlo credibile ai suoi detrattori (contra impios defendatur), implicava il sospetto dell‟inutilità della fede ai fini della conoscenza di Dio, sostituibile appunto con la dimostrazione razionale della Sua esistenza, col rischio di rendere vana la stessa Rivelazione. Questa profonda e lacerante contraddizione attraversa non soltanto il pensiero agostiniano ma l‟intera tradizione teologica cristiana che, come l‟anima per Agostino era “divisa tra autorità e ragione”,517 fu costellata di posizioni dogmatiche e di eresie, di infinite diatribe ermeneutiche e di cruenti scontri dottrinarii condotti in nome dei rispettivi convincimenti teorici. Da essa non si sortisce senza la disposizione morale alla charitas, non contemplata dal metodo razionalistico, adottato dallo storicismo universalistico agostiniano. La conseguenza più rilevante di questa teoria unitaria della Storia fu la revisione dei processi storici delle culture umane in chiave di compatibilità con il percorso soteriologico determinato dalla fede come l‟unico, vero e necessario percorso universale dell‟uomo, per cui i maggiori pensatori cristiani “si sono trovati d‟accordo col principio di respingere gli elementi incompatibili con la vita religiosa, scegliere e conservare quelli che possono in quache modo essere utilizzati da un‟intelligenza al servizio della fede”, e così operando, abbandonare “l‟uso empio della cultura” a favore del “solo buon uso”, quello funzionale alla “predicazione del Vangelo”.518 La figura ideale dell‟intellettuale cristiano tratteggiata da Agostino nella “carta

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Agostino, De Trinitate, 12, 14, 22. Agostino, De vera religione, 24, 45. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 327 e 328.

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fondamentale della cultura cristiana”,519 il De doctrina christiana avrà il compito di “insegnare il bene e distogliere dal male”.520 Stabilendo questo fine di salvezza e “rompendo con la tradizione antica”, il grande scrittore “pone le fondamenta di quella che sarà la cultura medievale”, compreso “il gusto per la ricerca scientifica, la curiosità per le conoscenze di ogni ordine e tutto ciò che, in una parola, doveva generare la nostra cultura moderna”. 521 Nonostante la “osmosi intellettuale” della cultura cristiana con la tradizione scolastica antica, il percorso della speranza mancava al pensiero naturalistico greco, per il quale lo sviluppo biologico che dalla nascita porta alla morte è intieramente inscritto nella sua necessità. Ciò che era convincimento e giudizio razionale per la scienza profana, diventà dovere morale e virtù teologale per la sapienza cristiana, sicché la saggezza del filosofo diventa “virtù mistica” nel fedele.522 Ma ciò che le due posizioni hanno in comune è l‟astrattezza della concezione della storia, dovuta alla razionalizzazione del suo oggetto di pensiero, consistente nella sottrazione dal fenomeno del suo principio ideale (arché), che è anche il fine (télos) del suo processo logico-esistenziale, in conseguenza della quale sottrazione l‟esistenza fenomenica diventa geneticamente misteriosa, empiricamente enigmatica. La Storia spirituale dell‟uomo, intesa come anticipazione di senso salvifico, è il processo stesso del Logos immanente ad essa, la sua fenomenologia nel tempo. L‟anamnesi platonica diventa in s. Agostino Storia del Logos. Che tale Logos sia pensato in senso greco come necessità razionale, o alla maniera cristiana come piano di salvezza, fuori del suo orizzonte di senso, ossia del suo fondamento ontologico, il suo piano avvenimenziale semplicemente non esisterebbe. L‟esistenza, la vita e la conoscenza sono per Agostino aspetti inseparabili della auto-coscienza. Col metodo emendativo da lui perseguito, il fenomeno culturale profano, privato del suo orizzonte di senso, e dunque della sua concretezza esistenziale, viene astratto dal suo principio fenomenologico, cioè dal

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Ivi, pag. 342. Ivi, pag. 334. Ivi, pagg. 332 e 337. Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, cit., pag. 191 n. 15.

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suo fondamento ontologico, e assolutizzato in senso funzionale al disegno soteriologico cristiano, rendendolo perciò disponibile a un fine apparentemente in-determinato, e quindi “aperto”, ma in realtà predeterminato a un destino opposto a quello indicato come libertà, caratterizzata da una fede consapevole e non presunta.523 Tale astratta determinazione oggettiva degli enti di ragione universalizzati, ossia recisi dal loro fondamento ontologico, li rende disponibili al fine desiderato, ossia oggetti della volontà umana. L‟aspetto più sconvolgente e inedito della razionalizzazione agostiniana della Storia è che l‟emendatio, pur avvenendo a posteriori, inerendo a processi storici passati, si applica sul senso teleologico della loro fine reale, che viene trasvalutata simbolicamente in un inizio cifrato, che l‟interpretazione teologico-apologetica porta alla luce. E così la crisi dell‟Impero romano diventa il luogo dell‟annuncio del Messia, e pertanto, astratto dal suo processo sociologico e culturale, viene interpretato come un momento del piano di salvezza divino. Ciò che valse per la vita di Cristo, quale compimento di un processo che annunciato dai profeti coinvolge “tutta la storia di Israele a partire dalla creazione e dalla caduta”,524 e ciò che Gesù stesso fece in riferimento alla fede particolare di ogni singolo uomo, sollevandolo dalla propria tradizione religiosa e assegnandolo al Regno di Dio, Agostino lo riferì all‟umanità intera, proiettando su un piano universale il percorso di salvezza di ogni singolo essere spirituale, oggettivandolo in senso razionalistico e costruendo una visione idealistica della Storia. Nell‟atto in cui il percorso soteriologico individuale diventa l‟espressione particolare di una ideale via di salvezza universale, la stessa fede perde il suo carattere di grazia individuale per diventare un postulato dogmatico presuntivamente comune al genere umano, anche quando razionalmente non ammissibile per le civiltà pre-cristiane. Il corollario di tale situazione teorica è, per un verso, la superfetazione dottrinaria, che va a investire ogni questione nata dalla esegesi teologica come dalla semplice lettura apologetica delle Scritture, tale da creare le premesse, attraverso la progressiva annessione di tutti i

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Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9; trad. it., Milano, 2013, pagg. 525-527. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380.

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campi del pensiero, della scienza e dell‟arte,525 del monopolio ermeneutico della sapienza preteso dalla Chiesa di Roma, nato a seguito della “cristianizzazione della cultura antica”; per l‟altro verso, alla stretta connessione analogica del pensiero teologico con la sfera del politico. Con la visione idealistica della Storia di Agostino si inaugura, assieme alla intuizione metafisica della vita dell‟uomo avente una pretesa universale, anche la “contraddizione”, di cui parlava Dilthey, tra ogni visione metafisica e “la coscienza storica del presente”, fondata sul “fatto che, storicamente, si sia sviluppato un numero illimitato di tali sistemi metafisici, che essi, in ogni epoca in cui sono esistiti, si sono combattuti ed esclusi reciprocamente, e che fino a oggi non si sia potuto operare una scelta”.526 E‟ importante seguire il discorso di Dilthey al fine di evidenziare la portata metafisica dello storicismo idealistico di Agostino. Partendo dalla fattualità empirica della molteplicità dei sistemi metafisici quale indice della loro relatività valoriale, notiamo subito che il modello sottinteso a tale giudizio è l‟universalità del valore teoretico, che contraddice la molteplicità dei sistemi, e che tale universalità è intesa, non in relazione alla comprensine essenziale dei fenomeni oggetto del sistema, ma in senso spaziale, ossia come generalità totalizzante ed esclusiva. Per cui la semplice constatazione fattuale della loro molteplicità faceva scaturire un giudizio di relatività. Infatti, quando il sapere comparativo si ampliò a seguito delle scoperte geografiche e dei raffronti culturali, fino a comprendere tutto il mondo, prosegue Dilthey, “allora si diffuse irresistibilmente, nella maggior parte degli uomini, un atteggiamento di pensiero scettico nei confronti di ogni dogma; la forza della fede in un sapere trascendente scemò costantemente, […] e nessuna metafisica trascendente ottenne più il carattere di autorità come l‟avevano posseduto, una volta, quella di Platone, di Aristotele o di San Tommaso”.527 In altri termini, in virtù del principio di universalità, la fede in un sapere trascendente viene meno se limitata dalla semplice esistenza di altre fedi, a prescindere dal

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H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 324. W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pag. 59. Ivi, pag. 60.

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loro contenuto. Interessante notare che il criterio della universalità vale in positivo, ossia nel senso della validità della credenza, ma non in negativo, ossia in relazione allo scetticismo, che evidentemente non può comprendere la stessa generalità della fede, restando pur qualcuno che, nonostante lo scetticismo dilagante, ancora la coltivi. Stabilita la relazione empirica tra fattualità molteplice e preteso valore unico, sorge “l‟antinomia” storica tra, da una parte, la “variabilità delle forme umane di esistenza”, alla quale “corrisponde la molteplicità dei modi di pensiero, dei sistemi religiosi, degli ideali etici e dei sistemi metafisici”, e dall’altra parte, la “conoscenza oggettiva della realtà” da parte della metafisica, la cui validità riguarda appunto “l‟ampiezza” delle sue connessioni ideali “all‟intera realtà”. Solo questa conoscenza oggettiva, ossia universale, della realtà, come precisa Dilthey, “sembra rendere possibile per l‟uomo un atteggiamento sicuro in questa realtà, e per l‟agire umano uno scopo oggettivo”.528 Questo assunto però, volendo rimanere sul piano effettuale della molteplicità delle forme metafisiche, contraddice il criterio della dipendenza della loro validità dalla loro unicità, poiché la pluralità delle fedi non dovrebbe darsi, mentre questa pluralità è affermata come criterio della loro relatività. La confusione tra fede nella validità universale e pluralismo delle fedi, rende insolubile, come ammette lo stesso Dilthey, la coesistenza di fedi molteplici.529 Per comprendere i termini di tale incongruenza di Dilthey, basta seguire il suo stesso ragionamento. Il “tipo di collegamento del sapere di un‟epoca”, egli afferma, “è condizionato dall‟atteggiamento della coscienza”, che non è teoretico, ma psicologico, come Dilthey chiarisce precisando che “alla base dell‟ideale di vita e della visione del mondo vi è sempre uno stato d‟animo”, ossia un motivo irrazionale, che ne determina suo dire “l‟ambito storico di validità”; validità che dovrebbe essere per principio razionale. E all‟uopo chiama a conferma della sua teoria il caso della metafisica cristiana, la quale, egli afferma, “era fondata sullo stato d‟animo cristiano”.530

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Ivi, pag. 62. Ivi, pag. 65. Ivi, pag. 63.

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Conoscendo l‟erudizione storica e la capacità teoretica di Dilthey si può anche comprendere la portata teorica della riduzione dell‟evento cristiano a uno “stato d‟animo” tra i tanti che fonderebbero i sistemi metafisici. E non già in quanto quel supposto “stato d‟animo”, che è l‟espressione con la quale Dilthey indica la credenza mitica, sia di chi scrive, ma in considerazione che la fede precipua della religione cristiana “non si fonda su un mito, ma su una storia”,531 ossia su un factum, un evento temporale oggettivo, assunto dalla fede come di valore significativo. Che sia pertanto la fede uno “stato d‟animo” è certo, altrettanto quanto l‟evento storico di cui è oggetto. Cosa cambia? Cambia che la molteplicità della fede soggettiva nell‟evento unico non ne determina il valore comune nel senso della sua relativizzazione, ma al contrario ne conferma la forza. Infatti, ogni singola esperienza di fede è fondamento di una elaborazione razionale (il credo ut intelligam di sant‟Anselmo), la quale resta funzionalmente distinta dal piano dell‟unità, originario e trascendente quello dialettico, proprio della teologia, che concepisce quell‟unità ipostaticamente trina. In questo senso può affermarsi giustamente che “l‟applicazione della ragione ai dati teologici, nel senso di dati della rivelazione, è e rimane teologia, non diventa filosofia”.532 Di conseguenza, l‟ambito di validità metafisica dell‟evento unico è un ambito ermeneuticamente ed esistenzialmente molteplice, costituito di una molteplicità singolare, e che questa molteplicità non ne inficia il valore universale ma semmai psicologicamente e razionalmente lo conferma. Ciò vuol dire che la fede, ossia lo “stato d‟animo”, è molteplice solo dal punto di vista esterno alla coscienza, empirico, mentre da quello interno ad essa, cioè sul piano della intima singolarità noetica, è unico e universale. A quale di questi piani si riferisce la relatività di cui tratta Dilthey? L‟universalità della coscienza trascendentale, o l‟universalità della coscienza empirica? Secondo Dilthey, la soluzione della contraddizione consisterebbe nella consapevolezza filosofica della “connessione della molteplicità dei sistemi con la vita” nella quale le “intuizioni del mondo” sono

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H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380. F. Copleston, HPh, pag. 12.

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“fondate”.533 In realtà, la “connessione” dei sistemi metafisici non va stabilita con la vita, poiché il loro fondamento, per ammissine dello stesso Dilthey, risiede nello “stato d‟animo”, ossia nella credenza che esso costituisca quel fondamento di realtà che consente alla vita di “essere”. Tra la vita e le forme della sua rappresentazione si interpone dunque la fede nella realtà della vita, senza la quale fede la vita stessa non avrebbe realtà ontologica. La caratteristica della fede cristiana consiste nella credenza che l‟evento cristico, che ha in sé una sua esistenza storica indipendente dalla fede, sia il senso (significato = verità e direzione = via) della Storia. La fede in Cristo non inerisce, quindi, alla Sua esistenza storica, ma alla realtà del significato di quella esistenza. Tale significato, oggetto di fede, solo allorquando venga razionalmente oggettivato assume dimensione metafisica nel senso di Dilthey, ma rimane comunque un significato di fede all’interno della coscienza del credente, indipendentemente dalla sua giustificazione razionale. Ma è in tale interiorità che si stabilisce il fondamento di fede nella oggettività del significato metafisico, che è razionale ma appunto fondato sulla fede. Orbene, Agostino, sulla scorta della gnoseologia razionalistica della tradizione filosofica, ha accolto all‟interno dell‟orizzonte di fede singolare la sua giustificazione razionale, la sua oggettivazione di senso universale, cioè metafisica, mettendola in relazione con altre visioni metafisiche. Il metodo comparativo, afferma Dilthey, semplificando la tipologia delle visioni del mondo, “mostra che queste forme fondamentali esprimono gli aspetti della vita in rapporto al mondo posto in essa”, sicché in quelle forme intuitive noi possiamo riconoscere “i simboli necessari dei diversi aspetti della vita nel loro rapporto”.534 Ciò significa che le costruzioni metafisiche interpretano i rapporti tra la vita, nei suoi varii aspetti, e la realtà in essa contenuta, cioè il mondodella-vita. Ma, come abbiamo visto, la vita e il mondo sono la stessa realtà, fondata ontologicamente sulla fede nella esistenza di quella realtà che costituisce la vita, per cui è tale fondamento di realtà della vita a costituire lo “stato d‟animo” tributario di validità all‟orizzonte

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W. Dilthey, Loc. cit., pag. 65. Ivi, pag. 66.

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della rappresentazione metafisica. Orizzonte che è “metafisico” solo dal punto di vista della oggettività scientifica, ma che è in sé nient‟altro che lo stesso mondo-della-vita. In altri termini, la distinzione tra il significato dell‟esistenza e quindi delle relazioni in cui consiste il mondo della vita, e questo mondo stesso, è un‟operazione intellettuale, ma non è la condizione della credibilità di quel mondo; credibilità che è preventiva alla realtà del mondo, e non conseguente, come lo è nvece dal punto di vista oggettivamente della scienza, dalla cui prospettiva è possibile la scomposizione della vita dal suo senso, ma non la loro unità, che è l‟oggetto invece dell‟intuizione metafisica. E difatti, è lo stesso Dilthey a precisare che “le contraddizioni sorgono attraverso il rendersi autonomo delle immagini oggettive del mondo nella coscienza scientifica”. E‟ pertanto tale coscienza che, oggettivando le immagini rendendole autonome, “rende un sistema metafisica” e stabilisce le contraddizioni come “scientifiche”, mentre, “se si vogliono considerare le forme principali come espressioni relative dei diversi aspetti della vita, allora in questi aspetti vi è solo una diversità, ma nessuna contraddizione”.535 L‟oggettivazione scientifica delle immagini razionalizzate consiste dunque nella loro autonomia dal divenire, entro il quale c‟è coesistenza di forme ed espressioni di realtà diverse. E duque i conflitto delle interpretazioni è il prodotto artificiale dell‟intelletto astraente che stabilisce le comparazioni dei valori astratti dalle rispettive fedi ontologiche. Dare valore rilevante alla rappresentazione scientifica rispetto a quella della fede, costituisce essa stessa una credenza di fede. L‟unità metafisica, infatti, non coincide con l‟unità organica dell‟orizzonte di fede, entro il quale ogni aspetto della vita e del pensiero si concilia in Dio, che diventa il topos della conciliazione universale, ossia di ogni diversità culturale ed esistenziale. Questa onnicomprensiva unità è ciò che Agostino chiama “verità”, alla quale la mente, che né la costituisce e né la può modificare, deve inchinarsi.536 La “diversità” dei diversi aspetti della vita è la molteplicità delle coscienze singolari che riflettono la loro fede individuale all‟interno di

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Ivi, pag. 66. Agostino, De libero arbitrio, 2, XII, 33; trad. it., cit., pagg. 337.

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un comune orizzonte di senso (che è metafisico, a parte objecti; ovvero esistenziale, a parte subjecti). L‟esito della trascrizione razionalistica della Storia spirituale del singolo uomo nei termini di un oggettivo percorso universale dell‟umanità, da parte di Agostino, è stato che la fede escatologica della coscienza spirituale è diventata il processo fenomenologico del corpus mysticum della Cristianità, la cui forma visibile è la Chiesa cristiana, nel cui “simbolo” si oggettiva la realtà della fede e della sua stessa rappresentazione metafisica. Ciò comporta che, se per un verso la fede diventa fondamento di senso di ogni conoscenza storica, per altro verso il contenuto oggettivato di tale Storia è la realtà empirica della Chiesa, la quale, come ogni fenomeno storico, diventa essa stessa oggetto di considerazione storica, il cui relativo valore metafisico va comparato alle altre forme metafisiche storiche. Quanto la scienza cristiana operò in relazione alla sapienza profana, la scienza moderna fece in relazione alla cultura cristiana: la rielaborazione di senso razionale dei suoi fondamenti di fede, i quali, entro l‟orizzonte di fede, sono “la verità in cui, da cui e per cui sono vere quelle cose che sono vere sotto ogni riguardo”,537 ma che, fuori di esso, appaiono mitici. Questa considerazione stabilisce la differenza tra una supposta verità teoretica, costituita mercè l‟uso di argomenti dialettici, e la verità conseguita dall‟anima in interiore homine. Ma perché allora fare uso della ragione per conoscere Dio? In una Omelia a commento del Vangelo di Giovanni, Agostino spiega che la presenza del Padre, creatore del mondo, fu disvelata dal Figlio ma, in quanto è chiamato Dio da tutte le creature, questo nome non ha potuto rimanere del tutto ignorato neppure alle genti, anche prima che credessero in Cristo. Tale infatti è l‟evidenza della vera divinità, che essa non può rimenere el tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di ragionare. Fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo. E così, come creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era noto 538 a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di Cristo .

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Agostino, Soliloquia, 1, 1, 3.

538

Agostino, In Joannis Evangelium (416-17), 106, 4; tr. it. di E. Gandolfo, Roma, 2005, pag. 1080.

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Ciò significa che la conoscenza universale di Dio è possibile a ogni uomo in grado di collegare la realtà creata, che cade sotto i nostri sensi, col suo Creatore, ossia a ogni essere dotato di ragione, anche se non illuminato dalla Rivelazione. E pertanto è l‟uso della ragione la facoltà originaria e comune a tutti gli uomini, a prescindere dalla loro fede religiosa. Questa ammissione non stabilisce una equazione tra conoscnza razionale di Dio e verità, come abbiamo visto, ma in ogni caso accredita la ragione come lo strumento del consenso universale alla stessa fede in Cristo, la quale perfezionerà l‟acquisizione della verità entro la coscienza del credente.539 Ed è proprio questa ammissione a riabilitare la ratio pagana come strumento, sia pure imperfetto, di accesso alla verità cristiana, alla fides, facendo di questa una coscienza elettiva e minoritaria rispetto alla conoscenza naturale o filosofica, universale per tempo e per luogo, e perciò costitutiva del legame tra il popolo di Dio e l‟intera umanità. Da qui il recupero degli elementi di verità della sapienza pagana, compatibili cn la Rivelazione, ma da qui soprattutto la necessaria trascrizione razionalistica della fede ai fini del “consenso universale” delle genti alla verità cristiana. La questione del rapporto tra fede e ragione, non soltanto non è chiarita da Agostino (Harnack), ma il suo sforzo teoretico teso a provare l‟esistenza di Dio a partire dalle sensazioni per risalire alla consapevolezza della inanità del cimento razionale, sembra presentare la fede come l‟approdo finale e il coronamento della imperfetta conoscenza naturale, e non come la premessa della conoscenza razionale. Ciò vorrebbe dire che si può pervenire a Dio anche fuori della Rivelazione, ma soprattutto stabilirebbe un rapporto di necessaria complementarità tra fede e ragione, la quale rivaluta la sapienza profana come prodromica a quella cristiana. Da questa interpretazione nasce il modello di civiltà razionalistica ellenistico-cristiana come ideale e da proporre come universale. Eppure Agostino aveva asserito, commentando nel Vangelo di Giovanni il passo in cui Gesù invita a “rimanere nella parola” (Gv 8, 31-32), che “è grande ciò che comincia dalla fede”,540 intendendo dire che nella fede c‟è il fondamento della “verità” (Gv 8, 32). Infatti, chiosa Agostino a proposito degli apostoli,

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F. Copleston, HPh, pag. 94. Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 8, tr. it. cit., pag. 663.

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“essi non credettero perché avevano conosciuto, ma credettero per conoscere”.541 La conoscenza per fede non è legata alla natura umana in quanto tale, ma alla volontà del singolo, pur nelle incertezze della condizione lapsa dell‟uomo. Gesù infatti, pur soggiornando in terra per riverlarsi all‟uomo, da tutti fu visto ma non da tutti riconosciuto. “Rifiutato dalla maggioranza, messo a morte dalla moltitudine, da pochi fu pianto, e tuttavia, anche da questi dai quali fu pianto, nn era ancora conosciuto per quel che esattamente era”.542 Se l‟eudemonismo etico della cultura pagana trovava il suo limite culturale e soteriologico nella cura di sé, esso fu rintracciato proprio dall‟uso della ragione, la quale deve trascendere sé stessa se vuole assurgere alla verità, per cui né l‟ideale dell‟epicureo né quello dello stoico possono dare la felicità all‟uomo, ma solo il desiderio della beatitudine, ossia il raggiungere Dio, che “è la beatitudine stessa”.543 La tensione morale verso l‟ascesa a Dio è per Agostino un dato antropologico, per cui l‟amore, che è lo strumento col quale l‟uomo si protende a Dio, non è un precetto dottrinario ma coincide con la ricerca stessa di Dio, che è il summum Bonum, e quindi con la volontà di partecipare di questo Bene. In questo senso, in Agostino “la dinamica della volontà è una dinamica d‟amore (pondus meum, amor meus)”.544 L‟amore è il fine, l‟obbligazione morale, cui deve sottomettersi la volontà, che i Greci destinavano alla felicità naturale. L‟orientamento morale è libero, sicché l‟uomo può o non perseguirlo, volgendo la sua volontà verso i beni terreni, distogliendosi dalla legge divina, ovvero verso il bene spirituale ispirato da Dio.545 La stessa illuminazione che la mente coglie teoreticamente, la coscienza morale coglie in senso etico. Ciò comporta che il dovere di amare Dio, in cui consiste l‟obbligazione morale, è la parte che spetta all‟uomo per raggiungere la

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Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664. Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664.

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Agostino, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum (388), 1, 11, 18. 544 Agostino, Confessiones, XIII, 9, 10; tr. it., Alba, 1979, pagg. 461-2; cit. da F. Copleston, HPh, pag. 108. 545 Agostino, De libero arbitrio, 2, XIX, 53; tr. it. a c. di F. De Capitani, Milano, 1987, pag. 363-65.

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beatitudine. L‟altra parte tòcca alla Grazia, l‟unica che possa guarirlo dalle infermità della legge umana. Una vita regolata senza l‟apporto della Grazia non può conseguire la vera felicità, e quindi l‟uomo vive nel male. Questo, però, non può essere inteso in senso positivo, poiché ogni cosa creata da Dio non può che essere benigna. Nello stesso tempo, l‟uomo che non persegue il suo fine morale vive nel male, per cui questo va inteso come una condizione negativa di allontanamento dal bene divino ed eterno legata alla volontà dell‟uomo.546 Questa concezione, di origine neo-platonica e risalente a Plotino,547 assegna razionalisticamente alla realtà una fisionomia aberrante, conseguente alla ipostatizzazione del modello morale come l‟unica vera realtà in senso ontologico, rispetto alla quale l‟esistenza profana è insana. A tal punto che è occorso l‟intervento divino per redimere l‟uomo. La storia pre-cristiana, caratterizzata dal sapere razionalistico, viene rappresentata da Agostino come una lunga vigilia di redenzione, che nell‟evento cristico trova la sua soluzione di continuità, il suo salto morale. La storia dell‟umanità è la storia della dialettica del principio dell‟amore meramente terreno dell‟uomo verso se stesso, e del principio dell‟amore dell‟uomo verso Dio. Col principio terreno, vòlto alla sola cura dell‟uomo a se stesso, si è edificata la città di Babilonia; col principio dell‟amore divino si è costruita Gerusalemme. Sono “due città, presentemente unite nel corpo ma separate nel cuore”.548 Il Potere politico, ossia la condizione per cui alcuni uomini comandino su altri, non è stabilito dall‟ordine naturale originario ma è una conseguenza del peccato originale.549 Se non interviene la Grazia, l‟esercizio del Potere è privo di luce divina, ossia di finalità morale, sicché la potestas di Dio di Rm 13, 1 viene intesa da Agostino in una accezione che trascende l‟orizzonte politico per significare in generale che se manca la direzione divina “l‟uomo può solo avere il desiderio (cupiditas) di compiere il male o il bene, ma l‟effettivo potere

546

Agostino, De libero arbitrio, 1, XVI, 35; tr. it. cit., pag. 287. F. Copleston, HPh, pag. 112. 548 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 136, 1, tr. it. Opera omnia, XXVIII/1, Roma, 1977; cit. da F. Copleston, HPh, pag. 113. 549 Agostino, Civitas Dei, XIX, 13-15; M. Rizzi, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna, 2009, pag. 92. Da ora CeD. 547

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(potestas) di realizzare l‟uno o l‟altro gli può essere concesso solo da Dio”.550 La ricerca di Dio, ovvero della beatitudine, non può essere solo umanamente condotta ma si sviluppa attraverso un colloquio con Dio che è il depositario della verità, senza il Quale ogni proposito umano non sussisterebbe. Ma la responsabilità dell‟intendimento umano non può essere di Dio, poiché Egli non agisce positivamente ma solo ispira la volontà umana nel caso concreto, in cui il dialogo avviene. Ciò vuol dire che che la libertà che fa da sfondo alla volontà umana è stata da Dio concessa ab origine, con la creazione stessa dell‟uomo, mentre il suo esercizio concreto, ossia la volontà umana, si esplica nei termini del coloquio con Dio, che può, per voler umano, anche mancare, ovvero, per volere di Dio, anche non esser esaudito. In questa facoltà va intesa la potestas divina, la quale consiste nella ispirazione morale, ossia nell‟esercizio della libertà dell‟uomo nel senso della volontà divina, della recta ratio. L‟ispirazioe morale attesta la realtà di quel colloquio con Dio, in mancanza del quale l‟esercizio del Potere si esaurisce nella mera potenza umana, nella cieca forza non illuminata dalla Grazia. Anche questa teoria agostiniana è di origine chiaramente platonica, ma ciò che la Repubblica lasciava in modo indeterminato alla facoltà del filosofo illuminato, Agostino lo attribuisce appunto alla Grazia, la quale aveva agito già prima dell‟avvento di Cristo, consentendo all‟Impero romano di sussistere, partecipando, sia pure inconsapevolmente, al disegno soteriologico divino. Tale inconsapevole partecipazione non significa irragionevolezza della volontà umana, ma soltanto che l‟ignoranza della Rivelazione rendeva l‟agire umano prettamente naturale, finalizato cioè a scopi materiali, non spirituali, ai quali gli stessi filosofi si applicavano pensando il bene come quello della città. Il senso della dicotomia tra scopi materiali, relativi al corpo, e beni spirituali, relativi all‟anima, va ravvisato nella differente condizione umana, in parte soggetta alla morte, in parte a partecipare dell‟eterno. per l‟essenza spirituale, ogni uomo, in quanto creatura divina, è uguale immagine di Dio, sicché “nell‟unità della fede, ogni differenza è esclusa”, mentre invece, per la condizione peccaminosa dell‟uomo, “le

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M. Rizzi, CeD, pag. 94.

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differenze di nazionalità, di condizione sociale, di sesso […] rimangono durante la vita mortale”.551 Abbiamo così due livelli esistenziali, uno dominato dalle leggi di Cesare e determinato dalla nostra natura finita e materiale, l‟altro dipendente dalla Grazia divina e relativo alla nostra condizione spirituale. Nel primo livello va posto il Potere, ossia l‟intera organizzazione della vita politica diretta allo scopo eudemonistico di salvaguardare la specie umana. Questa è la dimensione della sapienza profana, incapace di trascendere la finitezza del suo orizzonte esistenziale, e dunque di pervenire al livello superiore in cui ogni differenza empirica perde il suo valore temporale e contingente a fronte della contemplazione beata della verità divina, conseguibile pero post mortem. Anche qui è palese la derivazione platonica e stoica dell‟anima rinchiusa nella gabbia materiale del corpo. Ma ciò che rileva, non è tanto la separazione delle due dimensioni esistenziali, quanto la diversa e relativa considerazione in chiave precipuamente cristiana del momento inerente rispettivamente alla vita comune degli uomini mortali, e alla vita spirituale di ognuno, la cui singlarità deriva in rapporto alla diversità di condizione materiale. In altri termini, l‟unità conseguibile solo nel livello spirituale, è infranta dalla diversità di condizioni materiali degli uomini, dalla loro condizione originariamente peccaminosa. E pertanto il trascendimento della finitezza relativa a tale condizione lapsa significa pervenire alla consapevolezza della propria individualità sprituale attraverso la conoscenza di Dio, la quale consente di riconoscere in ognuno ciò che ha in comune con ogni altra creatura, e dunque di amare in ogni altro simile il Padre comune che tutti ha generato. Il compito del principe (rex) cristiano è di “indirizzare” (regere) la volontà dei sudditi verso i fini divini,552 nel cui conseguimento consiste la volontà morale, l‟amore di Dio, la charitas, ovvero la “giustizia”.553 Le due città, essendo due regni ideali, relativi a due livelli di coscienza esistenziale, non sono realtà storiche, quali la Chiesa e lo Stato. Infatti, “se lo Stato coincidesse necessariamente con la città di Babilonia, nessun cristiano potrebbe legittimamente coprire

551 552 553

Agostino, Esposizione della Lettera ai Galati 28, cit. da [M. Rizzi, CeD, pag. 99. Agostino, Civitas Dei, V, 12. Ved. M. Rizzi, CeD, pag. 102. Agostino, Civitas Dei, IV, 4. Da ora CD.

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cariche nello Stato”.554 D‟altro canto, la stessa condizione morale, scaturendo da un dialogo intimo e singolare della coscienza con Dio, non può incarnarsi in una istituzione collettiva e impersonale quale lo Stato, anche se la sua conduzione può, e auspicabilmente deve, essere informata ai valori morali della carità cristiana. Il significato delle duae civitates è nella differenza dei duo amores: l‟amor sui è la naturale concupiscentia che spinge l‟uomo a padroneggiare l‟altro da sé (libido dominandi), l‟amor Dei è la tensione spirituale verso ciò che trascende il proprio Io, informata al sentimento della caritas.555 La città terrena è dominata dalla necessità di lottare contro “il potere della morte” e dunque di “vivere secondo la carne”,556 ossia in armonia con la natura ma in dissidio con i doveri dello spirito (Gal 5, 9-21). Tuttavia, avverte Agostino, “non tutti i vizi della vita immorale si devono attribuire alla carne” in quanto tale, ma all‟uomo in quanto sola carne, che cioè “vive secondo se stesso”,557 ponendo l‟uomo come fine della vita, anziché Dio. E “quando l‟uomo vive secondo l‟uomo, non secondo Dio, è simile al diavolo”.558 Vivere secondo Dio è vivere nella verità, mentre vivere non secondo Dio equivale a “vivere secondo menzogna”.559 La menzogna consiste nel ritenere che la carne sia tutto l‟uomo. Come aveva già avvertito Paolo, “l‟uomo naturale non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio, ritenendole sciocchezze”, non attribuendo a esse alcun valore. Ma l‟incapacità dell‟uomo naturale di valutarle nasce dall‟impossibilità di commisurare beni di natura diversa, in quanto le cose spirituali “devono essere giudicate spiritualmente” (1Cor 2, 14). Da qui l‟orgine di due dimensioni di vita, due “città”, diverse. La mancanza di discernimento del valore spirituale, pertanto, non è dovuta solo alla cattiva volontà dell‟uomo carnale, che vive solo secondo se stesso e lasua natura finita, ma alla circostanza che all‟interno dei criterio di valutazione naturali non sia possibile giudicare gli eventi della vita 554 555 556 557 558 559

F. Copleston, HPh, pag. 116. Agostino, CD, XIV, 28. Agostino, CD, XIV, 1. Agostino, CD, XIV, 3.2. Agostino, CD, XIV, 3.4. Agostino, CD, XIV, 4.1.

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spirituale. Ma, a detta dello stesso Paolo, neppure le stesse opere carnali potranno essere “giustificate dalle opere della legge” umana (Rm 3, 20). Ciò non significa che “la natura della carne” sia malvagia, poiché ogni creazione divina è in sé buona, sicché anche la costituzione carnale “nel suo genere e ordine, è buona”.560 Agostino vule dire che ciò che va giudicato come malvagia è la destinazione che se ne fa della carne ovvero dello spirito. se la destinazione è puramente mondana e umana, allora si è fuori dell‟amore di Dio. Ed è questa la ragione per la quale è da rigettare ogni visione manichea della realtà, poiché “l‟anima non è condizionata soltanto dalla carne, […] ma può essere agitata da stimoli provenienti da lei stessa”.561 Il platonismo di Agostino si manifesta anche nella concezione dell‟uomo perverso per indole, il quale, se non ama il bene è perché “non è cattivo per essenza ma per difetto”,562 sicché amare il bene equivale ad amare la giustizia, mentre amare il mondo, giusto Giovanni, vuol dire non avere benevolenza di Dio (1Gv 2, 15). Non ogni tipo di amore è buono, dunque, ma solo quello giusto, l‟amore di Dio.563 La logica che presiede la “città di Dio” è dunque diversa da quella che regge la “città dell‟uomo”. Come è stato detto, “la civitas terrena pretende di essere possessio del divino nel saeculum, la civitas Dei confessa di essere peregrina in hoc saeculo”.564 Ma la differenza tra le due prospettive non è riducibile soltanto alla distinzione, pur significativa, tra concezine immanentistica del sistema teologicopolitico pagano, e concezione trascendente cristiana, “riconoscibile all‟interno della chiesa ma mai oggettivabile come certo”.565 Infatti, è ben vero che la pretesa secolaristica nasce in conseguenza della risoluzione dell‟esperienza spirituale in re, ossia nella “costruzione

560 561 562 563

Agostino, CD, XIV, 5. Ibidem. Agostino, CD, XIV, 6. Agostino, CD, XIV, 7.2.

564

G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo, Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, 2002, pag. 217. 565 Ibidem.

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storico-mondana” del divino, che, sacralizzando strutture secolari terrene, ambisce alla “assolutizzazione del suo essere, del suo conoscere, del suo amare tramite l‟intelligenza e la virtus naturale dell‟uomo (donde la filosofia greca e la politica romana come vertici della civiltà pagana), tramite gli sforzi eroici della civiltà umana nel suo progresso storico”, e dunque sacralizzando strutture secolari terrene.566 Tutto ciò è vero; così come lo è che “la peculiarità del teologico-politico cristiano sia specificato non dalla connotazione trinitaria del proprio assoluto ontoteologico, ma dalla presenza dell‟atto di grazia come suo principio irriducibilmente escatologico, cioè del tutto eteronomo e antimondano”;567 ma la questione derimente che stabilisce la irriducibilità e inconfondibilità dell‟una dall‟altra dimensione esistenziale è di carattere ontologico, e non ideologico, sicché l‟errore ermeneutico, che ha dato origine alla diatriba tra Schmitt e Peterson, consiste proprio nel ridurre tale differenza a due diverse disposizioni culturali. La redenzione morale non si opera attraverso una conversione ideologica dall‟una all‟altra forma di vita comuntaria, ma a seguito del‟assunzione del principio spirituale che abita in interiore homine, e non nelle istituzioni politiche, e dunque neanche nella Chiesa come corpo mistico cristiano. In altri termini, l‟amor Dei, ossia l‟assunzione della grazia entro la propria vita spirituale, non è paragonabile all‟amore profano verso qualcosa o qualcuno determinabile dalla sua realtà finta, sia una persona fisica che ideale, un uomo o un impero, in quanto, a differenza di questo, esso consiste in una tensione alla trascendenza da ogni finitezza, da quella carnalità che limita e conchiude l‟esperienza umana in se stessa. E poiché alcuna creazione terrena, divina come umana, è immune dalla sua natura finita – tranne il Cristo – ogni dedizione esclusiva ai beni terreni è profana e idolatrica. Non in quanto non sia consacrata a Dio, ma in quanto ignora che tale consacrazione non può realizzarsi in externo, oggettivamente in opere umane, in un mondo per quanto razionale, ma solo all‟interno della coscienza, poiché, come si è detto, è nel dialogo interiore con Dio che si acquisisce la grazia redentrice. In questo senso, l‟intervento della Grazia divina non opera nella

566 567

Ivi, pag. 218. Ivi, pag. 219.

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dimensione politica della socialità, ma bensì nella dimensione mrale della coscienza singolare. La civitas Dei pertanto, diversamente dalla città terrena, non è una comunità politica ma una comunità di individui singolari, ognuno dei quali portatori e testimoni di una personale storia spirituale, in cui consiste il “dinamismo della grazia”. La “imitazione perversa dell‟ordine divino”568 consiste nell‟assumere come soggetto morale una persona materiale, un corpus fisico, il quale, non potendo avere coscienza spirituale al pari dell‟uomo, imago Dei, ne fa le veci. In questo scambio, che è anzitutto un errore teoretico, consistente nell‟assunzione della parte (la “carne”) per il tutto (l‟uomo concreto), consiste l‟idolatria, “l‟adorazione della falsa divinità”, che è un errore teologico e morale, proprio della civiltà romana, la cui religio idoleggia la civitas come la vera divinità.569 La trascendenza verso il Bene attraverso l‟ausilio della Grazia consiste nel superare il livello di coscienza naturalistico, proprio della “società degli empi che non vivono secondo Dio ma secondo l‟uomo”,570 e pensare nell‟amore di Dio, cioè secondo il senso morale, la dimensione dell‟eterno, l‟unica veramente concreta. Il carattere psicologico di tale esistenza morale è il superamento del “timore e del dolore”, che caratterizza invece l‟esistenza politica, “l‟umana società” caduta nel peccato.571 L‟ “inizio di ogni peccato è la superbia”, che è atteggiamento contrario a quello dell‟obbedienza all‟ autorità legittima, sostituita con “l‟autorità a se stessi”, ossia alla posizione di sé, e non del “fine immutabile”, come fine. E‟ insomma l‟atteggiamento economico della ragione utilitaria e particolaristica, come quella di Adamo, che “ha anteposto il desiderio della moglie al comando di Dio”.572 Agostino distingue due tipi di volontà. Una finalizzata al bene naturale, secondo ledisposizioni di Dio, e l‟altra “depravata” dalla superbia. Ogni creazione divina, egli ricorda, è buona, ma può essere utilizzata in modo malvagio, “contro natura”, ossia contro la sua benigna destinazione naturale, a opera appunto della “depravazione della

568 569 570 571 572

G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 220. Agostino, CD, XXII, 6.2. Ved. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 225. Agostino, CD, XIV, 9.6. Agostino, CD, XIV, 9.5 e 10. Agostino, CD, XIV, 13.1.

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volontà”. In cosa consiste questa volizione depravata dell‟uomo superbo? Nel fuoriuscire dall‟Essere divino, ossia dalla destinazione finale della creazione, con un atto volontario di altra natura rispetto a quella divina, una “natura creata dal nulla”. Vi è dunque l‟Essere, che comprende la creazione, e il Nulla, che è una natura che “defeziona dal suo essere” in quanto non prodotta dalla volontà divina. Ora, poiché la malvagità dell‟uomo che ripiega su se stesso è pur sempre relativa al suo essere creaturale, l‟avere abbandonato Dio lo rende “mno perfetto” ma non proprio un nulla, anche se lo avvicina al nulla. Ciò vuol dire che l‟uomo superbo e pervertito, abbandonando l‟Essere benigno nell‟atto di rifiutare di sottomettersi a Dio, “decade dall‟Essere”, affidandosi all‟amore di sé.573 Ed è appunto questo amore di sé che pone l‟uomo come fine a se stesso, a esporlo al dominio diabolico,574 per cui lo spirituale si converte in carnale, anziché il contrario.575 E da qui sorge ogni umana sofferenza, che in senso spirituale “si denomina tristezza”, e come bisogno della carne si denomina “libidine”. La libidine si esercita in molte guise, compresa quella che “influisce moltissime sulle coscienze dei tiranni” e che consiste nel “dominare” (libido dominandi).576 L‟aver “abbandonato Dio” ha fatto sì che l‟uomo fosse “lasciato a se stesso […] per essere fine a se stesso”. La tristezza di tale abbandono consiste nel fatto che l‟uomo, “non obbedendo a Dio non ha potuto obbedire neanche a se stesso”,577 proprio perché preda della disordinata volontà (libido) che, senza la guida dell‟autorità divina, gli impedisce di mirare, non solo alla felicità del bene.578 L‟onnipotenza divina non abbandonò l‟intero genere umano al poter del diavolo, ma parte di esso lo prescelse, destinò alcuni uomini “con la grazia e non per i loro meriti” alla Sua città.579 Nella “città terrena” la supposta sapienza che aveva abbandonato la via divina inorgogliva l‟uomo, che, dominato dalla superbia, scadeva nella sciocchezza di di 573 574 575 576 577 578 579

Ibidem. Agostino, CD, XIV, 13.2. Agostino, CD, XIV, 15.1. Agostino, CD, XIV, 15.2. Agostino, CD, XIV, 24.2. Agostino, CD, XVIII, 41.1. Agostino, CD, XIV, 26.

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sostituire alla gloria eterna di Dio “l‟immagine dell‟uomo soggetto a morire”,580 per dominare le masse. Nella “città celeste invece l‟unica filosofia dell‟uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente”, nel modo tale cioè che non siano solo alcuni sulla buona strada della beatitudine, ma “Dio sia tutto in tutti”.581 La religione non è la politica. Questa è guidata dall‟amor sui, né può assumere “la funzione ontologica di difendere e affermare il naturale conatus essendi dell‟uomo”,582 compito che spetta alla Grazia, in quanto l‟ordine del mondo inerisce alla carne e non all‟invisibile spirito singolare. La stessa teologia civile della città terrena, di cui trattava a proposito di Varrone, non può dare alcuna indicazione sulla natura di Dio, poiché “il vero Dio non è Dio in base a un modo di pensare ma per natura”, e la natura dell‟uomo, di cui è oggetto il pensiero della theologia naturalis, non è quella di un dio, sicché “tanto la teologia civile che la fabulosa [ossia la mitica] sono entrambe fabulose, entrambe civili”,583 finalizzate a idolatrare realtà immaginarie, create dagli uomini in funzione dell‟unità politica, della salus publica.584 La sfera politica, con la sua ratio essendi, è il primo gradino dell‟evoluzione umana verso la dimensione spirituale: “prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l‟esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio”.585 L‟evoluzione spirituale, mediante la grazia, non è pertanto una condizione di natura universale, ma elettiva, per “beneficio divino”586: “la natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste”, la quale non esiste in terra se non

580

Il riferimento palese è a Varrone (già cit. in VI 7.1) e implicito a Erodoto e alla da lui asserita superiorità della religione antropomorfa greca su quella di altri popoli, come gli Egizi, che veneravano gli animali: Storie 2, 35-37, 65-76. 581 Agostino, CD, XIV, 28. 582 583 584 585 586

Secondo la tesi di G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 222. Agostino, CD, VI, 8.1-2. Agostino, CD, XVIII, 54.2. Agostino, CD, XV, 1.2. Agostino, CD, XVII, 8.2.

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in “forma simbolica”.587 Questo perché la costituzione della città terrena, pur avendo in questo mondo il suo “ideale”, che è quello politico, “non sarà eterna”, ma alla fine dei tempi essa perderà la sua forma politica, che è il modello ideale di ogni città.588 Come dunque potrebbe avere una forma mondana la città eterna? Inoltre, la pace che viene conseguita nella città terrena a opera di conquistatori più forti, verrà persa prima o poi da lotte intestine o esterne, condotte in nome della prevaricazione, che mira al privilegio esclusivo. Fu così per Caino e lo stesso per Romolo, entrambi fratricidi per “invidia diabolica” pur di raggiungere il solitario successo. Il polemos, ossia la logica della scissione, domina la città terrena, in cui vige la legge dell‟esclusione del concorrente. Diverso il caso della comunità dei buoni. “La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la persoale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione”.589 La bontà, infatti, mirante alla perfezione, non può escludere da essa altri che la ricercano ma solo chi la osteggia. E una volta raggiunta, non può escludere da sé il male che la impediva. L‟opposizione, afferma Agostino in senso platonico, interessa la condizione che diviene in quanto imperfetta, ma non ciò che è compiuto. Da questa compiutezza nasce il sentimento del perdono, cioè l‟agire per la conservazione della pace, “senza la quale non sarà possibile vedere Dio”.590 In altri termini, l‟intera vicenda storico-politica delle lotte umane va ascritta alla condizione di imperfezione naturale dell‟uomo. In tal senso Agostino accoglie l‟antropologia aristotelica, ma solo come il primo stadio dell‟evoluzione umana verso la compiutezza spirituale, la stessa perfezione della specie. Una volta conseguita, allorquando l‟elemento spirituale prevarrà su quello istintuale originario della comune costituzione naturale, l‟uomo non proverà più il bisogno di dominare né di escludere gli altri, realizzando la perfetta convivenza di

587 588

589 590

Agostino, CD, XV, 2. Agostino, CD, XV, 4. Agostino, CD, XV, 5. Agostino, CD, XV, 6.

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esseri perfetti, che hanno raggiunto la santità, che è “immortalità” e non mera durata destinata a finire, ossia è “eterna pace” e non momentanea tregua bellica.591 L‟analogia con il tentativo dei filosofi di dominare le passioni, è esplicitata nello stesso tempo in cui viene ne viene reso il senso teologico del rapporto tra ragione e fede: la prima, tendente a reprimere le pulsioni malvage, la seconda a escluderle.592 La funzione terapeutica del metodo razionale è collegata alla repressione dell‟apparto politico coercitivo, quale momento provvisorio della condizione sociale dell‟uomo ancora immerso nel suo status naturae lapsae. Divinizzare tale condizione lapsa è dunque per Agostino una aberrazione, dalla quale la fede cristiana prende decisamente le distanze, stabilendo anche la differenza tra religio in senso ciceroniano di garanzia dell‟ordine sociale e divinizzazione delle istituzioni politiche (simulacra) e fede in senso evangelico.593 La fede realizza il passaggio da una condizione ideologica dell‟esistenza (falsitas) di esseri naturalmente polemici, a una condizione di esseri spirituali. Questo trapasso di mentalità (metànoia) non si esaurisce nell‟occasionale azione buona e caritatevole, pur apprezzabile, ma in un cambiamento di coscienza della vita, e quindi presuppone un itinerario soteriologico ben più risolutivo e radicale della classica paideia intellettuale greca o della salus rei publicae in senso romano. Il santo agostiniano non è un legislatore, alla stregua del filosofo pagano, in quanto egli, per stabilire rapporti di convivenza coi suoi simili in beatitudine, non ha alcun bisogno di un demiurgo che faccia le veci di un dio mortale. Il viaggio per la santità è all‟interno della città terrena, tra la Resurrezione e la parusia. Il caso dei gesti simbolici di Gesù è diverso, in quanto Egli era già santo. Ma, soprattutto, la comunità dei santi, non essendo una città se non simbolicamente, è una unità sprituale, non sorretta da istituzioni giuridico-politiche come invece la città terrena. Questa può essere assimilata alla ecclesia, ma solo, appunto, simbolicamente, in quanto in questo mondo la condizione di beatitudine può conseguirsi soltanto nella relazione con uomini della

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Agostino, CD, XVIII, 2.1. Agostino, CD, XV, 7.2.

593

Cicerone, De Legibus II, 27, 69; De natura deorum I, 2, 5. Ved. G. Letteri, Riflessioni cit., pagg. 224-225.

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carne, ossia immersi nella esistenza politica. La vita del non ancora santo in questo mondo, dunque, è una esistenza di relazione con uomini imperfetti, e dunque agenti secondo la logica polemica del potere e dell‟invidia. Questo giustifica la sottomissione del pellegrino alle leggi della città, che sono anche le sue in quanto cittadino, cioè di uomo imperfetto. Ubbidienza civile che si ferma alla pretesa idolatrica del Potere di assogettarsi anche la sua parte spirituale. Nei due casi, il senso della salus è diverso. Per il cives la salute pubblica coincide con la conferma dello status civitatis, ossia della stessa condizione politica, la quale dunque non si evolve se non all‟interno del suo orizzonte di coscienza dominato dal peccato e dall‟invidia, cioè dalla falsitas e dalla libido dominandi. Per il pellegrino, invece, la salus coincide con il superamento della sua condizione naturale, e dunque soltanto al percorso spirituale può assegnanrsi una storia che abbia un terminus a quo e uno ad quem, mentre le vicende che riguardano la storia profana sono tutte raportabili a uno schema di sviluppo circolare contrassegnato dalla nascita-vita-morte personale e dalla guerra-pace politica del collettivo. Tra le due dimensioni vi è la stessa differenza che tra ciò che permane nel suo stato naturale (regolabile col diritto) e ciò che che lo trascende (nel senso della bontà), per cui “quanto vi è nel presente di storia della redenzione nega e annulla ogni storia del mondo in quanto mondo”.594

594

E. Norelli, Il presente è storia?, in Il dio mortale cit., pag. 112.

307


II

La dissoluzione del mondo cristiano

Nello svolgimento della storia umana sono soprattutto le aspettative religiose che ci forniscono il modulo più appropriato per misurare e valutare l'intensità e i momenti del divenire della civiltà (R. MORGHEN)

1. Dalle ricostruzioni storiche della transizione dal Medioevo all‟evo moderno, che il più delle volte lasciano nell‟ombra la questione del senso ideale di essa, e quindi la stessa comprensione del fenomeno nel suo intrinseco sviluppo razionale, il XV secolo è generalmente visto come “secolo di preparazione” di una “epoca nuova”, soprattutto in campo religioso1. Visto come “un‟anticamera del Rinascimento”, si vede in esso solo una serie di “precorrimenti grevi e maldestri dell‟affinamento delle forme, degli armoniosi rapporti di forze e delle proporzioni ideali del XVI secolo, senza riconoscere loro una vita propria, potente ed appassionata”.2 Se invece “viene inteso come l‟altro polo di un raffinamento spirituale, ignoto al XVI secolo” e che coinvolge le rispettive “visioni del mondo”, cambia la “prospettiva” del nostro giudizio, essendo diversa la “visione d‟insieme” del fenomeno epocale. Infatti, “non si dà visione del particolare senza visione d‟insieme, e questa visione d‟insieme è determinata dalla

1

R. Stadelmann, Vom Geist des ausgehenden Mittelalters (1929), tr. it. Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, Bologna, 1978, pag. 55. 2 Ivi, pag. 56.

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prospettiva” 3 in cui si pone lo storico. La quale è comunque “unilaterale”, anche quando corretta da altra visuale, mancando allo storico la possibilità di una “visione onnilaterale”. Per liberare un‟epoca dall‟ eccessivo collegamento teleologico delle cose e [dal]la demolizione del presente per mezzo del futuro […] ci sono due vie […] per comprenderla a partire da quel che è in sé stessa, interpretando il singolo momento nella unità strutturale in cui rientra. La prima via è quella di Ranke: è quella della considerazione universale della storia che, in base a questa conoscenza dello sviluppo totale, sa determinare per ogni caso la misura della crescita ed il luogo organico […] collocando la la sua immagine in uno spazio fisso e avviando la sua analisi con una suddivisione sistematica di questo spazio totale. [La] seconda via [è costituita dal] metodo storico-stilistico. Il suo presupposto è che i fenomeni caratteristici di un periodo siano attraversati, in tutta la loro estensione, da qualche cosa di comune e siano sostenuti, dal punto di vista psicologico, da una disposizione del sentire in essi dominante [quale] nota fondamentale sulla quale tutto il resto è accordato.4

Questa immagine del “ritmo interno dell‟accadere umano”, se in qualche modo riesce a dare un‟idea del senso complessivo del movimento storico di un‟epoca, orchestrato generalmente intorno a un motivo dominante, è però nient‟altro che una ripresa, magari più raffinata, della “vecchia esigenza della Einfuehlung, già fatta valere da Herder”,5 e quindi non si discosta da connotati di carattere empatico, soggettivistici e psicologici, che non rendono i caratteri oggettivi del tempo, ossia il senso storico e ideale delle sue forme storiche. Il Rinascimento portò qualcosa di nuove “da un duplice punto di vista”, obiettivo e soggettivo. Obiettivamente, il Rinascimento significò “lo spezzarsi della cultura unitaria chiesastica e l‟annuncio di una molteplicità di ambiti di cultura autonomi”. Soggettivamente, invece, significò “la conquista di una terza dimensione della personalità”, quella della “coscienza” e della “riflessione”, intesa come “il piacere ed insieme la volontà di potere, l‟attività che dà forma alla

3 4 5

Ivi, pag. 57. Ivi, pag. 58. Ivi, pag. 59.

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vita individuale, l‟affermazione dell‟io, con i quali si plasma la ricchezza interiore”.6 Questa duplice fisionomia impedisce di attribuire a un‟epoca un carattere univoco, tale da assumere come rappresentativo un aspetto a scapito dell‟andamento spirituale complessivo. Così è stato a proposito del periodo che dall‟alto Medioevo va sino al sec. XV, giudicato di “decadenza” in riferimento all‟aspetto politico, senza però considerare la sua “disposizione spirituale”. Infatti, ai fini della decadenza della cultura di un‟epoca, decisivo non è “il fatto che un‟istituzione di tipo politico o ecclesiastico sia oltremodo invecchiata”, ma il riscontro del suo “animo malato”, che si ha allorquando “sfugge alle mani dei dotti la funzione di guida, subentrando con ciò una straordinaria carenza di direzione spirituale”, con la conseguenza di “spingere il popolo alla disperazione rivoluzionaria”.7 Il termometro spirituale di un‟epoca, che misura le oscillazioni dei movimenti culturali, è costituito dalla “posizione consapevole degli uomini di cultura”, la cui testimonianza riflette l‟andamento dello stesso corso ideale del loro tempo, e perciò, “dal punto di vista di una storia dello spirito è il solo elemento decisivo”8 a cui si deve far riferimento. E nell‟ambito delle generali attività culturali, “in ogni epoca tarda” la sfera dell‟arte si presenta come “il campo privilegiato” di analisi della vita spirituale, poiché vi “operano nella maniera più libera le variazioni e le sfumature”.9 Ciò vuol dire che, a prescindere dal rapporto che l‟arte ha con il mondo dei valori di cui essa è espressione, la sua realtà d‟essere, ossia il carattere intuitivo della conoscenza, consente una libertà di rappresentazione della realtà non altrimenti conseguibile per altre vie intellettuali, e che fa dell‟attività artistica la frontiera più avanzata dei cambiamenti epocali. Infatti, l‟arte pittorica del sec. XV è dominata dal “senso di incertezza, di abbandono e di infelicità”, così come l‟arte scultorea dalla “incertezza, impazienza, fastidio e disperazione”, che denunciano “la mancanza di un‟elevata norma formale riconosciuta da tutti e il dissolversi di quei limiti entro cui si

6 7 8 9

Ivi, pag. 61. Ivi, pag. 63. Ivi, pag. 64. Ivi, pag. 65.

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organizzavano la visione del mondo e la stratificazione sociale”, consentendo una “libertà e vivacità di sentimenti” proprie del “sentire delle epoche di transizione”, quando prevale “il gusto per ciò che è vigoroso e orribile”, tipico di “un periodo non classico”. Ed è allora che l‟impulso alla “caricatura della passione” apre “le porte dell‟attività artistica a una folla di talenti anche di secondo e terz‟ordine” priva di cultura, determinando una “proletarizzazione” dell‟arte che ne “deprime il livello”.10 Gli eccessi stilistici, che superficialmente potrebbero apparire come una condizione di fermento sperimentale di “poteri attivi” e di nuove forme artistiche e ideali, è in realtà il sintomo della “passività” spirituale del secolo XV,11 che risulta “inquietante” alle coscienze più consapevoli a causa del suo “demoniaco piacere di autodistruzione”.12 Questa unione di umor nero e di piacere, la ricerca del frivolo, del‟ambivalente, l‟irrisione della maestà e la demonizzazione del gioco: è questa l‟intima passione del medioevo, la sua forma del tragico. Anche la sfera del pensiero scopre la seduzione misteriosa del problematico, del paradossale, [tra cui, in primis, l‟idea dell‟] essere che non è, che sarebbe la morte […]: il niente, che pure ha realtà, la forza senza sostanza, il qualcosa tra spirito e materia [a cui] non si cerca di dare un ordine logico.13

In verità, come vedremo a proposito del Cusano, gli spiriti più consapevoli della crisi epocale tendono a proporre un nuovo ordine logico che tenga conto, assieme alla sensibilità del tempo, del valore pedagogicamente valido della tradizione, segnatamente di quella teologico-religiosa. Il problema è che, per addivenire a un “nuovo ordine”, occorre superare, assieme alla crisi, anche l‟ordine antico che l‟ha determinata, e, trattandosi della dissoluzione della civiltà cristiana, non bastava una semplice sistemazione inclusiva di fermenti innovativi interni al tradizionale orizzonte di senso religioso, ma occorreva rielaborarne i miti fondativi della sua metafisica.

10 11 12 13

Ivi, pagg. 71-73. Ivi, pag. 74. Ivi, pag. 75. Ivi, pag. 77.

311


Un freno alla sconcerto e alla deriva irrazionalistica è costituito dalla “riflessione morale”, alimentata dalla influenza religiosa e dagli ideali laici di progresso, che inibiscono lo spirito tedesco dell‟epoca a “un libero esplicarsi del pessimismo di fondo”, dove “il tragico è vissuto come grottesco” e il connesso “individualismo” esprime, diversamente dalla tendenza dell‟ideale umanistico all‟unità delle forze spirituali, “la consapevolezza della mobilità delle disposizioni dell‟animo” 14 propria delle situazioni di “dissolvimento” e di “insufficienza” che caratterizzano la concezione della vita del sec. XV, i cui caratteri estremi costituiscono anche “il punto di partenza interno per la comprensione del [suo] habitus mentale”, certamente ancora ammantato di “una veste di religiosità”, ma la cui “vibrazione” però stenta a contenere nel suo fine i mezzi “troppo volenti”, per cui “gli effetti collaterali hanno poco a poco tolto al centro il suo valore”.15 Ovviamente, il “centro” religioso era rappresentato dalla verità della Rivelazione, ossia dal Mito fondativo della metafisica cristiana, che la nuova coscienza razionalistica del mondo minacciava di credibilità. E‟ a questo punto che l‟orizzonte di fede tradizionale tende a comprendere la nuova coscienza naturalistica in termini di rielaborazione filosofica del Mito, cercando di includervi l‟elemento razionalistico come un distinto ma funzionale piano di coscienza, non sospettando la natura fondamentalmente anti-filosofica e meramente pragmatica della scienza moderna quale scheleriana “cultura di lavoro” e non di “sapere”. Secondo le parole di Stadelmann, la visione medievale del mondo era stata il grandioso tentativo di mostrare l‟identità di scienza e fede e l‟accordo di ragione rivelazione. Nel momento in cui l‟irrompere del naturalismo aristotelico minacciò di infrangere questa unità, Tommaso d‟Aquino, proprio ricorrendo a strumenti aristotelici, […] rese pressoché inattaccabile la stabilità dell‟edificio, inserendo elementi eterogenei in una visione organica che, lasciando alla natura il suo ambito di validità, le toglieva ogni potere pericoloso, subordinandola alla totalità del sistema. Ricorrendo al carattere vincolante della disposizione gerarchica, all‟interno di questo edificio universale, non c‟era più bisogno di rinunciare ad alcuna delle posizioni dell‟antichità […]. Tutto questo dovette modificarsi

14 15

Ivi, pag. 79. Ivi, pagg. 84-85.

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quando la tendenza critica non vide più nel rapporto di subordinazione del terreno al celeste un‟interna necessità delle cose, ma una semplice posizione arbitraria. Fu questo il risultato essenziale del nominalismo. Il regno della ratio e quello della fides non sono più cerchi concentrici, ma territori sovrani. La teologia non è più una scienza razionale e ciò che è razionalmente evidente non riguarda la fede.16

L‟arbitrarietà dei fondamenti ontologici, come sappiamo, è il portato della emancipazione razionalistica dalla fede nella verità della loro originaria intuizione del mondo, che viene quindi trasfigura dalla coscienza critica in un mero atto affermativo di volontà. E‟ a questo punto che l‟unità organica del tradizionale orizzonte di senso religioso viene infranta da un livello di coscienza razionalistico che destina i fondamenti metafisici della fede ontologica a un piano di realtà “mitico”, incompatibile con l‟esclusiva universalizzazione della metodica scientifica e la sua pretesa di costituirsi come l‟unico piano di coscienza epistemologicamente “valido”. Essendo i due universi di senso “incommensurabili”, l‟uomo può abbracciarli entrambi, anche decidendosi di non sceglierne alcuno a preferenza dell‟altro, per cui “si ritrova nel mezzo, libero di decidere per l‟una o per l‟altra [verità], o, come vuole Occam, per le due ad un tempo”.17 Si introduce così l‟idea di una “doppia verità”, priva di reciproca contraddizione, data la incommensurabilità dei due territori dell‟Essere. Conseguenza di questo dualismo è, da un lato, il “carattere concluso e prevalente dell‟ambito della fede”, e dall‟altro la apertura della filosofia “ad un progresso critico”, cui corrisponde per antitesi l‟intoccabilità della verità teologica e dei suoi dogmi, sicché “o la si accetta per intero o non la si accetta affatto”. Di fronte all‟erosione critica del pensiero religioso, l‟autorità della Chiesa oppone una “autodifesa pratico-pedagogica […] che si accorda pienamente con l‟essenza stessa del medioevo e che costituisce un‟operazione eccezionale del cattolicesimo”.18 Ma il ripristino del naturalismo greco produsse i suoi effetti a partire dalle idee

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Ivi, pagg. 89-90. Ivi, pag. 90. Ibidem.

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politiche di Marsilio da Padova, che nel suo Defensor pacis pone il cristianesimo al servizio del momento politico e giuridico, essendo la lex divina, non valore sovra ordinato all‟ordinamento giuridico dello Stato, ma suo garante. Con il nominalismo “prende forma la dissoluzione del medioevo”. Infatti, “per la prima volta”, l‟uomo, “ormai privo dell‟antica sicurezza” metafisica e della “protezione” religiosa, “ha perduto la sua collocazione organica in un cosmo che unifica naturale e soprannaturale e deve faticosamente cercare nuovi rapporti tra soggetto e oggetto”. La “direzione comune” dell‟orientamento spirituale del tempo si può riassumere con due concetti: spiritualismo e docta ignorantia. Se le si considera dal punto di vista del sistema contro cui partono i loro colpi, queste due posizioni sono in fondo la stessa cosa; ambedue comportano l‟allentarsi della forza che ha costruito le grandi sintesi, un‟inerzia a percorrere e padroneggiare spazi metafisici, un rientro nell‟individuale. questo e non altro è il senso del dissolversi della scolastica ad opera di una mistica scettica, che vuole la semplicità: il trapasso del senso religioso dall‟oggettivo al personale, dal sacrale all‟etico.19

In termini metodologici, però, spiritualismo e docta ignorantia, pur avendo “nell‟intimo la stessa radice”, producono esiti opposti, legati al “temperamento” intellettuale di chi percorre la nuova via della devotio moderna. Così, a fronte di una comunanza spirituale che configura “l‟unità storica” di un‟epoca, le sue diverse manifestazioni possono determinarsi “in una indipendenza reciproca” che però non inficia, con la persistenza dei motivi ideali, l‟appartenenza a uno stesso orizzonte di senso. Considerato a grandi linee, lo sviluppo spiritualistico del XV secolo non è altro che una trasformazione della mistica, [la quale,] avendo preso le mosse dalla filosofia araba, dal nominalismo e dal neoplatonismo, avrebbe potuto condurre ad un allontanamento tanto dalla mistica autentica quanto dai dogmi dell‟alto medioevo. Come risultato di una visione disincantata e moralizzante del mondo si ha un vuoto che pare attenda di venir colmato solo da impulsi di

19

Ivi, pag. 93.

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tipo moderno, e che per di più, in conseguenza di una mentalità che ha esaurito le sue risorse religiose, è adatto a raccogliere lo spirito del razionalismo dell‟antichità [per cui] lo spiritualismo del XIV e XV secolo fornisce l‟elemento mediatore ed il passaggio dall‟alto medioevo all‟umanesimo.20

La configurazione di un comune orizzonte di senso che, seppure stia perdendo le sue antiche sicurezze metafisiche, costituisce ancora l‟ambiente spirituale della sua revisione teoretica, attesta che la “dialettica del pensiero” del tempo si svolge (ancora) entro un ambito prettamente “filosofico”, la cui sussistenza ontologica è a sua volta moralmente garantita dal carattere religioso di quella unità di senso. Questa si rompe allorquando, attraverso quella dialettica, si intende promuovere l‟autonomia gnoseologica della ratio filosofica dal suo fondamento di fede, sostituendolo con uno di tipo appunto filosofico, e tale da costituirlo come il fondamento razionale di un nuovo orizzonte di senso, autonomo dall‟orizzonte propriamente religioso. Ed è questa universalizzazione della coscienza filosofica a orizzonte di senso autonomo, e non già l‟astronomia e le scienze esatte, a provocare la spirituale “distruzione del medioevo”. L‟epicentro di questo sommovimento ideale è la dottrina di Cusano sull‟unità di tutte le cose e della loro complicatio in Dio, inteso idealisticamente come l‟Essere ideale, per cui, affermando che “ipsa creatura est esse Dei”, giunge a negare la subordinazione delle creature al Creatore.21 L‟atteggiamento moralistico, che esalta la volontà di fede in rapporto inverso al suo sentimento spontaneo, viene prodotto a seguito della destabilizzazione del potere del Dio creatore “di dirigere sovranamente il mondo”, che viene metafisicamente inficiato dalla necessità e non libertà delle sue azioni, al pari della “sua preesistenza e [del] suo primato nei confronti dell‟essere finito”. Infatti, “un Dio che ha uno sviluppo è in rigorosa opposizione con un Dio che crea”, per cui Egli viene, per così dire, “detronizzato”.22 La realtà di Dio viene trasfigurata nella realtà dell‟Idea platonica, il cui

20 21 22

Ivi, pagg. 97 e 98. Ivi, pagg. 100-101. Ivi, pag. 101.

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“compimento si realizza solo nel processo di ritorno del mondo diveniente nel suo principio” appunto ideale, giungendo per tale via alla “democratizzazione monistica del pensiero del divino”, in cui la creatura viene annullata nell‟infinito unico della sostanza universale, perdendo così la sua singolarità. Viene pertanto a mancare “il punto su cui orientare una sua scala stabile di valori”, ossia la stessa figura di Cristo, la eliminazione della cui posizione eccezionale inaugura “l‟umanizzazione e quindi la scristianizzazione della religione”.23 L‟ordo aristotelico è stato distrutto e il mondo è stato equiparato a Dio, ma senza un nuovo ordine valoriale: “omnia deificat, omnia annihilat, et annihilationem ponit deificationem”.24 Ma il panteismo preesisteva al Cusano, per cui la “singolarità” del suo pensiero va vista, secondo il Wenck, “nel secondo dei suoi principi distruttivi”, consistente nella “dichiarazione del fallimento del sapere”, nel senso della “impenetrabilità dell‟Assoluto”, di fronte al quale la ragione umana, finita, deve arrestarsi e dichiarare la sua filosofica impotenza. Ma questo era lo scotto che la stessa impostazione razionalistica doveva pagare per affermare la validità gnoseologica della ragione umana resasi indipendente dai fondamenti dogmatici. Cusano, come vedremo, non li nega affatto, ma li dichiara inconoscibili per via di ragione, sicché, nell‟atto di costituire il sapere filosofico come autonomo orizzonte di senso, ne limita la capacità gnostica proprio di fronte al suo oggetto più saliente, la conoscenza di Dio, introducendo surrettiziamente, accanto a uno scetticismo di tipo teologico, anche uno filosofico. Ed è proprio la dottrina della docta ignorantia che, “congiunta al principio panteistico, porta a conseguenze catastrofiche. Arrestarsi di fronte alla questione di Dio equivale, infatti, a una completa rinuncia a comprendere l‟essenza delle cose”.25 Una conoscenza infinita che non consegue mai il suo scopo è altrettanto distruttiva della asserita inconoscibilità definitiva di Dio, che segna, con l‟abbandono della logica aristotelica, “la fine di ogni speculazione teologico-scientifica”. Infatti, con la “eliminazione del principio di non contraddizione [e] con l‟introduzione del principio

23 24

25

Ivi, pag. 101 e n. J. Wenck, cit. in Ivi, pag. 102 n. 32. Ivi, pag. 102.

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della coincidenza degli opposti si rende problematica ogni conclusione e si sopprime ogni uso coerente della Scrittura”,26 per cui, senza più il supporto dei fondamenti ontologici della logica dialettica, il pensiero diventa “debole”. La stessa oscillazione in Cusano tra panteismo e teismo, tra verità di ragione e tesi pedagogica, tra ufficio curiale e libertà di pensiero, attesta la difficile determinazione storica del pensatore, che significativamente non coincide con la figura del politico. Ma è già di per sé significativo che, sia pure inconscia mete, possa sorgere un simile dilemma, che la volontà edificatoria favorevole al sistema ecclesiastico tradizionale entri in conflitto con la tendenza critica a riesaminarlo, giungendo a una mediazione di coscienza di tipo pedagogico, che rende estremamente complessa la situazione psicologica di Cusano, il quale, “anche là dove è consapevole di scostarsi dalla tradizione, crede semplicemente di sostenere e di far rivivere lo spirito del mondo passato”.27 Ossia di mantenere il livello di coscienza critica entro l‟orizzonte di senso religioso, ma non tradizionale. Il passaggio dalla antica alla nuova coscienza non è indicato tanto nel suo entusiasmo mistico, e neppure nel suo panteismo, quanto nella dottrina della docta ignorantia, la quale “presuppone una conversio, in quanto rappresenta il passaggio ad un livello di coscienza di tipo diverso”, a partire dal rapporto Dio-mondo. Il ricorso alla ignoranza quale punto di partenza, coincidente con la decisione di prescindere da tutta la sapienza passata e da ogni immutabile, è ricollegabile all‟atteggiamento socratico, il quale però affermava il punto di vista “dialettico” in senso critico verso la religione tradizionale, e non nel senso del suo inveramento. Ma all‟interno del cosmo religioso, definito dalla posizione fondamentale dell‟Essere divino, partire dall‟ignoranza ebbe il significato di “un orientamento fondamentalmente nuovo”, che, nella costruzione del nuovo “edificio” teoretico, pareva non utilizzasse “nessuna pietra di quello vecchio”, della tradizione teologica, anzi mostrando di disprezzarla per la sua ritenuta impreparazione a valutare la portata innovativa della nuova teologia.28 Ma come si poteva

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Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 108. Ivi, pag. 109.

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presumere un diverso atteggiamento intellettuale da parte di chi stava ingaggiando una strenua resistenza, o si apprestava a farlo, contro i fautori della dissoluzione del cosmo cristiano, i quali, assumendo una nuova coscienza critica, diversa da quella filosofica del passato, semplicemente tendevano a ridefinire in termini di verità scientifica ciò che sino ad allora era stato l‟universo di senso teologico, abbandonando, in questo innovativo cimento teoretico, ogni scrupolo di adattamento entro l‟antico orizzonte di fede. Di fronte a questa radicale alterità di vedute, non era possibile alcuna mediazione, ma solo una precaria e instabile coesistenza di duplici realtà in antitesi. E‟ opportuno aggiungere en passant che la presunta indifferenza religiosa della scienza, consustanziale all‟etica della sua neutralità verso i valori extra-sistemici, non è il portato di un recente atteggiamento psicologico di tipo nichilistico, portato in evidenza da Nietzsche, ma risale appunto agli albori dello scientismo razionalistico, sia classico che moderno, il quale si determina allorquando il fervore teoretico della critica mito-logica proietta la ragione in senso universalistico, facendo assumere al suo livello di coscienza un valore paradigmatico di un nuovo orizzonte di senso. E‟ a questo punto che l‟universo tradizionale appare un altro mondo rispetto alla nuova prospettiva universale, un mondo di sapere “mitico”, parallelo a quello scientificamente (in) fondato. Le due coscienze possono dividersi, ma anche convivere in uno stesso spirito, travagliato. Le due direzioni fondamentali del suo [di Cusano] pensiero vivono in lui con la stessa forza senza che nessuna delle due si lasci sottometter all‟altra; perciò egli ha posto l‟uno accanto all‟altro l‟atteggiamento critico e quello speculativo come ambiti categoriali della sapienza suprema posti su uno stesso piano, come campi che non si toccano ma che esistono ciascuno in forza di un diritto proprio.29

La consapevolezza di questa condizione autonoma della ragione, che rinuncia al suo fondamento ontologico di fede in cambio della sua astratta universalizzazione metodica, certamente si determina storicamente attraverso singoli momenti di coscienza critica, riferibili a distinte epoche e discipline del sapere, e ai suoi relativi storici cultori:

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Ivi, pag. 110.

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si pensi alla politica per Machiavelli e per Schmitt, o all‟estetica per Kant e per Croce. Ma tutti questi distinti momenti di coscienza critica, che caratterizzano nel loro insieme la tendenza di pensiero “moderna”, trovano in Niccolò Cusano il punto focale a quo dal quale si dirama lo spettro dell‟intero epocale orizzonte di sapere, che troverà il suo punto corrispettivo di unità di fuoco in Hegel, che rappresenta l‟approdo ad quem della conclusiva traiettoria del moderno, che segna anche la parabola dello stesso pensiero filosofico come “cultura di sapere”. Dopo Hegel, il sapere che non sia scientifico e voglia continuare ad essere “filosofico”, è un sapere di ritorno, un pensiero “nostico” (da nostos, ritorno) che torna a ripensare i classici così come la ratio medievale ripensava l‟antica fides, rielaborando così in termini nuovi e a volte originali il Mito pagano dell‟Essere come Idea. In altri termini, Cusano e Hegel rappresentano i due estremi dell‟epoca moderna e del suo tentativo di ricostituire l‟orizzonte di senso teologico costruito e puntellato nei secoli dal pensiero cristiano, in termini filosofici, ribaltandone la gerarchia dei livelli di coscienza e facendo pertanto della ragione il fondamento della fede. Ma ciò che era riuscito per tempo ad Agostino e a Tommaso, non riuscì, in termini inversi, agli ultimi grandi filosofi cristiani dell‟età moderna, Cusano, appunto, e Hegel. Il punto di partenza della dottrina della docta ignorantia è “l‟insufficienza d‟ogni processo conoscitivo”,30 cioè una posizione negativa che presuppone la sapienza per escluderla, per cui l‟asserzione dei limiti della conoscenza va a coincidere con la negazione della possibilità di stabilire un ordine gerarchico anche sapienziale, tale che, non riuscendo all‟uomo di conoscere – e di essere – Dio, la sua posizione nel mondo deve prescindere dalla divina presenza e il posto riservato all‟uomo nel mondo va definito non tenendo conto di Dio, rispetto al quale ogni verità ed essenze relative sono comunque simili e ugualmente irrilevanti. Questa teologia negativa porta con sé un fondamento nichilistico anche in ambito teoretico, dove la impossibile “verità” ripiega nella “certezza” delle cose sensibili e della loro possibile commisurazione empiricomatematica.

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Ivi, pag. 111.

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Di fronte a Dio ogni essere è eguale e ugualmente finito, ma nessun essere, per quanto simile, è uguale, cioè è sempre mancante di qualcosa che lo condanna a un‟eterna singolarità. Questo “fattore anarchico d‟individuazione assoluta” è “un residuo ineliminabile, che si oppone alla conoscenza in quanto differenza che non si lascia uguagliare a niente”, e che Cusano indica con l‟espressione socratica di “ignorantia”, intesa come insufficienza nella conoscenza del finito, che vale soprattutto per la conoscenza dell‟infinito, tanto che lo stesso concetto di verità include un elemento irrazionale ineliminabile, un numero, che è incalcolabile quanto la possibilità di definire “la circonferenza di un cerchio con grandezze finite”. Di conseguenza, questa proprietà costitutiva dell‟essenza del finito riduce tutte le affermazioni umane a semplici presunzioni ed approssimazioni, che nei confronti della verità stanno nello stesso rapporto in cui il più grande dei numeri sta nei confronti di un numero infinito. Il concetto di congettura non va inteso nel senso moderno di finzione [e] non ha il compito di fondare una filosofia del come-se, ma intende fondare una critica della ragione, senza sollevare il dubbio sul carattere generale e necessario di questa conoscenza.31

Ciò significa che è la stessa assolutezza della verità che, costituita come concetto-limite della conoscenza, conduce alla relatività delle cognizioni umane, condizionate dalla finitezza insuperabile della condizione ontologica dell‟uomo. Sicché, per un razionalismo che non intenda sollevare alcun dubbio sulla veridicità della fede, ma soltanto esprimere la consapevolezza della indimostrabilità dei suoi asserti dogmatici, non resta altro che misurare la sua credibilità sul piano delle relazioni finite, l‟unico in cui la ragione umana può ambire a una autonoma costituzione gnoseologica. La stessa sussistenza della fede, la sua possibilità d‟essere e di costituirsi come orizzonte di senso morale ed esistenziale, riserva alla ragione un livello di coscienza che, per non essere interferente, deve poter riguardare l‟ altro rispetto alla infinitezza di Dio, e cioè la dimensione finita, la cui natura diversa giustifica un approccio extra-teologico e iuxta propria principia, ossia razionale. La ragione, in questa prospettiva della finitezza ontologica, diventa l‟orizzonte di senso valido nell‟ambito della sua

31

Ivi, pag. 113.

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determinazione gnoseologica, la quale non è direttamente fondata sulla fede, ma neppure, non escludendola, contro la fede, e quindi vi si riferisce indirettamente, attraverso l‟accettazione del carattere finito della conoscenza umana, e quindi della condizione meramente ipotetica della ragione. Nell‟affermazione, apparentemente paradossale, dei limiti della ragione, il razionalismo progetta un cosmo autonomo regolato da un principio di validità che, al suo interno, e sia pure soltanto all‟ interno del suo orizzonte, si costituisce come “regola”, anziché come “verità”, ma che ha la stessa sua funzione discriminante che la dialettica platonica svolge nel campo ideale. Solo che, in questo caso, il diverso piano di realtà entro il quale tale regola agisce in senso discriminante, non volendo interferire con quello delle verità di fede, si ritaglia un orizzonte autonomo e non conflittuale con quello fideistico, entro il quale, però, la ragione è sovrana. Ecco che si delinea per la “regola” di ragione la possibilità di invalidare ogni altra costituzione di senso includendo nel suo “gioco” metodico l‟intera realtà umana e l‟intero processo esistenziale dell‟uomo. Stabilito così il suo orizzonte di validità relativa e ininterferente col piano di realtà assoluta, diventa inutile all‟interno della dimensione finita “sollevare il dubbio sul carattere generale e necessario” della capacità di “conoscenza” della realtà da parte della ragione. La conoscenza razionale stessa diventa un esercizio ludico sublimato in senso della serietà dalla sua antropologica utilità, la cui validità metodica empiricamente accertabile previene possibili commistioni col piano della verità di fede. Questa teoria, considerata all‟interno della situazione del tardo medioevo […], è uno sconvolgimento notevole delle certezze filosofiche. La diversità di ogni contenuto del pensiero in rapporto all‟originale, la deformazione del vero ad opera di organi conoscitivi insufficienti, mai, prima, era stata portata in maniera così inquietante alla coscienza come nel libro sul carattere ausiliario del sapere. Sulla linea di questi pensieri l‟Assoluto, Dio nel suo essere in sé, diviene un ignotum inespugnabile, che impone la rinuncia alla verità.32

Non bisogna perdere di vista la prospettiva unitariamente religiosa della teoria della conoscenza medievale, per cui la ragione era

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Ivi, pag. 113.

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considerata ancilla theologiae. Elitticamente, il discredito che si getta sullo strumento conoscitivo, inficia anche il suo fine metafisico, ossia la conoscenza di Dio, così che, se la fede nella sua esistenza non può essere intaccata dalla ragione, neppure può essere avvalorata dalla sua razionale conoscenza. A questo punto, fatta salva la verità intuitiva di Dio, la ragione dev‟essere destinata ad altri fini, più alla portata dell‟uomo. Emancipata dalla fede, la ragione resta orfana di Dio e serva dei fini dell‟uomo, strumento del suo potere. Il ratto neoprometeico del fuoco viene commesso questa volta in nome dell‟inutilità teoretica del suo servizio teologico. Le stesse rappresentazioni filosofiche di Dio che avanzano una pretesa di verità, non solo altro per Cusano che “proiezioni dello spirito conoscente”, inficiate dall‟insuperabile carattere individualistico della conoscenza, tale che “ogni singolo [uomo] ha un‟immagine particolare dell‟eterno”. La natura relativa di questa conoscenza è consustanziale alla condizione umana finita, per cui “non c‟è nulla che possa valere per tutti, che tutti siano in grado di vedere”, così come niente può impedire a ognuno di avere una sua immagine del mondo. La conseguenza è che “questo relativismo illimitato, minaccia di fare dell‟immagine religiosa del mondo una semplice „prospettiva‟, e della verità un mito che ciascuno si costruisce” secondo la propria “possibilità di visione”. La stessa conoscenza di Dio diventa così una “opinione” che sottostà inevitabilmente a una “falsificazione soggettiva”.33 Il nulla che s‟intravvede sullo sfondo di questa teoria gnoseologica si accompagna alla stessa incerta presenza della verità, legata non più al sostegno esplicativo della ragione, ma al sentimento ineffabile della fede, che era stata la premessa della stessa validità della ragione e che ora invece, nel divorzio dalla ragione, appare come assegnata all‟alea della sola credibilità soggettiva. Cusano cerca di difendere la verità di fede dalle indebite incursioni della ragione umana, preservando i dogmi dalla soggettività del sapere mondano e facendo della fede un piano di realtà umanamente non disponibile. Ma proprio la rottura dell‟equilibrio fede-ragione segna il destino spirituale dell‟età moderna, la quale, dalla prospettiva organica del cosmo cristiano, appare un‟epoca di progressiva decadenza,

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Ivi, pag. 114.

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mascherata dall‟esaltazione storicistica della relatività dei valori del tempo, ossia dalla loro sistematica neutralizzazione, coincidente con la metodica affermazione della logica scientifica che caratterizza il disincantamento razionalistico del mondo moderno. La progressiva universalizzazione del livello di coscienza razionalistico, ai fini dell‟affermazione globale della sua Weltanschauung, viene creduta essere la tendenza più significativa del processo storico moderno, alla quale ogni altra deve essere ragionevolmente subordinata per poter condividere il suo orizzonte di senso e così partecipare della sua idealità. Ma prefigurando la possibilità ideale di una storica società globale, il razionalismo ripropone il motivo classico della pòlis razionale, sia pure di dimensione universale, nel tentativo, anch‟esso platonico, di esautorare la funzione meramente contemplativa degli archetipi metafisici in favore di una loro conversione di senso a un orizzonte pragmatico dominato dalla logica della pòlis, cioè dalla “politica”. Nella prospettiva storica razionalistica, il processo spirituale dell‟età moderna si sviluppa nei termini di una rielaborazione del Mito idealistico platonico, il cui carattere mito-logico è assegnato ala luce del concetto di verità cristiano, incentrato sul sentimento del Mistero, e non sull‟intuizione dell‟Essere. Screditare la ragione del mondo, significava per un sapiente cristiano screditare le ragioni politiche del mondo. Ma a tal fine il servigio reso dalla filosofia classica si è col tempo rivelato “ambiguo”, sospesa tra la antica funzione di critica del Mito e la nuova funzione ermeneutica ad esegesi delle Sacre Scritture. Contro l‟insorgenza dell‟antica vocazione, la teologia del Mistero ha sempre opposto l‟inconoscibilità di Dio, e quindi la vanità della ragione umana, per cui ogni affermazione della verità di Dio doveva partire dalla negazione per giungere all‟Essere come creazione spirituale, anziché, idealisticamente, dall‟Essere per giungere alla sua negazione come trasformazione razionale. Ma proprio la conferma dell‟ontologia idealistica nell‟orizzonte di senso cristiano attraverso la sintesi patristica, ha generato la emancipazione della ragione dalla teologia come affermazione dell‟Essere sul Negativo, in termini di critica razionalistica del Mito della verità di Dio. 2. Anche Cusano imposta la sua relazione uomo-Dio sull‟analogia con la teoria platonica delle idee. L‟ exemplar sive idea è un modello, il fondamento razionale, della realtà, per cui Dio è in rapporto con la 323


Natura in senso ideale, e non organico né meccanico, ma come Creatore e creatura. “Sono lo stesso essere sotto la forma della possibilità e sotto quella della realtà: Dio non va perduto del tutto, né scompare, né se ne distingue o vi si oppone in maniera dualistica”.34 A questo punto interviene Cusano per dare alla teoria platonica una svolta dualistica, superando il monismo originario; infatti egli “intende trovare Dio mediante sottrazione dell‟ente finito”, in modo che “l‟infinito” possa ricavarsi attraverso una sottrazione di “tutte le particelle che partecipano dell‟infinito”, lasciandolo nella sua “incontaminata purezza”: “Hoc nunc clare videmus quomodo deum per remotioem partecipationis entium invenimus” (De docta ignorantia, I, cap. 17). Come l‟artista toglie dal blocco di legno tutto ciò che non rientra nella figura di sovrano che intende scolpire, così si deve rigettare ogni limite e determinazione concreta e la ragione stessa, per riconoscere semplicemente che Dio comincia dietro ogni cosa e sopra ogni cosa. Ma questo sopra-tutto è al tempo stesso un niente di tutto, una riduzione a zero.35

La teologia negativa elimina ogni pensiero e ogni possibilità di conoscenza, terrena o ultra-terrena, producendo il “vacuum” della fine di ogni vita. Infatti, è vivo solo ciò che sta nella decisione in cui un sì e un no si affrontano. Ma queste alternative in Dio appunto sono tolte, e per questo è errato ed incompleto attribuirgli il predicato dell‟immortalità senza aggiungere quello di luce, di grazia, etc. Questi concetti sono condizionati dal loro contrario e per questo non esaustivi. Solo la coincidenza degli opposti è l‟ambito della verità.36

Rispetto al “concetto concreto” hegeliano, che è l‟unità degli opposti, in Cusano “la strada che parte dalla contraddizione non è la visione sintetica, ma la negazione. La speculazione è in grado di dire solo

34 35 36

Ivi, pag. 115. Ibidem. Ivi, pag. 116.

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quello che Dio non è”.37 Ma il processo gnoseologico negativo “non lascia in piedi alcuna formulazione, per quanto negativa essa sia”, per cui la stessa realtà di Dio è definibile per negazione sia del suo essere che del suo non-essere, e la stessa “affermazione dell‟impossibilità di dare un nome a Dio è altrettanto flsa di quella contraria e della sintesi dei due modi di vedere”, restando infine “solo il caos del vuoto” prodotto dalla “excellentia infinitatis”.38 “La ragione”, afferma Cusano a commento di Alberto Magno lettore della Theologia mystica di Dionigi, “sfugge questa notte [che è “l‟oscurità” provata dalla “ammissione dei contrari”] e non si arrischia ad entrarvi, non pervenendo così “alla visione dell‟invisibile”, cui si perviene attraverso un “processo di svuotamento che, partendo dal concetto di infinità, attraverso la coincidenza e la negazione, sale fino al semplicemente „incomprensibile‟ ”; il quale “non è più una proprietà dell‟oggetto (scomparso), bensì uno stato del conoscere, il nirvana del sapere. Con un‟aggravante: “il sovra-razionalismo occidentale non è un‟ebbrezza o un accecamento, ma l‟esperienza dell‟estremo annullamento dell‟intelletto”.39 Al posto di Dio, si pone il vuoto della sfiducia nella conoscenza, e l‟opera di Cusano non fa che procedere alla progressiva erosione di ogni certezza, tanto che, in seguito, da quelle premesse, si procedette alla inconoscibilità dell‟essenza (“quidditas”) delle cose e del modo in generale. Le molteplici ipotesi conoscitive sono portate a differenziarsi vieppiù a causa del carattere singolare del finito, che appunto moltiplica i punti di vista fino a rendere “impossibile la comprensione reciproca delle singolarità”, aprendo la strada a un “relativismo assoluto, che riconosce la differenza di infinite opinioni”, laddove “una conoscenza adeguata non si adatterebbe alle condizioni della comunicazione”.40 A seguito della sua “capacità sincretistica di nascondere le contraddizioni, che costituisce il suo forte legame col medioevo”, induce lo Stadelmann a escludere, contrariamente al parere di Cassirer, che si possa “parlare, a suo riguardo, di una disposizione d‟animo

37 38 39 40

Ibidem. Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 119.

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moderna”, aggiungendo che lo stesso “bisogno di astrazione” avvertito da Cusano “trova soddisfazione”, ossia la possibilità di una mediazione logica con i fondamenti della fede, “all‟internodi un universo di immagini religiose di carattere estetico e ingenuo: i simboli”, i quali sono sia “raffigurazioni del divino destinate a promuovere la conoscenza”, e sia “paradigmi funzionali secondo cui rappresentare matematicamente […] i rapporti dell‟infinito”.41 Che è poi la via attraverso la quale Cusano riabilita la logica aristotelica, e quindi la “possibilità di accedere al principio originario” per via mistica positiva. La conoscenza di Dio può essere raggiunta dunque per via intuitiva, come visione appunto intuitiva, la quale, “come terzo grado di conoscenza alla maniera platonica, succede al conoscere sensibile e al pensiero razionale”.42 Si parla così di “estasi” e di “ascolto interno”, di “pienezza e di beatitudine”, quali metodi di tipo profetico estranei a una mistica del nulla e “concava”,43 la cui visione però non garantisce alcuna speculazione pura. Ciò nonostante Nel suo fondo, quella di Cusano non è una natura mistica. Quello che egli ha posto è solo il grandioso inizio di un tentativo di dare un segno positivo alla negazione mediante la visio, di sottrarsi al criticismo per mezzo dei concetti mistici e di trovare un elemento di connessione tra ignoranza e conoscenza devota di Dio. E‟ questo il punto in cui la mistica si innesta sulle due tendenze fondamentali del pensiero di Cusano. 44

Il suo concetto di “incomprehensibiliter” oscilla contraddittoriamente tra un senso agnostico e uno irrazionale, per cui l‟essere venga sia conosciuto che riconosciuto come inconoscibile. Vi è in Cusano un‟alternarsi di mistica e di scepsi, e il tratto del suo spirito tedesco all‟armonia sintetica anziché agli “urti radicali”. Da qui la sua attrazione verso la mistica, che “consente i nessi più flessibili”.45

41 42

Ivi, pag. 127. Ibidem.

43

Nella storia dell‟arte, si parla di “plastica concava dove gli spazi vuoti hanno un valore espressivo pari o maggiore di quello delle masse corporee”. La filosofia di Cusano, per analogia, è stata definita come una “mistica concava”: Ivi, pag. 135. 44 45

Ivi, pagg. 128-129. Ivi, pag. 131.

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Infatti, alla “scepsi mistica” si deve quel “mutamento del senso della vita” che ha provocato una rinnovata attenzione per l figura, anzi per il mito, di Socrate.46 Già Agostino aveva attribuito grande importanza religiosa alla “ignorantia” come premessa della filosofia morale socratica. Infatti la “vita beata” diventava l‟unico tema filosofico esperibile con certezza della sua riflessione. Ma Agostino “ritiene più corretta un‟altra interpretazione”, secondo la quale Socrate non ha rinunciato per principio alla conoscenza del mondo esterno, ma ha soltanto voluto costruire una base più pura, liberando l‟animo dalle passioni che ostacolano la conoscenza di Dio e della natura. Per il grande Padre della chiesa, l‟essenza della filosofia socratica è un processo di purificazione, etico e mistico, che ha lo scopo di rendere l‟animo capace di “innalzarsi all‟eterno mediante le sue forze naturali”, di estendersi verso il divino e, con ciò, di “cogliere nella purezza della conoscenza” le cause di tutti i fatti naturali.

La rappresentazione agostiniana di Socrate risente della lettura cristiana della cultura pagana come un sapere di attesa dell‟evento illuminante e liberatorio della Rivelazione, per cui anche il filosofo ateniese viene “isolato dal suo contesto storico-religioso e purificato da ogni negatività, dall‟agnosticismo come dalla rassegnazione”, allo scopo di presentarlo come “un precursore del cristianesimo” che, aspirando alla vera sapienza “assetata di salvezza, […] incarna l‟insufficienza della saggezza pagana”, per cui la “confessione di ignoranza” di Socrate tradisce solo “il desiderio di un sapere più alto”, di cui “il suo dolore è un presentimento”.47 Per Cusano, invece, Socrate è una “figura indipendente, in posizione critica verso il passato, il solo che si liberi dalle forme del sapere positivo della tradizione e che abbia il coraggio di un sapere che proviene interamente da lui stesso”.48 La sua opposizione alla sofistica contesta il potere dell‟ortodossia, che credono di essere “filosofi” solo perché parlano la stessa lingua del potere. La novità della sua speculazione ridiede nella confessione di “ignoranza”, la quale stabilisce in negativo, sul piano del non-sapere, una condizione 46 47 48

Ivi, pag. 132. [Ivi, pag. 133. Ibidemi.

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paritetica tra gli interlocutori, che annulla le differenze sociali e politiche. Ma proprio questa posizione di insubordinazione al sapere convenzionale fa del suo atteggiamento uno scetticismo radicale che, caricato di un pathos nuovo, si pone al di sopra dell‟uomo comune abbisognevole di un‟ingenua sicurezza. Il non-sapere, come atteggiamento socializzato, diventa “l‟ultima parola nell‟interpretazione del mondo e nel rapporto col sovrasensibile”,49 cioè l‟espressione di una estrema saggezza che, sicura della sua predisposizione alla conoscenza della verità oggettiva, comune, e non alla semplice perorazione personale della causa soggettivamente utile, si offre alla verifica dialettica pubblicamente, fuori di un qualunque orizzonte di senso prestabilito, ossia dei pregiudizi comuni. L‟esposizione politica del processo del sapere lo rende verificabile, facendo della filosofia una scienza essoterica, accessibile a ogni uomo di buona volontà, disposto alla fatica del comprendere. La conversazione filosofica, consentendo alle singole coscienza di convergere in un comune risultato di ragione, svolge anch‟essa una funzione “mistica” in senso sociologico, poiché “trasforma in fede un non sapere”. Il momento politico di questa attività teoretica risiede nella sua indissolubilità con il piano esistenziale della vita, che si fonde misticamente con il piano intellettuale, poiché “la mistica vive di ciò che riceve dall‟intelletto”.50 La ripresa dell‟atteggiamento socratico come prototipo della docta ignorantia ha avuto lungo il sec. XV una funzione polemica antiscolastica, allorquando si registra una trasposizione “dello statico nel dinamico, del tattile nel visivo, del sostanziale nel funzionale” che anticipa “un‟inquietudine romantica del sentimento vitale” e che coinvolge anche la speculazione di Cusano nel senso di “un simile spostamento dall‟oggettivo e statico al soggettivo e in movimento, dall‟originale all‟immagine”, dovuto alla sua introduzione di “quello che, fino ad ora, era stato il concetto fondamentale della metafisica nella teoria della conoscenza, facendo „passare il carattere di infinità dall‟oggetto della conoscenza alla funzione della conoscenza‟

49 50

Ivi, pag. 133. Ivi, pag. 135.

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(Cassirer)”. 51 Ciò che precede ogni conoscenza è anche quanto “sta al di là di ogni metafisica”, e perciò il suo contenuto è “absconditus” e inaccessibile alla ragione. La dottrina del deus absconditus di Cusano costituisce “il contributo tedesco all‟interno dissolvimento dell‟immagine medievale del mondo”, intaccando i fondamenti metafisici della scolastica appunto “dall‟interno”, e non invece “dall‟esterno, come gli umanisti spesso hanno fatto”.52 Ma, oltre alla idea di “ignorantia”, ha agito in senso demolitore anche un atteggiamento individualistico presente soprattutto nelle cerchie di “pietà moderna”, diffuse soprattutto nei Paesi Bassi. Esso spostò decisamente l‟accento della fede dal terreno della conoscenza a quello della interiore sensibilità morale. Campione di tale tendenza è il De imitazione Christi di Tommaso da Kempis, in cui la volontà di sapere (scrutari) si rappresenta come curiosità esteriore della natura sensibile e superficiale, lontana del tutto dal percorso della grazia, per cui “l‟indagare è incompatibile con la devotio”, in quanto “le profondità dei misteri di Dio e del mondo non rientrano nella fede e nella vita dell‟uomo devoto”, cui bastano “per il suo cammino semplice e diritto” i “comandamenti di Dio”.53 La fede sostituisce il bisogno di verità, in quanto le verità di fede costituiscono un ordine cosmico che la ricerca filosofica trascura per intraprendere un viaggio impossibile attraverso il mistero, destabilizzando le certezze orientative nella vita umana. Questo pragmatismo religioso, che riguarda le questioni di fede solo in termini di vita buona e pura, (beata simplicitas), stabilisce un implicito primato della dimensione pratica su quella teoretica, nel senso della completezza dell‟orizzonte della fede rispetto alla parzialità e astrattezza del livello di coscienza meramente razionale. L‟ideale della “simplicitas” sopravanza la fragile ragione, la quale, diversamente dalla vera fede, rimane pur sempre esposta all‟errore. E all‟interno dell‟orizzonte della fede la “ignorantia” è la virtù dell‟uomo devoto, e, in quanto merito morale, “sacra ignorantia”. Questa, intesa come

51 52

Ivi, pag. 136. Ibidem.

53

Ivi, pag. 137. “Beata simplicitas quae difficiles quaestionum relinquit via set plana ac firma pergit semita mandato rum Dei”: De imitazione Christi, IV, 18.

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astensione dal sapere, è connessa al “dovere dell‟umiltà e del disprezzo di sé [che] esige non solo che ci si astenga da tutto ciò che è alto e grandioso, da ciò che è illimitato e misterioso, ma anche […] da coloro che hanno un sapere anche solo relativamente superiore”.54 Costoro, infatti, non aggiungono sapere a sapere, cioè non sono più sapienti degli ignoranti, ma sono le anime perdute nel labirinto illusorio di una impossibile conoscenza della verità, il cui vano cimento impegna la superbia dell‟uomo in direzione dello smarrimento delle “tracce” della tradizione, la “diritta via” smarrita da Dante. E proprio la consapevolezza superiore della impossibilità della conoscenza, lascia il posto alla modesta humilitas, che sa di non poter contare sul sapere per sortire dalla “selva oscura” del mistero del mondo e di Dio, facendone perciò solo un‟occasione morale.55 Il fine morale era il tenimento dei valori sociali, la affermazione della charitas come sentimento sociale di conservazione della comunità. Il pragmatismo sociale corregge – o riempie – il vuoto dottrinario. Emerge l‟inaccessibile singolarità della coscienza individuale come ostacolo a ogni sapere generale, che richiede mediazioni per la sua definizione. Il tono pessimistico accompagna questa consapevolezza della natura umana e della sua fragile condizione, che solo l‟umanesimo volgerà in valore positivo. Intanto l‟individualismo critico procede alla demolizione delle basi del Medioevo, fino alla scoperta della libertà dell‟uomo, la cui incomprensibilità di ciò che è esterno all‟io, libera dal‟obbligo verso ogni causa di verità, verso ogni sistema consolidato, insomma verso ogni autorità, fosse pure quella del Papa.56 Si produce un “capovolgimento” di atteggiamento morale “sulla base di una direzione e fondazione specifiche della teoria del non sapere” che sfocia in “un tipo di solipsismo di cui si vedrà ben presto il pericolo”, e che seguirà “una uova tappa nella storia dell‟ ignorantia”.57

54

Ivi, pag. 138.

55

“Il non sapere di Cusano, nonostante il suo agnosticismo, era pur sempre più vero del preteso sapere, mentre la ignorantia di Tommaso da Kempis è solo più avvertita e moralmente superiore alla volontà di sapere. Alla scepsi speculativa se n‟è aggiunta un‟altra quietistica, indice ancor più chiaro di un‟epoca che invecchia”: Ivi, pag. 139. 56 Ivi, pag. 140. 57

Ivi, pag. 141.

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3. Nella De docta ignorantia, Cusano riferisce che il principio sul quale si fonda la sua filosofia, e cioè l‟antitesi tra la “complicatio” e la “esplicatio”, gli apparve improvvisamente come una luminosa intuizione, “non mediata da conclusioni sillogistiche” ma come “un dono di Dio”.58 Ma per comprendere il senso innovatore della teoria della “docta ignorantia” e l‟annessa teoria della “coincidentia oppositorum”, occorre partir dalla sintesi medievale del pensiero scolastico offerta dallo Pseudo-Aeropagita, il quale elabora la “concezione fondamentale che il Medioevo ha di Dio e del mondo”. Il significato [dei suoi] scritti consiste nel fatto che in essi, per la prima volta, si incontrano e concrescono, strettamente riuniti in unità, entrambe le forze ed entrambi i motivi fondamentali sui quali riposano la fede e la scienza del medioevo; nel fatto che qui si compie la vera e propria fusione della dottrina cristiana della salute con la speculazione ellenistica. 59

A partire dall‟ordine gerarchico del cosmo, dei “gradi del cosmo”, che la speculazione neo-platonica offriva al cristianesimo, dividendo il mondo in una realtà superiore e intelligibile, e una inferiore e sensibile, le quali semi-mondi “non solo sono contrapposti gli uni agli altri, ma hanno la loro essenza proprio in questa negazione reciproca, nella loro opposta polarizzazione”. Tra le due realtà, nondimeno, si tende un “legame spirituale” attraverso “una via ininterrotta di mediazione” che include “l‟intero processo della redenzione” e che va dalla “forma assoluta fin giù alla materia”.60 L‟ordine cosmico procede da Dio e si concentra in Dio, che è “origine e meta di tutte le cose”, “sorgente originaria dell‟essere della vita”. Questa cosmologia riflette la perfetta riproduzione dell‟ordine spirituale e dell‟ordine ecclesiastico, di cui costituisce la giustificazione e la vera teodicea, per cui “la cosmologia e la fede medievali, l‟idea dell‟ordine universale e quella dell‟ordine salutare morale-religioso confluiscono qui in un‟unica visione fondamentale, in un quadro che è in sommo grado pregnante e

58

E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), tr. it., Firenze, 1935, pag. 20. 59 Ivi, pag. 22. 60

Ibidem.

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intimamente conseguente”.61 “Niccolò Cusano non ha mai contestato quello quadro” e anzi pare che “lo presupponga”. Ma nel contempo si affaccia nella nella De docta ignorantia “un pensiero che si richiama ad un orientamento spirituale totalitario completamente nuovo”, che, partendo dalla contrapposizione tra l‟essere assoluto e l‟essere empirico, tra l‟infinito e il finito, non l‟afferma dogmaticamente ma a partire dalle condizioni della conoscenza umana. Ed è “questo suo porsi di fronte al problema gnoseologico che fa del Cusano il primo pensatore moderno”.62 La tesi del Cassirer pare opposta a quella surriferita dello Stadelmann, ma in realtà le due prospettive sono complementari, in quanto l‟aspetto “moderno” si desume come conseguente all‟ammissione della inconoscibilità di Dio, la quale, nell‟orizzonte della fede medievale, costituiva una salvaguardia della legittimità della conoscenza teologica come l‟unica “vera”, e non già, come invece nel senso moderno, della praticabilità gnoseologica della sola ragione. L‟atteggiamento caratteristico dell‟uno è ciò che manca nell‟altro sapere, ossia la fede, la cui presenza fa, secondo la concezione medievale, della ratio un suo strumento di conoscenza, e la cui mancanza fa della stessa ratio un fine conoscitivo in senso moderno, metodicamente perseguibile. Cusano parte dalla constatazione che nessuna dottrina filosofica o teologica ha dato risposte soddisfacenti alla natura e conoscenza di Dio. Infatti ogni sapere presuppone una comparazione, e quindi un‟unità omogenea di misura, che non può investire un oggetto assoluto, che “per definizione, è posto fuori della sfera di ogni possibile paragone o misura e, quindi, d‟ogni possibile conoscenza”. Finiti et infiniti nulla proporzio. L‟intervallo tra finito ed infinito rimane sempre lo stesso, per quanti termini noi possiamo intercalare tra i due. Non vi è nessun metodo razionale del pensiero, nessun procedimento discorsivo che, aggiungendo elemento ad elemento e trapassando di elemento in elemento, possa colmare l‟abisso che s‟apre tra i due estremi, che possa portare dall‟uno all‟altro. 63

61 62

63

Ivi, pag. 23. Ivi, pag. 24. Ivi, pag. 25.

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Con questa teoria, si taglia di netto “il legame che aveva tenuto, fino ad ora, unite l‟una all‟altra la teologia e la logica scolastica”,64 che era stata “un organo della teologia speculativa”. 65 Secondo la prospettiva di Cusano, la logica aristotelica, fondata “sul principio del terzo escluso”, è una “logica del finito, tale quindi che deve, sempre e necessariamente, far atto di rinuncia là dove si tratti della visione dell‟infinito”, essendo “tutti i suoi concetti, concetti di paragone [che] poggiano sulla riunione dell‟uguale e del simile e sulla separazione del diverso e del dissimile”. [Ivi, pag. 27.] Attraverso la logica della distinzione e del paragone, “l‟essere empirico si smembra in determinati generi e specie, che stanno tra loro in uno stretto rapporto di subordinazione”. Ma l‟arte logica tesa a trovare “termini medi” di collegamento, spontaneo o sillogistico, “onde riunire in tal modo, in uno stretto e determinato ordine di pensiero, l‟astratto ed il concreto, l‟universale ed il particolare”, pur riuscendo a scoprire “le dissomiglianze e le diversità, le concordanze e le opposizioni del finito”, non può “mai prendere in questa rete di concetti logici di genere l‟assoluto, l‟incondizionato, che, come tale, è al di là di ogni paragone”, per cui una tale logica del finito non serve per “pensare l‟assoluto, l‟infinito”. Oltre la sfera del finito non può giungere alcuna teologia “razionale”, ma solo una “teologia mistica”, di tipo intellettuale, e non sentimentale. Il vero amore di Dio è amor Dei intellectualis: include in sé la conoscenza quale momento necessario e quale necessaria condizione; [anche del bene. Infatti,] quello che viene sempre amato, vien, con ciò stesso, posto sotto l‟idea del bene, vien concepito “sub ratione boni”.66

L‟essere divino, incondizionato, si nega alla conoscenza discorsiva per puri concetti, e si può cogliere solo attraverso la “visio intellectualis”, che va oltre ogni opposizione empirica dell‟essere e delle sue

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Ibidem. Ivi, pag. 26. Ivi, pag. 28.

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distinzioni concettuali, “nella sua origine semplice”.67 Ma cos‟è codesto “punto che sta al di là d‟ogni separazione e opposizione”?68 L‟orizzonte di senso totalizzante, inclusivo di ogni distinzione perché comprensivo di ogni opposizione, è quello del Mito, cioè della visione intuitiva dell‟Essere in cui questo si dà come Totalità indistinta.69 Abbandonata la logica scolastica, Cusano cerca una nuova, e la trova nella matematica, dove l‟assolutamente grande e l‟assolutamente piccolo coincidono. Ma proprio tale coincidenza riporta il pensiero nell‟ambito di una concezione mitica dell‟Essere. Non a caso l‟umanesimo quattrocentesco, ponendosi il problema del primato filosofico, l‟attribuisce a Platone, anziché ad Aristotile. Ma Cusano fu “il primo pensatore occidentale al quale sia stato dato di giunger ad una interpretazione personale delle fonti essenziali della dottrina platonica”, capitanando egli la delegazione che si recò al Concilio di Basilea in Grecia. “A partire da questo momento i suoi scritti ce lo mostrano in continuo contatto con tali fonti ed in ininterrotto dialogo spirituale con esse”.70 In seguito alla sua critica sistematica del pensiero platonico e neo-platonico, la speculazione del Cusano diventa il campo di battaglia sul quale elementi di pensiero, che si mescolano indistintamente nella filosofia medievale, si incontrano, si riconoscono, e si provano l‟un contro l‟altro. Da questa lotta […] nasce una nuova spiegazione metodica del senso originario del platonismo e

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Ivi, pag. 29. Ibidem.

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La conoscenza intuitiva dell‟Essere è “indistinta” perché “totale”, e perciò non può riguardare, come credeva Croce, la cosa particolare, la cui determinazione esistentiva è già una qualificazione razionale. Infatti, la particolarità implica la distinzione, che è operazione logica. L‟intuizione, invece, coglie l‟Essere come Totalità indistinta, e quindi coincidente con lo stesso Essere ideale. il “come” sta a indicare la condizione di credenza in cui si porta in evidenza l‟Essere intuito: la credenza appunto che l‟Essere stesso coincida con la sua Idea, la quale pensa l‟Essere nella sua attualità priva di possibilità, cioè astrattamente positivo e senza la sua negazione che ne consente il divenire temporale. La distinzione logica interviene a determinate gli enti all‟interno del senso ideale dell‟Essere, cioè dell‟ontologia del monismo idealistico. Ciò che l‟intuizione coglie come Tutto e la logica come distinto è lo stesso Essere ideale, pensato come Idea. 70 Ivi, pag. 32

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ristabilisce una nuova linea che separa da un lato Platone da Aristotele, dall‟altro Platone dal neoplatonismo. 71

Mondo “visibile” () versus mondo “invisibile” (), l‟uno opposto () dell‟altro. Apparenza () e idea (), mondo fenomenico e mondo noumenico, non si mescolano mai, né trapassano uno nell‟altro, poiché la separazione () fra i due non può essere tolta, sicché l‟, i , e gli , i , non possono unirsi. La partecipazione (), che è l‟opposto della separazione, può essere pensata solo in rapporto all‟altra. “Nella definizione del sapere empirico entrambi i momenti sono necessariamente inclusi e collegati l‟uno con l‟altro. Infatti non è possibile un sapere empirico che non si riferisca a un essere ideale e ad un ideale essere-così”, anche se nessun sapere empirico può contenere la verità di questo ideale comprendendola in sé come elemento. Il “carattere dell‟empirico” è la sua “illimitata determinabilità”, mentre il carattere dell‟ “ideale” è invece la “delimitazione e la determinatezza necessaria ed univoca. Ma la determinabilità è solo possibile in relazione alla determinatezza, che le conferisce forma e direzione stabili”.72 Da qui il loro rapporto la insuperabile alterità, ma anche l‟origine del sapere ignorante, ovvero la ignoranza cosciente. Infatti, tutto il sapere empirico, per quanto esatto, è destinato a essere superato, restando perciò una “supposizione”, una ipotesi, ovvero come dirà a suo tempo Popper mutuando la terminologia cusaniana, una “congettura” (conjectura). Ma proprio la coscienza dell‟insopprimibile alterità ontologica consente una dottrina positiva dell‟esperienza come “partecipazione” alla verità dello “altro”. La verità una, inafferrabile nel suo essere assoluto, può, per noi, esprimersi solo nella sfera dell‟alterità, [rinunciando] ad ogni identità, ad ogni sconfinamento di una sfera nell‟altra, ad ogni attenuazione del dualismo, [possiamo conferire] al nostro conoscere il suo relativo diritto e la sua verità relativa. [Infatti] la separazione è ciò che, impedendo la coincidenza, insegnando a vedere l‟Uno nell‟altro e l‟altro nell‟Uno, garantisce la

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Ivi, pag. 33 Ivi, pag. 43.

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possibilità della vera partecipazione del sensibile all‟ideale. 73

Partendo da considerazioni di gnoseologia generale, Cusano giunge al principio della “relatività del movimento” e alla dottrina del “moto della terra”. Mentre la fisica medievale si basava sulla dottrina aristotelica dei quattro elementi collocati nel loro ordine stabilito, la concezione di Cusano non “ordina in una successione unica l‟elemento celeste e i quattro elementi terrestri, in una successione spaziale cioè che è, al tempo stesso, una successione di valori”, tale che “quanto più alto è posto un elemento sulla scala cosmica, tanto più prossimo esso è all‟immobile motore del mondo e, conseguentemente, tanto più pura e perfetta ne è la natura”, ma dispone una stessa distanza tra sensibile e sovrasensibile, per cui quando l‟intervallo, come tale, è infinito, si annullano le differenze finite, relative [e] ogni elemento, ogni essere naturale, è perciò, se noi lo confrontiamo con l‟origine divina dell‟essere, ugualmente distante ed ugualmente vicino a questa origine. Non vi è più, ormai, nessun “sopra” e nessun “sotto”, ma solo un cosmo unico, omogeneo in se stesso che, in qunto cosmo empirico, si contrappone all‟essere assoluto.

partecipando della natura assoluta per quanto sia dato al sensibile dalla sua natura.74 ma ciò che per Cusano priva di ogni valore di verità il sistema cosmologico aristotelico e scolastico, è la sua composizione di due elementi inconciliabili, l‟empirico e l‟ideale. Nel cosmo come non troviamo una sfera perfetta, così non troviamo neppure un‟orbita rigidamente esatta; esso rimane dunque, come tutto ciò che è sensibilmente percepibile, nel campo dell‟indeterminato, del semplice “più o meno”.

La mancanza di perfezione nulla toglie comunque al suo posto tra gli astri, ognuno dei quali ha un “valore impareggiabile”. Da qui si evince che “il nuovo orientamento astronomico, che porta al rifiuto della concezione geocentrica del mondo, pel Cusano non sia stato altro che

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Ivi, pag. 44. Ivi, pagg. 47-48.

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la conseguenza e l‟espressione di un mutato orientamento spirituale”.75 La cosmologia sua ignora un centro fisico del mondo, nn avendo questo una forma geometrica definita, estendendosi spazialmente nell‟indeterminato, e perciò non può avere un centro localmente determinato. La sua centralità, pertanto, non può esser oggetto della fisica ma della metafisica.76 Essendo la centralità di Dio puramente spirituale, ne viene una nuova concezione della religione, per cui, così come, nell‟universo fisico, ogni ente è allo stesso modo collegato alla stessa legislazione universale, così vale per l‟essere spirituale, che ha il suo centro solo in se stesso. Però, l‟individualità non costituisce un semplice limite, ma bensì un valore particolare, che non può essere né uguagliato agli altri né distrutto, perché solo per suo mezzo l‟Uno, che è “al di là dell‟essere”, diviene, per noi, concepibile.

E così, la diversità e la differenza tra le creature non può essere cagione di contrasto fra loro e con l‟unità e l‟universalità della religione, ma piuttosto la “espressione necessaria di tale universalità”.77 Nell‟opera De pace fidei (1454) si mostra l‟assurdità della lotta tra le religioni, dal momento che tutte tendono allo stesso fine e allo stesso Essere, che, in sé inconoscibile, si mostra nell‟aspetto sotto il quale può venir inteso. 78 Pertanto “una sola è la religione, pur nella varietà dei riti”. Così viene mantenuta la pretesa di una religione universale, la pretesa di una “cattolicità” che si estenda a tutto il mondo; ma essa acquista, in confronto al modo medievale-ecclesiastico di intenderla, un senso affatto nuovo e una nuova base. Il contenuto stesso della fede, in quanto non può mai essere altro che contenuto di rappresentazioni umane, è divenuto “conjectura”; è sottoposto alla condizione di dover esprimere l‟essere uno e la verità una solo nella forma della “alterità”, [la quale] ha le sue radici nel modo e nell‟essenza del conoscere umano [e dalla quale] non può sottrarsi nessuna forma di fede.

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Ivi, pag. 50. Ibidem. Ivi, pag. 152. Ibidem.

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La verità inaccessibile può conoscersi solo come “alterità”, come , di cui l‟ è il suo “momento fondamentale”.79 Qui il rapporto non è più tra una “ortodossia” di valore universale e una molteplicità di versioni “eterodosse”, ma una molteplicità di fedi ognuna giustificata da una necessità metafisica e che ha un fondamento gnoseologico. Non sulla differenza empirica va vista la (impossibile a realizzarsi) necessità unitaria, perché le “opere” umane hanno sempre una loro particolarità insopprimibile, ma l‟unità va vista nella “fede”, per cui La differenza dei riti non costituisce più un ostacolo, perché tutte le forme e tutti gli usi son solo segni sensibili della verità della fede e solo questi segni, e non già ciò che designano, è soggetto a cambiamento e a mutamento. 80

Da qui il relativismo delle forme religiose, ognuna giustificata e valida, e l‟individualismo antropologico. “L‟individuo considerato dal punto di vista religioso, non costituisce un antitesi all‟universale, ma, piuttosto, il vero compimento di questo”.81 Non si può pertanto conceire l‟assoluto in sé al di fuori di una sua particolare determinazione individuale, la quale è una “totalità concreta” che ci rappresenta mediatamente “un‟immagine veridica del tutto”. Ogni prospettiva di Dio risente sia della natura dello “oggetto” che di quella del “soggetto”, e solo Dio può vedersi in se stesso, mentre ognuno può vedersi solo in Dio. “Non v‟è espressione quantitativa, non vi è espressione che sia legata all‟antitesi di „parte‟ e di „tutto‟ la quale sia adatta a caratterizzare questo puro essere l’un nell’altro”.82 Nel pensiero medievale il motivo della redenzione ha essenzialmente il significato della liberazione dal mondo: elevazione degli uomini al di sopra della bassa esistenza terrestre sensibile. Il Cusano non lascia più però sussistere tale divisine tra uomo e natura […]. Il “regnum gratiae” e il “regnum naturae” non stanno più estranei e nemici l‟uno di frone all‟altro, ed entrambi al loro divino termine comune, [ma la redenzione

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Ivi, pag. 53. Ivi, pagg. 54-55. Ivi, pag. 55. Ivi, pag. 57.

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dell‟uomo, che, quale microcosmo] comprende in sé la natura di tutte le cose, [deve coinvolgere anche] l‟elevarsi di tutte le cose, [sicché ogni cosa del mondo viene] compresa nel processo religioso della redenzione.

La conciliazione fra Dio e uomo si estende perciò “tra Dio e tutto il creato”, aventi in comune “lo spirito dell‟umanità”, quella “humanitas, che è a un tempo creatore e creatura”,83 ossia libertà. Solo nella sua storia l‟uomo può dar prova della sua creatività e libertà. Essa mostra come, per tutto il cammino degli avvenimenti fortuiti e malgrado la costrizione delle circostanze esteriori, egli rimanga pur sempre il “Dio creato”. Rinserrato nel tempo, anzi nella particolarità del momento singolo, impigliato nelle condizioni dell‟attimo, mi mostra pur sempre, malgrado tutto, un “Deus occasionatus”. Riman chiuso nel suo proprio essere, non esce mai dai confini della sua natura specificamente umana, ma, proprio mentre la sviluppa e l‟esprime sotto tutti i suoi aspetti, esprime il divino nella forma ed entro i limiti umani.84

La libertà umana, attraverso la partecipazione dell‟essenza divina, acquista il suo valore ultra-rappresentativo, cioè trascendente, nell‟atto stesso di realizzarsi come esperienza storica, cioè come attualità occasionale e transeunte, la cui finitezza può riscattarsi attraverso la sua simbolica trascendenza. Per quanto non smentito, il dogma del peccato originale Sembra aver perso l‟influenza che aveva esercitata sul pensiero e sulla vita del medioevo. Si desta ora nuovamente quello spirito pelagiano, contro il quale aveva lottato aspramente, ed in questa lotta si era formata, attraverso Agostino, la dottrina religiosa medievale. La dottrina della libertà umana viene affermata energicamente: solo mediante la libertà, infatti, l‟uomo può assimilarsi a Dio, può diventare il ricettacolo di Dio (“capax Dei”). 85

L‟uomo non può risolvere la sua natura nei limiti della finitezza, ma, nonostante la sua dipendenza dall‟essere di Dio, egli può riscattarsi in una sfera autonoma che è quella morale o del “valore”, inesistente

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Ivi, pag. 69 Ivi, pag. 73. Ivi, pag. 74.

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senza l‟uomo. L‟attività razionale dell‟uomo consente l‟individuazione del valore, quale “principio per l‟apprezzamento delle cose”, distinte per la loro “maggiore o minore perfezione”. Infatti, benché l‟intelletto non dia l‟essere al valore, pur tuttavia, senza l‟intelletto non si potrebbe distinguere il valore quale esso è. Se si sopprime dunque l‟intelletto non si può saper se vi sia valore. se non vi fosse la facoltà del giudizio e di stabilire paragoni, non sussisterebbe neppure l‟apprezzamento, non esistendo il quale, cessa di sussistere pure il valore. in questo appare chiaramente quanto prezioso sia l‟intelletto, senza il quale ogni cosa creata sarebbe senza valore.86

Qui si palesa e si teorizza “l‟umanesimo religioso” del Cusano, che confuta l‟idea della natura corrotta dell‟uomo propugnata da Agostino, e ne propone un‟immagine positiva che è fonte di ogni valore. Se la natura umana tramite Dio venne emendata delle sue limitazioni naturalistiche, sì che l‟umanità potesse arrivare sino al Creatore, la natura umana ha ora avuto la sua vera teodicea. In essa si invera la libertà dello spirito umano, che è il suggello della sua divinità. Lo spirito ascetico è vinto; la sfiducia nel mondo è scomparsa. Infatti, solo in quanto si schiude senza prevenzione al mondo, in quanto ci si abbandona, lo spirito può conquistare se stesso e la misura delle proprie forze.87

La natura sensibile conquista il suo posto nella conoscenza quale occasione per lo spirito di destarsi attraverso la contemplazione del sensibile, che diventa pertanto il viatico di ogni attività spirituale, che eleva il mondo sensibile alla sua luce. In tale riconciliazione dello spirito col mondo, dell‟intelletto con la sensibilità, è posto il carattere fondamentale di quella “teologia copulativa” alla quale si sforza di giungere il Cusano, e che egli contrappone, con piena coscienza metodologica, a tutte le altre teologie “disgiuntive”, che sanno solo negare e dividere.88

86 87 88

De ludo globi, II, pagg. 237 sgg., cit. in Ivi, pag. 75. Ivi, pag. 75. Ivi, pag. 77.

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Dalle ricerche di Duhem su Leonardo89 emerge che lo scienziato italiano discenda da Cusano, raccogliendone “l‟eredità” per via dell‟accordo “su quel che concerne il metodo”. Cusano era per lui, non tanto il rappresentante di un determinato sistema filosofico, quanto il rappresentante di un nuovo indirizzo e di un nuovo modo di ricerca. E così si può anche comprendere, come il rapporto che si istituì superi i limiti puramente individuali. Il Cusano diventa, in certo modo, l‟esponente di quel mondo spirituale del quale fa parte anche Leonardo; di quel mondo, che nell‟Italia del XV secolo, accanto alla cultura scolastica, che volgeva al tramonto, ed alla nascente cultura umanistica, costituiva una terza forma, specificamente moderna, di sapere e di “volontà di conoscere”, [prendendo] spunto da compiti concreti tecnici ed artistici, per i quali si cerca una “teoria”.90

A fondamento della ricerca sia speculativo-matematica che esteticoartistica c‟è il concetto di “proporzione”, per cui l‟idea della misura diviene il termine medio sul quale si incontrano l‟investigatore della natura e l‟artista, il creatore cioè di una seconda “natura” […] e questo compenetrarsi è ciò in grazia a cui il problema della forma diventa uno dei problemi centrali della cultura della rinascenza.91

I motiv religiosi medievali furono rivisitati alla luce del nuovo spirito laico e secolari stico, trasformando lo stesso concetto medievale di “devozione” mistica, che con S. Francesco supera la dogmatica separazione tra “natura” e “spirito”, rivolgendosi alla totalità del creato e superando i limiti particolaristici dell‟esistenza attraverso la “categoria mistica della fraternità”, per la quale l‟amore non è più rivolto solo a Dio, come alla sorgente e all‟origine trascendente dell‟essere, e non rimane neppure limitato alle relazioni fra uomo e uomo, come rapporto morale immanente. Esso va a tutte le creature in quanto tali [che] non sono più “parti” indipendenti ed isolate dell‟essere, ma vengono fuse dall‟ardore del‟amore mistico in un tutto con l‟uomo e con Dio.

89 90 91

P. Duhem, Etudes sur Leonardo da Vinci, Paris, 1907. Ivi, pag. 86. Ivi, pag. 87.

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[…] In questa forma mistica francescana, lo spirito medievale inizia il grande processo di redenzione della natura e di liberazione di essa dalla macchia del peccato e del senso, [pur mancando ancora] una coscienza teoretica adeguata a questa specie di amore e che possa giustificarlo.92

Da qui l‟incontro della mistica, da cui era partito il Cusano, con la logica. Una logica non più aristotelica, sillogistica, ma matematica e dell‟intuizione intellettuale. “Solo qui l‟amore di Dio del mistico raggiunge il suo vero compimento ed il suo termine: perché non vi è, per il Cusano, nessun vero amore che non riposi su di un atto di conoscenza”. In tal senso, la “esattezza” matematica non serve per “fondare la conoscenza della natura, ma per basare ed approfondire la conoscenza di Dio”.93 Se il visibile è la riproduzione dell‟invisibile, e se questo rimane sconosciuto, almeno sia inequivocabile la conoscenza del mondo sensibile. “La novità sta nel pretendere che i simboli, mediante i quali noi possiamo concepire il divino, non abbiano solo concretezza sensibile e forza, ma, prima di tutto, determinatezza e certezza teoretica”. E da questa esigenza discende la “profonda trasformazione” subita dal rapporto del mondo con Dio e del finito con l‟infinito. Cusano riprende l‟idea mistica che qualsiasi essere possa costituire il tramite con Dio, ma “per lui la natura non è solo riflesso dell‟essere e della forza divini, ma il libro che Dio ha scritto con la propria mano”, e che va decrittato non più solo in senso mistico ma fatto oggetto di investigazione oggettiva e certa, cioè interpretato sistematicamente. Dalla natura come “libro di Dio” deriva una nuova metafisica e una nuova scienza esatta della natura. “La prima via è quella della filosofia della natura del Rinascimento”, sul quale Campanella costruisce la sua teoria della conoscenza e la sua metafisica. L‟altra via è quella che parte da Cusano e conduce, attraverso Leonardo, a Galileo e Keplero. L‟una sente la struttura spirituale dell‟universo in termini mistico-sensibili, l‟altra come sistema razionalmente ordinato attraverso la matematica. “Così, per Leonardo, la matematica diviene il limite tra scienza e sofistica”. [Ivi, pag. 92.] Dalla “certezza incorruttibile” (incorruptibilis certitudo) dei

92 93

Ivi, pagg. 88 e 89. Ivi, pag. 89.

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segni matematici si giunge alla ricerca galileiana, in cui si compie il processo di secolarizzazione che contrappone la “rivelazione del „libro della natura‟ a quella biblica”. Se nasce disaccordo tra esse, la precedenza va accordata alla “opera” sulla “parola”, poiché questa “appartiene al passato e alla tradizione, mentre l‟opera, che ci sta di fronte, presente e duratura, si presta ad essere interrogata direttamente ed immediatamente”.94 4. Il De Deo abscondito (1440-1445) è un “dialogo tra un gentile e un cristiano”. Questi intende convincere il gentile della difficoltà di considerare Dio come un oggetto qualunque della riflessione filosofica, asserendo convintamente la tesi della “dotta ignoranza”. Ciò che l‟uomo può conoscere, egli sostiene, non è l‟essenza delle cose ma solo la loro apparenza, sulla cui certezza fonda ogni suo sapere. Dio gli resta precluso, in quanto i suoi caratteri non hanno riscontro nel mondo fenomenico conosciuto dalla sapienza umana, per cui la ragione, operando per congetture, non coglierebbe mai l‟essenza divina, trascendente ogni umana definizione. Facoltà della ragione è infatti quella di distinguere i fenomeni del mondo finito, attribuendo loro dei nomi. Ma quale nome potrebbe indicare Dio, che è “la verità”, come tale unica e “non comunicabile all‟alterità”? La verità assoluta di Dio non è confondibile con le cose del mondo, ma va colta in sé stessa: “quomodo igitur potest veritas apprehendi nisi per se ipsam?” Le cose del mondo, infatti, in quanto creature divine, lasciano trapelare barlumi di Dio, immagini parziali di Lui. Persino la teologia, quale “scienza di Dio”, non è in grado di definire il suo oggetto, neppure in modo negativo, fallendo pertanto nel suo intento teorico. Infatti la conoscenza razionale distingue le proprietà degli enti, e per esse gli enti stessi, avvalendosi del principio di non contraddizione. Ma in Dio gli opposti convergono nella sua infinita unità, per cui non si può fare alcuna distinzione tra le cose che coesistono in Lui, per cui o si dovrebbe “chiamare Dio con tutti i nomi, o chiamare tutte le cose con nome di Dio”. In ogni caso, muovendo dalla realtà finita e dalle qualità creaturali delle cose terrene, si resterebbe sempre al di qua della sua essenza infinita. Da qui

94

Ivi, pag. 93.

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l‟opportunità teoretica di indicarla negativamente anziché per affermazioni, essendo Egli indefinibile, e venendo prima di tutte le cose: “Dio sta a tutte le cose come la vista sta alle cose visibili”. Il tutto conosce ogni singola parte, ma resta precluso ad essa ciascuna. Il discorso de Deo di Cusano (e del suo tempo) si articola sull‟immagine o “figura” (Pascal) della divinità come potenza ineffabile inattingibile dalla ragione, e intuibile solo con l‟intelletto, l‟organo supremo della conoscenza umana. Si discorre di Dio attraverso metafore e rappresentazioni analogiche che ruotano intorno al Mistero con la curiosità e la riverenza di chi è cosciente di non poterlo penetrare. Dio resta al di là delle facoltà umane, ma avvertito come una presenza allocata ovunque, in ogni dove. Rispetto al razionalismo scolastico, il Dio di Cusano appare trasfigurato attraverso il sentimento, avvertendosi in questa trasfigurazione quasi poetica, i prodromi di un anti-razionalismo che marcheranno il fideismo luterano. Il luteranesimo è un ritorno al figuratismo biblico arcaico, in cui i fideismo del sentimento supplisce all‟impotenza della ragione. L‟impostazione fideistica di Pascal è posteriore, e non anteriore e preventiva, a quella razionalistica, per cui le sue tesi su Dio risentono di una posizione che, interna al cattolicesimo, non ha consumato l‟unità di fides et ratio, come quella invece protestante. Cusano non ha varcato la soglia dell‟eresia, ma ha schiuso la porta ad essa, prefigurando la debolezza della ragione come presupposto del‟immaginazione fideistica, ossia del volontarismo mistico. Per Cusano e la cultura tardo-medievale, Dio è ancora una certezza evidente; per Pascal Dio è un problema, sul quale la ragione non può ergersi a giudice, cioè “non può determinare nulla”.95 Non resta che il piano della volontà e dell‟interesse a decidere dell‟esistenza di Dio. Stabilita la necessità del “pari”, la posta in gioco comporta la perdita di “due cose, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel gioco: la ragione e la volontà, la conoscenza e la beatitudine”, fuggendo “l‟errore e l‟infelicità”. Se la ragione “non patisce offesa” scegliendo l‟una o „altra possibilità, la beatitudine invece è del tutto compromessa; nel senso che la vittoria in caso di scommessa sull‟esistenza di Dio è totale guadagno, e nel caso negativo, perdita

95

B. Pascal, Pensieri, 164

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nulla. “Scommettete, dunque, senza esitare, che egli [Dio] esiste”. Dovunque ci sia l‟infinito [cioè una “infinità di vita infinitamente beata” come guadagno “contro un numero finito di probabilità di perdita [di] qualcosa di finito”], e non ci sia un‟infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c‟è da esitare: bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla.96

La posta in gioco non può porre sullo stesso piano la “certezza” del rischio e la “incertezza” della vincita, poiché l‟infinita salvezza non può valere un bene finito. L‟affermazione agostiniana: “non vos estis, qui scitis eis, qui in spiritu sciunt”,97 ripresa da Cusano: “non siamo noi che conosciamo, ma è piuttosto Dio che conosce in noi”,98 attribuisce alla conoscenza una facoltà meta-umana, tale, da un lato, da sollevarla dai limiti strumentali della ragione – che della conoscenza è l‟elemento che, per quanto prezioso per la sua capacità discretiva, è pure il più esposto alla fallacia della volontà, come sappiamo da Pascal -, e, dall‟altro lato, da costituirla come il tramite di partecipazione dell‟infinità di Dio. Ciò comporta che non ogni conoscenza sia atto partecipativo della gloria divina, ma solo quella guidata dalla “recta ratio” e ispirata dalla Grazia. Queste ultime condizioni finiscono per coincidere, sicché la verace conoscenza è solo quella ispirata da Dio, quella cioè che annulla i limiti della condizione umana e innalza alla sua gloria. La sapienza di Dio nell‟uomo che conosce, rappresenta la forma speculare e teoretica del segno mondano della grazia divina nell‟homo faber o oeconomicus dell‟etica infra-mondana di origine protestante. In altri termini, la conoscenza (recta, divinamente ispirata) è l‟ altro modo di partecipare della grazia e della gloria di Dio, proprio della cultura classica e della civiltà cattolica, rispetto al modo proprio della cultura moderna di origine protestante, incentrata sul riscontro del successo praticoeconomico. Nell‟ambito della cristianità, la scissione moderna è 96 97 98

Ibidem. Agostino, Confessioni, XIII. N. Cusano, La ricerca di Dio, tr. it. in Il Dio nascosto, Roma-Bari, 1995, pag. 24.

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consistita nello spostamento del luogo della presenza divina dall‟interiorità all‟esteriorità, mercé la transizione dello spiritualismo, prima agostiniano e poi idealistico e romantico. I paradosso. La cultura oggettivistica medievale genera il culto della conoscenza di Dio, mentre il soggettivismo moderno genera il culto delle opere mondane. II paradosso. La cultura comunitaria del corpo mistico ed ecclesiale, favorisce la dimensione teoretica della testimonianza divina, mentre la cultura intimistica e solipsistica del fideismo protestante favorisce la dimensione socialitaria e pratica del segno della grazia di Dio. Secondo G. Scoto Eriugena, l‟essenza di Dio non può essere colta dalla ragione umana se non in uno dei “modi” intellettuali propri della creatura razionale e secondo le sue capacità.99 Questa condizione morale può essere riferita a ogni manifestazione dello spirito umano, come pure di ogni creazione spirituale, oltre che di ogni conoscenza. Infatti, sia lo spirito divino che lo spirito propriamente storico giungono in essere secondo modi determinati che costituiscono le categorie culturali dell‟attività umana. Poiché in questo mondo nulla, per quanto profondo ed elevato sia, può entrare nel cuore dell‟uomo, nella sua mente o nel suo intelletto, senza restare contratto entro un modo, nessuno dei nostri concetti di gioia, letizia. Verità, essenza, virtù, intuizione di sé, o qualunque altro concetto, può esser privo di un modo restrittivo: e tale modo, diverso a seconda della condizione nel mondo dei singoli individui, ci riporterà indietro ai fantasmi dell‟immaginazione [del mondo sensibile].100

Il modo è “restrittivo” nel senso che non coglie la totalità spirituale, l‟essenza dell‟Essere, ma solo appunto il suo modo d‟essere esistentivo. I “fantasmi dell‟immaginazione” sono le congetture derivate dalla conoscenza sensibile, ossia le “ombre” della caverna platonica, che non possono essere diradate completamente dalle umane possibilità cognitive. Lasciando da parte la questione se le categorie umane siano eterne o 99

G. Scoto Eriugena, De Divisione naturae, I, 7.

100

Cit. da L. Mannarino, Introduzione a N. Cusano, Il Dio nascosto, cit., pag. XXI.

346


storiche, poche o infinite, la differenza essenziale tra lo Spirito divino creatore d‟essere, e lo spirito umano, trasformatore d‟enti, è che Dio crea dal Nulla, laddove l‟uomo trasforma la natura, compresi i prodotti umani. Ciò vuol dire che l‟azione divina non interviene sull‟Essere naturale come una potenza esterna modificatrice, ma trae quell‟Essere dal Nulla, cioè da sé stesso. In tal senso, Dio è pre-esistente rispetto all‟Essere da lui creato. Ma, essendo Dio, non è Nulla, ma pur sempre Essere, che non è attuale, cioè presente, bensì possibile, cioè potenziale. La inattualità dell‟Essere è la sua possibilità, la quale è un modo d‟essere diverso dalla attualità ma che concerne comunque l‟Essere stesso. La modalità dell‟Essere indicata come “possibilità” concerne la sua temporalità, e quindi è il modo proprio dell‟Essere storico. L‟Essere “storico” è l‟Essere “possibile”. E poiché “storica” è la possibilità “attuale”, la possibilità e l‟attualità sono i due modi dell‟Essere considerati ex ante (dal passato) ovvero ex post (dal futuro). Il collegamento diacronico dei diversi momenti della temporalità dell‟Essere ne costituisce il suo divenire, che è la sua concretezza. Considerati astrattamente, ossia fuori della concretezza del divenire, i singoli momenti modali e temporali dell‟Essere sono rispettivamente negativi, tali che uno sia l‟opposto dell‟altro. Ma come l‟antitesi è l‟opposto della tesi, così il modo presente è attuale rispetto al passato e al futuro, ossia la negazione presume sempre la sua antitesi positiva, e quindi il Nulla presume l‟Essere, come l‟uomo, che non-è Dio, presume l‟Essere di Dio, che dunque pre-esiste a ogni umana determinazione d‟essere. Diversa è la condizione umana. Prima del pensiero, c‟è l‟Essere della natura, l‟ altro indeterminato, non nominato e quindi sconosciuto: l‟enigma. La misteriosità dell‟enigma genera il thàuma, la meraviglia che richiede una risposta teoretica rassicurante, che dia un nome all‟incognita realtà naturale. Questa, non essendo prodotto dell‟uomo, è il prodotto divino della creazione. “Creato” è l‟Essere che non è prodotto umano, cioè trasformato, ma originario. E come il prodotto trasformato dall‟uomo è umano, così il prodotto della creazione di Dio è divino. In questo senso, la Natura creata è Dio stesso come Natura. Rispetto a Dio, creatore dal Nulla (nella prospettiva umana), cioè da Sé stesso (nella prospettiva divina), ogni creatura è parte divina del Molteplice, sicché anche l‟uomo è “fratello” della luna, del sole e del mare, oltre che degli altri esseri viventi, umani compresi. Ogni ente 347


creato da Dio è creduto Dio, ma logicamente non lo è, ed è dunque Mito. Il Mito è la confusione della creatura col suo Creatore, della parte col Tutto. Quella mitica è conoscenza simbolica, ossia credenza. La conoscenza mitica consiste nella credenza che Dio sia dove non-è. Ed è a questa confusione che si oppone la conoscenza logica, la quale distingue il prodotto (l‟ente) dal Creatore (l‟Essere). Astratto dall‟Essere (di Dio), ogni ente appare all‟uomo creato dal Nulla, per cui la possibilità d‟essere di Dio, la sua creazione, deve presupporre l‟Essere di Dio. E poiché la possibilità d‟essere è tale in quanto l‟Essere non è attuale, ma appunto possibile, la presupposizione di Dio, cioè che Dio sia prima della creazione, prima della Natura, è una credenza di fede. Senza la fede ontologia che Dio sia, viene negata la possibilità come modalità dell‟Essere, e affermato il Nulla. In questo caso, ossia nel caso della negazione della possibilità che Dio sia l‟Essere non attuale, ogni ente, non essendo né Dio e neppure un suo prodotto, è niente. La condizione degli enti, in tal caso, non è la “fraternità” nella creazione, ma la “nientità” della oro assoluta finitezza. L‟idea che ogni ente sia niente è il presupposto, ossia la credenza, che la realtà sia solo nei termini in cui è per l‟uomo qualcosa. Essere-perl‟uomo qualcosa significa passare dal Nulla all‟Essere. Qualcosa significa, cioè ha un significato simbolico per l‟uomo, allorquando è passato dal Nulla all‟Essere, cioè quando sia stato trasformata la sua originaria natura in un prodotto di cultura. La natura umanizzata dal significato è, mentre quella non segnata dall‟uomo non è, cioè non ha significato. “Significare” vuol dire attribuire un nome agli enti, distinguerli da ciò che non ha significato, che non ha valore simbolico. I distinti nomi, quando indicano ciò che è ovvero non-è rispetto all‟Essere di Dio, distinguono il significato “sacro” da quello “profano”, credendo che Dio sia soltanto nella realtà che lo significa, quella appunto sacra. Quando invece la distinzione inerisce non già ciò che è ovvero non-è rispetto a Dio, ma solo ciò che è ovvero non-è rispetto al suo nome, ossia al suo essere-per-l‟uomo, in tal caso il pensiero distingue ciò che è o non-è reale rispetto alla sua definizione ideale. La prima distinzione, che fonda il suo giudizio sull‟Essere di Dio, ossia sulla credenza che Dio sia l‟Essere, è diversa dall‟altra distinzione, che fonda il suo giudizio di realtà sulla credenza che l‟Essere sia l‟Idea. 348


Nel primo caso, infatti, la realtà degli enti partecipa della realtà dell‟Essere, mentre nel secondo caso, la realtà degli enti partecipa della realtà dell‟Idea, senza la quale la realtà non sarebbe, e cioè sarebbe Nulla. Nel primo caso, se la realtà non fosse, sarebbe in ogni caso Dio, e non il Nulla, per cui è impossibile uscire dalla possibilità dell‟Essere di Dio, perché Egli è Tutto. La credenza che Dio sia Tutto equivale a credere che ogni cosa equivalga ad ogni altra, abbia lo stesso valore divino. In tal caso, il “passaggio” dal sacro al profano è possibile soltanto negando il valore del sacro, e non attribuendolo, poiché ciò che è, è in quanto è già sacro. E all‟uomo spetta solo il riconoscerlo o il negarlo. Dio “è” prima di ogni pensiero umano che lo ri-conosca e lo nomini. Affermare, biblicamente, che “Dio è ciò che è”, significa che Dio è Tutto. Se invece l‟Essere “è” ciò che partecipa dell‟Idea, l‟Essere degli enti è l‟essere ideale, quello del pensiero umano, che significa distinguendo le cose attribuendo loro dei nomi. Solo rispetto all‟Idea qualcosa che “è” può distinguersi da qualcos‟altro, per cui l‟Essere di Parmenide, l‟Essere che è, è l‟ente quale essere determinato, significato idealmente, mentre l‟Essere che non-è, è quello indeterminato o naturale. E l‟Idea che distingue e oppone a seconda della partecipazione o non al suo essere ideale. e solo all‟interno della sua esclusiva determinazione d‟essere qualcosa può non-essere, mentre all‟interno dell‟Essere di Dio, che è Tutto, ogni cosa “è” e non può non essere, è cioè indistinta. La distinzione, se vuole sostituire alla negazione una determinazione positiva, deve presupporre il Nulla, anziché l‟Essere (di Dio), ossia l‟Idea al posto di Dio. L‟idealismo metafisico si fonda sul Nulla, anziché su Dio, per cui credere che prima di ogni essere determinato sia l‟Idea, significa che prima della realtà idealizzata, cioè umanizzata attraverso la nominazione degli enti da parte dell‟uomo, sia il Nulla. I paradosso. L‟affermazione idealistica dell‟Essere come Idea presuppone il non-Essere come Nulla. II paradosso. Il “passaggio” dal Nulla originario all‟Essere idealmente determinato è opera dell‟uomo, ossia è un prodotto artificiale della volontà umana, senza la quale la realtà potrebbe sussistere nel Nulla. III paradosso. La realtà nella caverna platonica è la vita mitica, il regno della confusione o indeterminazione naturalistica, nella quale è 349


immersa la stessa vita sociale. IV paradosso. La realtà idealizzata è l‟unica razionalmente possibile, sicché la possibilità, idealisticamente, non è la condizione originaria ma quella finale. Da qui il progetto della umanizzazione del mondo come missione ideale dell‟uomo razionalmente emancipato. V paradosso. La distinzione tra l‟uomo ideale e la generica natura, passa anche attraverso la stessa umanità, il cui pensiero unitario manca ai Greci, sicché “naturale”, ossia non-essente è tutto ciò che non è idealmente distinto secondo il principio ideale, ovvero la stessa società mitico-tradizionale, che perciò va ri-formata idealisticamente. VI paradosso. L‟idealismo ontologico è, per sua costituzione metafisica, socialmente rivoluzionario e anti-naturalistico quanto antitradizionalistico. Negando il Mito, ossia che l‟Essere sia Dio, nega anche ogni storicità, ossia la concretezza del divenire, e quindi la realtà stessa. Il suo nichilismo segna pertanto anche il suo insuperabile irrazionalismo, che pensa l‟Essere di Dio come il Nulla e questo come l‟origine dell‟Essere. L‟Essere di cui Platone tratta nel Sofista non è il creato, la Natura, ma il prodotto umano, cioè la realtà nominata e logicamente distinta, la natura artificiale formata dall‟uomo, entro il cui cosmo ciò che è, è quanto l‟uomo vuole che sia. E quando Socrate scopre la co-esistenza del non-essere con l‟essere, appare nella sua evidenza la differenza moralizzata, nell‟ambito della stessa realtà abitata dall‟uomo, del “valore” ideale dal disvalore della mera esistenza. Tale differenza, socializzata, acquisterà l‟intera sua pregnanza ideo-logica nello sviluppo del processo storico-politico. Se l‟Essere “è” solo rispetto al Nulla da cui è idealmente tratto, e “nonè” rispetto a Dio, ossia “è” solo rispetto a se stesso, il suo Essere originario coincide con l‟affermazione della volontà d‟essere umana. E poiché l‟uomo afferma se stesso nella potenza del suo essere, ossia trasformando la natura (il non-essere umano) in cultura, (la realtà umanizzata), la vicenda umana si volge nel segno della trasformazione della creazione divina (sacra) in prodotto umano (profano), ossia nella rielaborazione logica della creazione (dell‟Essere) in realtà razionalizzata (dover-essere), ossia in una interpretazione di Dio. Politica e Verità sono i due poli dell‟intera vicenda antropologica dell‟uomo. Comunità sociale e comunità ideale sono le due forme di relazione unitaria stabilite dall‟uomo, costitutive ed espressive della 350


sua essenza razionale. L‟idealismo platonico, assumendo l‟Essere come un‟Idea, distingue la realtà di fatto, mera espressione fenomenica di ciò che l‟uomo appare nel mondo, dalla realtà ideale, espressione della volontà cosciente di sé. Ciò comporta che, rispetto ai rapporti naturali, determinati dalla mera esistenza, i rapporti ideali configurano un cosmo razionale la cui costituzione misura il grado di coscienza della volontà umana circa la dimensione ultronea della vita altra da ciò che semplicemente è, ubicata altrove. Con il Cristianesimo, essendo ogni ente prodotto divino, l‟ altrove metafisico è quello dei morti, per cui la vita spirituale o interiore e la vita post-mortem vengono a coincidere, così come rappresentato simbolicamente dalla vicenda di Cristo, che muore per poter ri-vivere nell‟ altra vita eterna. La morte, come accesso all‟altra vita, quella dello Spirito, anziché come termine dell‟unica vita umana, trasvaluta lo stesso senso della vita naturale, privandola della sua sacertà originaria. Anche il Cristianesimo, come l‟idealismo platonico, fissa nell‟uomo, e non più nella natura, il punto di raccordo tra Dio e mondo, dando inizio alla rinascita della realtà mondano-profana attraverso la trasvalutazione spirituale del nuovo Adamo, il cui prototipo antropologico è il filosofo platonico, alla Socrate. In entrambi i casi, la condizione previa del processo di rinnovamento spirituale del mondo già naturale è il riconoscimento del profeta del nuovo modello antropologico di umanità: il filosofo e il Figlio. La nuova storia dell‟umanità inizia, per Platone, con la socializzazione delle verità di ragione, e per il cristianesimo con la fede in Cristo e nel suo Mistero divino. L‟ incipit non è l‟Essere naturale e in trascendibile del Mito delle antiche cosmogonie, ma l‟incarnazione del Lògos, ovvero, cristianamente, l‟avvento terreno del Verbo: Verbum caro factum est. L‟essenza del nuovo uomo cristiano non è la sola fede mitica, e neppure la sola ragione filosofica, ma la ragione fondata sulla fede nel Cristo, principio della Storia. Rispetto a questo rinnovato inizio, ogni ritorno al modello antropologico naturalistico e razionalistico rappresenterebbe un regresso spirituale, una decadenza. E rispetto alla storia “politica”, ossia alla forma antica di socialità, qual è la differenza della nuova Storia spirituale? Come costruire il regno interiore nel mondo fenomenico? E inoltre: era questa la missione di Cristo? In altri termini, come testimoniare lo Spirito nella realtà terrena? Rinuncia ad 351


essa, oppure trasformarla? Per rispondere a queste domande, occorre partire dalla figura di Cristo, dal suo modello antropologico. Gesù sceglie di morire per il mondo al fine di vivere per lo Spirito. Vivere per lo Spirito, cioè morire per il mondo, significa convertirsi ai valori eterni, emancipandosi dall‟edacità del tempo e della finitezza. Ossia, trascegliere, come luogo dell‟incontro con Dio, già in questo mondo l‟interiorità della coscienza. Il concetto d‟ordine classico si articolava nei due momenti della cognizione del cosmo naturale e della formazione (paideia) umana a riprodurlo socialmente. Fisica naturale e fisica sociale erano strettamente collegate e interconnesse. La capacità razionale dell‟uomo era di riprodurre in scala sociale l‟ordine naturale, che era la fonte perenne e intrascendibile dell‟Essere. La ragione aveva quindi un significato di capacità mimetica di riprodurre l‟Essere naturale, nel cui ordine l‟esperienza umana era inscritta. Col cristianesimo il concetto d‟ordine cambia. La fonte non è più naturale ma normativa, legata alla volontà del Legislatore del mondo, Dio. Da questo momento, l‟ordine universale passa attraverso la conformità alla legislazione divina, sicché la coscienza umana si propone di instaurarlo nel segno della normativa morale prescritta dalla fede in Dio. L‟ordine mondano-naturale diventa un ordine altro da quello vero, ossia un ordine falso e precario, una realtà negativa rispetto alla positività dell‟ordine condendo.”Vero” non è ciò che si vede, ma ciò che dev‟essere e non “è”. La realtà mondana, agli occhi della fede, diventa una illusione, una “follia”, un disvalore negativo da correggere. Ma questo atteggiamento critico era lo stesso di quello filosofico dell‟idealismo platonico, consistente nel ritenere che la realtà naturale non sia l‟unica dimensione dell‟Essere. La differenza, rispetto alla visione idealistica, è che, nella visione cristiana, l‟Essere non è un‟Idea, ossia un astratto modello di ente la cui perfezione consiste nel non partecipare del divenire, ma è Dio, la ragione di tutte le cose da lui create. Il segno della alterità di Dio dagli uomini non è la sua perfezione ideale ma la sua possibilità d‟essere ciò che è, cioè la sua volontà assoluta, la sua potenza infinita. Il concetto di infinito abbinato a quello di potenza fa di Dio non il custode dell‟ordine del mondo, come era Pan per la natura e Cesare per l‟impero, ma il suo creatore, di cui può dunque disporre a piacere. L‟assoluta discrezionalità di Dio fa sì che la sua tolleranza delle nequizie umane 352


sia un atto d‟amore, e non un segno della necessità legata a un imprescindibile ordinamento cosmico. Le due realtà, quella mondana dell‟uomo e quella spirituale di Dio, si fronteggiano ma restano distinte. L‟anello di congiunzione è costituito da Cristo, la cui duplice natura fissa anche la collocazione del mondo spirituale in interiore homine (Agostino), che è il luogo della verità. La coscienza, da luogo del riconoscimento ideale del mondo, diventa il luogo della verità dell‟altro mondo rispetto a quello naturale, vita sociale compresa. La vita naturale è segnata dalla necessità, e quindi dalle relazioni di forza, che contraddistinguono anche l‟esperienza sociale umana, informata al principio dell‟utile, cioè della sopravvivenza biologica. La vita spirituale è contrassegnata dal principio della carità, e cioè dalle relazioni di verità, consistente nella coscienza di essere creature di Dio. L‟incontro con Dio avviene già nell‟interiorità della coscienza, la cui scelta è alternativa a quella della socialità politica. l‟uomo di fede testimonia la via spirituale scegliendo il valore eterno a preferenza del merito terreno, la verità anziché l‟opportunità sociale. Ed è in questa scelta per l‟eterno, anziché per il tempo, lo “scandalo” della fede in Cristo. Ed è in questa stessa scelta il senso della testimonianza della realtà dell‟ “altro mondo”, preferito a quello di Cesare. Cristo non chiede altro. Egli non è venuto al mondo per trasformarlo, ma per testimoniare l‟amore del Creatore. L‟amore è l‟altro modo di conoscere il mondo e di renderlo simile a sé: non il modo cruento e polemico, ma caritatevole e pacifico. E proprio perché l‟altro mondo è in noi, la verità non può essere nella società, non può consistere nella città terrena. La socialità politica appartiene al modo pre-cristiano di convivenza umana, basato sulla forza fisica e sul potere economico. La Storia cristiana non è fatta di gesta eroiche e di vicende politiche, che rappresentino la potenza dell‟uomo sulla natura e sugli altri uomini, ma è fatta di gesti interiori, cioè di buoni propositi, di amore e di conoscenza, di “cuore” e di “ragione”, espressivi della verità di Dio. La verità che si realizza in noi, nella nostra coscienza, segna il luogo di Dio in questo mondo, il regno dello Spirito, cui si accede per conversione degli animi e non per rivoluzione dei corpi. La logica luterana della “sola fides” è la risposta speculare alla volontà politica della Chiesa di trasformare il mondo assoggettandolo al suo potere, anziché di convertire gli animi dei singoli col carisma dell‟amore. Ponendo la comunità di fede alla stregua di una potenza politica, 353


sorretta dalle leggi della ragione mondana, la Chiesa è accusata di aver tradito lo spirito dell‟Evangelo. Il fideismo luterano e protestante fu una risposta mistica al razionalismo ecclesiastico e umanistico, una reazione dialettica alla decadenza romanistica (imperialistica) della Chiesa istituzionale. L‟idea di fondare uno Stato cristiano era in sé contraddittoria, in quanto lo Stato era la forma di organizzazione tipicamente politica e pre-cristiana della convivenza umana, che poteva sopravvivere solo tra coloro che non si erano convertiti alla fede spiritualistica. Lo Stato era infatti, per un cristiano, la non-realtà rispetto alla verità eterna. L‟errore romano era stato quello di confondere la realtà di fatto con la realtà possibile, assumendo la storia del tempo come la Storia dello Spirito. Voler sostituire alla spirito antico lo Spirito cristiano, mettendolo al servizio della pace sociale, ossia delle regole politiche dello Stato, significò snaturare l‟essenza del messaggio evangelico, facendo della lieta novella un messaggio ideologico, utile al reggimento dello Stato ma non alla conversione dei cuori, e trasformò la verità di Dio in un Mito. Gesù non volle sostituirsi a Cesare, ma testimoniare la realtà della morte, dell‟ altra vita. Accettare le regole del mondo significava accogliere la legislazione di Satana, la logica del Potere politico, della prevaricazione della forza nei rapporti umani e sociali, rigettando la legislazione di Cristo, la logica dell‟amore, della carità fraterna, che è l‟antitesi della rivalità dei rivali. La Chiesa volle tra svalutare l‟ordinamento imperiale romano assimilandosi alla sua logica di dominio, anziché lasciarlo deperire nella sua stessa auto consunzione di imperium diabolicus. Il “dare a Cesare” significava non interferire, ma costruire la città di Dio in ogni uomo di fede. La Chiesa ha tralignato, subendo periodiche allettive di “riforma”, fino a giungere allo scisma d‟Occidente, alla grande Riforma, che intese affermare Dio senza l‟ausilio della ragione, per “sola fides”. Ma ogni scissione della sintesi cristologica di fede e ragione è un travisamento della verità, un permanere al di qua di essa, nel Mito o nell‟Utopia, al di qua del Mistero della Croce, il grande thàuma che impegnò il pensiero europeo per oltre un millennio. La novità del Cristianesimo è proprio nella affermazione del Mistero come “verità”, e non come “enigma” che la ragione possa sciogliere. Il Mistero non poteva diventare “oggetto” della ragione senza assumerlo come suo fondamento, essendo il Mistero a fondare il pensiero, 354


essendo, cioè, il principio (aitìa) di ragione, il senso stesso della ratio, la sua “rettitudine” rispetto ai traviamenti della volontà. Rispetto al Mistero cristiano, la ragione è una tecnica che, fuori della relazione con esso, si volge a inevitabili scacchi e contraddizioni. Ed è esattamente questa la posizione di Cusano, il quale intende affermare l‟incongruità di un sapere che cerchi di trasformare il Mistero cristiano in un enigma mitologico da interpretare alla luce della ragione umana e quindi da superare dialetticamente alla maniera platonica. L‟inconoscibilità razionale del Mistero (la “ignorantia”) lo salvaguardava da possibili attacchi dialettici, e perciò la consapevolezza della dell‟inanità di ogni tentativo razionalistico doveva destinare la ragione umana ad altri esiti cognitivi, quelli della conoscenza scientifica del mondo. La ragione che si emancipa dal Mistero, cioè dal suo fondamento di fede, equivale al servo che si ribella al padrone e ne vuole prendere il posto. Ma un servo potente, resta un usurpatore, perché la qualità di padrone non nasce dal riconoscimento del servo, ma dalla sua funzione direttiva, che il riconoscimento convalida. Il riconoscimento ha un valore gnoseologico, mentre al funzione ha un valore ontologico. La ragione emancipata dal Mistero, si comporta come il servo ribelle che voglia fondare la sua autorità sulla sola fede in sé stesso, prendendo il posto del Mistero e usurpando il suo ruolo fondativo di verità. Il servo senza padrone non ha servi, e finisce per comandare a se stesso. Un mondo senza padroni è un mondo di servi che lottano per diventare padroni, cioè per affermarsi al posto di colui che hanno negato per liberarsi dal suo rapporto. Parimenti, una verità senza fede nella verità, è una opinione ragionevole ma senza fondamenti di realtà, che cerca di affermare la sua fondatezza relativa su altre tesi relativamente ragionevoli. L‟egalitarismo sociale e il relativismo razionalistico sono aspetti di una stessa condizione antropologica derivata dalla dissoluzione metafisica dell‟ontologia cristiana, alla quale la dottrina della “docta ignorantia”di Cusano dà il suo contributo involontario asserendo la percorribilità della ragione umana nella sola direzione della finitezza, schiudendo così la strada alla trasformazione della filosofia in gnoseologia e in epistemologia, serva quindi non più della scienza di Dio ma dell‟uomo e della natura. 5. L‟ispirazione esplicita o indotta del “nihilismo intellettuale” e del

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congiunto “isolamento dell‟io” di Cusano, è Agostino, da cui si dipartono i due tratti unitari dell‟epoca tardo-medievale, lo stoicismo e lo scetticismo cristiani, che paiono incarnarsi nel “più gran ribelle del suo secolo dopo Lutero”: Agrippa di Nettesheim, scrittore di una Declamatio de incertitudine et vanitate scientiarum atque artium, tanto sarcastica e dotta quanto disperata e orgogliosa. La stessa intonazione della “declamatio” contro i suoi detrattori domenicani, cui dedica una Apologia ad versus theologistas lovanienses, sottolinea la sua distanza da ogni “assertio” di natura scientifica, e l‟impostazione saggistica di tesi paradossali. “Ma si trattava solo dell‟ansia di difendersi di un fuggiasco spaventato, che appunto in quel momento aveva di che essere molto preoccupato per la sua esistenza”.101 Non solo la sua figura di mago e veggente viene liquidata cinicamente, ma “anche il suo ideale di cultura umanistico” appare a lui stesso “come un gioco vuoto e presuntuoso”, per cui sia l‟arte sillogistica che la retorica nuova da lui frequentate sono considerate “scienze ed arti incerte e vane” cui non è più da credere, e a fronte delle quali la semplicità del Vangelo, giudicata da esse “scripturae rusticae et idiotae”, appare una risorsa morale inestimabile, per quanto ingenua. Quella di Agrippa non è una scepsi meramente negatrice e demolitoria, ma un abbozzo di sistema che, per quanto ancora indisciplinato, denuncia il “fallimento tragico” e il “profondo pessimismo intellettuale e morale” che risultano dalla gnoseologia socratica e cusaniana dell‟ideale di ignoranza, dell‟arte di non sapere. Ma Agrippa, “per sua stessa ammissione, non ne sviluppa l‟aspetto di speculazione sul nulla, bensì la direzione scettica”, secondo un suo personale percorso teorico,102.]che pone al centro “quella visione disperata che per Cusano restava nello sfondo del campo come un malinteso forse non del tutto sgradito: il pensiero dell‟uomo è solo finzione, né vero né falso, ma solo utile o dannoso a seconda dell‟uso che se ne fa”. Come egli scrive, la funzione di certezza della scienza non è giustificabile, “poiché la sua presunta libertà da presupposti non regge ad un esame critico ed i suoi presupposti riposano su un tacito accordo non dovuto a dimostrazioni,

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R. Stadelmann, Op. cit., pag. 142. Ivi, pag. 143

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ma accettato per fedeltà e per fede”.103 Il che è verissimo, in quanto ogni livello di coscienza deve presupporre un orizzonte ontologico fondamentale non dimostrabile ma intuitivamente asserito, ma il discredito della ragione in nome della fede non poteva non coinvolge la stessa fede quale fondamento della ragione. Il problema era di conservare alla ragione la sua funzione ancillare, criticando la sua emancipazione, non la sua possibilità teoretica. Infatti, il livello di coscienza razionale, rispetto a quello fideistico, tendeva a tradurre le verità di fede, tradizionali e dogmatiche, accettate d‟autorità, in verità di ragione, accertate dialetticamente. Le stesse verità, interpretate cum simplicitate, ovvero cum grano salis. Screditare il metodo della ragione significava screditare lo stesso servigio prestato alla fede, la quale così restava sospesa sul sentimento di “sacra simplicitas” che non poteva fungere da alternativa alle esigenze gnoseologiche avanzate dalla scienza moderna, poiché la “simplicitas” era una qualità della fede, che dunque la presupponeva. Ma la stessa fede, non era riducibile a un “sentimento”, essendo la condizione fondativa della conoscenza razionale, il suo presupposto ontologico, costituito appunto dalla fede nell‟Essere (anziché nel Nulla). L‟Essere della fede coincideva con l‟Essere della ragione, che era il linguaggio umano di Dio. Nel momento in cui Dio non viene più intuito come Essere, ma come Nulla, anche la ragione diventava inservibile alla conoscenza teologica, e quindi disponibile ad altra funzione cognitiva. Fu dunque la teologia negativa a destinare la ragione ad altri scopi teoretici, definiti come gli unici alla sua portata: la conoscenza dell‟uomo storico e della natura fisica. Lo scetticismo anti-razionalistico, non più trattenuto dalla fede autentica di Cusano, trabocca in ipotetismo, coinvolgendo nella critica delle posizioni umane, “non solo i princìpi scientifici, ma anche quelli morali e religiosi”, rendendoli “indeterminati”, per cui “la fides si abbassa a credulitas”, mentre le storiche posizioni religiose non sono più rette dalla “ragione” della fede, ma da “una vaga disposizione della volontà a credere, che garantisce la permanenza dei sistemi”.

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Ivi, pag. 144.

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Il concetto di ipotesi di lavoro, che ha preso il posto della convinzione diretta originaria, non è una saggezza che provenga dall‟umanesimo italiano, [ma] è un‟eredità nominalistica, [ossia] una eredità di pensiero tardo-medievale che si trova già in Wessel, con in più un netto orientamento sociologico, [dove la] necessitas fidei [viene presentata pericolosamente come la] maledizione [di una] fede che ci condanna ad un non sapere eterno e a sostituire al sapere una credulità vana.

A questa condizione negativa non c‟è rimedio, poiché all‟antitesi assoluta manca la tesi, la quale deve essere ricostituita dalla decisione a credere che l’Essere sia, “perché senza questo patto tacito non ci sarebbe niente che si potesse chiamare società umana”.104 Il punto di vista originario, che poneva il livello di coscienza razionale interno all‟orizzonte di fede ontologico, viene rovesciato, per cui è la ragione a dover fondare la realtà, assumendo al posto della volontà di fede la volontà di ragione, intesa come convenzione pattizia, solo ipoteticamente vera ma certamente utile ai fini della socialità. In queste posizioni intellettuali sono il terreno di coltura delle future piante dell‟empirismo e del nichilismo, che rappresentano le due versioni dialettiche dello stesso “cesarismo spirituale” che induce all‟obbedienza in omaggio alla convenzione e all‟opportunità, che sono risorse di una cultura che ha perduto ogni certezza di verità e che è sorretta solo da un‟etica relativistica, consapevole dell‟infinita varietà di forme e di credenze che nel tempo e nello spazio articolano le molteplici espressioni culturali della storia umana. Nell‟orizzonte della pura convenzionalità e volontarietà, la stessa ricerca della verità diventa inutile, esistendo già una tradizione che per caso ci si offre come valore orientativo da seguire, e che è non meno arbitrario del‟obbedienza che si deve allo specialista, conformemente al detto che “inicuique perito in arte sua credendum est”.105 Lo scopo di questo approccio agnostico era di dissuadere dall‟intraprendere una ricerca individuale, destinata al fallimento delle ambizioni superbiose del furor rationalis dell‟uomo di scienza, ma l‟esito mancato di conseguire una “certezza assoluta” determinò “il fallimento della scienza”. La critica scettica, pirronistica, si intreccia qui all‟esigenza

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Ivi, pag. 145. Ivi, pag. 146.

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devozionale di tener fede al dogma del peccato originale e al precetto di diffidare di ogni deificatio scientiarum, consigliando la via del non sapere come quella di gran lunga più sicura, finendo col venerare quella intatta semplicità del cuore ignara di conflitti di opinioni e di ricerca della verità coi mezzi del pensiero, [ossia in un] “encomium asini” che contrappone al “gigantesco elefante” della scienza l‟asino, come simbolo dell‟atteggiamento cristiano, e giunge a prendere le difese dei tanto condannati preti ed abati contro gli “orgogliosi sofisti”. 106

La ignorantia è per Agrippa – come lo sarà per Rousseau – la risposta sapiente al alessere spirituale provocato dalla perdita della originaria innocenza e non compensata dal sapere, irraggiungibile e perciò vano. Una forma di oblio dopo tanto peregrinare sapiente tra dottrine e credenze, la ricerca del riposo dal sapere (e non la consolazione del sapere), la “quiete d‟una atarassia spirituale” dove “il non sapere di Cusano è diventato un non voler sapere, l‟aspirazione ad una tranquillità idillica”, per cui la “devotio moderna” ha acquistato i toni di una “rassegnata semplicità cristiana”, dove la docta ignorantia, “al contatto con „eudemonismo del tardo-medioevo, rischia di diventare un‟occasione di estetismo”, una “ars ignorandi”. 107 Ma l‟agnosticismo tedesco seppe rifuggire da questa deriva sentimentalistica da dandy opponendo allo “idillio piagnucoloso” un pessimismo morale, distruttivo quanto sofferto. Erede diretto di Agrippa fu Sebastian Franck, il quale accentua ancora di più la separazione tra l‟essere di Dio, l‟essere in generale e l‟intelletto umano che Cusano era servito a rendere definitiva. La conoscenza del finito, divenuta problematica, lascia il posto a uno scetticismo che dalla realtà concreta si estende a quella metafisica. Ora la parola di Dio contenuta nella Bibbia è inizio e fine di ogni sapienza, anche se “vale per ciascuno nella misura dei suoi poteri”. Franck va oltre l‟atteggiamento quietistico, pone cioè l‟insufficienza delle espressioni umane, che egli sente più vivamente, al servizio di una tolleranza che non ammette alcun partito. La

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Ivi, pag. 147. Ivi, pag. 148.

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dottrina del nn sapere diviene un arsenale per gli attacchi contro i vincoli delle ortodossie vecchie e nuove, in ossequio al soggettivismo di quest‟epoca di transizione che non ha più radici.108

L‟insufficienza umana si trasforma in spirito di tolleranza. Non potendo l‟uomo conoscere l‟assoluto, non è in grado di parlarne, né per sminuirlo né per elogiarlo, per cui, di fronte al problema della vita, al thàuma, la filosofia resta muta, avendo perduto il linguaggio della ragione. Questa, emancipata dalla fede, prende una sua strada teoretica, quella della scienza naturalistica, mentre la fede resta sospesa al sentimento. E‟ questa una delle vie per le quali l‟epoca moderna è divenuta areligiosa, per questa ragione ha posto accanto alla religione positiva, sentita come presunzione, una filosofia critica ed una formazione interiore umana. 109

Ciò che non si è compreso è il ruolo della ragione all‟interno dell‟orizzonte della fede, fuori del quale essa non è più “filosofia”, cioè strumento della conoscenza razionale di Dio, ma “scienza”, cioè tecnica di costruzione metodica delle opinioni umane e delle ipotesi di conoscenza della natura, razionalismo. Franck sfugge all‟ateismo e al criticismo opponendo all‟ars ignorandi, la “arte di Dio”, “secondo la quale non si può fare Dio „tanto ingannatore‟ da non essersi dato a conoscere a ciascuno „nella misura della sua necessità‟ ”.110 Venuta meno la parola per trasmettere e conoscere la esperienza di Dio, resta solo l‟immediatezza diretta. Anche la Bibbia non fa eccezione, con le sue oscurità e contraddizioni. A ciò deve aggiungersi la “molteplicità dei libri santi”, che costituisce la prova ulteriore “contro la possibilità di una manifestazione di Dio in scritti canonici”, per cui “Franck non ammette, in senso stretto, né una rivelazione storica né una dogmatica, ma solo un sentire del tutto individuale nel silenzio dell‟animo”. Il rapporto mistico dell‟infinito con l‟anima che lo accoglie, nelle mani di Franck, diventa una marcata relativizzazione del concetto di Dio […]. L‟eterno, nella sua indefinita “mobilità”, ha la sua esistenza (non solo la sua

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Ivi, pag. 150. Ivi, pag. 151. 110 Ivi, pagg. 150-151. 109

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forma di rappresentazione) nel comporsi e scomporsi delle rappresentazioni, mentre l‟essenza resta totalmente trascendente, oscura, indifferente. L‟essere in sé e la manifestazione sono separati da un abisso insuperabile, il metodo della ricerca e le proprietà di colui che cerca determinano la figura ed il carattere di ciò che è cercato. Con ciò si rinuncia ad ogni criterio di esattezza dell‟immagine di Dio.111

La “inconoscibilità di Dio” è il presupposto della relatività di ogni ricerca, e non l‟esito, poiché “condiziona la relatività della sua manifestazione e viceversa”.112 L‟incognito non è l‟oggetto del sapere, ma il Soggetto, la cui negatività trascina nell‟ineffabile ogni relazione con esso. solo dando realtà al soggetto si riafferma la positività del sapere. Il soggettivismo è anzitutto una gnoseologia del possibile, cioè della possibile conoscenza. Conoscenza relativa a condizioni, tempi e cultura. Poiché niente è certo e ogni conoscenza è ugualmente valida e priva di valore, la verità e l‟errore si ripartiscono senza differenze fra cristiani e non cristiani, ortodossi ed eretici. Ciascuno ha in sé un minimo di presentimento della verità. così l‟idea di questa inevitabile ignoranza ha in sé le radici di una illimitata tolleranza.113

Dio è “absconditus”, e come tale conoscibile solo per negazioni. Finché era Dio il Soggetto, era la sua parola misteriosa, ma vera. Ora che il soggetto è l‟uomo, Dio viene conosciuto come negatività dell‟Essere sconosciuto, di cui si può dire solo che non si può dire. Il dire e il non dire perciò coincidono nel Niente, per cui “Dio si lascia cogliere quale „essenzialmente non è‟ ”. 114 Il livello di coscienza razionale, emancipatosi dal suo orizzonte di senso teologico, concepisce il Mistero di Dio come non-Essere, essendo l‟Essere legato alla determinazione razionale del giudizio. Ma proprio questa rappresentazione assurda di Dio, che capovolge l‟Essere nel suo opposto logico, anziché essere la prova dell‟incongruità

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Ivi, pag. 153. Ibidem. Ivi, pag. 154. Ibidem.

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teoretica della assoluta ragione, così come voleva Cusano, diventa, nella dimensione di senso razionalistica, un negativo ontologico, per cui, nella prospettiva gnoseologica soggettivistica, l‟Essere diventa il Niente, e l‟inconoscibile per sussunzione logica diventa il non-Essere parmenideo. Pertanto il sapere razionalistico, anziché assumere tale inconoscibilità di Dio come il limite insuperabile della ragione umana, lo assume a giustificazione della inesistenza di Dio come problema razionale, relegandolo alla dimensione del privato sentimento religioso. La contraddizione insuperabile della scepsi tardo-medievale è che, a fronte del rigetto della tradizione biblica e neo-testamentaria, si sviluppa un‟altra tradizione scritturale, di tipo più o meno mistico, e che in Cusano trova un campione primario, giungendo fino all‟estremo dell‟autodistruzione di ogni sapere e di ogni fede. Infatti, l‟agognata “rivelazione di Dio” cui anela la docta ignorantia, è preclusa dalla definizione di Dio come Essere-che-non-c‟è. Ma è esattamente questo non-essere a essere superato dall‟incarnazione di Cristo, per cui il ritorno alla Bibbia dopo Cristo è un passaggio dall‟Essere al nonEssere, che costituisce esattamente l‟involuzione di un pensiero (religioso) che nega il suo fondamento d‟essere ontologico, portandosi alla condizione teoretica pre-platonica e pre-dialettica, mitica. Partire dal non-Essere significa affermare per opposizione l‟Essere come, a sua volta, non-essere del non-essere, ossia ricadere nell‟ontologia negativa di Parmenide criticata nel Sofista da Platone. Infatti, l‟umanesimo non farà che rovesciare i termini dell‟alterità tra non-essere ed essere, ponendo l‟essere come termine di paragone e come altro-diverso. In tal modo, al posto della soggettività negativa di Dio si pone la soggettività positiva del‟uomo, che diviene pertanto la “misura di tutte le cose”, quelle che sono (diverse) e quelle che nonsono (l‟Altro, Dio). Ma rimuovere l‟Essere di Dio dal campo della conoscenza razionale, significa circoscrivere questa nel campo del solo Molteplice, degli enti fenomenici, assegnando alla scienza un primato legato alla credenza, cioè al mito, della sua esclusività teoretica. Solo a condizione che il pensiero rinunci alla verità è dunque possibile affermare il primato della conoscenza ipotetica, del sapere scientifico, ma appena si affaccia l‟esigenza di pensare l‟Uno, cioè l‟unità dell‟Essere ontologico e non meramente ideale o naturale, ecco che riaffiora il problema di Dio. E 362


infatti, poiché Dio è l‟Altro di tutte le cose che sono, comprese le idee, Egli è la vera unità e infinità a cui tutto e ogni cosa si rapporta. Se le idee, in quanto universali, non possono contenere le idee diverse, e quindi superare la loro molteplicità e finitezza, solo Dio può rappresentare la vera unità che tutto comprende in sé, sia pure a contrario, per negazione di tutto ciò che è, e che appartiene al Molteplice. Se tutto ciò che “è”, appartiene al Molteplice, solo Dio, che è Uno come sé e Molteplice come opposto a ogni cosa che è, è Uno. Il vero Uno, Dio, è Negativo. E se il positivo è la vita naturale, il Negativo è la vita spirituale, la Morte; e se la vita è solo se oggetto di conoscenza, la Morte è il Mistero, ciò che la ragione non può conoscere. Questo è il pensiero di Cusano. La dissoluzione cristologica è consistita, storicamente, nella sostituzione della logica della rivoluzione sociale a quella della conversione dei cuori, innestando la logica politica nelle relazioni spirituali, ossia nel guidare imperativamente la volontà di fede, trattandola alla stregua di una verità di ragione, che solo come tale è riformabile e conculcabile. Secondo la logica del Mistero, invece, la volontà di fede non può che essere suscitata carismaticamente, dipendendo essa dalla grazia, e non dal potere umano, cioè dall‟interesse politico. la volontà di fede, la verità interiore del “cuore”, è l‟atto di libertà che libera l‟uomo dalla necessità dei rapporti mondani. Voler tradurre la libertà interiore in necessità, cioè in volontà sociale, è non solo blasfemo ma assurdo quanto voler fare di una persona spirituale un individuo d‟ordine sociale: quanto il Cristianesimo ha esplicitamente ricusato della logica antica, e che l‟umanesimo razionalistico ha recuperato in chiave ideologica totalitaria. Lo Stato antico giustificava il Potere con la sua efficacia, per cui la logica societaria aveva la sola ambizione di renderlo coerente, sistematico, razionale. L‟umanesimo moderno, dissolta la sintesi cristologica, ha ripreso questo disegno esasperando l‟aspetto tecnico del Potere, esautorando la politica di ogni finalismo ideologico e riducendola a economica, a volontà razionalizzata fine a se stessa. La ragione dialettica socratico-platonica ha giustificato l‟appartenenza logica eleggendo la scelta razionale a realtà ontologica, trasformando il negativo in altro, sia nel senso teoretico del deuteragonista che in quello politico del nemico. La logica dialettica è strutturalmente 363


dicotomica, oppositiva. Essa non prevede mediazioni ma solo l‟affermazione esclusiva del sé contro l‟altro. Essa è intimamente contraddittoria, in quanto non può giungere alla verità senza sopprimere l‟antitesi, ma non può affermarla senza presupporla. E‟ una falsa verità come è una falsa unità l‟affermazione esclusiva di sé. L‟unità vera si ottiene non già negando l‟altro-da-sé – poiché l‟affermazione solipsistica del sé non lo trasforma in altro-dall‟enteche-è -, ma solo affermando un sé arricchito della potenza negata dell‟altro. L‟unità vera si ottiene riconoscendo l‟altro come sé, e negando pertanto la molteplicità dei rispettivi esseri per affermare l‟unità del loro reciproco non-essere. Il non-essere, non è il Molteplice, ossia il diverso come ente opposto, ma il non-Molteplice, e cioè l‟Uno. E l‟affermazione dell‟Uno non può avvenire nei odi proprii al Molteplice, ma nel modo proprio all‟Uno, ossia appunto negando la realtà molteplice e la sua logica oppositiva e affermando l‟unità della realtà unitaria, che è Spirito, quel non-Essere che sfugge a ogni determinazione oggettiva della conoscenza razionale, in quanto fondativa di ogni determinazione d‟essere, rispetto alla quale è Possibilità, così come, rispetto alla conoscenza fattuale, è Mistero, in quanto “è” già prima di “diventare”, cioè di determinarsi come ente nel tempo, storicizzandosi. L‟inizio significativo trascende la storia fenomenica, non esaurendosi mai nel suo divenire e perciò restando sempre sé stesso, e quindi Uno, e quindi è posto non in rapporto logico alla sua incidenza temporale, ma al suo significato ontologico. ed è in virtù di questo significato che l‟evento misterioso della Croce stia sempre all‟inizio di ogni senso storico degli eventi, quale fondamento trascendente. Ed essendo il Mistero eternamente all‟inizio di ogni senso ideale degli eventi storici, esso non può risolversi in oggetto problematico ed essere superato palla razionalità dialettica, ossia distinto come altro polemico rispetto al lògos apofantico. La ragione del Mistero non è la ragione del mondo. La ragione del Mistero lascia intatto il Mistero, il suo fondamento essenziale e inattingibile in sé, perché non oggettivabile, mentre la ragione del mondo è il mondo stesso, la ragione finita del finito. La ragione può dominare il suo oggetto, il mondo, ma non può trascenderlo, anche quando suo prodotto. L‟ammissione kantiana della “cosa in sé” conserva questa consapevolezza, che viene già adombrata dalla teoria di Cusano, che intende per “ignorantia” la intrascendibilità dell‟Essere 364


totale, della sua possibilità infinita. La ragione che si pone come fondamento del mondo razionale, cioè umanamente conosciuto, il mondo della Storia, si fonda per atto di auto-posizione, che è atto di volontà. All‟inizio della Storia razionalmente conosciuta si pone un atto supremo di volontà, che afferma la realtà del mondo nei termini della sua esclusiva posizione razionalistica, esclusiva di ogni altro senso. Scegliere l‟Essere, anziché il non-Essere, significa optare per la verità conosciuta dalla ragione che pensa l‟Essere, per cui l‟atto fondativo dell‟Essere diventa lo stesso atto di pensiero: cogito ergo sum. L‟universalizzazione dell‟atto posizionale fonda l‟Essere. E‟ per questa via fondativa che l‟idealismo rinuncia alla realtà del mondo per la realtà del pensiero che lo pone in essere, considerata la realtà “vera”. Affermare che l‟Essere “è” e pensarlo, si equivalgono. Da qui la necessità della coscienza per l‟esistenza dell‟Essere, ossia l‟umanesimo razionalistico. “Trarre il mondo” col pensiero, alla maniera platonica, significa razionalizzarlo, trasfigurarlo idealmente, espungendo dall‟esistente molteplice ciò che non-è oggetto di ragione, l‟indeterminato. Ciò che non è determinato non è ente molteplice, e quindi è Uno. Il razionalismo, volendo dominare il Molteplice, ma non potendo trascenderlo, elimina dalla Storia il Mistero, l‟Uno, e cioè la realtà di Dio. Il pensiero classico non conosceva la Storia perché si limitava a organizzare il mondo sociale, mantenendolo nell‟ambito delle leggi “fisiche”, naturali. L‟unità era costituita dalla società. Il cosmo cristiano è un mondo spiritualizzato nel segno dell‟umanesimo, ponendo l‟uomo-Dio al fondamento unitario della Storia della salvezza. Il Mistero della Storia consiste nella contraddizione di porre la Morte a fondamento della vita. Questa aporia è la “follia” al cospetto della sapienza profana e mondana, che la sola logica dialettica non può sciogliere. Da qui la sacra inviolabilità del Mistero da parte della ragione, che Cusano chiama “ignorantia”, cioè inconoscibilità. Ma da qui inoltre la differenza radicale rispetto al Mito, alla risposta confusa al thàuma che la ragione elaborava dialetticamente. Di fronte al Mistero cristiano, la ragione non interviene in modo correttivo, ma solo esplicativo. Essa non soppianta il Mito nella risposta al thàuma, perché la sua funzione ancillare è quella di renderlo comprensibile all‟uomo. Questo servizio ermeneutico comporta che l‟approccio della ragione al Mistero non possa essere affidato alla sola tecnica logica, ma 365


dev‟essere assistito dalla fede nel fondamento, cioè dalla Grazia, che è il principio di verità che, sin dal‟inizio, media il rapporto della conoscenza razionale col Mistero stesso. Diversamente che nel processo maieutico socratico, la verità della ragione non è alla fine del discorso dialettico, ma all‟inizio, sicché tutto il discorso della ragione, ossia il processo ermeneutico, conduce all‟inizio, chiarendosi come rivelazione infinita dell‟Essere, fino all‟apocalisse conclusiva, quando la fine coinciderà con l‟inizio. Questo il senso platonico dell‟accordo ermeneutico del pre-giudizio col giudizio, da cui discende l‟importanza dell‟esercizio caritatevole della ragione rettamente ispirata, cioè guidata dalla Grazia, che ispira le intuizioni del cuore. All‟interno dell‟orizzonte di senso del Mistero, la ragione ispirata dalla Grazia divina perde ogni carattere di libera ricerca, di significato antidogmatico, e il motivo autonomistico che aveva entro l‟unità idealistica del senso, se può conservare un valore di chiarificazione della rappresentazione simbolica della realtà proposta dal Mito, diventa istanza irrazionalistica di fronte alla verità del Mistero, perché contraddittoria rispetto al senso del suo fondamento ontologico. La “dialettica del razionalismo” consiste esattamente in tale esito contraddittorio della ragione che si emancipa dalla fede nel suo fondamento e si costituisce come fede auto-fondata, come credenza metodica e fantasia sistematica. Al Mistero la ragione infondata sostituisce l‟ipotesi, e il posto riservato dalla fede alla ratio è occupato dalla voluntas, che diventa lo strumento della ragione auto-noma. La religione del sistema razionalistico è la volontà, che, da distrazione della ragione diventa strumento della ragione. La volontà socializzata è il Potere, che si esplica attraverso la forma giuridico-normativa della legge. La confutazione idealistica del Mito (Eutifrone) ha lasciato la ragione dialettica senza fondamento veritativo. La verità è ora diventata mistero, esito incognito del processo logico-dialettico. Anziché all‟inizio, l‟Essere viene posto alla fine, tale da lasciare sospesa la ragione al suo esito. Ed è questa condizione di sospensione di senso a consentire l‟ipotesi socratico-platonica del Sofista per cui la ragione trae dal Nulla l‟Essere. Nell‟intervallo tra il Nulla e la Verità si esercita la funzione supplente dell‟Ipotesi, la quale vige al posto della verità. La rimozione del Mito ha lasciato quel vuoto metafisico di senso, dal quale la logica dialettica trae l‟Essere ideale, prodotto della sua attività 366


di pensiero. Il primato della ragione si costituisce con la soppressione dell‟Essere e la sua sostituzione con l‟Idea. Il vuoto lasciato dal Mito, rispetto all‟Essere idealistico del pensiero dialettico, che si determina nel giudizio come suo esito finale, ignoto prima del dialogo, è un nonEssere, dal quale prende le mosse il pensiero per determinarsi positivamente. Con Socrate comincia il razionalismo classico, elaborato da Platone e quindi da Aristotile. L‟umanesimo moderno tenta la stessa operazione col Mistero cristiano, trasformandolo in Mito oggetto di demitizzazione razionalistica. Ma l‟operazione risulta impossibile, perché il Mistero non è un Mito ma la totalità del senso su cui si esercita la stessa ermeneutica razionalistica. Il Mistero è il Tutto, e non può essere trasformato in Niente, ma solo essere rimosso come inconoscibile. Il Mistero è il senso stesso dell‟esercizio della ragione critica, e non un occasionale enigma, cioè un evento insolito suscitatore di risposte ragionevoli. Abolito il Mistero, viene a cessare anche la funzione critica del pensiero filosofico. Non c‟è assenza di senso nel Mistero, ma pienezza di senso. Entro l‟orizzonte di senso del Mistero, la ragione non può definire ciò che la contiene, ma solo cercare di chiarificare, nelle modalità consentite dalla condizione finita dell‟intelligenza umana, la propria posizione critica in riferimento al suo principio totale, posto all‟inizio e non alla fine dell‟attività noetica. Infatti l‟Apocalisse finale non sarà che la rivelazione compiuta del senso iniziale, la coincidenza del Mistero con la Verità. In questo senso, la ragione strumentale classica non può fondare la conoscenza della Storia cristiana, in cui il Tutto è già stato posto in essere all‟inizio – e non alla fine – del processo razionale, dando il senso del processo stesso e costituendolo come la fenomenologia del Mistero divino. Il razionalismo moderno può trovare la sua legittimazione epistemologica solo ponendo il Tutto come Niente, ossia facendo di Dio un non-Essere ente, un ni-ente. E‟ questo il significato nel nichilismo moderno, che pone il Soggetto trascendentale come Tutto e l‟uomo come fonte di senso e centro poietico della Storia demisterizzata, cioè razionalizzata e scristianizzata. La ragione senza fondamento ontologico si regge sulla forza della volontà, sulla quale costruisce la stessa città dell‟uomo, legittimata da un‟etica convenzionale e da una politica ridotta ad economia delle forze sociali. E la ragione sospesa sul Nulla fonda una civiltà instabile 367


e strutturalmente contraddittoria, cioè auto-dissolutoria, che fa della libertà individuale il fondamento del suo concetto d‟ordine sociale. La ragione del Nulla produce la logica del nichilismo, cioè la negazione del fondamento di realtà come Essere il cui divenire è la sua possibilità, non la sua generazione produttiva ex nihilo, ossia la sua riduzione a storicità, cioè ad attuale temporale. La ragion storica nega la possibilità della Verità dell‟Essere affermando l‟auto-fondazione, ossia l‟identità, del processo generativo della realtà con la sua conoscenza, ossia con sé stessa, concepita come Tutto, ossia “nient‟altro che storia”, ovvero Niente. Da qui l‟auto-confutazione dello storicismo razionalistico. L‟Essere razionalistico, infatti, identificato col divenire, ed emancipato dal suo fondamento ontologico, fa della Storia una sociologia, cioè una fenomenologia dei fenomeni sociali. Trasformato il divenire in Essere, cioè in realtà di pensiero, l‟oggetto della Storia razionalistica è il negativo dell‟Essere (= divenire) positivizzato: un Essere-non. Il negativo dialettico diventa positivo reale, e l‟opposizione logica inimicizia politica. Il conflitto dialettico, da logico che era entro l‟orizzonte di senso religioso, diventa ontologico entro l‟astratto orizzonte di coscienza razionalistico, e l‟alterità logica diventa opposizione reale, conflitto politico. E‟ questa la dialettica del razionalismo moderno: la conversione di ogni astratta tesi ideale nella sua antitesi reale. Entro l‟astratto orizzonte di senso razionalistico, la fede (posizione ontologica della credenza religiosa) diventa volontà d‟essere, posizione idealistica, la cui ratio diventa, da “valore-di-ragione” a “valore-dipotenza” (esercizio volontaristico della forza: politicismo ed economicismo). 6. Il sec. XV è “un‟epoca di epigoni”.115 L‟inesperienza dei mistici “non è quel generoso inclinarsi davanti alla tradizione, proprio dell‟uomo medievale che antepone la dottrina appresa al proprio pensiero, l‟autorità al proprio cercare”. Non essendoci più “un oggetto, come nella scolastica”, ma trattandosi “del processo personale unico dell‟esperienza mistica”,ciò che “era un tempo una esperienza diretta è diventato ora un‟esperienza mediata dalla cultura del trattatista”,

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R. Stadelmann, Op. cit., pag. 165.

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spesso venata di stupore scettico e di ironia, come nel caso di Erasmo. Quel che essi [i mistici tardo-medievali] presentano non sono più le loro stesse esperienze, ma le loro teorie [e] l‟espressione theologia mystica non significa più un sapere mistico su Dio, ma appunto teologia mistica. E‟ noto che in epoche prive di fede ciò che prima era una realtà vivente si presenta in forma letteraria, [per cui la mistica del XV secolo] divenne il centro di una visione riflessa, fondata su una profonda conoscenza dei fenomeni storici, in uomini ben diversi dai mistici autentici dell‟età precedente.116

La “visio Dei” era una posizione la meno vincolante dogmaticamente e la meno attaccabile razionalmente, per cui divenne un “aiuto e sostegno, quando tutto minacciava di frantumarsi”, sicché “non sarebbe inesatto definire come gnosticismo il carattere specifico di questa situazione spirituale: più che una filosofia mistica è una filosofia della mistica”.117 I “mysteria intellectualia” diventano il pensiero di ristrette cerchie esoteriche costituite di “pochi eletti”, riluttanti a divulgare le loro teorie presso un pubblico profano e incolto, esposto alla eresia.118 Il timore di provocare derive eterodosse presso un popolo ancora pregno di sentimenti religiosi tradizionali spingeva gli gnostici del XV secolo ad agire con una circospezione che rasentava la “cattiva coscienza”, per cui il dotto prende le distanze dal “sudicio mondo”, e seppure egli tiene ferma l‟idea che c‟è una sola verità, ha però rinunciato al principio che tale verità sia la stessa per tutti. Il veleno della critica sprezzante e pessimistica ha reso insanabile la frattura apertasi con la rassegnata prudenza della mistica tardo-medievale. [Se per Meister Eckhart] la mistica è un vangelo, per Cusano diventa una filosofia; i successori poi ne hanno fatto una teologia ed una dottrina segreta, sì che dovette divenire sempre più un rifugio di naufraghi, la cui situazione minacciata era rivelata più che nascosta dal loro

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Ivi, pagg. 169-170. Ivi, pag. 170.

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“E‟ indubbio che, in questa attenzione, gioca anche il timore che l‟attrattiva di tendenze extra-ecclesiastiche, sempre latenti nella mistica, non le porti ad un improvviso risveglio ed a una rapida diffusione”: Ivi, pag. 171.

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atteggiamento esclusivistico.119

A questa tendenza va aggiunto quel “complesso di idee che ha avuto la sua base sociologica e storico-culturale nella religiosità laica dei Paesi Bassi e ha trovato una formulazione letteraria […] nel libretto De imitazione Christi”, le cui radici non sono mistiche ma legate a un “movimento di riforma dei canonici regolari agostiniani” della congregazione di Windsheim, tendente ad affermare nuove forme di coscienza religiosa che includevano la “svalutazione delle prerogative ascetiche” a favore della “simplicitas”, quale virtù complementare a quelle cardinali della “paupertas” e della “humilitas”, alle quali si affiancava “il sentimento d‟indifferenza, di scetticismo e di superiorità nei confronti degli effetti salvifici dei sacramenti amministrati dalla chiesa”, così da configurare complessivamente un tentativo di “superamento dall‟iterno dell‟istituto sacerdotale e monastico”.120 La preminenza della “disposizione del sentire sul contenuto del sentire” oltrepassava i confini della ecclesia, coinvolgendo in un abbraccio unificante tutte le religioni e costituendo uno dei fattori di tolleranza tipica della cultura religiosa tardo-medievale, operando, attraverso l‟innesto nel‟idea della devotio moderna della corrente del moralismo del xv secolo, “come fermento cosmopolita anche nell‟atteggiamento degli umanisti di fronte alle questioni religiose”.121 Rispetto alla “simplicitas cordis” di Eckhart, quale sentimento originario, il nuovo concetto era piuttosto una “simplificatio” del sentimento religioso, che le faceva assumere “un senso edificante, popolare e sminuito” in cui scompariva la personalità del fedele di fronte al ritorno a quello “stato essenziale in cui si produce la nascita di Dio nell‟anima” presso l‟originario Logos.122 Ma il concetto di “simplicitas” non era univoco, e se per Groote andava inteso come “la rinuncia lla volontà di sapere, il supermento della „curiosità‟ ”, per Cusano era tutt‟altro che un sentire ingenuo, ma bensì costituiva “il terzo ambito della ragione „pura‟, l‟armonia

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Ivi, pagg. 172-173. Ivi, pag. 174. Ivi, pag. 175. Ivi, pag. 176.

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dell‟intuizione che sta sopra la percezione sensibile e la sola ragione”. La filosofia, da metafisica è diventata psicologia, sicché “tra i due mondi c‟è il rapporto che vige tra una esperienza vissuta e un‟emozione, tra il possedere e l‟attendere, tra il sì e il no”. Ibidem.] Mutano i valori: la disposizione morale di un‟anima sensibile, una passività incurante dei risultati effettivi e l‟atteggiamento negativo e limitante definiscono il carattere ristretto del De imitatio Christi [in cui] la visio si è mutata in visitatio, la pace della visione nella sensazione di essere visitati.123

Interviene una sorta di umanizzazione della rinuncia a sé, ossia di quella “personalità” che poi doveva costituire il paradigma e il fine educativo della tensione morale rinascimentale, ma attraverso quella “ariditas mentis” che è il tratto caratteristico della devotio moderna, la quale “non vive né fede né incredulità, non speranza né disperazione, non gioia dei sensi né ascesi”, e che si riflette “nella ostinazione legnosa e nello stanco malumore di vaste zone dell‟arte del XV secolo”.124 Si tratta di uno stato d‟animo che estende all‟epoca storica la posizione d‟impotenza che l‟intelligenza critica riscontra al contatto di una realtà sociale e religiosa ormai in via di esaurimento della fede ontologica che ha sostenuto l‟universo di senso medievale. L‟impotenza non è ancora distacco, poiché quel mite sentimento religioso di “semplicità” invocato malinconicamente produce ancora effetti sensibili nell‟animo del dotto, ma che sono “psicologici”, e non riescono più a soffocare le istanze critiche di una ragione in transizione verso posizioni demitizzanti. In questa zona “critica” di confine tra due livelli di coscienza, quello mitico e quello razionale, l‟intelligenza si accascia in un languore metafisico che coinvolge la stessa volontà, sì che l‟esistenza si conduce in un torpore flemmatico che non è solo gravità di una pensosa lenitas ma piuttosto rassegnata malinconia, molto prossima allo struggimento tipico del decadentismo. La disposizione d‟animo della devotio presenta un‟affinità elettiva con l‟uomo

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Ivi, pag. 177. Ivi, pag. 178.

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post-romantico, soprattutto per il fatto che la radice di quel suo morire non è la lotta che il monaco conduce contro la vita sotto la bandiera del soprannaturale, bensì la fuga dal mondo per disgusto della vita. E‟ proprio quel motivo che la dottrina monastica medievale rigetta con tanto rigore, quella aspirazione alla morte per disperazione che il cattolicesimo tridentino vuol eliminare con ogni mezzo,

opponendosi all‟immagine dell‟homo desolatus, che non sente più alcun interesse e trasporto per la vita, ma solo “un tedio intollerabile e tale da dover essere abbreviato ad ogni costo”.125 E‟ l‟apologia dell‟amor mortis che anela alla “liberazione dalle paure e il riparo per chi è mortalmente ferito”, quel “tedium vitae, che mai era mancato nel medioevo, ma che nei suoi momenti salienti era ispirato dal rigoroso dualismo dell‟al di là o da un fervore escatologico”, e che ora “è entrato in una nuova fase” di “dolore cosmico”.126 Si sbaglierebbe riducendolo a uno stato d‟animo meramente psicologico e circoscritto all‟ambito sapienziale, essendo invece il motivo dominante di un‟epoca che avverte, sia pure a livelli di coscienza diversi, la dissoluzione metafisica del cosmo cristiano. Né è un caso che scrittori come Cicerone, Seneca, Virgilio, Petrarca e Platone siano gli autores prediletti di quei distaccati cultori della tranquillitas animae, il cui motivo ostile agli affari del mondo “va sempre più secolarizzandosi, cioè diffondendosi anche fuori del chiostro”, rappresentando la risposta del declinante cattolicesimo alla crisi metafisica, che potremmo chiamare di “ascesi extra-mondana”, per opporla significativamente “a quella inframondana del lavoro e della professione”,127 coltivata dallo spirito protestante come speculare risposta a quella crisi. Alla parola sapiente si sostituisce il silenzio, che lascia che il mondo vada per la sua strada. La rassegnazione è una delle matrici del soggettivismo di Sebastian Franck, che Stadelmann chiama “il curatore del fallimento del medioevo”. Franck esprime meglio di altri l‟interno rodìo di uno smarrimento senza luce di speranza, custodito con la gelosa cura di chi è consapevole che esso sia un sentimento elitario ed

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Ivi, pag. 179. Ivi, pag. 180. Ivi, pag. 181.

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esclusivo.128 Questa consapevolezza fa del dolore un privilegio del rango intellettuale, ma costituisce anche il sintomo della crisi d‟identità che sta attraversando il chierico medievale in quell‟età di mezzo, dovuta non ancora a ragioni sociologiche di status quanto alla impotenza teoretica a rielaborare il senso della fede tradizionale in mancanza dello strumento della ragione, esautorata dalle sue funzioni ermeneutiche ancillari. Il passaggio dall‟oggettivismo al soggettivismo si consuma in una crisi interna all‟universo di senso religioso, determinandosi come dissociazione tra fede e ragione, ma attraverso un opposto processo di emancipazione che interessa tanto il livello di coscienza fideistico quanto quello razionalistico, condotto all‟insegna, rispettivamente, del misticismo e del naturalismo, i quali sono stati tanto i fattori almeno quanto i risultati della crisi religiosa epocale. Infatti, le opposte tendenze si manifestarono non a caso nelle stesse aree culturali che divideranno la cristianità in fideisti protestanti e razionalisti cattolici, evidenziando come la mediazione della Chiesa burocratica non riuscisse più a contenere nel proprio ambito istituzionale i fermenti spirituali che anelavano a una conforme rappresentanza ecclesiale. Così la Chiesa, per difendere la sua struttura istituzionale, dovette difendere la sua cultura di legittimazione, la sua teologia, trasferendo le questioni burocratiche in ambito teologico, allargando così il conflitto anziché contenerlo, e facendo implodere il sistema romano. In tal senso, la “simplicitas” evocata dagli gnostici cristiani del xv secolo, tradisce il rimpianto per l‟appartenenza perduta alla tradizione teologica da parte di chi stia già maturando nella propria coscienza quella separazione dall‟universo religioso cattolico che coinvolgerà anche i depositari dell‟ingenuo sentimento religioso originario, cioè il popolo dei fedeli, la cui partecipazione esistenziale alle dispute teologiche costituirà il paradigma storico della ideologizzazione totalitaria delle masse. E‟ all‟interno dell‟universo religioso che matura dunque il primato della mediazione politica su quella teoretica, che segna l‟inizio della modernità come ricupero e attualizzazione dei valori pagani della socialità. Il silenzio del chierico è l‟attesa dell‟evento “rivoluzionario”, così come il distacco dal mondo è la distanza dalla tradizione, nella quale

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Ivi, pag. 182.

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era ancora avvolta la coscienza religiosa popolare. Quando la concezione aristocratica, che divide il mondo in una maggioranza che domina ma e sprovvista di valore e in una piccola schiera eletta di outsiders, fu applicata alla storia delle religioni, ne risultò l‟idea paradossale di una cronaca dell‟eresia che trascura le chiese e i santi e dà tutto il rilievo a quei rari uomini d‟eccezione che hanno osato pensare e sentire “diversamente”, cioè “rettamente”. Questo amore fondamentalmente anarchico per l‟opposizione ad ogni costo alla massa è una delle matrici […] della tolleranza tardo-medievale [che] lasciava un ampio spazio alle opinioni individuali [e al] punto di vista soggettivistico, [in parallelo a quanto, con maggiore consapevolezza storica,] Erasmo sosteneva a proposito della funzione che nello sviluppo storico svolgono le correnti eretiche. 129

Nondimeno, codesto elitismo includeva implicitamente un motivo tipicamente ecclesiale, anche se travisato in senso laico e sentimentale: la funzione mediatrice dei chierici votati alle arti noetiche. La crisi della Chiesa viene vista come incapacità istituzionale a comprendere nel proprio organismo burocratico non solo la devotio universale degli stessi cristiani, ma soprattutto il pensiero fedele. La nascita e l‟affermarsi di professioni diverse da quella ortodossa cattolica, testimonia del processo di incontenibilità del fenomeno religioso nei termini originari della missione evangelizzatrice e quindi movimentista. La stabilizzazione mondano-politica della cristianità riproduce all‟interno dell‟ordo religioso la tensione profetica che aveva animato la fede in un mondo ancora pagano, facendo quindi della Chiesa il termine dialettico e conservatore del nuovo movimento ideale e devozionale. Dopo la delusa attesa di Cristo, il fallimento del Cristianesimo storico, della tensione messianica neutralizzata in forma istituzionalizzata eretta a sistema teologico-politico, rappresenta il secondo trauma della fede, al quale la Riforma protestante intende dare una risposta fedele, interna all‟universo ecclesiale. L‟atteggiamento esclusivo e liquidatore di Roma, sembrerebbe dimostrare storicamente l‟intera incomprensione teologica del fenomeno spirituale contemporaneo, sia nel senso della crisi che in quello delle possibili risposte consequenziali. Ma, sia pure nelle

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Ivi, pagg. 183-184.

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ristrettezze comunicative dei tempi, è difficile supporre che il variegato movimento culturale coevo potesse essere ignorato o passare inosservato, soprattutto trattandosi di moti riformatori interni alla struttura ecclesiastica, e quindi non pregiudizialmente viziati di prave intenzioni. E‟ piuttosto d ritenersi che la reazione ufficiale della Chiesa si inasprì, non tanto a ragione delle dottrine potenzialmente eretiche, quanto di fronte alla minaccia di una dissoluzione della struttura ecclesiastica, che avrebbe compromesso in modo forse irreparabile il ruolo politico della Chiesa in Europa. Anzi, la reazione epurativa della Chiesa, attivata a ridefinire i termini dell‟ortodossia cattolica in senso inevitabilmente settario e restrittivo, interno al solo universo cristiano politicamente controllato da Roma, palesò la piega secolaristica del cattolicesimo, che, sotto le spoglie del defensor fidei si preoccupava di fare la parte del defensor pacis, ossia di assicurare quell‟ordine mondano storicamente funzionale alla sua egemonia religiosa: la pax cattolica erede della pax romana. D‟altronde, la delusione sentimentale, divenuta morale prima che intellettuale, si attiva, ancor prima di esplodere, in termini e modi quietistici, paventando che l‟ordine tradizionale potesse essere messo in crisi dallo stesso genio umano, segnato dalla sua natura lapsa e quindi soggetto alla corruzione di una volontà non più contenibile entro il sistema tradizionale. Sfuggito al controllo della Chiesa, avrebbe potuto sfuggire anche a quello della stessa fede, per cui ogni segno di vitalità intellettuale – artistica, teologica, pratica, scientifica – veniva avvertito come potenzialmente eversivo e diabolicamente pericoloso, e perciò biasimevole e temibile. Una sorta di resistenza al declino della Chiesa sotto forma di resistenza al progresso della civilizzazione. In questo senso va inteso il favore ecclesiastico accordato non a qualsivoglia esperienza di fede o di dottrina soggettiva, ma esclusivamente verso le coscienze critiche nei confronti della civiltà. Lo spirito settario ed elitario aveva fondamento nella paura che la critica interna ai cenacoli devozionali potesse trasmodare all‟esterno come atteggiamento critico verso la stessa fede, che provocòla preventiva svalutazione morale e intellettuale di ogni conoscenza profana, intendendo per essa ogni sapere che non avesse a fondamento l‟intuizione (cattolica) di Dio. La paura della problematicità di una fede universale che esigeva una professione universale mostrava i limiti storico-culturali della gestione della pretesa 375


paolina e agostiniana di una religiosità inclusiva di ogni sapere, anche profano, nel suo orizzonte di senso. Ma proprio la perdita della visione cristologica a favore di quella vetero-testamentaria e misticheggiante legittimò l‟opposta reazione che esaltò l‟altro termine della sintesi cristiana, quello sapienziale greco e latino, sicché la “protesta” mistica alla crisi cattolica ebbe come contrappasso dialettico la “emancipazione” razionalistica dell‟Umanesimo e del Rinascimento, antesignana della stagione illuministica e scientistica. La crisi spirituale si consumava ancora all‟interno della cultura religiosa, sia pure in declino, che aveva nella Chiesa la custode dei valori ormai perduti e perciò ancor più preziosi. Questa saggezza Si fonda su quella che Scheler chiama “l‟idea del resto”, cioè l‟idea del sopravvivere di pochi buoni e pii che si isolano e si innalzano, come un‟isola nel mezzo di una cultura che si prepara a morire. Perciò questo fenomeno di apparente anacronismo […] è, al contrario, in pieno accordo col suo tempo come carattere di un‟epoca di declino di una cultura. 130

Sono i prodromi di quella pietà laica che schiuderà il successivo risveglio della fede, ma è anche l‟estenuazione di una fede che cerca nuovi sbocchi laici, oltre le ristrettezze dei percorsi canonici tradizionali. Come nel caso paradigmatico dell‟Eutifrone platonico, è la perdita del senso della realtà, ossia della capacità di ordinare il divenire del mondo in un racconto cosmologico rassicurante, a incentivare la ricerca di quel senso perduto in un altro livello di coscienza in fieri. Lo stato di indecisione tra ritiro mistico e azione pragmatica, “non ha la forza di liberarsi del carattere esclusivo del suo ideale contemplativo”, suscitando le riserve di Lutero, e, pur animato da intenti pedagogici e caritatevoli, “questo invito alla santità, al pari della mistica speculativa di Cusano, non ha saputo pervenire alla vitalità morale della mistica tedesca classica”, ripiegando verso un malinconico congedo e una “rassegnata passività”,131 sicché “la voce del medioevo che si spegne resta la parola del contadino-poeta: fine del

130

131

R. Stadelmann, Op. cit., pag. 185. Ivi, pag. 187.

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volere è il non volere”.132 La docta igorantia e la mistica, malgrado le loro radici scettiche e rinunciatarie, erano il tentativo di salvare per le coscienze la religione, mediante una psicologizzazione dei suoi valori. Ma nel far questo, erano già su una via che si avvicina a quell‟atteggiamento spirituale che mette in pericolo l‟esistenza stessa della religione.133

L‟accento si sposta dai rapporti oggettivi all‟esperienza soggettiva, facendo della religione l‟incontro della trascendenza con la coscienza del credente. Questa nuova forma di pensiero, nel suo idealismo, fa dell‟individuo il creatore che riconosce la verità per il fatto che è in lui, e che vuole o ha il dovere di volere il bene in quanto è un‟idea (non in quanto è Dio). La ragione è diventata il principio unico che ha vanificato la realtà del signore del mondo e salvatore delle anime, facendone un‟astratta sostanza dello stesso genere di quelle che si trova nell‟uomo.134

L‟orizzonte di senso religioso, già inclusivo del piano di coscienza razionale, viene soppiantato dalla visione razionalistica, che pone l‟Idea al posto dell‟Essere di Dio,135 secondo un movimento classico di

132 133

Ivi, pag. 188. Ivi, pag. 195.

134

Ibidem. Il processo di razionalizzazione dell‟Essere consiste nell‟isolare gli enti determinati dal loro contesto in divenire, assumendoli come elementi assoluti, ossia nella loro mera attualità fenomenica, e irrelati ad alcuna determinazione di senso che non sia quella del giudizio di realtà. Se, all‟interno dell‟orizzonte di senso religioso, la realtà del giudizio è la stessa realtà intuita ontologicamente nella decisione di fede fondamentale nell‟Essere, per cui il livello di coscienza razionale si pone come il suo momento dialettico di inveramento del senso originario; la costituzione di senso razionalistica, invece, si determina a partire dal senso razionale, e non fondamentale, per cui l‟astratta realtà del giudizio razionale diventa l‟unica realtà valida ai fini di una sua determinazione di senso. E perciò, astratta dal divenire interno all‟orizzonte di senso ontologicamente fondato, la realtà dell‟oggetto del giudizio razionale è realtà “ideale”, non esistenziale. E poiché la realtà del mondo-della-vita non può mai essere trascesa, ossia diventare oggetto astratto del giudizio razionale, essa può soltanto essere rimossa 135

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sostituzione del piano ontologico con quello logico che già conosciamo e che determina una “autonomia del razionale [che] finisce col non aver più bisogno di alcuna religione e [che] culmina in un‟etica puramente umana”.136 Il razionalismo si lega alla religiosità della “sensibilità interiore” e della cura dell‟anima attraverso il comune individualismo ed eudemonismo, la cui “concomitanza di rassegnazione metafisica e di ottimismo razionalistico” confermerebbe la teoria fenomenologica di Hegel circa il rapporto necessario tra scetticismo e stoicismo. Senza contare che lo spiritualismo religioso finisce necessariamente in una forma di assolutizzazione dell‟esperienza vissuta personale, in un totale soggettivismo dello “spirito” che non riconosce alcuna norma fuori di sé. Anche al concetto di ragione “idealistico” del tardo medioevo si apriva la via che conduce da Fichte al romanticismo, da un individualismo dell‟individuo generale a quello dell‟individuo particolare, dall‟autonomia all‟autarchia.137

Entrambe le forme di razionalismo, quello tardo-medievale e quello moderno, “hanno un lato costruttivo ed uno illuministico”, realizzando entrambi “un‟operazione di critica e di sostituzione”, attraverso lo sviluppo di un processo che

come indeterminato non-essere rispetto all‟essere ideale. Questa operazione di rimozione è tipica di ogni forma di idealismo, da quello platonico a quello kantiano e a quello husserliano, i quali “mettono tra parentesi” la realtà del divenire per considerare fenomeno logicamente soltanto la realtà razionalmente determinata, cioè quella appunto ideale e astratta dal suo senso originario, che è fondamentalmente religioso, cioè mitico. La rappresentazione mitica non determina la realtà nel suo valore ideale, come fa invece il giudizio razionale, ma la evoca rappresentandola simbolicamente, lasciando indistinto il suo senso razionale da quello meramente evocativo. La rappresentazione razionalistica, di contro, assume come reale soltanto il senso razionale della realtà, cioè quello sussumibile nel suo valore ideale sistemico, distinto da quello giudicato irrazionale e quindi invalido, privo di valore ideale. il razionalismo intendendo fondare la realtà sull‟astratto ideale razionale, destruttura l‟orizzonte di senso religioso e l‟intera cosmologia mitica, facendo violenza all‟Essere negandolo. 136 Ivi, pag. 196. 137

Ibidem.

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Porta la dottrina idealistica del potere creativo della ragione autonoma a costruire un‟etica relativamente irreligiosa, ad ampliarsi poi in una specie di panlogismo e ad orientarsi, nella sua applicazione alla religione, nel senso di un teismo universale cui fornisce inoltre il fondamento di una filosofia della storia, per sfociare infine in una ancor timida idea di tolleranza […]. Per altro verso, si fa luce un netto atteggiamento eudemonistico ed utilitaristico, che tende a fare della religione una morale e che avrà un esito radicale nella risoluzione democratica e naturale del concetto di chiesa. 138

Già in Cusano la possibilità della conoscenza si offriva, oltre che nella “visione” e nel perseguire le tracce simboliche dell‟assoluto, anche attraverso il monismo della pura ragione, la cui conoscenza era in realtà “una autocoscienza della ragione che si sa come parte del tutto”, panteisticamente, che colloca il microcosmo umano nel macrocosmo, fino a Dio. Le tendenze mistiche contrastano quelle razionalistiche, che però sono prevalenti. Per Cusano il razionalismo non interviene sulla coscienza dall‟esterno per potenziarne la creatività mistica, ma dall‟interno, in quanto patrimonio insito nel microcosmo della coscienza umana. 7. Umanesimo e razionalismo sono espressioni culturali di una stessa tendenza filosofica che sposta l‟attenzione dalla metafisica alla questione antropologica. La conoscenza dell‟uomo viene strettamente legata alla verità e alle facoltà della conoscenza, a partire da quella “visiva” ossia “ideale” in senso etimologico, che si sviluppa “lungo le linee tracciate dalla teologia medievale e con l‟aiuto della psicologia agostiniana dei tre gradi di conoscenza”, i quali, per similitudine, “si appropriano delle forme dell‟essere loro corrispondenti in ragione della loro conformità alla verità”. La conoscenza razionale, come atto di illuminazione, è paragonabile all‟atto creativo divino, “il titolo della sua eguaglianza con Dio”.139 La condizione del dominio della ragione sulla realtà è di porsi come “misura e autrice” di tutte le cose, attraverso la negazione del suo fondamento ontologico originario, di cui ha usurpato il senso, cioè il suo valore significativo.

138 139

Ivi, pagg. 196-197. Ivi, pag. 199.

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Lo spostamento ontologico dall‟oggetto al soggetto, se ha relativizzato il fondamento di certezza della conoscenza, ha potuto instaurare una relazione gnoseologica col reale attraverso un rapporto di conoscenza del soggetto col suo oggetto esaustivo di ogni senso teoretico, mercé la similitudine degli attributi metafisici del soggetto trascendentale con quelli divini, in modo da far convergere nell‟uomo “tutto il creato”.140 L‟attenzione si sposta dalla “quidditas rerum” alla “preciositas mentis”, senza la quale “ogni cosa creata è priva di valore”.141 Tale “preziosità” consiste nella capacità di discernimento del bene dal male, cioè individuazione di quel “valore” delle cose che non è attribuito loro dalla ragione filosofica – interna cioè all‟universo di senso religioso -, e che consente di stabilire un ordine gerarchico da parte dell‟intelletto umano al mondo reale, ideale e divino, poiché “anche il valore di Dio è in suo potere”. La conoscenza non è più, come nel cosmo teologico, una funzione della fede nell‟Essere trascendente ogni possibile conoscenza, ma è lo strumento attraverso il quale il servizio si emancipa dal suo fine, sostituendolo. Sicché la conoscenza non è più diretta a Dio, come suo oggetto esclusivo e privilegiato, ma lo sostituisce con la realtà del mondo, usurpandone il posto di Soggetto divino. Ciò comporta che “la partecipazione al divino” attuata dalla conoscenza, inerisce non solo alla “coscienza razionale”, interna all‟orizzonte di senso religioso, “ma anche, in misura inferiore, a quella intellettuale e sensibile”, ossia a ogni grado di conoscenza, tutti riabilitati di fronte alla scepsi religiosa e filosofica della “ignorantia”, per cui “compito dell‟uomo è la formazione e il compiuto sviluppo di tali facoltà”, che sono “il più bell‟ornamento della dignità dell‟uomo armonicamente sviluppato”. 142 Se l‟idealismo classico fa della personalità virtuosa “il punto centrale di un‟etica autonoma che trae da sé tutti I valori”, la filosofia di Cusano pone razionalisticamente la moralità dell‟uomo come una totalità spirituale e corporea , un “ordo ad unum” il cui “risultato è

140

Ivi, pag. 200.

141

“Sine ipsa omnia creata valore caruissent”: N. Cusano, De ludo globi, cit. in Stadelmann, pag. 200 n. 15. 142 Ivi, pag. 201.

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molto analogo a quello kantiano”, anche se ottenuto per mezzo della psicologia aristotelica. Così, la persona, quale “unitas humanitatis”, è fondamento etico dello “iustitialis ordo”, così come il fine della conservazione dell‟ordine unitario diventa il contenuto della legge morale: “Nullus homo amandus est nisi in unitate atque ordine humanitatis”. La metafisica diventa la proiezione di questo universo morale nato dall‟unità della coscienza, costitutiva del mondo.143 Porre la coscienza umana, non più solo come riflesso passive di quella divina, ma come legislatrice cosmica e criterio di valore della realtà, significa esautorare il posto di Dio e quello della colpa e della grazia. Infatti, questa deriva razionalistica della orale come compendio microcosmico dell‟essenza cosmica universale, crea le premesse della scissione dell‟unità metafisica cristiana incentrata sulla figura simbolica e teologica di Cristo, sintesi divino-umana e misura di valore universale. Come disse Lutero a proposito di Erasmo, “humana prevalent in eo plus quam divina”.144 La glorificazione dell‟uomo, in Cusano come in Erasmo, poggia sull‟idea del libero arbitrio, ossia sulla lettura antropologica pelagiana, di cui “il razionalismo di Cusano […] può ben essere visto come la forma estrema di concezione indeterministica”, mentre agli occhi di Lutero, l‟egemonia della ragione non può che affermarsi a scapito della gloria divina e della maestà di Dio, sicché per lui “fare della ragione la norma in base a cui l‟agire di Dio sarebbe valutato e da cui dipenderebbe la bontà di tale agire non può apparire che come una bestemmia”. 145 Al punto in cui è giunta la pretesa umana di giudicare Dio, è impossibile far vivere la stessa fede religiosa, il cui presupposto è la “disperatio sui” dell‟animo umano, che aspira all‟azione di Dio proprio in quanto “non riconosce ai poteri conoscitivi propri della ragione la possibilità di distinguere il bene e il male”.146 La figura di Dio, resa accessibile all‟intelligenza umana attraverso l‟incarnazione di Cristo, che l‟ha umanizzata e trasformata in realtà anche finita, poté sostituire la società pagana come referente di completamento della insuperabile

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Ivi, pag. 202. Cit. in Ivi, pag. 202. Ivi, pag. 203. Ibidem.

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finitezza antropologica dell‟uomo, in quanto la sua originaria trascendenza venne superata dalla testimonianza evangelica del suo Essere, la cui possibilità storica venne affidata alla buona volontà dell‟uomo di fede. Con l‟incarnazione, lo Spirito si umanizza, diventa carne e sangue, e perciò segno tangibile della possibilità di edificare, in suo nome, un‟altra civiltà rispetto a quella politica, della pòlis, ossia quella caritatevole dell‟ “ordo amoris”. La verità cristiana aveva neutralizzato nel suo orizzonte di senso il logos Greco, la sua logica politica, quella ratio mondana che, alla fine dell‟ordine cristologico medievale, affermava le sue ragioni autonome sotto forma di libertà di volere, che si pone dunque, nel senso di Lutero, come alternativa pagana alla fede religiosa. L‟idea di Lutero è che questo “razionalismo sacrilego” sia strettamente legato alla “sceptica Theologia” che ha messo in discussione la stessa realtà del creato e la possibilità della conoscenza, interpretando malamente la visione medievale del mondo fondata sulla definizione agostiniana della colpa. Anzi, proprio dell‟eredità dogmatica il nuovo razionalismo cercherà di sbarazzarsi, concependo “il sentimento cristiano della colpa come un‟angoscia insensata”, che opprime il sentimento della vita.147 Ogni limitazione della libertà del volere e dell‟umana responsabilità è vista come un ostacolo al libero perfezionamento, per cui, di conseguenza, è da respingere la dottrina del peccato originale ereditato da Adamo.148 Questa posizione idealistica ha dirette ricadute sui dogmi cristologici e sulle tre possibili maniere di affrontare la questione: quella religiosa, che accetta per intero il mistero del dogma; quella morale, che ricorre all‟idea del carattere di modello in temporale di una vita assoluta; e quella storico-filosofica, che inserisce Cristo in uno sviluppo organico comunque concepito. Posta nei termini di una alternativa, la questione si riduce a decidere se la comparsa di Cristo, mediante un inizio radicalmente nuovo, faccia compiere un passo in avanti irripetibile, non tanto alla storia del mondo, quanto alla storia di Dio, oppure se Gesù sia colui che risveglia certe energie, già presenti nello spirito dell‟uomo, ma assopite, un prosecutore quindi che a sua volta, e nelle circostanze opportune, possa e debba venire

147 148

Ivi, pag. 206. Ivi, pag. 207.

382


continuato.149

La questione cristologica si presenta quindi come preminenza accordata alla “rappresentanza”, ovvero alla “imitatio”. Per la rappresentanza si schiera Lutero, che intende la santità una essenziale novità del cristianesimo e non ammette alcuna possibile santità in personalità pagane. Per la “imitatio” si pone invece tutto il tardo medioevo, da Eckhart a Sebastian Franck. Gli spiritualisti del sec. XVI si oppongono alla teoria luterana del “servum arbitrium” intuendo che la posta in gioco siano le prerogative della ragione e della forza morale dell‟uomo, che, sulla tradizione stoica, appare loro naturalmente buono. In questa posizione essi si scontrano con la autorità della Scrittura e dei padri della Chiesa, oltre che con Lutero. Per trovare un sostegno a questa concezione ottimistica della natura e per farla prevalere, si opera una straordinaria contaminazione. L‟opposizione tra “scrittura” e “spirito” che è al centro del loro interesse religioso diventa opposizione tra artificiosità e neutralità e, in una visione ancora più generale, tra arte e natura. Quanto più viene riconosciuto il carattere di istituzione derivata della religione positiva e dei suoi organi, cosa che porta ad una sua svalutazione, tanto più cresce la considerazione per quelle fonti immanenti di conoscenza. 150

La natura è il modello originale e Dio stesso insieme alla vita,mentre l‟arte è quella derivate, la copia e la sua “scimmia”, l‟apparenza. Da qui la preminenza della “religione razionale”, che si fonda sulla “parola innata” e insita nell‟uomo, sulle relazioni eteronome della religione e del logos, che “dimora sostanzialmente nell‟uomo” dando voce alla sua “religione naturale”.151 Pertanto il lògos naturale non viene più limitato all‟ambito del cristianesimo, ma è un principio universale presente nell‟antica filosofia quanto nei libri profetici della Scrittura, e non soltanto in semplice traccia ma col suo intero contenuto di verità. d‟altra parte, perché questa identificazione potesse reggere, si dovette

149 150 151

Ivi, pagg. 207-208. Ivi, pag. 209. Ibidem

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razionalizzare e naturalizzare tutto quel che si intese fosse verità essenziale. 152

La “sapienza morale dell‟uomo” diventa un patrimonio universale, che Dio ha destinato al mondo non solo attraverso Cristo ma anche i pagani illuminati. L‟idea dell‟uomo contiene in sé uno splendore del tutto nuovo, la dignità dell‟uomo eguaglia quella del cristiano. Solo presupponendo questa comunanza nella ragione si può intendere per intero il cosmopolitismo umano di Franck: uomo per ogni uomo.

Da qui il collegamento con l‟umanesimo platonico italiano di una posizione autonoma del pensiero, che in Cusano assume una fisionomia panteistica nata dalla mistica, mentre in Franck quella di una “rivelazione individuale mediante la ragione”.153 Il razionalismo sviluppa e consta sempre di due tendenze opposte: da un lato, una filosofia religiosa della storia, e dall‟altro una concezione della religione che Dilthey ha chiamato “teismo universalista”. Entrambe sono presenti nel “sistema naturale” della cultura del sec. XVII, la cui base di partenza è la constatazione comparatistica della stessa rappresentazione fondamentale di Dio attraverso le diverse religioni particolari, dalle quali, per astrazione, è possibile ricavare “una religione unica, normativa e fondamentale, la cui giustificazione sta nella sua natura razionale e che si mantiene indifferente di fronte alla pretesa di superiorità di ogni singola religione”. L‟altra posizione, storicistica, “parte dall‟idea che anche la ragione ha uno sviluppo e ha bisogno di una formazione”, per cui i posto delle religioni positive riflette “il piano di educazione della ragione”, stabilito in un ordine necessario nella storia. Non si tratta di una “fusione delle religioni nella storia universale”, ma di un movimento ideale della ragione che si dispiega in una sua storia progressiva. Dalla prospettiva illuministica, la concezione della religione naturale è di più ampia portata rispetto a ogni primato accordato al cristianesimo sulle altre religioni. Ma resta decisivo e problematico che entrambi “questi due

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Ivi, pagg. 209-210. Ivi, pag. 210.

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movimenti di pensiero non possano venir derivati l‟uno dall‟altro”,154 pur restando abbinati “al comune ambito razionalistico”.155 Sul precedente agostiniano del “regnum militiae”,156 la visione storicistica è entrata nella “immagine feudale del mondo” attraverso la teologia di Gioachino da Fiore, per la quale “l‟azione di grazia di Dio non è un fatto concluso che sta nel passato ma un‟opera che progredisce”, secondo quanto teorizzato “nella forma più evidente ed efficace, in Duns Scoto”. Questi motivi sono “estranei a una religione della trascendenza assoluta”, come testimoniato da Lutero, la cui concezione misteriosa della salvezza “non sopporta che il regno di Dio venga visto come un auto sviluppo dello spirito, come una creazione in divenire”.157 A questo punto la frattura con la cultura mondana è insanabile e “definitiva” fra “ciò che è cristiano e ciò che è fuori del cristianesimo”, producendo quella rottura dell‟unità dello spirito propria della filosofia del Medioevo. Le tensioni escatologiche della mistica distolgono l‟attenzione dalla crisi del mondo storico, riportandole all‟interno della coscienza come un “dramma dell‟anima”, la cui dinamica coincide già in Origene con una “ontologia della salvezza”.158 Ma la prospettiva millenaristica fu neutralizzata e “allontanata dalla Chiesa” da Agostino, il quale “non combatte il millenarismo, ma lo reinterpreta, in modo da fargli perdere la sua tensione escatologica” e facendogli assumere “il volto della Chiesa”, la quale, rappresentando “il tempo del potere” di Dio in terra, realizza in terra “il regno di Dio”. Al posto della escatologia universale subentra l‟escatologia individuale. L‟attenzione ora è rivolta al destino dell‟anima, e il tempo della fine viene sostituito dal‟ultimo giorno della vita umana. Da Agostino in poi l‟escatologia individuale domina la religione cristiana di confessione cattolica e protestante. L‟escatologia universale, invece, che porta con sé la speranza

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Ivi, pag. 212. Ivi, pag. 213. Agostino, Civitas Dei, XX, 9. Ibidem. Taubes, Escatologia occidentale, pag. 105.

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nel regno, viene considerata in ambito cristiano come una eresia. 159

All‟interno del “corpus christianum” medievale, lo Stato non si distingue dalla Chiesa, ma vi è compreso, come parte integrante della “civitas Dei”. Uno Stato, come “civitas terrena” separata dalla Chiesa, sarebbe una “civitas diaboli”. Ma la formula apocalittica del “regno di Dio sulla terra”, indicando un avvento futuro, “spezza l‟orizzonte vigente di una sfera vitale” e si realizza come “ecclesia spiritualis” che “riduce in cenere le mura delle istituzioni esteriori”, spostando l‟accento verso l‟attività, per cui “l‟annuncio del regno di Dio incita alla realizzazione”.160 Gli avvenimenti escatologici si alternano sui due poli della “ecclesia spiritualis” e della condizione “sulla terra”, ossia tra il sacro e il profane, che si escludono reciprocamente come il vecchio e il nuovo senso della vita. “La parola d‟ordine della ecclesia spiritualis distrugge quell‟identità tra Chiesa e regno di Dio che è in vigore a partire da Agostino e su cui, nel medio evo, si fonda la città di Dio”, producendo la “teologia della rivoluzione” di Thomas Munzer e dei battisti, il cui proposito è di realizzare con la “violenza dei buoni” il regno di Dio in terra.161 La storia europea trova il suo filo rosso nella tensione escatologica che l‟attraversa per l‟intero suo corso cristiano, di cui le rivoluzioni non sono altro che “l‟esterno di questo interno”, sicché “la storia delle rivoluzioni europee coincide con la storia della perdita del patrimonio europeo cristiano-cattolico”, che costituiva l‟identità ideale della stessa “umanità europea”.162 La chiesa medievale ha una concezione tolemaica del mondo, per cui il mondo terreno è copia dell‟originale, “simbolo”, che è in cielo. Da qui l‟aspirazione a raggiungere quel modello, compiendosi nell‟elevazione a quell‟ideale celeste. Essa infatti, in quanto corpo mistico di Cristo, si identifica con il suo operato, e si realizza perciò nei termini di una “cristianità carismatica”, che trova nella messa il suo luogo di incontro. “La storia delle rivoluzioni europee è la storia dell‟allontanamento del

159 160 161 162

Ivi, pag. 111. Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 118. Ivi, pag. 120.

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culto tolemaico del Kyrios-Christòs, della cristianità carismatica del medioevo”.163 Il termine “rivoluzione” ricorre nei moderni cosmologi Copernico e Galileo, e indica, come già in Dante, il moto rotatorio dei corpi celesti, il cui movimento viene mutuato come analogia del sommovimento politico delle città-stato italiane, che “appaiono una sorta di rappresentazione del mondo”. Secondo la concezione copernicana, invece, “il mondo è una terra senza cielo”. La terra non rispecchia più alcun cielo, e la peculiarità del mondo non è quella di coinvolgere l‟umanità copernicana avvicinando questo [mondo terreno] a un originale superiore, ma rivoluzionandolo secondo un ideale situato nel futuro. Nel mondo tolemaico regna l‟ éros platonico, che avvicina reciprocamente il sopra e il sotto; in quello copernicano domina lo spirito, che tende in avanti. L‟ éthos dell‟umanità copernicana è un‟ éthos del futuro. Poiché il cielo, il sopra, perde il suo contenuto di valore, il valore auspicato si concentra nel futuro. Lo spazio copernicano perde il suo significato; il compimento della sua umanità, allora, si situa nel tempo, e quindi nella storia.164

E‟ Gioachino la fonte metafisica di Copernico. Egli elimina ogni mediazione tra cielo e terra, facendo della storia il terreno di realtà dell‟ideale cristiano, “radicando il compimento in un futuro prossimo, chiaramente databile”. La esclusiva dimensione storica dell‟escatologia cristiana deve inevitabilmente coinvolgere il ruolo della Chiesa, che viene anch‟esso storicizzato e quindi rimosso, trasferendo direttamente nella figura di Cristo quella “potenza” spirituale che sino ad allora il cristianesimo medievale aveva risolto nella vita ecclesiastica. Il nesso platonico tra copia e immagine, che per Origene e Agostino sussiste tra la storia terrena e la guida celeste, si trasforma in Gioacchino in una serie esponenziale intrinsecamente storica: il regno celeste dell‟aldilà diventa il regno spirituale della fine. […] Quando infine gli hussiti e i riformati rifiutano il papato e la chiesa carismatica, cade anche l‟ultimo valore e l‟ultimo punto

163 164

Ivi, pag. 120. Ivi, pag. 121.

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di riferimento della chiesa cattolica, l‟unità, cioè, della cristianità. 165

Se Lutero, attraverso Paolo, mantiene il suo rapporto con il cattolicesimo, per cui è ancora possibile pensare a una riforma della Chiesa, gli ultimi legami con la comunanza cristiana vengono a cadere con Munzer, il quale, sulla scia di Gioacchino, “apre la via verso una religione spirituale”, per cui “all‟ombra di Cristo sorge Prometeo” e “con la dissoluzione del corpus christianum, che racchiude in sé anche il protestantesimo, la storia dell‟apocalittica europea è giunta alla fine”.166 Ma se la sconfitta di Munzer chiude il tempo del cristianesimo medioevale, non pertanto cessa di esistere la tensione escatologica della realizzazione del regno di Dio, in cui consiste l‟utopia della “chiesa della ragione” che nell‟Illuminismo troverà un nuovo centro nella ratio come tensione liberatrice.167 Gioacchino, ossia il Cristianesimo platonico e razionalistico, eliminando la mediazione ecclesiale, “traduce” il messaggio evangelico della salvezza in rappresentazioni storiche, fornite di senso razionale, coinvolgendo Cristo, fino ad allora “polo immobile del cristianesimo”, nel “processo storico della Trinità”.168 La coniugazione di Storia e Ragione genera l‟umanesimo razionalista, ossia la fine del “mistero” religioso. La Storia, emancipata razionalisticamente dal suo referente di fede trascendente, diventa il piano di realtà della volontà umana, la cui missione di salvezza coincide con la stessa fruizione operativa della ragione in senso idealisticamente speculare al suo modello eidetico: la ragione, non più strumento della fede, ma dell‟Idea di Salvezza, per cui la Storia diventa storia della salvezza, processo irenico della ragione, secondo una movenza che in Hegel troverà la sua più compiuta fenomenologia. Interpretando in senso storicistico la natura trinitaria di

165

Ibidem.

166

Ivi, pagg. 122 e 123.

167

“Il trionfo della dea ragione e della sua chiesa nella Francia cattolica non è casuale […]. L‟epoca dei lumi prende in prestito dalla chiesa cattolica la sua esigenza di storia. Medioevo e Illuminismo sono, in ambito europeo, le due sfere vitali storiche. La chiesa del medioevo e quella dell‟Illuminismo si pongono entrambe in maniera assoluta e poggiano sull‟identità per cui la chiesa è il regno di Dio”: Ivi, pag. 118. 168 Ivi, pag. 121.

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Dio, Gioacchino trasferisce in ognuna delle persone divine un‟epoca storica, la cui connessione dialettica rende simbolica, all‟interno del processo della salvezza, la funzione dei personaggi e degli eventi storici. Così “le tre fasi hegeliane” della dialettica storica “si comprendono solo a partire dalla scansione gioachimita delle epoche – quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.169 Nella nuova prospettiva razionalistica, l‟immagine del mondo offerta dalla religione è funzionale al livello di maturità intellettuale dei suoi fruitori storici, ma ogni rappresentazione allegorica o antropomorfica del divino deve lasciare il posto a una simbologia spiritualistica in progressiva chiarificazione pedagogica, più o meno evidente. “Comunque, ogni mitologia che, giustificata a suo tempo e luogo, ha reso il suo servizio, deve sparire perché si mantenga desta la coscienza della sua provvisorietà e non degeneri in idolatria”.170 Accanto a questa concezione pedagogica del processo storico delle religioni, “c‟era la tendenza della cultura ad affermarsi nella propria autonomia e quindi a misurare le diverse religioni in base al loro significato per la vita della cultura stessa”, vedendo la funzione storica dei sistemi religiosi in relazione “al contributo dato da ciascuna alla formazione dello spirito”,171 inteso come processo segnato da tante tappe religiose. In questa prospettiva razionalistica lo spirito umano aveva di proprio delle “possibilità endogene” che dovevano solo essere sollecitate per attivarsi, senza il “bisogno di alcuna operazione della grazia”. La “cura naturale e storica” fu opera dei “profeti precristiani” e di quelli “cristiani”, secondo tempi e necessità, i quali “hanno vigilato su questa cultura della ragione” al fine del suo “perfezionamento”. Così, secondo Cusano, “il potere della ragione, purché adeguatamente coltivato ed attivato nei suoi poteri con gli esercizi ed i modi dovuti, contiene tutto ciò che occorre alla vita dello spirito”.172 L‟altra tendenza è rappresentata da Wessel, la cui filosofia della cultura “raggiunge il punto di vista dell‟umanità, che è stato quello del XVIII secolo”. In riferimento allo sviluppo storico, Wessel sostiene che, dopo il peccato

169 170 171

172

Ivi, pag. 124. R. Stadelmann, Op. cit., pag. 214. Ibidem. Ivi, pag. 215.

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originale, solo il dono divino della società ha consentito all‟uomo di superare la condizione ferina, e quel che più conta, solo attraverso questa convivenza possono venire soddisfatti anche i bisogni e le necessità spirituali, i compiti della formazione dell‟umanità, perché gli uomini sono spinti in avanti e moralmente sostenuti solo dal consiglio e dall‟avvertimento reciproci, dalla consolazione e dall‟incoraggiamento.173

Le due forme di completamento antropologico, quella socialitaria e quella spirituale, vengono presentate non come antagonistiche ma complementari, o almeno alternative all‟interno di uno stesso universo di senso religioso, per cui sia nella versione idealistica di Cusano che aristotelica di Wessel, “la considerazione della religione all‟interno di un complessivo sviluppo storico viene fortemente accentuata”.174 Secondo Cusano, la partecipazione della ragione umana a quella divina comporta una “varietas” di spiriti ammessi alla partecipazione, alla “ratio” universale, tanto individuali che collettivi, da costituire un sistema ordinato di progressione al nucleo essenziale divino, la cui gradualità consente consente alla sua filosofia della storia una “visione totale […] capace di abbracciare tutti i popoli della terra”175 e dai caratteri più spaziali che temporali ed organici, che assume un complessivo carattere pedagogico. La “crescita dell‟umanità” è paragonata a “un moto ondoso che si propaga dal polo all‟equatore”, secondo un movimento graduale che raggiunge l‟intera umanità attraverso “un‟opera di educazione universale nella storia”.176 Come in Hegel, il movimento apparentemente senza senso del divenire della Storia, rivela invece l‟intervento divino in direzione di una crescita spirituale progressiva, che costituisce il fine stesso della Storia, per cui “l‟uomo deve essere introdotto all‟uso del suo liberum arbitrium e reso maturo per la conoscenza di essere capax aeternae vitae” attraverso un‟opera di auto-coscienza (“notitia sui”) che gli consenta di

173 174 175 176

Ivi, pag. 215. Ivi, pag. 216. Ibidem. Ivi, pag. 218.

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essere “capace e degno di una partecipazione a Dio”.177 Gli intercessori della volontà divina, il cui compito è quello di riportare l‟uomo alla retta via, sono i “profeti”, i quali, da “educatori” e “maestri” insieme ai “santi” sono degli “inviati del Signore”, e come tali “di stirpe divina”, quasi a sottolinearne la differenza rispetto alla figura classica dei filosofi, che comunque, anche quando in posizione critica e “privata”, partecipavano alla vita della comunità mondana della società. In questo caso, invece, non si è di fronte a questioni circoscrivibili a un contesto politico, ma a una dimensione universale che “generalizza e trasferisce ad altre religioni delle rappresentazioni che, appartenute originariamente all‟universo profetico veterotestamentario, hanno subito uno stemperamento che le trasforma in categorie d‟una filosofia e psicologia della religione”.178 Era convincimento comune alle due tendenze razionalistiche che il senso filosofico della storia era nella progressione spirituale dalla maniera sensibile di conoscere a quella astratta, dal simbolismo al razionalismo, secondo una processualità le cui distinte modalità gnoseologiche costituivano anche i due livelli di coscienza dell‟orizzonte di senso religioso, la cui progressione rappresentava lo stesso processo spirituale della storia. Rispetto alla condizione profetica originaria, vetero-testamentaria, il nuovo profetismo si muoveva all‟interno della coscienza razionale, identificata con la dimensione della storicità, il cui corrispettivo ingenuo era il fideismo messianico dell‟immaginazione meramente avveniristica, temporalmente indeterminata. Secondo Agrippa ci sono tre gradi di conoscenza di Dio: quella creaturale, quella della legge e dei profeti, e quella del Vangelo, le quali sono sorte in successione storica. “Dio ha donato all‟uomo questa sua verità in tre “libri” della rivelazione, disposti in sapiente successione: il libro della natura, il libro della legge e il libro della parola divina”, con tre relativi tipi di custodi di tali scritti: i filosofi, i profeti e gli apostoli. La posizione più saliente della conoscenza e la vera saggezza è riservata alla fede fondata sui miracoli. In subordine sta la sapienza filosofica antica. Anch‟egli come Erasmo assegna un carattere soprannaturale al cristianesimo, “in contrasto con la più

177 178

Ibidem. Ivi, pag. 219

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perfezionata deologia della storia del XVIII secolo”.179 Il filone che si diparte dal razionalismo di Cusano ha, da un capo, la filosofia della storia e dall‟altro una visione comparata delle religioni, da cui emerge l‟idea di una religione naturale, ossia la visione massonica dell‟unità religiosa dei saggi di tutti i tempi. La sintesi di queste visioni, quella filosofico-esoterica e quella storica, assume, a partire dall‟individualismo metafisico, il pluralismo delle fedi come una conseguenza del “pluralizzarsi dell‟unica sostanza nella molteplicità dei fenomeni”; ed essendo questo considerato un processo necessario, e nn una caduta dell‟Idea, esso giustifica ogni particolare determinazione. La teoria religiosa che ne consegue viene prodotta non più dal platonismo del V secolo, ma dalla filosofia della storia francescana, la quale, privata del contenuto escatologico, è stata riformulata in senso razionalistico. Da qui la riabilitazione della teoria gioachimita dei tre stadi, in base alla quale il genere umano si divide in tre classi: laici, chierici e religiosi. Formulato in termini generali ciò, per Cusano, viene a significare che vi sono i sottoposti, i dominanti e i saggi. La loro funzione è di rappresentare, nell‟ambito del‟intera umanità, la ragione, l‟intelletto e la natura della specie. 180

Al vertice, Cusano – come già S. Francesco – pone i contemplativi, cioè i filosofi platonici, “quasi in supremo humanitatis coelo versantes”. Seguono i reggitori, solo in parte illuminati dalla saggezza comunicata loro dai profeti religiosi, e dediti alle occupazioni mondane. Infine, coloro che “non hanno il tempo” di cercare Dio, occupati come sono dalle faccende materiali e soggetti interamente alla guida politico-pedagogica degli altri due ordini. La diversa natura o sostanza dei tre ordini dell‟umanità di riflette nella relativa loro rappresentazione dell‟al di là, il quale, per l‟ordine supremo, “consiste in una nobiltà che oltrepassa ogni rappresentazione e sentimento umani”; per “l‟ordine razionale, nella conoscenza e nella fruizione delle cose, mentre per l‟ordine dell‟uomo dei sensi consiste nel diletto sensibile”.181 Dalla combinazione di questa sociologia e di quella 179 180 181

Ivi, pag. 221. Ivi, pag. 222. Ivi, pagg. 222-223.

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concezione metafisica monadologia nasce una visione religiosa della storia, per la quale l‟origine d‟ogni forma di fede si trova nella religione razionale dello strato superiore (intellectualis religio), che prodotta e sorretta dall‟intelletto stesso dell‟uomo, è un tutto naturale e unitario, come un nucleo di verità religiose, e non può essere frantumata da aggiunte estranee.

Nel secondo stadio, quello dell‟ordine dei reggitori, “questo deposito [di fede] si fa fluido e trapassa nella molteplicità delle chiese”, subendo un processo di specificazione “interamente naturale” e relativo alle condizioni di ricettività dei fedeli storici, il quale costituisce “la mediazione fra l‟idea della religione e la sua realtà e in esso consiste il movimento della storia”.182 La molteplicità è la specificazione dell‟Uno razionale, cioè dell‟Idea, la quale è posta all‟inizio del processo storico e non ne è il termine finale. Ma poiché la molteplicità che ne discende è legata alla diversità della natura umana, questa è un limite alla comprensione razionale, non potendo coincidere la coscienza dell‟Uno con la coscienza particolare. Ciò comporta che il processo della Storia è un movimento degenerativo che dall‟Idea trapassa nella materia. Come afferma Cusano, “nello spirito non c‟è mai uno status assoluto, poiché per esistere esso deve riflettersi nella materiale ed incessante molteplicità degli individui umani”.183 Ora, la presenza di una mediazione tra l‟Idea e la realtà si rende necessaria dalla diversità della natura che ha il razionale e il reale. Se la monade sostanziale si frantumasse nelle rappresentazioni molteplici restando se stessa, ogni rappresentazione sarebbe l‟identico micro-cosmico dell‟Uno. Ma così non è, poiché l‟Uno ideale e il Molteplice reale sono “nature” diverse, tant‟è che abbisognano, per collegarsi, di una “mediazione”. Ed è la loro differenza essenziale a rendere possibile lo stesso movimento storico, altrimenti impossibile nel caso di coincidenza di essenza e di fenomenicità. La Storia diviene perché l‟Idea diventa realtà. Altrimenti l‟Idea non avrebbe storia essendo ciò che eternamente è. Chi esclude la mediazione tra Idea e realtà, deve postulare l‟identità dell‟Uno e del Molteplice (monismo ontologico), senza darsi ragione della diversità, 182 183

Ivi, pag. 223. Ibidem.

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considerata come il Negativo assoluto da sopprimere in quanto irrazionale. La scoperta platonica del diverso, ammette implicitamente la co-esistenza di una dimensione a-razionale, cioè extra-sistemica, che comprende nel suo orizzonte di senso il livello di coscienza razionale come l‟orizzonte della fede ontologica il livello filosofico. La loro opposizione “dialettica”, cioè l‟esclusione della determinazione logica di ogni realtà non sussumibile nel giudizio categoriale, comporta la loro originaria con-presenza ontologica nell‟Essere possibile, per cui il loro mutuo rapporto esclusivo si determina come lo scarto di coscienza tra il livello fideistico e il livello coscienzialistico in senso progressivo ascensionale e riduttivo, tale cioè che la sua sussistenza è tanto più logicamente determinata nella sua specifica idealità, quanto più circoscritta alla sua attualità temporale. Da qui discende che il movimento di razionalizzazione dell‟universo di senso religioso giunga alla progressiva individualizzazione del suo oggetto ideale, per cui l‟unicità e la soggettività delle determinazioni spirituali rappresentano il punto culminante del processo della conoscenza. Ed è proprio tale minimale qualificazione ideale dell‟Essere nei fenomeni singolari a far rimpiangere romanticamente il senso complessivo dell‟appartenenza di ogni singolarità transeunte all‟eternità dell‟Essere possibile e indeterminato da cui proviene e a cui appartiene ogni fenomeno idealmente e temporalmente determinato, e cioè conosciuto, e per ciò stesso rimpianto a seguito della sua evanescenza. La progressione da un livello di coscienza generico verso un livello di coscienza sempre più logicamente consapevole, mantenuta all‟interno di uno stesso orizzonte di senso ontologico, stabilisce un ordine gerarchico anche antropologicamente ascensionale verso un vertice di assoluta soggettività e individualità che costituisce il punto di approdo di ogni processo di perfezionamento logico, che rappresenta simbolicamente l‟Idea stessa da cui discende ogni molteplice determinazione ideale e fenomenica. Se tale orizzonte di senso è stabilito sul fondamento ontologico della fede tradizionale, il vertice di ogni processo ascensionale e derivativo è Dio, la cui immagine simbolicamente antropomorfa è Cristo, nella cui persona si accomuna il corpo mistico cristiano, ossia ogni molteplice determinazione storico-empirica dell‟umanità. Ciò comporta che tale rappresentazione simbolica veda nel rapporto speculare tra Dio e le sue creature la stessa gerarchia dell‟ordine sacro in quello ecclesiale, per 394


cui, il corrispettivo della persona simbolica di Cristo come mediatrice tra Dio e gli uomini è il Papa, supremo vertice dell‟organismo ecclesiale e mediatore tra il cielo e la terra. Se, invece, l‟unità di senso viene circoscritta al solo livello di coscienza razionale, tale da costituirlo come un orizzonte dialetticamente esclusivo di ogni altro, allora la diversità logica viene intesa in termini di opposizione ontologica, tale per cui il non-essere ideale diventa sinonimo di in-significante elemento extra-sistemico, da sopprimere attraverso un atto di negazione reale, e non simbolica. In questo caso, il rapporto logico non viene inteso in senso gerarchico ascensionale da uno ad altro livello di coscienza, ma in senso ontologicamente esclusivo, per cui l‟unità logica non può ammettere che una definizione d‟Essere, la sua, che si determina all‟atto del suo giudizio di realtà, della sua attualità. Solo nel primo caso, cioè nell‟orizzonte di senso della fede, è possibile stabilire un ordine gerarchico delle differenze, poiché quest‟orizzonte può comprendere un livello di coscienza razionale senza alterare i suoi presupposti ontologici fondamentali, stabilendo così all‟interno del comune orizzonte di fede ontologica quell‟ordine di gradualità simbolico-sociologica tipica del cosmo religioso medievale. Viceversa, nel secondo caso, il livello di coscienza razionale, che originariamente era infra-religioso, volendosi costituire come autonomo orizzonte di senso, deve negare la sua appartenenza ontologica originaria e determinarsi nella assolutezza del proprio fondamento di senso sistemico. Qui la differenza diventa opposizione ontologica esclusiva del più (l‟orizzonte della fede comune) da parte del meno (il sottoinsieme razionalista), che storicamente si determina come una lotta idealistica dell‟utopia rivoluzionaria contro la tradizione della coscienza comune. Questa lotta rivoluzionaria, dal punto di vista religioso, è idolatrica, poiché sostituisce al culto divino della Persona di Dio come Essere spirituale di ogni ente fenomenico creato, il culto dell‟Idea di Dio come Essere ideale di ogni ente razionalmente determinato e solo di quello. In questo caso, la sostituzione di Dio con altra determinazione storica dell‟Idea, non cambia la natura appunto ideale del fondamento ontologico, per cui persisterebbe il suo valore d‟Essere etsi Deus non daretur. Ed è questo processo idealistico a caratterizzare la storicizzazione gioachimita del processo trinitario e la sostituzione 395


messianica della Chiesa mediatrice (storico-simbolica) con la chiesa utopica (storico-ideale). Ma è indubbiamente la lettura neo-platonica del Cristianesimo a provocarne la deriva idealistica parmenidea, incentrata sulla falsa alternativa tra assertori dell‟Uno versus assertori del Molteplice, che non derime la questione ontologica fondamentale circa l‟essenza del fondamento dell‟Essere, se divino (o naturale) oppure ideale (e quindi umano). Solo nel secondo caso, cioè del razionalismo idealistico, è possibile il passaggio dall‟ontologia divina alla gnoseologia storica, facendo del Soggetto trascendentale la fonte non solo della conoscenza della realtà, ma della realtà stessa in quanto conosciuta, a esclusione di ogni realtà non-conoscibile. Caratteristica del razionalismo tardo-medievale è il riconoscimento di una religione naturale che non vuole essere intesa come la generale disposizione alla religione, ma viene considerata come il possesso degli spiriti privilegiati di ogni tempo, [che vanno a costituire quella] chiesa invisibile [intesa] nn nel senso di una universale comunità interiore di tutti i credenti , ma, in maniera più illuministica, una loggia di saggi, in cui, lontani dall‟affaccendarsi ingenuo delle religioni storiche, si incontrano tutti quegli spiriti solitari, legati, attraverso tutte le epoche, da una spirituale parentela. Questo e non altro significa quella intellectualis religio dei contemplativi.184

L‟astratta universalizzazione della coscienza razionale, che costituisce l‟idealismo teoretico, emancipandola dall‟orizzonte di senso ontologico della fede, sostituisce il metodo astraente a ogni contenuto di senso, per cui l‟originaria classe dei saggi religiosi diventa ora la generica classe dei sapienti di ogni tempo, privilegiati nell‟uso della ragione a prescindere dai contenuti della loro rispettiva fede, la cui attività filosofica diventa, alla stregua di un ludo sofistico, un puro esercizio teoretico in sé, privo di senso comune. Da qui la simpatia razionalistica per gli eretici, intesi come gli elitari cultori dell‟Ideale contro la credenza dei comuni fedeli. “La pura visione dei pochi doveva infatti necessariamente finire col trovarsi in un rapporto di tensione con la religione del popolo, ed appariva comprensibile che gli scomunicati e perseguitati fossero coloro che veramente sapevano”.185

184 185

Ivi, pag. 224. Ivi, pag. 224.

396


Non c‟è più la figura cristiana del più saggio e consapevole fratello che guida da pastore il suo fraterno gregge di ingenui fedeli, ma il ripristino della figura del filosofo socratico che lotta, in nome del‟Idea, contro la credenza socializzata dei molti ingenui. Una figura che, sia pure trasfigurata nell‟immagine di Gesù, resta idealisticamente platonica, poiché astrae dal contesto di senso – pagano e anti-cristiano, oppure comune e cristiano per affermare la mera figura dell‟oppositore teoretico, che conosce il vero a discapito dei falsari suoi negatori. Torna, a discapito della cosmicità cristiana definita sul principio della carità fraterna, l‟universo polemico della civiltà pagana, informata alla logica esclusivistica della discriminazione politica, che resta tale anche se trasfigurata a sua volta in opposizione sapienziale. L‟atteggiamento razionalistico si lega al favore romantico per le minoranze oppresse e oppositive, viste come la proiezione sentimentale del cenacolo spirituale cristiano oppresso dall‟ottusità del Potere materialistico sociale. Questo atteggiamento, che scardina i valori medievali, secondo Agrippa proviene dalla tradizione ermetica, per cui lo stesso Cusano, “come filosofo, può collocarsi al di fuori della tradizione cristiana”, tanto che l‟Illuminismo ha visto in lui un precursore. Nel suo aristocratico disinteresse, che gli viene dalla cultura barocca, il XVIII secolo accetta, tranquillamente e senza scrupoli, come un fatto definitivo la divisione dell‟umanità in due categorie, senza passaggio o mediazione; da un lato persone autosufficienti e capaci, dall‟altro gli sciocchi che vengono guidati, i quali non possono fare a meno della loro religione popolare; perché tutto sia in perfetto ordine non c‟è che da riconoscere questo fatto e lasciare a coloro che sono capaci di pensare da sé la loro libertà. Non ci si preoccupa della sfera inferiore.186

Infatti “l‟accordo può sussistere solo tra pochi spiriti maturi”,187 mentre gli altri sono condannati dalla loro stessa insipienza. Ora, il carattere anti-cristiano del “razionalismo esclusivista dell‟Illuminismo” non deriva dal fatto di essere una “filosofia di privilegiati”, come sostiene

186 187

Ivi, pag. 225. Ivi, pag. 226.

397


Stadelmann accreditando la tesi di Agrippa, 188 in quanto ogni conoscenza, anche quella di Dio, è un segno di distinzione carismatica che coloro che è saggio e utile riverire da parte di coloro, i più, che “non sono capaci di pensare da sé”; ma deriva dalla giustapposizione del piano sapienziale in termini esclusivi, e quindi polemici, al piano della coscienza comune in senso spirituale-comunitario e non politicosociale. Infatti, l‟antropologia cristiana aveva universalizzato il livello di coscienza spirituale, mantenendo la diversità delle tradizioni storiche delle diverse espressioni culturali dell‟uomo mondano, mentre ora l‟astratta idealizzazione del motivo sapienziale in sé, a prescindere dal suo rapporto di coscienza interno all‟universo cristiano, esalta la sua funzione direttiva in senso esclusivo e non caritatevole, riconducendola all‟interno di una logica discriminante sul piano sociologico ed esistenziale, tributario di un privilegio che è storicosociale, e non metafisico-spirituale, sul quale insisterà la polemica antiborghese del socialismo, quale ideologia post-cristiana o del cristianesimo idealistico secolarizzato, che traduce il motivo etnicoantropologico della diversità politica in termini di privilegio socioeconomico. In tal senso, l‟affermazione di Stadelmann per cui “la teoria razionalistica della storia e della religione avanzata dal XV secolo è il tentativo di fornire una base d‟appoggio al sistema cristianouniversale del medioevo”,189 va intesa nel senso che fu la pretesa di universalizzare il “sistema” socio-politico cristiano storicamente costruito dalla Chiesa romana a provocare, attraverso il mutuo umanistico della filosofia politica pagano, la deriva politicistica del cattolicesimo, la cui cultura razionalistica, accogliendo l‟istanza emancipativa delle scienze istitutive del nuovo universo di senso “moderno”, ha legittimato teologicamente il ripristino del pensiero naturalistico classico che ne era a fondamento, provocando così l‟opposta scissione di un sapere mistico a un sapere razionale, che la sintesi religiosa cristiana aveva superato con la sua originale antropologia spiritualistica, e che verrà sancita dallo scisma protestante. La distinzione evangelica tra il regno di Cesare e quello di Dio,

188 189

Ibidem. Ibidem.

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indicava il diverso percorso, a tratti alternativo, dell‟universalismo spirituale rispetto a quello socio-politico, che invece il cattolicesimo romano ha incrociato nella formazione di un impero cristiano, facendo della Chiesa, anziché la mediatrice dei due regni, sacro e profano, il luogo di fusione e di contaminazione dell‟universo soteriologico con quello antropologico, e quindi trasformando la Persona mistica di Cristo in realtà istituzionale storico-sociologica. Solo a questa condizione la stessa Chiesa poteva essere “superata” da uno stadio teologicamente più avanzato della salvezza mondana. Lo storicismo gioachimita è inscritto nella traccia sincretistica del cattolicesimo come variante idealistico-platonica del dogma cristiano, il quale da Agostino a Tommaso aveva escluso di principio un‟interpretazione storica delle cose ultime, e proprio perciò aveva considerato teologicamente la storia del mondo. Gioacchino vide invece tutto in una prospettiva storica. Anche Cristo significa per lui non soltanto il compimento delle predizioni dell‟Antico Testamento, ma anche l‟inizio di un‟epoca nuova. Cristo rimane al centro, ma questo è tuttavia un centro di simboli e di significati, che rimandano tanto a lui, quanto anche da lui ad eventi futuri. Il suo significato è veramente storico, non perché sia stato tale in un determinato tempo, ma perché contiene riferimenti ad eventi passati e ad eventi futuri entro una continuità storica, in cui le generazioni dopo Cristo sono importanti quanto quelle prima di lui. Gioacchino pensa in un modo rigorosamente teologico e contemporaneamente storico, nel senso di un cursus temporis invece di un semplice interim.190 L‟orizzonte gioachimita è un processo storico in cui

si dispiega la verità in divenire, anziché, come in Agostino e in Tommaso, un evento di significato simbolico universale ed terno ma accaduto una tantum nel passato. La differenza è che nel pensiero di Agostino la perfezione religiosa è possibile indifferentemente in ogni momento del processo storico dopo Cristo; nel pensiero di Gioacchino è possibile soltanto in un determinato periodo per una particolare coincidenza di eventi. Secondo Agostino la verità storica si rivela in un evento singolo; secondo Gioacchino essa si rivela in una successione di ordini. L‟uno attende la fine del mondo, l‟altro l‟età dello Spirito Santo. 191

190 191

K. Loewith, Significato e fine della storia (1953), tr. it., Milano, 1979, pag. 180. Ibidem.

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Ma la diversa dislocazione del processo irenico non la stessa valenza assiologia, poiché il percorso personale e intimo del fedele presupponeva soltanto il rapporto mistico della sua coscienza con Dio, mentre invece l‟allocazione nel tempo storico della fase teologica, coinvolgeva un aspetto collettivo e quindi sociale che includeva i rapporti dei singoli con le condizioni istituzionali dei regimi del tempo, ossia una dialettica inevitabilmente politica tra la prospettiva spirituale e quella mondana, che tagliava fuori la mediazione ecclesiastica, rendendola partecipe di uno dei due campi storicamente avversi. Essendo in Agostino la verità nell‟evento trascendente e non nel processo storico, essa è eterna rispetto al divenire dei fenomeni storici mondani. Per Gioacchino, invece, la verità è immanente alla Storia e perciò si rivela solo attraverso la sua auto-coscienza spirituale, in un tempo idealmente prefissato perché logico, ma anche temporalmente definito. La teoria gioachimita, coinvolgendo anche il profilo mondano della Chiesa, suscettibile anch‟essa a fasi di decadenza, di morte e di resurrezione spirituale, ne provocava la reazione, di natura essenzialmente repressiva e conservativa. Una volta inseritasi nel mondo storico, la Chiesa doveva rafforzare la sua posizione e praticare la saggezza di questo mondo, amministrando gli strumenti della salvezza su una base sicura. La Chiesa trionfante stabilizzava e neutralizzava le potenzialità anarchiche dell‟escatologia radicale dei primi cristiani, che nel loro eroismo si disinteressavano completamente della continuità storica di questo mondo.

Ossia di quel filo rosso che per Ralke costituiva, come abbiamo visto, la possibilità stessa della comprensibilità dei fenomeni umani all‟interno del processo temporale più o meno idealmente stabilizzato. Dopo un‟esistenza storica millenaria, la Chiesa era satura di mondanità, come la sua teologia era satura di filosofia araba e aristotelica. Gli elementi originari della fede cristiana – l‟avvento del regno di Dio, la seconda venuta di Cristo, il pentimento, la redenzione e la resurrezione – furono sommersi da una massa di diritti acquisiti e di interessi secolari.192

Una tesi simile a quella di Gioacchino da Fiore fu sviluppata da 192

Ivi, pag. 181.

400


Lessing, il quale ripensa la possibilità di un Cristianesimo dopo la Riforma come “una religione del genere umano”, fondata non più sugli dèi ma sullo “spirito”, sicché “il cristianesimo dopo Cristo non è più condizionato dalla tensione tra un nuovo messaggio soprannaturale e le forze cosmiche del paganesimo, ma è libero di svilupparsi in una scienza umana completamente autocosciente”.193 Ciò comporta che non basta la semplice diffusione del Vangelo ma occorre lo sviluppo di una gnòsis universale di tipo scientifico. Al fondamento petrino di una continua successione, che riflette l‟età di Dio, succede l‟apostolato di Paolo, dedicato al Figlio, e infine quello di Giovanni dedicato all‟avvento dello Spirito Santo, ossia della completa verità. Come scrive Loewith, lo schema storico cristiano e soprattutto la costruzione storico-teologica di Gioacchino crearono un clima spirituale e una prospettiva in cui divennero possibili certe filosofie della storia che non avrebbe trovato luogo nell‟ambito del pensiero classico. Senza l‟idea di progresso non vi sarebbe stata né la rivoluzione americana, né quella francese né quella russa; e senza la fede originaria in un regno di Dio non sarebbe sorta l‟idea di un progresso secolare verso un compimento, benché non si possa affermare che l‟insegnamento di Gesù si ritrovi nei manifesti di questi movimenti politici. La discrepanza tra i risultati storici remoti e il senso delle intenzioni originarie dimostra che il principio di una derivazione attraverso un processo di secolarizzazione non equivale ad una determinazione causale. […] Il cristianesimo può, in ultima analisi, essere “responsabile” della possibilità della propria secolarizzazione e delle sue conseguenze anti-cristiane, ma la proclamazione originaria di un regno di Dio non mirava certo a rendere il mondo più mondano di quel che già era per i pagani.194

Ma perché ciò è stato possibile? Qual è la relazione ideale tra propositi espliciti e risultati eventuali? Ogni pensiero astratto dal suo fine trascendente, che è anche il suo principio ontologico (aitìa), si converte nel suo opposto dialettico. Se il fine è diverso dal suo principio, lo strumento persegue il suo principio

193

194

Ivi, pag. 239. Ivi, pag. 242.

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costitutivo, contraddicendo il fine improprio, e perciò astratto. Ciò conferma la teoria aristotelica secondo cui ogni ente è la realtà visibile della sua potenza ideale, della potenza ideale del suo principio, che è il suo fondamento d‟Essere. Intervenendo sui mezzi, la volontà umana può mutarne la destinazione empirica, ma non la loro ragione ideale, che costituisce la loro verità essenziale. “Verità” è ciò che è in sé il suo se stesso, e perciò non è manipolabile. L‟immodificabilità di ogni vero riduce l‟azione sui mezzi a una pratica illusoria, destinata a fallire i suoi scopi teleologici astrattamente preordinati dalla volontà umana (hybris). La teologia cristiana, astraendo dal principio “naturale”, cioè ontologico, affermato dalla fede, presente negli enti come realtà visibile, e cioè attuale, rende i mezzi razionali del suo livello di coscienza astratti dall‟orizzonte di senso originario, quello biblico, e disponibili ad altro fine, diverso da quello che essi serbano in potenza. Questo fine “altro” dal suo principio costitutivo, o Essere degli enti, è una negazione dell‟Essere del principio, altrimenti sarebbe a esso uguale, per cui il fine allotrio giustapposto a quello “naturale” degli enti, secondo la possibilità del loro Essere originario, è un non-essere ciò che di quegli stessi enti è l‟Essere , da qui la dialettica della conversione dei fini astratti al loro opposto reale, ossia la loro eterogenesi. Pertanto, la vita etico-politica delle società “naturali”, astratta dal suo “fine particolare”, e cioè dalle ragioni della sua esistenza reale, diventa, nella prospettiva cristiana, un processo ideale, ossia una “storia della salvezza”, la quale non contiene più un principio immanente che ne giustifichi il processo evolutivo secondo una intrinseca dinamica (iuxta propria principia) coerente al suo fondamento costitutivo, che caratterizza l‟indirizzo ideale della sua conseguente evoluzione, ma solo un fine trascendente, secondo una proiezione prospettica futura, verso la quale il movimento storico sarebbe teleologicamente indirizzato, indipendentemente dall‟agire umano e quindi dalla responsabilità degli attori. Proprio la corrispondenza del principio con il fine dell‟agire umano crea l‟idea di un‟anaciclosi dei regimi sociali e delle forme politiche classiche, laddove l‟astrazione dei mezzi dai suoi princìpi essenziali fa di questi dei meri strumenti della Provvidenza per conseguire i suoi fini imponderabili, tutti proiettati verso un ignoto futuro, il “progresso” storico. Il fedele crede all‟ordine sacro del mondo, ma non lo vede. 402


Giudicata con gli occhi del senso la fede è effettivamente “cieca”. La greca è realmente una visione del mondo ovvero una contemplazione di ciò che è visibile, e perciò può essere dimostrata, mentre la fede cristiana, la , è una certa confidenza o una fiducia incondizionata nell‟invisibile,e quindi nell‟indimostrabile. L‟oggetto della fede non può essere riconosciuto teoricamente; si deve farne professione praticamente. Il Dio cristiano non è accessibile a nessuna teologia naturale. […] La cosmologia greca è teoreticamente inconfutabile muovendo dalla fede cristiana. Infatti dal credere al vedere non vi è alcun passaggio. […] Poiché Dio è, nel suo essere e nella sua potenza, infinitamente superiore alla sua creatura, non può essere concepito dal mondo. Il mondo biblicamente inteso, può essere e anche non essere in quanto creazione; esso non esiste essenzialmente per natura. L‟unico autentico testimonio del mondo visibile è il Dio invisibile, che nelle Scritture attesta all‟uomo la sua creazione.195

Intendiamoci. L‟elemento “invisibile” del creato è la sua destinazione di senso, non certo la realtà fenomenica, per cui questa, alla luce della verità di fede, dev‟essere reinterpretata secondo il suo fine non più immanente, di carattere naturalistico e, nel caso dei rapporti umani, sociale, ma trascendente, in ragione della quale l‟antico cosmo perdeva il suo necessario valore di senso naturale a favore del nuovo senso irenico, entro il cui orizzonte veniva compresa tutta la realtà, partecipe della storia divina. Il nuovo orizzonte di senso poteva includere l‟antico in quanto più comprensivo e più originario. La nuova fede cristiana agisce sull‟antica ontologia naturalistica pagana come il livello di coscienza razionale sulla credenza ontologica di un fideismo ingenuo; ma, diversamente dalla filosofia antica, e dal razionalismo moderno, che pur negandolo sono costretti ad ammettere lo stesso fondamento ontologico del Mito, il razionalismo teologico cristiano si costituisce come il “vero” fondamento ontologico del mondo, in quanto assume la realtà del mondo non come originaria ma come prodotto divino, concependo quindi Dio come l‟Essere stesso e la fonte di ogni realtà, e il mondo come il suo conseguente prodotto. Concepire il Creatore del mondo come l‟Essere originario, significava spostare la sua essenza in una dimensione pre-fenomenica, e perciò “invisibile” e

195

Ivi, pag. 186.

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pre-sensibile e pre-eidetica, non oggettivabile concettualmente ma contenuto della sola fede nella sua misteriosa realtà in-finita ed eterna. Il carattere creato del mondo è confermato per S. Agostino dalla sua mutabilità. Ciò che infatti è eterno non può essere mutabile. “Un mondo creato dal nulla è a priori privato di un suo proprio essere”,196 come pure è immerso nel tempo, o meglio accanto ad esso, essendo anche il tempo una creazione divina.197 I filosofi pagani attribuirono al mondo il carattere dell‟eternità, che pertiene invece solo a Dio, e a nessuna creatura. La caratteristica dell‟uomo è la sua natura debole, che nel corso dell‟esistenza terrena deve potersi salvare spiritualmente. L‟idea di salvezza è lo stesso di conversione metafisica dal senso naturale al senso trascendente, secondo il “passaggio” tipico del “pagano” al “sacro” riscontrabile in ogni religione. Nel nostro caso, l‟attenzione esistenziale viene spostata dalla generazione e continuità delle generazioni come evento perpetuo e sociale, alla finalità personale del singolo destino spirituale. Questo elemento di speranza manca al pensiero naturalistico greco, per il quale il processo che dalla nascita conduce alla morte è del tutto fissato nella sua eterna necessità biologica. Al ciclo naturale, il Cristianesimo sostituisce il percorso morale verso la salvezza per mezzo della speranza vòlta al futuro. La circolarità della ricorrenza dei fenomeni naturali, compresi gli umani, non era però, come asserisce Loewith, “senza principio né fine”,198 poiché in realtà il ciclo nasceva dalla identità ideale del principio e della fine delle cose, che garantiva la stabilità ontologica del cosmo. Tale “identità”, e quindi riconoscibilità essenziale delle cose, costituiva il motivo ontologico fondamentale in base al quale era possibile distinguere il valore della corrispondenza o il disvalore della difformità tra l‟essenza di un fenomeno e il suo sviluppo necessario, la cui eventuale incoerente devianza rappresentava il male da stigmatizzare e correggere, se riguardante la condotta dell‟uomo e la sua volontà. Il rapporto fra infrazione e punizione, umana o divina, non nasceva da un giudizio umano, da una posizione morale legata a una credenza culturale, e perciò variabile, ma bensì da una consequenzialità

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Ibidem. Ivi, pag. 187. Ivi, pag. 189.

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necessaria di carattere ontologico e immutabile dalla volontà umana. Era questa necessità e immutabilità a costituire il criterio del valore come disposizione “sacra” della “natura” delle cose, che le disponeva in un ordine che era “razionale” in quanto universale ed eterno, al quale l‟uomo doveva ragionevolmente attenersi. Da questo fondamento ontologico nasceva quindi il comportamento etico come conformità al volere degli dèi. La ragione “dialettica” socratico-platonica sposta il senso del processo fenomenico dal suo sviluppo naturale e necessario a quello ideale e tecnico, preparando il terreno teoretico all‟ontologia cristiana. Infatti il Cristianesimo elimina il rapporto di coincidenza tra principio essenziale e fine naturale delle cose, e fa del percorso esistenziale dell‟uomo un viaggio della salvezza spirituale che parte da un inizio naturale –la nascita biologica – e termina con la rinascita dello spirito, cioè con un evento metafisico. Tra i due estremi non c‟è coerenza ontologica dell‟ente che attraversando la sua potenzialità giunge ad esaurirla nella morte, ma un itinerario mistico consegnato alla responsabilità morale dell‟uomo di buona volontà, dall‟esito non preventivabile e quindi incognito. Da qui il senso cristiano della libertà umana. Proprio l‟incertezza del futuro e la sua dissociata relazione dal passato soggettivo, costituisce il motivo della “debolezza” umana, della sua “ignoranza” circa la sua stessa vita, non più concepita in termini biologico-naturalistici ma in termini spiritualistici. L‟idea che l‟uomo non abbia uno habitat (che era la pòlis), né un indirizzo istintuale paragonabile a quello delle altre specie viventi, risale alla dissociazione metafisica che dal Fedro di Platone viene ereditata da quella cristiana tra la natura bio-fisica dell‟uomo e la sua natura spirituale, che verrà ripresa modernamente dal razionalismo cartesiano. L‟antico piano unitario di esistenza, viene cristianamente dimidiato in due livelli esistenziali: uno meramente fisico e accidentale, l‟altro morale ed eterno. tra i due, la maggiore considerazione andava al secondo, essenziale a definire la costituzione metafisica dell‟uomo e la sua originalità ontologica rispetto al resto del creato, il suo stato privilegiato e il suo percorso unico, eccezionale, di vita. Non più prodotto di natura, ma divino, l‟aspirazione massima dell‟uomo diventava quella di somigliare a Dio, attraverso un percorso di santità che abbandonava ogni aspetto caduco dell‟esistenza per privilegiare 405


ciò che veramente meritava di coltivare, lo spirito, la essenza terna e divina che l‟uomo condivideva con Dio, il suo creatore paterno. La volontà umana, spiritualizzata, irrompe nel ciclo cosmico naturale modificandone il percorso biologico predeterminato, per inaugurarne uno nuovo, rettilineo e progressivo verso la meta finale, mistica ed escatologica. E ciò che fu possibile a Gesù sarà possibile ai santi, e per essi a tutta l‟umanità. Da qui nasce la missione evangelizzatrice di convertire il cosmo pagano, destrutturato ontologicamente e declassato moralmente, in un novus ordo spiritualis, costitutivo di una nuova comunità di rinati in Cristo, la Chiesa universale di tutto il genere umano convertito alla verità eterna portata agli uomini dal loro Redentore. La Chiesa è una comunità di “rinati” in Cristo, di spiritualmente risorti alla morte della loro precedente natura, alla loro antica appartenenza mondana, sociale come familiare. Una comunità di “anime” viventi riunite dall‟Amore in una fratellanza spirituale indissolubile. La necessità naturale viene superata dalla condizione spirituale perché essa stessa prodotto divino, il cui ordine provvidenziale è ben più potente di ogni ordine fisico, come è dimostrato dalla resurrezione di Cristo. Il potere di destare i morti alla vita eterna è la prova più valida della potenza di Dio ed è infinitamente più significativa dell‟eternità del mondo, quale la insegnavano i filosofi greci. Nel miracolo della resurrezione si rinnova e si potenzia il miracolo della creazione. La giusta dottrina conduce ad un fine futuro, mentre “i malvagi si muovono in cerchio”. Il circolo, che secondo gli antichi era l‟unico movimento perfetto perché in sé concluso, è vano e condannabile, se la Croce è il simbolo della vita e il suo significato giunge a compimento in un fine.199

Questo fine, non accertabile in vita, sposta l‟esperienza umana e il suo significato dalla realtà sociale, che era il luogo classico della possibilità riservata all‟uomo di perfezionare la sua natura, alla realtà spirituale, interiore o comunitaria. A fronte della accertabile perfezione del percorso sociale, che poggiava sulla saggezza del mondo, quindi sulla capitalizzazione dell‟esperienza comune tramandata, cioè sulla scienza

199

Ivi, pag. 191.

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ed esperienza umane, l‟itinerario spirituale era animato solo dalla speranza, e non era giudicabile che dalla coscienza stessa o da Dio. Ciò vuol dire che la “visione del mondo” classica concerneva realmente cose “visibili”, mentre quella cristiana “non è affatto una visione, bensì un atto di speranza e di fede nell‟invisibile”.200 Ciò che era convincimento e giudizio razionale per il parametro classico, diventa dovere morale e virtù teologale nella dimensione cristiana, per cui la speranza cristiana non era l‟equivalente della tranquilla saggezza del filosofo consapevole delle cose del mondo, ma un “dovere morale”, una “virtù mistica” della grazia, al pari della fede e della carità.201 Il contenuto terreno della speranza cristiana non è di costruire in terra la Città di Dio, che in quanto divina non può essere realizzata dagli uomini, ma di rappresentarla in una forma analoga, la Chiesa. Ma l‟analogia, già presente in Platone, costituisce, sia pure in versione umana, con tutti i suoi umani limiti, diventa il criterio di condotta delle azioni umane, al posto della corrispondenza razionale tra il principio naturale od ontologico e il fine corrispondente alla sua potenza. Rispetto alla verità cui il mondo è destinato da Dio, ogni fine mondano, per quanto elevato e razionalmente coerente, diventa irrilevante, per cui ogni sforzo teso a conseguire per educazione un télos mondano diventa senza valore in confronto all‟alternativa tra l‟accettazione o il rifiuto del messaggio cristiano. La fede di Agostino non ha bisogno di alcuna elaborazione storica, poiché il processo storico in quanto tale non può produrre né assorbire il mistero centrale dell‟incarnazione di Dio. La fede in esso supera ogni sviluppo e ogni crisi storica.202

Tale fede, nondimeno, non è per Agostino la ricezione spontanea della verità dei primi cristiani, ma la fede quale è elaborata dalla Chiesa costituita, cioè una dottrina. Questa dottrina nacque in conseguenza della delusa aspettativa della fine del mondo e del ritorno di Cristo dei primi cristiani, e quindi come una giustificazione razionale e teologica

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Ibidem. Ibidem, n. 15. Ivi, pag. 192.

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dell‟antica fede escatologica, fondata su attese storiche, su riscontri reali. In conseguenza del rifiuto di tali aspettative entro il tempo storico, Agostino fu in grado di costruire per la prima volta una sorta di storia universale come un procursus teologico dall‟inizio alla fine, senza un millennio intermedio. Eventi profani e fine trascendente sono in questa costruzione separati in linea di principio, e collegati soltanto attraverso la peregrinatio dei credenti ain hoc saeculo.203

L‟istituzione ecclesiale, quindi, costituisce il luogo di rielaborazione del mito escatologico originario, per cui la sua funzione mediatrice nell‟ambito dell‟orizzonte di senso religioso non è eliminabile senza tornare a un livello di coscienza fideistico di tipo escatologico, il quale incentra il motivo dell‟éskatòn non più sul piano della delusa attesa messianica divina, ma su quello dell‟evento antropologico mondano, sostitutivo dell‟avvento di Cristo col suo storico corpo mistico. Per la Chiesa, combattere questa prospettiva escatologica infra-mondana, significava salvaguardare il proprio ruolo mediatore, ossia la sua funzione razionalizzatrice all‟interno dell‟orizzonte della fede cristiana. A maggior ragione, la stessa presenza della Chiesa, quale istituzione teologica, doveva escludere altre presenze concorrenti alla stessa funzione, ossia il libero pensiero, sul piano teoretico, e la libertà politica sul piano sociale. E questo condizionò la vita storica della Chiesa, esponendola alla lotta culturale e politica con le due distinte ma correlate tendenze emancipatrici del mondo moderno. Il fine della città terrena, compreso l‟Impero romano, non è inscritto nella sua potenza, destinata a finire prima o poi, ma va compreso nell‟ambito del carattere originario dell‟uomo come essere mancante e imperfetto, la cui iniquità si proietta nella vita sociale tanto da richiedere una affermazione autoritativa di pace e di giustizia, garantita appunto dallo Stato. La società politica, dunque, nella prospettiva di Agostino, non va giudicata come una realtà che abbia in sé stessa la sua ragion d‟essere in quanto realtà “naturae”, ma va giudicata in relazione alle condizioni da essa consentita alla diffusione del Vangelo. Infatti, “quello che veramente importa nella storia non è la transitoria 203

Ivi, pag. 193.

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grandezza degli imperi, bensì la redenzione e la dannazione in un futuro escatologico”.204 Agostino conferma che è la Morte, come “compimento finale” della Storia umana, il “termine fisso per la comprensione degli avvenimenti presenti e futuri”, cui va collegato la creazione del mondo e la caduta di Adamo come termini opposti dell‟universale vicenda dell‟uomo. In riferimento a questi due avvenimenti soprastorici, il primo e l‟ultimo, la storia stessa è un intervallo tra la prima manifestazione dell‟attualizzazione della salvezza e il suo venturo compimento. Soltanto in questa prospettiva di una definitiva attuazione della salvezza la storia profana in generale rientra nella concezione agostiniana, [per cui il suo] significato dipende dalla preistoria e dalla post-storia, da un principio e da una fine trascendenti. Soltanto attraverso questo riferimento a un principio e a una fine assoluti la storia in quanto totalità ha un senso. Al centro di questa storia così limitata sta al‟apparizione di Gesù Cristo, l‟avvenimento escatologico. 205

I piani paralleli della storia profana e della storia sacra diventano dialettici, per cui i processo storico diventa per i cristiani lo scenario della lotta per la Civitas Dei e la civitas terrena. Secondo Loewith, “questi regni non si identificano con la Chiesa visibile e con lo Stato, ma sono due società mistiche costituite da modi opposti di esistenza umana”.206 In realtà, come abbiamo sopra chiarito, la funzione stessa della Chiesa quale istituzione storica, entrava in collisione con l‟altro modo di “esistenza umana”, quello socio-politico, la cui realtà storica poteva mantenere la sua autonomia metafisica fino a quando la dialettica che opponeva le due “società mistiche” rimaneva confinata in interiore homine, ossia ineriva i rapporti tra il Potere sociale e la coscienza individuale del credente. Ma allorquando il contesto dialettico si era trasferito dal cosmo pagano all‟interno dell‟universo di senso religioso, la relazione del singolo credente doveva stabilirsi sia con la comunità mistica che con la comunità politica, ognuna rappresentativa di due opposti principi di socialità, quello politico dello Stato e quello fraterno dell‟ordo amoris, i quali rappresentava anche

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Ivi, pag. 194. Ivi, pagg. 194-195. Ivi, pag. 195

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due percorsi diversi di “salvezza”, rispettivamente quello economico della sopravvivenza bio-fisica, dominato dal principio dell‟adattamento ai rapporti di forza naturali, e quello spirituale della grazia divina, dominato dal principio della “metanoia”, della conversione alla legge dell‟Amore. L‟idea di poter concepire la Chiesa come una “civitas peregrinans” la quale, tesa a conseguire il suo fine escatologico, stesse “in relazione con gli avvenimenti profani, per quel tanto che essi servono al fine trascendente di costruire la casa di Dio”, [Ibidem.] non eliminava lo scontro tra le due prospettive antropologiche, proprio perché l‟universalizzazione cristiana dell‟originario dettato etnicoteologico ebraico di non avere “altro Dio”, inaugurava la demonizzazione della civiltà pagana, dominata dalla “vanitas” quanto la città di Dio dalla “veritas”. Tra un peccato (l‟omicidio di Abele da parte del fratello Caino) e una virtù (l‟amore anche immeritato per il prossimo) non c‟è paragone né conciliazione morale. La città terrena è un mero prodotto di “generazione naturale”, intesa qui come accidentalità senza valore, immersa com‟è nel temporale e nel finito, mentre la città di Dio è di contro una creazione dovuta alla “rigenerazione soprannaturale”, di carattere eterno e immortale. A fronteggiarsi sono l‟amore di Dio e l‟amore di sé. “Fede”, come amore di Dio, e “scetticismo”, come empietà e vita fine a se stessa, sono i due termini fondamentali della storia umana, cui corrispondono due visioni antropologiche alternative e due opposte visioni del mondo. Lo sforzo della civiltà umana di costruire qualcosa che resti nel tempo si scontra inesorabilmente con il carattere finito della sua costituzione ontologica, per cui il processo storico come tale, il saeculum mostra soltanto il vano susseguirsi e perire delle generazioni di ogni tempo. agli occhi della fede, tutto il processo storico della storia sia sacra che profana appare come una predeterminata ordinatio Dei. L‟intero schema dell‟opera agostiniana serve dunque allo scopo di giustificare Dio nella storia.207

Il senso della Storia è la volontà di Dio, imperscrutabile e del tutto ignota agli occhi profani. La storia sacra, cosciente di questa divina volontà, diventa “una storia segreta entro quella secolare, sotterranea e 207

Ivi, pag. 196.

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invisibile per coloro che non hanno gli occhi della fede”.208 La storia secolare, alla luce della nuova coscienza religiosa, appare come un vano susseguirsi di particolari e molteplici forme ordina mentali, tutte destinate a finire insieme alla vanità delle loro pretese di superare la finitezza di ogni cosa umana, mentre l‟unico vero processo unitario della Storia è quello che tende verso la salvezza eterna. In altri termini, l‟antico senso delle cose, trasfigurato dal nuovo livello di coscienza teologico, perde il suo valore significativo, riducendosi a una avvenimenzialità di pure forme fenomeniche, prive di realtà simbolica. Il trapasso da un orizzonte di senso a un altro, comporta la frattura ermeneutica tra simboli e valori, sicché l‟intero percorso della civiltà pagana appare agli occhi della mito-logia cristiana una insensata fenomenologia di strutture societarie caduche e transeunti, tali che il “regno di Cesare” non sia più la casa comune dell‟ingenuo e dell‟illuminato, ma il luogo della perdizione antropologica e morale. Per un cristiano credente, come Agostino od Orosio, la storia profana è priva di senso proprio. Essa è tutt‟al più un riflesso frammentario della sua sostanza sopra-storica, il divenir della salvezza, determinata da un principio, da un centro e da una fine sacra. 209

Questa svalutazione della Storia come processo in sé compiuto, distinto da quello soteriologico, inserisce nel discorso sulla Storia un giudizio la cui validità dogmatica è indipendente da ogni rappresentazione più o meno razionale dei singoli fenomeni storici, i quali sono per il credente rilevanti solo in rapporto al piano di salvezza escatologica. Ciò comporta che anche epoche e interi processi culturali locali o mondiali acquistino significato solo attraverso la lettura sacra, perdendo di rilievo le differenze infra-storiche tra civiltà diverse o tra la stessa civiltà e la barbarie. Il punto di vista secolare, dunque, fa riferimento a un processo di realtà il cui senso è divenuto incomprensibile fuori della visione unitaria cristiana, dalla cui sacra prospettiva quella realtà profana appare priva di significative differenze: un non-Essere dalla cui negazione emerge la vera realtà ontologica dell‟unico Essere, quello della propria fede. 208 209

Ivi, pag. 197. Ivi, pag. 206.

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Il processo dialettico del razionalismo socratico-platonico diventa, nella logica dell‟universale idealismo cristiano, una metodica gnoseologica per discriminare, alla luce del proprio giudizio di realtà, l‟intero processo storico, assunto per contrapposizione dialettica come il termine negativo rispetto alla verità. assistiamo qui al primo grandioso esempio di “esenzione del senso” operato dal linguaggio formalizzato di un orizzonte di senso teologico, entro cui la realtà determinata come “sacra” diventa il modello normativo di una positività ontologica, confermata ermeneuticamente dalle decisioni di un Governo, quello della Chiesa, le quali ri-stabiliscono sul piano comunitario dei fedeli la scelta fondamentale originaria tributaria del senso comune. Proprio perché esclusiva, la determinazione teo-logica rappresenta una scelta ontologica a favore dell‟Essere (di fede) anziché del non-Essere (mondano). E poiché sul piano esistentivo l‟essere e il non-essere entrambi “sono”, la scelta è ideale e consiste nella distinzione tra ciò che dell‟Essere va assunto come “sacro”, pertinente a Dio, e che perciò deve essere, e ciò che va considerato “profano”, e che perciò può nonessere. Il criterio d‟Essere coincidente con quello di valore, istituzionalizzato in dovere sociale, cioè giuridicizzato, costituisce il referente assiologico di un orizzonte di senso razionalizzato secondo quel valore, che sostituisce un altro orizzonte di senso, giudicato “mitico”, ossia pre-razionale, per cui non è più la potenza politica e la sapienza secolare a giudicare il fenomeno religioso, secondo i suoi parametri mondani, ma è la verità religiosa che formula giudizi riduttivi e liquidatori sulla Storia del mondo profano. E‟ da tenere presente che l‟interpretazione del mondo come fenomenologia profana lascia da parte i significati immanenti ai processi secolari, appunto profani, per cui ogni giudizio di valore proviene dalla visione escatologica e sacra, esterna a quella fenomenologia, e quindi pre-giudiziale. Ciò ha per conseguenza che, al fine di ottenere un valore significativo, cioè un qualche senso simbolico, la storia profana deve inscriversi nella Storia sacra, entro la quale soltanto può trovare il suo senso assoluto e totale. Questa transumanza non è che l‟esito e l‟auspicio di una conversione del mondo profano all‟ordine sacro, tale da realizzare l‟universale transvalutazione della stessa esistenza umana nel suo complesso come Storia della salvezza. “I peccati dell‟uomo e l‟intenzione redentrice di 412


Dio – essi soltanto richiedono e giustificano il processo storico. Senza peccato originale e redenzione finale il tempo storico sarebbe inutile”. Ma inutile per il credente appunto non è. La storia è sentita da lui come un “intervallo” in cui l‟uomo è messo alla prova circa la sua risposta al volere di Dio. Questo comporta per il fedele “vivere in una suprema tensione tra due volontà opposte, in un conflitto la cui posta non è né un ideale irraggiungibile né una realtà tangibile, bensì la salvezza promessa”.210 Il teismo universale, attraverso l‟idealismo greco, diventa la premessa onto-teologica di ogni futuro razionalismo missionario, pronto ad aiutare a realizzare nel mondo i disegni escatologici della ragione provvidenziale. 8. Il “testo base del nuovo universalismo religioso del XVII secolo” è il Colloquium heptaplomeres di J. Bodin, di cui il Nathan di Lessing è una derivazione. Il colloquio di Cusano, De pace seu concordantia fidei, ha la forma di una visione di Dio con tutti i santi. Lo scritto concepito da un superiore punto di vista filosofico, si fa più complesso di altri dello stesso genere, in quanto è animato nel fondo da due tendenze. L‟una ha di unire la sintesi in una religione universale che comprende il contenuto di verità delle singole coniaecturae e si accontenta di certi principi e leggi comuni unificabili alla maniera democratica, indipendentemente da particolarità di riti. L‟altra è invece interessata ad un comune bagaglio originario ed è incline a ridurre tutte le espressioni religiose a questa misura naturale e sufficiente. Come in Rousseau si intrecciano inestricabilmente due concetti di natura, uno utopico e l‟altro primitivo, così anche qui è impossibile una separazione di queste due tendenze: questa situazione spiega le numerose incongruenze. 211

Ciò che unifica le due tendenze è che il cosmopolitismo religioso non tenta di introdurre una nuova fede, ma di considerare i valori accomunanti le diverse esperienze religiose delle culture storiche. Uno stesso “lògos” presiede lo stesso “contenuto di verità di ogni religione specifica”, per cui dalla comune origine razionale è possibile ricavare “una religione naturale”: “una est igitur religio et cultus omnium

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Ivi, pag. 210. Ivi, pagg. 227-228.

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intellectu vigentium quae in omni diversi tate rituum praesupponitur”.212 L‟atteggiamento filosofico-razionale viene rinvenuto nel mondo greco antico, sapienziale per antonomasia, nel cui amore per la sapienza si fa risalire l‟idea della sostanza unitaria, da cui procede il mondo empirico. I Greci hanno rappresentato la loro gnoseologia in termini mistici e religiosamente sensistici, quasi che la bellezza e l‟amore del mondo costituissero una anticipazione simbolica della sapienza. Ma se tra l‟amante della sapienza cristiano e quello pre-cristiano c‟è un tale accordo nella esperienza religiosa vissuta, si può […] concludere che un tale accordo c‟è anche nell‟oggetto di tale esperienza. […] In ogni religione il centro è l‟adorazione di una potenza superiore, di un Dio unico: a questa affermazione si perviene ora con l‟aiuto di una psicologia mistica. 213

Rispetto alla tesi tomista del consensum gentium come comune tendenza innata in tutti gli uomini, la teoria cusaniana non considera la religiosità comune semplicemente come una tendenza, ma come l‟essenziale contenuto necessario alla sua santificazione: l‟essenziale del comando e della rivelazione di Dio è talmente ristretto, semplice ed universale da essere mostrato in maniera sufficiente dalla voce della coscienza naturale; l‟amore di Dio e l‟amore del prossimo si comprendono, per così dir, per se stessi. 214

Cusano, in conseguenza di tale riduzione all‟essenziale della religione, riduce anche i sacramenti “a semplici ornamenti ed appendici esteriori così come i riti politeistici, ebrei o mussulmani”, [Ivi, pag. 230.] ritenendo inessenziali gli elementi che variano per tempi e luoghi, dando risalto alla tesi paolina per cui è il processo interiore, e non le formule rituali, “a decidere del frutto della pietà”. [ Ibidem.] Con Paolo, doctor gentium, “il principio particolare è soppiantato da quello universale”. Se con Pietro il cristianesimo romano era riuscito a introdursi sia nel mondo occidentale che presso i popoli germanici e latinizzati, con Paolo si definisce il suo universale “contenuto etico-

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Ivi, pag. 228 Ivi, pag. 229. Ivi, pag. 229.

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filosofico” cosmopolitico, che “subentra” alla “rigorosa cattolicità”.215 Anche Cusano si pronuncia per la sola fides, ma in senso opposto a quello di Lutero. Mentre Lutero ne ricava una dottrina della giustificazione del massimo esclusivismo pensabile, che pone nella luce più cruda la singolarità della situazione cristiana, per lo spiritualismo tardo-medievale la dottrina della sola fede diviene la conferma e la giustificazione della sua saggia indifferenza per i confini tra le religioni positive, diviene la formula di una universale religione della coscienza e della tolleranza filosofica. Con essa Cusano, in fondo, ha compiuto il tentativo di una dottrina fondamentale del cristianesimo e della religione in generale.216

L‟individuazione di un “minimum sostanziale” tra le diverse esperienze religiose, ha condotto inevitabilmente a rasentare il pensiero razionale, ovvero a farlo emergere come livello di coscienza dominante su quello ingenuo e fideistico, con risultati non sempre riconducibili a una matrice spiritualistica. Infatti, “finché si cercò un denominatore comune alle varianti del cristianesimo, quella riduzione poteva dare dei risultati spiritualistici. Ma quando nel confronto si inserì anche la filosofia antica, la base comune dovette essere cercata nell‟elemento razionale”.217 Sebastian Franck individuò nella letteratura ermetica “la comunanza universale della verità antica con quella cristiana”, consistente nella comune considerazione dell‟ideale morale della rettitudine e del timore di Dio; ideale razionale comune che esclude ogni forma di intolleranza religiosa. Franck asserisce che al fondo della religiosità umana risieda un “universale teismo umanistico, per il quale la tolleranza o la concordanza non sono più dei problemi”.218 Da qui l‟accusa di eresia di

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Ivi, pag. 231. Ibidem Ibidem.

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Ivi, pag. 232. La sostenibilità di tali posizioni anacronistiche, che proiettavano nel passato la chiave di lettura umanistica dell‟universalismo religioso, era dovuta alla riuscita inserzione del razionalismo greco nell‟orizzonte di senso dell‟onto-teologia cristiana, che l‟aveva acquisito in funzione strumentale e ancillare, e che tornerà alla sua funzione critica una volta recuperato l‟originario universo di senso naturalistico

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Lutero. La veduta razionalistica di Cusano è più larga di quella di un teismo dogmatico, vedendo nella pluralità dei riti e delle cerimonie un aspetto educativo, come lo stesso politeismo inteso nella venerazione dei santi intercessori dei bisogni popolari. La formula mistica, che presenta la beatitudine ultraterrena come superiore a ogni descrizione, sottrae le rappresentazioni a ogni controversia e conferma l‟utilità relativistica delle categorie mistiche. Venuta meno quella “grande forza che animava il medioevo, l‟idea missionaria”, in cui si manifestava la fede nell‟ordine cristiano condendo, dell‟antico fervore religioso restavano i lacerti documentali della varietà universali di pratiche di culto e di simbologie, di significato perlopiù pedagogico,219 che si estendeva anche ai culti extra-cristiani. La stessa religione islamica fornisce a Cusano “lo stimolo alla teoria del teismo universale”.220 Come per Bodin il mondo ebraico ha stimolato lo studio comparato delle religioni, per Cusano il modo arabo “è diventato il punto di partenza per una comprensione libera dei sistemi religiosi estranei”. Cusano infatti ammira in Maometto “la prudenza e l‟intelligenza con cui ha operato per distaccare il popolo dalla più grossolana idolatria”.221 Gli stessi sapienti arabi, in primis Avicenna, si sono attenuti a questa regola, criticando gli usi popolari per la distanza dalla legge coranica, ispirando al cristiano

pagano a opera dell‟umanesimo italiano. Ma l‟emancipazione dal servizio teologico, se gli riaprì la strada al naturalismo trasformando il suo “sapere” filosofico in “ricerca” scientifica, non eliminò perciò la sua funzione strumentale, ma bensì la destinò a un servizio metodico, contenutisticamente neutro, consistente nella tecnica sistematica del sapere. Rispetto al “sapere”, il metodo scientifico è una conoscenza priva di fede ontologica, che resta un fondamento extra-sistemico culturalmente variabile, e perciò, dal punto di vista metodico, storicamente “relativo”. 219 Ivi, pag. 233. 220

Il maomettanesimo, con la sua ricca fioritura di sette ed ancor più la filosofia della religione araba, con la sua tolleranza, ben nota in tutto il tardo medioevo […], esercita la funzione di modello sulla concezione di Cusano. Il filosofo tedesco conosce i numerosi passi del Corano che affermano che chiunque invochi Dio e viva rettamente gode dell‟amore di Dio, e a qualunque confessione appartenga e anche nel caso dovesse mutare fede”: Ivi, pag. 235. 221 Ivi, pag. 235.

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la distinzione, di stile illuminista, tra il ceto dei credenti istruiti e la massa dei ciechi seguaci, distinzione che a così poco in comune con la visione gerarchica del cattolicesimo. Cusano sa che i filosofi arabi guardano con superiore disprezzo all‟uso che il popolo fa del Corano, che sono ben consapevoli dell‟origine umana di questo libro “divino” e che il loro giudizio nelle cose della fede è autonomo, prudente e tollerante. E‟ questo atteggiamento dell‟intellettuale arabo che egli vuole introdurre nel cristianesimo del XV secolo.222

E così, accanto all‟universalismo dei platonici umanisti, che cercano un rapporto ideale tra la philosophia Christi e la sapienza antica, c‟è anche un universalismo nato all‟interno della cultura religiosa medievale, che “poteva giungere alla tolleranza non solo attraverso una interpretazione religiosa di Socrate, Platone, Aristotele, ma anche attraverso un uso razionalistico del maomettanesimo”.223 Sia l‟attenuarsi dello spirito missionario, che la situazione politica, insieme a una predisposizione intellettuale verso un pensiero universalistico e comparativo, spinsero a considerare del Corano non più solo gli errori teologici ma i suoi contenuti di verità, per cui Cusano segnò “una tappa decisiva” nell‟ambito della letteratura relativa alla “questione turca”, precedendo Erasmo nella prospettiva di una “progressiva fusione del mondo arabo con l‟Occidente cristiano sulla base del modello fornito dalla cristianizzazione del paganesimo romano”.224 Tale programma evoluzionistico del pensiero tardo medioevale fu contrastato dalla posizione protestante, la quale torna a valori di fede “estremamente più ingenui”, che si opponevano alla visione di una religione naturale propugnata dal razionalismo, che, nella dottrina universalistica della teologia negativa espressa nella Docta ignorantia poneva sullo stesso piano paganesimo e teologia positiva, entrambe colpevoli per Cusano di voler dare voce all‟indicibile. Sia nel campo gnoseologico che in quello religioso le conseguenze furono “una totale polverizzazione” della conoscenza e la “negazione d‟ogni possibilità di 222 223 224

Ivi, pag. 236. Ibidem. Ivi, pag. 237.

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una religione”. Solo l‟individualità può salvare la religione, per cui appare inevitabile lo scenario storico delle diverse confessioni, tutte giustificate metafisicamente dalla stessa distanza dall‟ “in sé” e poste allo stesso livello di “coniecturae”, la cui “diversità” è dovuta al “processo metafisico della moltiplicazione” della loro natura finita chiamata a rappresentare l‟infinito. E‟, come si vede, lo stesso processo idealistico del “rispecchiamento” dell‟Idea negli enti molteplici che la riflettono e che partecipano del suo Essere, ma è anche il paradigma razionalistico dello scientismo moderno, costitutivo di un livello di coscienza critica svuotata di ogni contenuto rappresentativo extrasistemico, proprio dell‟universo di senso di fede. I contenuti rappresentati dalle diverse fedi umane acquistano il carattere di ipotesi, e con ciò si fa ancora più luminosa la loro unità nella complicatio assoluta: essi partecipano tutti allo stesso nucleo essenziale. In questo modo, per i seguaci di Cusano, la metafisica è generatrice di un‟idea di religione universale la cui ampiezza è senza precedenti.225

L‟universo fideistico non coincide necessariamente con il contesto abitudinario derivato dalla stratificazione culturale delle esperienze storicamente trascorse dalla coscienza collettiva. Anzi, la sovrapposizione del motivo religioso ha dovuto agire attraverso la resistenza di visioni del mondo più arcaiche e soprattutto più coerenti con le condizioni locali della sopravvivenza naturale. Per poter agire sulle coscienze soggettive, l‟istanza religiosa deve procedere a una reinterpretazione dei motivi culturali tradizionali in un senso teleologicamente compatibile con il fine soteriologico, ossia attraverso un processo di razionalizzazione di quei motivi, che diventano pertanto una variante simbolica del significato statutariamente valido in quanto teologicamente prescritto come vero. Intervenendo su una credenza antica, la nuova ragione religiosa deve prenderne il posto, ossia diventare a sua volta fede comune, opinione socializzata. E‟ a questo punto che i suoi fondamenti di ragione si dissociano dalla sua sussistenza fideistica, determinando quella tipica differenza tra il significato razionale destinato all‟elaborazione dei sapienti, e il significato simbolico destinato al culto popolare. La verità “ingenua” o 225

Ivi, pag. 239.

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simbolica, in linea di principio non è diversa dalla verità “di ragione”, ma lo è in via di fatto, in quanto le rappresentazioni simboliche della stessa verità risentono il più delle volte della interferenza e commistione di quegli elementi storicamente variabili legati a motivi culturali tradizionali, infra o extra-religiosi. Le religioni etniche, locali, sono servite perlopiù da supporto mitico confermativo delle rispettive tradizioni, svolgendo una funzione di stabilizzazione politico-sociale e di legame comunitario che la dottrina cristiana ha proceduto a destrutturare in senso mistico, agendo esattamente come una filosofia su una preesistente credenza mitica. In questo senso, il Cristianesimo si è storicamente sviluppato come un fenomeno razionalistico, affermandosi sulle pregresse credenze religiose alla stregua di una dottrina filosofica che ne verificasse la consistenza di senso razionale. E come ogni giudizio razionalistico, la qualificazione logica degli argomenti di fede deve astrarre proprio dalla fede che li sorregge, assumendoli solo come elementi sistemici di una struttura di pensiero di cui si esamina la coerenza. Agendo come procedimento confutatorio delle “superstizioni” locali, il Cristianesimo si è affermato come una filosofia socializzata, e solo per questa affermazione sociale esso è diventato una nuova “religione”, che ha preso il posto dell‟antica, mentre per il versante propriamente teologico esso si è costituito come un sapere che ha preso il posto di quello originariamente avuto dalla filosofia greca, anche in contesti culturali che mai l‟avevano prodotta o conosciuta. Questa doppia identità del Cristianesimo, come fede religiosa (fides) e come sapere razionale (ratio), ha consentito, con la sua superiorità dottrinale rispetto alle credenze storiche tradizionali, anche la sua espansione universale e “cattolica”. Ma l‟universalismo cattolico, per la sua intima natura razionalistica, non fu senza conseguenze morali per la fede, intesa come orizzonte di coscienza dello spirito umano. Infatti la “conversione” dalle antiche alla nuova credenza doveva passare necessariamente attraverso un ripensamento critico della fede tradizionale che, sradicandola dal suo terreno di coscienza tradizionale, la trasformava in oggetto di una superiore riflessione, di tipo razionale, la quale, qualsiasi fosse la sua consistenza e raffinatezza logica, comunque educava all‟esercizio critico della ragione, allargandolo sino a comprendere la stessa fede cristiana in quanto orizzonte di coscienza “ingenuo”. E fu tale tendenza 419


intrinseca a costituire il Cristianesimo come “filosofia per il popolo”, ossia come pedagogia razionalistica, la quale, emancipata dal suo fondamento di fede, acquista la fisionomia di un distinto livello di coscienza, diventando “idealismo” (la ragione al posto della fede) e “gnoseologismo” (la conoscenza al posto dell‟Essere). 9. In conseguenza del suo carattere “religioso”, esclusivo di altre credenze allotrie, il Cristianesimo ha dovuto assumere una forma istituzionalmente preposta alla promozione della sua incidenza sociale come comunità mistica, tanto più efficace quanto più l‟istituzione si faceva garante, in ambito sapienziale, della salvaguardia del monopolio ermeneutico, tale da costituirla anche come una comunità filosofica. Così, all‟interno di uno stesso orizzonte di senso consistevano il motivo religioso e il motivo razionalistico, ossia i due essenziali livelli di coscienza spirituali che nella società pagana afferivano a due distinte realtà sociologiche e teoretiche, dialetticamente contrapposte, le quali ora avevano trovato la loro sintesi. L‟equilibrio delle due istanze consustanziali della Chiesa istituzionale e della Chiesa mistica era strutturalmente instabile, in quanto l‟originario motivo destabilizzante della coscienza spirituale personale, in un contesto cristianizzato, agiva ora non più verso il Potere di Cesare ma all‟interno dell‟ordinamento ecclesiale del Potere del Papa, per cui la progressiva razionalizzazione del processo di universalizzazione del motivo religioso doveva assorbire e neutralizzare le resistenze spirituali provenienti dal lato personalistico, della coscienza teologicofilosofica, riproponendo la classica dialettica tra fede e ragione in termini di lotta tra ortodossia ed eresia. Questo equilibrio, più volte ricostituito dalla Chiesa, si infranse clamorosamente con le 95 tesi di Lutero affisse alla porta del duomo di Wittenberg il 31 ottobre del 1517 e il conseguente moto protestante, che stigmatizzavano quella deriva mondana che faceva della Chiesa soprattutto una potenza storicopolitica. Come afferma L. Febvre, “la Riforma fu il segnale e l‟opera di una profonda rivoluzione del sentimento religioso”, teso non a separarsi dalla Chiesa ma, invece, mosso “dal solo desiderio di restaurarla sul modello di una Chiesa primitiva”. Ed è per questo che i riformatori la designarono appunto come una “riforma”, “sentendo profondamente l‟esigenza di dare alla Chiesa la „forma‟ che essa ha avuto al tempo

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degli apostoli”. [ Xxx.] Questo carattere utopico a contrario trasferiva nella Chiesa istituzionale e mediatrice le tensioni che invece erano intrinseche al Cristianesimo in quanto fede filosofica, teo-logia. Ma la Riforma non fu l‟ inizio di quella “profonda rivoluzione del sentimento”. Le origini vanno ricercate nel sorgere della “devotio moderna” nel sec. XV e nell‟umanesimo cristiano, per cui la Riforma va ripensata all‟interno della cultura europea rinascimentale. Fevbre ha mostrato il parallelismo tra l‟esaltazione del Cristo re e l‟ostilità verso i feudatari usurpatori o concorrenti dell‟autorità regale dei monarchi. L‟ostilità coinvolge non solo l‟autorità papale, ma anche gli ordini religiosi e la tradizionale simbologia religiosa, come le immagini e le reliquie delle chiese, e i monasteri, che vengono soppressi e trasformati in scuole e ospedali. La violazione delle istituzioni cristiane – che sarà sistematica nella Francia rivoluzionaria del XVIII secolo – ha inizio con la Riforma, che segna l‟esordio della dissacrazione della civiltà cristiana medievale a partire dalla sua cultura istituzionale, ancora di forte impronta religiosa. La lotta tra Papato e Impero, tra Chiesa e Stato, era tra organismi istituzionali rivali all‟interno di un ordine socio-culturale cristiano comune. La Riforma introduce all‟interno del cosmo cristiano una frattura religiosa che coinvolge le istituzioni politiche, oltre ai fedeli, chiedendo loro di parteggiare per la causa religiosa, di secessione dalla Chiesa comune, indicata come una istituzione di potere distante dalla comunità dei credenti. La rottura della sintesi di fides et ratio, emancipando la fede dalla sua relazione con la ragione, legittima anche l‟emancipazione della ragione dal suo legame con la fede, sicché la Riforma, osteggiando la figura teologica della Chiesa, legittima indirettamente la posizione politica del potere secolare di preminenza verso la Chiesa, ammantandolo di crisma teologico. Se teniamo conto delle ragioni della critica religiosa alla Chiesa, delle accuse di secolarizzazione che le furono mosse da parte protestante, il connubio dei riformati con il potere politico rivale della Chiesa non poteva che sospingere la società civile in direzione della secolarizzazione e del discredito delle istituzioni religiose, sia pure in nome della fede. Si comprende come, fatte salve le ragioni della fede, la secolarizzazione costituisca il punto di non ritorno della Riforma sul piano, non solo teologico, ma generalmente culturale. Nel contesto storico-religioso del tempo, l‟idea che la “sola fede” potesse ridare una 421


identità cristiana alla società europea, al di fuori o contro le istituzioni ecclesiastiche e del rapporto da esse stabilite con la realtà politica nei secoli, significava che l‟intero processo di cristianizzazione dell‟Europa era viziato da sostanziali incongruenze. Ma ciò che più conta, è che con Lutero (e quindi con gli altri protagonisti della Riforma) viene messa in discussione non solo la piega degenerativa della Chiesa apostolica, ma la stessa tradizione ecclesiastica e teologica cattolica. In altri termini, la Riforma, diversamente dalla esperienza francescana, propose un modello di cristianesimo alternativo a quello storico della cristianità così come si era venuta definendo e costruendo nei secoli, istituendo, all‟interno della tradizione dottrinale, una posizione conservatrice distinta da una radicale che inevitabilmente spostava la dialettica teologica sul terreno della lotta politica. la distinzione tra soggettivismo coscienziale e comunitarismo politico, tra libertà religiosa e obbligazione legale, riportando alle origini della distinzione tra Cesare e Dio, interessava questa volta la società e la coscienza cristiane, e non, come allora, un contesto pagano. Ciò significa che, dietro l‟integralismo religioso, agiva il motivo relativistico espresso, prima che da Erasmo, da Cusano e dalla sua teologia negativa. La protesta si estende a macchia d‟olio per tutta l‟Europa. Zurigo, a partire dal 1523, diventa il centro di irradiazione della Riforma in Svizzera, avendo per protagonista Zwingli (1484-1531), che studia i testi di Lutero e ne partecipa delle idee le autorità civili municipali, che istituiscono un tribunale per il controllo della morale pubblica. Dal 1536 W. Farel organizza la chiesa di Ginevra, che diventa anche il soggiorno di Calvino (1509-1564), esule francese in seguito alle persecuzioni del re Francesco I. Per Calvino la sola fonte della parola divina è la S. Scrittura. Come Lutero, professa una sovranità di Dio sugli uomini marcata e determinante per le sue sorti terrene. Se Lutero credeva nel miracolo della grazia, Calvino predica l‟ineluttabilità dei suoi piani. Ma, ciò che più conta, egli nn vede la realizzazione dei fini umani alla fine dei tempi, ma già in questo mondo, nella storia, in cui vede il ritorno di Cristo come profetizzato nella Chiesa delle origini. Egli fa coincidere l‟avvento del regno di Dio con la istituzione di una repubblica di santi, la cui elezione è identificabile grazie a) alle professioni di fede, b) alla dirittura di vita e c) alla partecipazione ai sacramenti. La a) coincide con la pubblica accettazione de Credo, ossia 422


del patto con Dio; la b) con la condotta di vita austera e sobria; la c) con la condivisione dei sacramenti con la comunità spirituale. Rispetto a Lutero egli accentua la dipendenza dell‟uomo da Dio, che lo giustifica, attraverso la grazia, della sua benevolenza predestinandolo alla vita eterna o alla dannazione, a seconda della Sua insondabile volontà. L‟uomo ricerca in sé i segni di tale predeterminazione, mostrandoli attraverso la sua attività mondana, ossia la sua personale vocazione. Da qui la rivalutazione delle attività mondane, il cui successo diviene il segno della benevolenza divina, superando i tradizionali pregiudizi della dottrina cattolica (si pensi al prestito a interesse, e all‟attività bancaria). Per Calvino l‟uomo è sospeso tra due mondi, per cui la sua condotta equilibrata e sobria deve mantenerlo in equilibrio spirituale tra i doveri spirituali e quelli mondani, senza propendere per l‟uno a discapito dell‟altro, diviso tra predestinazione e responsabilità, vita ecclesiale e individualismo. Calvino distingue tra una Chiesa invisibile, fatta di eletti e nota solo a Dio, e una Chiesa visibile, fatta di eletti e reprobi, che è quella storica. La dicotomia tra due emisferi, uno positivo e l‟altro negativo, reintroduce in ambito cristiano una chiave di lettura della realtà per opposizioni che finisce per perdere di vista la sostanziale novità morale del Cristianesimo, il cui principio caritatevole superava la logica polemica pagana. La discriminazione elettiva in campo spirituale, sviluppava una tensione conflittuale che trasferiva, sublimandola, in ambito religioso la rivalità tipicamente politica, la quale, per essere privata e indifferente al riconoscimento pubblico, si costituiva come essenzialmente di natura economica. Significativamente Weber ha indicato in questi presupposti la mentalità di base dello sviluppo del moderno capitalismo. Proprio per aver eluso la distribuzione gerarchica dei ruoli, dei meriti e delle responsabilità religiosi da parte di un riconosciuto organo istituzionale insieme comune e super partes, la Chiesa, la vita religiosa dei fedeli protestanti fu costretta a ridefinirli, attraverso una lotta per il riconoscimento molto simile a quello politico della società anarchica hobbesiana, in cui l‟uguaglianza di diritto ingenera l‟inuguaglianza di fatto, come l‟assenza di autorità sovrana provoca la guerra di tutti contro tutti per la sua definizione. Da un lato, gli umanisti, lettori e commentatori delle fonti antiche, cristiane e pagane, che cercano una comune radice “naturale” alle 423


diverse fedi storiche dell‟umanità; dall‟altro, gli ordini mendicanti, ancora legati alla cultura teologica scolastica e fautori di una religiosità formale e dogmatica, appoggiati dalle più famose università, si fronteggiano all‟interno di una stessa tradizione cristiana per affermare, gli uni, l‟aspetto razionale della fede, e gli altri quello dogmatico e istituzionale. Papa Clemente VII (1478-1534) subisce il sacco di Roma nel 1527 da parte dei lanzi di Carlo V, il quale aveva avuto come precettore Adriano VI (1459-1523) di Utrecht, il quale aveva cercato di riformare la Chiesa per contrastare l‟azione di Lutero, suscitando però le diffidenze di coloro, anche tra i progressisti, che temevano una perdita di identità italiana della Chiesa a favore di motivi ultramontani. E‟ noto che l‟attacco alla tradizione latina fu uno dei motivi di ripulsa dell‟opera di Lutero, che si estese poi anche verso gli umanisti come Erasmo. Clemente VII diffida del Concilio, temendo una perdita di autorità del papa a favore delle chiese nazionali. Ma col sacco di Roma cambia la politica papale e il suo successore, Paolo III (1534-1549) convoca il concilio di Trento (1536), che si aprirà nel 1545, col compito di definire i termini dell‟ortodossia e di riformare le istituzioni disciplinari della Chiesa. Alla fine del Trecento nei Pesi Bassi sorge una comunità di chierici e laici, i Fratelli della Vita Comune, che con l‟educazione dei giovani cerca di rinnovare la vita spirituale e morale. La spiritualità della “devotio moderna” si diffonde in tutta Europa, anche grazie all‟opera del mistico Tommaso di Kempis (1380-1471), la Imitazione di Cristo. Nel 1540,Ignazio di Loyola (1491-1556), nobile basco, fonda la Compagnia di Gesù e attraverso i suoi Esercizi istituisce le regole spirituali e pedagogiche che incanalano le istanze mistiche nell‟alveo delle azioni caritative e della guida apostolica delle gerarchie ecclesiastiche. Le spinte che nel corso di un secolo (dalla seconda metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento) si erano sviluppate dal basso – movimenti mistici, confraternite laicali di assistenza – e dell‟altro – azione di prelati impegnati a riformare le chiese locali -, trovarono nel Concilio di Trento quello sbocco di rinnovamento della società religiosa e civile che non avevano trovato nel precedente Concilio del Laterano (1512-1517), dove pur avevano preso vita e animato speranze 424


riformatrici (si pensi al Libellus ad Leonem X (1513), redatto dai monaci camaldolesi Vincenzo Quirini e Tommaso Giustiniani). Il Concilio di Trento viene convocato formalmente da Paolo III con la bolla Initio nostri pontificatus del 29 giugno 1542. Per l‟ostilità di Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia, il Concilio venne rinviato. Intanto il 21 luglio di quell‟anno „42 nasce il Sant‟Uffizio, che dà inizio all‟Inquisizione per fermare il diffondersi delle eresie. Mentre il Concilio tenta di riequilibrare le tensioni interne e di fronteggiare quelle esterne ala Chiesa attraverso una soluzione dottrinale e pacifica, l‟Inquisizione cerca di confermare l‟autorità pontificia e romana contro le spinte centrifughe o anarchiche dei suoi detrattori. Così, se il Concilio doveva ridurre l‟autorità papale con l‟azione conciliare, l‟Inquisizione doveva rafforzarla di fatto. Dopo la pace di Crépy (1544) tra Spagna e Francia, Carlo V preme perché il Concilio affronti le questioni disciplinari e tralasci quelle dottrinarie, che potrebbe portare a una definitiva rottura coi protestanti. Il successore, Paolo IV (1555), Carafa, inaugura la figura del papa inquisitore, che si svilupperà di seguito coi posteriori Paolo V, Ghisleri, e Sisto V, Peretti, i quali freneranno l‟azione riformatrice del Concilio rafforzando il potere papale. Con l‟istituzione dell‟Indice dei libri proibiti (1559) ispirata da Paolo IV, scompare per due secoli la figura di Erasmo nel panorama culturale italiano. Il successore Pio IV tenta di frenare gli eccessi dell‟Indice abolendo il divieto di stampa delle Bibbie in volgare, che verrà però ripristinato con Clemente VIII nel 1596 restando in vigore fino al 1758. Nipote di Pio IV è Carlo Borromeo (1538-1584), vescovo di Milano, ricordato anche dal Manzoni. Sotto il suo pontificato avviene la strage di S. Bartolomeo del 23 agosto 1572, data delle nozze di Margherita, figlia di Caterina de‟ Medici con Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV di Francia. Per l‟occasione, gli Ugonotti affluiscono a Parigi e vengono sterminati a tradimento. Solo nel 1598, Enrico IV concederà agli Ugonotti, con l‟Editto di Nantes, la libertà di culto e i diritti civili. Con Sisto V (1585-1590) i poteri papali si allargano e si introducono le congregazioni cardinalizie, coordinate dal Sant‟Uffizio e subordinate al papa, che escludono ogni gestione collegiale del affari spirituali e temporali della Chiesa e la stessa autorità dei vescovi, pur prevista dal Concilio, nella direzione delle coscienze. 425


Per Lutero, distante dalla cultura del Rinascimento italiano e immerso nello spirito gotico dei confini col mondo slavo della cristianità teutonica, la Chiesa era troppo umanistica e troppo poco deistica, e l‟oggetto della sua polemica “non furono le deformazioni del cattolicesimo medievale, ma il cattolicesimo stesso, considerato come una deformazione del Vangelo”, per cui, come aveva ben visto Erasmo, “la disputa verteva sul concetto di Dio e dell‟uomo”, ossia fu “fondamentalmente religiosa”,226 anche se altri fattori si aggiunsero in seguito. Alla Dieta di Worms (1521), Lutero dichiara che “il papa, non è arbitro in materia pertinente alla parola di Dio e alla fede”, per cui il cristiano era tenuto ad “esaminare e giudicare per sé”.227 Si infrange così il monopolio ermeneutico della Chiesa dall‟interno, e inizia l‟individualismo teologico e l‟annesso egalitarismo spirituale, anche se, come ricordato da Bainton, “il luteranesimo divenne e rimase democratico soltanto nel canto”.228 Quello che invece rappresentò un impulso per gli Stati nazionali, non fu tanto la erosione del Sacro Romano Impero, che costituì piuttosto la conseguenza che la causa delle costituzioni nazionali, quanto l‟affievolimento della presenza della Chiesa come potenza di contenimento alla espansione della potenza politica regionale. Infatti, la frantumazione della presenza ecclesiastica in tate chiese nazionali provocò il rafforzamento dell‟autorità secolare, la quale anche di fatto poté garantirsi una propria assolutezza sovrana nel suo ambito territoriale. All‟interno delle singole chiese nazionali si ripeteva l‟influenza separata degli Stati, per gli affari politici, e della Chiesa, per gli affari spirituali, che si era avuta su scala europea in ambito imperiale a proposito del doppio ufficio dei prelati-vassalli. La varietà di professioni e di fedi che si sviluppò a partire dalla Riforma, e lo stesso spirito di tolleranza che le correnti mistiche e razionalistiche avevano alimentato a partire dalla fine del sec. XV, subirono una notevole restrizione e inversione di tendenza liberale al costituirsi e rafforzarsi

226 227 228

R.H. Bainton, La riforma protestante (1952), tr. it., Torino (1958), 1974, pag. 37. Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 78.

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degli Stati nazionali, i quali per quanto propensi a raffrenare il papato, non avevano alcuna intenzione di tollerare nel loro ambito particolare più di una religione. Une foi, un roi, une loi – era ancora la norma di ogni saldo organismo politico; sicché anche i paesi, come la Svezia e l‟Inghilterra, che ruppero con Roma, non erano affatto disposti ad ammettere più di una varietà di protestantesimo; e meno che mai la sopravvivenza di minoranze cattoliche. Della nuova religione veniva riconosciuta ufficialmente una sola forma; tutte le altre erano proscritte: gli Stati nazionali erano intesi come riproduzioni, su scala minore, del sistema medievale.229

Con una differenza decisiva: mentre la confessione cattolica costituiva la forma tradizionale di Cristianesimo, nella quale si erano riconosciute le varie e diverse espressioni regionali, le nuove confessioni protestanti nascevano da un‟abiura, e quindi affermano la legittimità di una eresia, la cui istanza di riconoscimento, non potendo essere avanzata a Roma, inevitabilmente chiedeva di essere accolta dal potere politico territoriale, che finì così per surrogare quello della Chiesa sul piano spirituale, diventando il referente autoritativo laico delle confessioni separate. Questo esito paradossale forse era facilmente prevedibile ma sicuramente fu foriero di gravide conseguenze religiose e politiche, a cominciare dalla conformazione dei regimi giuridico-politici nazionali. Infatti, ora, come al tempo dell‟Impero romano, era la religione a chiedere di essere riconosciuta dallo Stato, e non più questo, come durante il Medioevo, a chiedere la legittimazione religione. Il fondamento della legittimità del Potere, dunque, passava dal piano sacrale-religioso a quello formale-giuridico, per cui la funzione delle confessioni cristiane, cattoliche o protestanti, dal punto di vista dello Stato sovrano tornava ad essere, come ab antiquo, di consolidamento del Potere, e non più di vigilanza critica sull‟operato del braccio secolare. Pertanto, i nuovi Stati nazionali non rappresentavano più la distinta funzione politico-militare interna al cosmo spirituale cristiano, ma si costituivano come una forza separata dal potere spirituale avente un proprio principio di legittimazione morale, la “ragion di Stato”, che era giuridica e formale.

229

Ivi, pagg. 134-135.

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Inoltre, la costituzione di uno spazio pubblico definito in termini interamente politici, quello appunto dello Stato, in cui questo esercitava la sua assoluta sovranità, stabiliva per converso la natura privata di ogni istanza sociale non riconosciuta dal Potere, compresa la confessione religiosa, per cui qualsivoglia espressione di vita civile doveva passare al vaglio dell‟autorità pubblica al fine di essere omologata come di rilevanza pubblica e quindi legittimamente sussistente. Ossia doveva essere giudicata compatibile o meno con la realtà politica, il cui essere empirico costituiva il fondamento di realtà della vita sociale. Questi germi di statolatria, che riportavano la coscienza etica delle nazioni cristiane al tempo classico, si svilupperanno sia in direzione del favorevole riconoscimento delle istanze private, che caratterizzerà la vita etica dei regimi liberali, e sia della tendenziale negazione di tale riconoscimento, che caratterizzerà la vita etica dei regimi autoritari, con una varietà di oscillazione interna che va dall‟instabilità politica al totalitarismo. In ogni caso, però, la varietà dei regimi statuali storici dell‟Europa moderna si conterrà entro la logica politicistica riabilitata dal scisma religioso d‟Occidente, il quale rappresentò per la civiltà cristiana ciò che il razionalismo rappresentò per la cosmologia teologica sulla quale quella civiltà era fondata: un processo di dissoluzione dell‟orizzonte di senso ontologico della metafisica cristologica, della quale dissoluzione l‟età moderna segna lo spazio storico della sua fenomenologia. Va notato che la persistenza di una questione religiosa, legata alla libertà di professione, anche a scisma consumato, era dovuta all‟insopprimibile rilievo politico che l‟azione dei gruppi sociali cristiani esercitava nella vita dello Stato, assumendo quindi di fatto una netta importanza pubblica, non confinabile a una questione di coscienza privata, come pure avrebbe dovuto essere in linea di principio. L‟astrattezza della ragion di Stato si manifestava nel considerare la realtà della professione religiosa come ai primordi della predicazione evangelica, allorquando l‟orizzonte di senso culturale e socio-politico era pagano, non considerando che all‟interno dell‟orizzonte storico cristiano, erano gli Stati nazionali il corpo estraneo alla coscienza religiosa comune, il quale intendeva imporsi come un nuovo orizzonte di senso politico, con strumenti concettuali arcaici, risalenti alla civiltà classica pre-cristiana, valutata quindi nei 428


termini razionalistici della astrazione dal millenario processo storico della cristianità. In questa riabilitazione anti-storica dell‟antico, il misticismo protestante e il razionalismo filosofico s‟incontravano nella congiunta lotta alla tradizione cristiano-cattolica. Il principio del “cuius regio eius religio” stabiliva quali culti erano da considerare di rilevanza pubblica e quali meramente privati, tollerati o meno. La questione del dissenso nasceva dalla rilevanza politicosociale dei culti, dalla quale rilevanza lo Stato assolutistico moderno cercò di emanciparsi professando a sua volta una sua “ragion di Stato” che fosse superiore e alternativa alla “ragione religiosa”. In tal senso, l‟affermarsi del primato politico andava di pari passo con la perdita del primato religioso nella cultura sociale dei popoli cristiani. Il potere statuale, in virtù del suo primato politico, diventava detentore della sovranità pubblica, cioè del potere di decidere quali valori erano ammissibili e quali non. Questa prerogativa sovrana in materia spirituale costituiva il precedente storico e dottrinario della pretesa totalitaria dello Stato moderno. Ciò che la Chiesa fu costretta a tollerare nei singoli Stati nazionali, riservando a sé l‟universalità del primato spirituale, non poté tollerare in linea di principio, cercando di impedirlo a livello imperiale, sicché quando Carlo V cercò di arrogare a sé il ruolo di sovrano cattolico decisore di giustizia e garante della pace religiosa fra i popoli cristiani d‟Europa, la Chiesa vi si oppose fermamente in nome e ragione del proprio primato spirituale su ogni potere civile. La contesa, com‟è noto, finì col sacco di Roma del 1527 dei lanzi imperiali e con la cattività del Papa. La rottura dell‟uniformità religiosa fu sentita come una conquista di libertà di coscienza da parte protestante, e una grave infrazione teologica e uno scandalo morale da parte cattolica. In termini storici, quella rottura liberò sì tante energie intellettuali e civili prima costrette negli alvei spesso angusti del conformismo culturale e religioso, ma dilaniò pure la coscienza europea, destinando la ragione a fondarsi sul nulla anziché sulla verità, e la vita umana ad affidarsi alla forza economica anziché alla speranza spirituale. La crisi che ne derivò fu lacerante e i vantaggi effimeri quanto illusorii. A distanza di cinque secoli, quella frattura non si è ancora rinsaldata, ma invece la società e la cultura già cristiane hanno progressivamente perso la loro identità teologica e religiosa, abbandonando alla “necessità” di una politica 429


ritenuta “indipendente” da ogni principio morale i destini dei popoli civili, che nel Cristianesimo avevano trovato la loro luce interiore e la loro bussola esistenziale. Con esiti devastanti e cruenti. Il sacco di Roma segnò il punto di svolta politico della storia cristiana quanto la Riforma lo fu in senso religioso. Infatti, la rivolta di un imperatore cristiano al suo papa rappresenta simbolicamente la pretesa della politica di emanciparsi dall‟orizzonte di senso teologico-morale e di costituirsi come orizzonte separato, come la ragione a se stante di una logica metodicamente auto-giustificata. Dalla giustificazione della “verità” propugnata dai filosofi quale volontà divina, la ragione passa a giustificare il “diritto” sancito dai giudici ed espressivo della volontà sovrana dei principi. Dopo quello dialettico di Platone verso Parmenide, questo segna il secondo grande parricidio della ragione nei confronti del suo fondamento ontologico. Una ragione non giustificata ontologicamente, trasformava la lotta delle diverse confessioni protestanti non per la libertà religiosa, ma “solo per il proprio diritto”, quello della coscienza particolare, aprendo la strada, “sul terreno dei fatti storici concreti”, al principio della sua inviolabilità e a quello dell‟integrità della personalità (abeas corpus), distruggendo “il monopolio di una confessione sola”, cioè l‟unità teologica della civiltà cristiana, e sviluppando quella molteplicità dei valori empirici che costituirono “quei principi distintivi che si affermarono nell‟Occidente con l‟Illuminismo”.230 Il razionalismo, che “considera la fede più come una ricerca che come un deposito, suggerisce la tolleranza”, sia verso le diverse confessioni cristiane che verso le altre religioni storiche. Le idee di tolleranza possono a loro volta distinguersi in relazione al concorso “a demolire i tre bastioni ideali dietro cui si trincera l‟intolleranza persecutrice”. Quanto al primo punto, né i cattolici né i primi riformatori avevano alcun dubbio. I cristianesimo ha ereditato il carattere esclusivista del giudaismo. Iddio è un Dio geloso che non tollera che il suo popolo abbia altri dèi al suo cospetto; i profeti avevano anzi affermato che non esistevano altri dèi. Questo Dio ha un popolo eletto a cui ha dato in eredità la terra promessa. Nel cristianesimo l‟Iddio unico fu integrato col Signore unico, e la terra promessa divenne la vita a venire. La lotta decisiva non fu, per la Chiesa primitiva, fra

230

R.H. Bainton, Op. cit., pag. 194.

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l‟Iddio uno e le divinità del politeismo, ma fra l‟unico Signore e l‟imperatore romano. Il cristianesimo non ammetteva rivali: era deciso a vincere o morire; e vinse.231

La rivelazione di Dio in Cristo è contenuta nella Scrittura, che è la fonte della certezza della fede. L‟interpretazione della Scrittura venne riservata alla Chiesa e quindi la libertà d‟indagine venne limitata solo a zone marginali, dove non si era ancora giunti a formulazioni definitive. Ma una volta che il papa si fosse espresso in materia di fede e di morale, non era più ammissibile la discussione in proposito; e coloro che, all‟interno della Chiesa cattolica, contestavano ancora nel secolo XVI l‟infallibilità papale […] non lo facevano in nome del giudizio individuale, bensì dell‟autorità conciliare. La Riforma protestante ripudiò simultaneamente l‟autorità papale e quella conciliare.232

Ma la contestazione del monopolio ermeneutico custodito dalla curia romana e dallo stesso Papa, a favore del giudizio personale, non implicava sic et simpliciter il soggettivismo delle interpretazioni scritturali, ma “nel caso di interpretazioni divergenti, una dev‟essere sbagliata e lo Spirito fa difetto a colui che sbaglia”. [Ibidem.] Ciò significa che Lutero credeva nell‟unica verità, ma che questa fosse oggettiva, e perciò conseguibile da chiunque vi potesse giungere, e non era appannaggio di alcuna dittatura dogmatica. In realtà, il dogma stabiliva e fissava i termini della conseguita verità, e non li sostituiva. E soltanto a chi contestasse i suoi contenuti poteva apparirgli una imposizione alla propria verità. La questione relativa al “conflitto delle interpretazioni” veniva solo spostata, e non risolta. Infatti, se i dissidenti si appellavano alla propria coscienza, si replicava loro che non vi sono diritti per la coscienza in quanto tale, ma solo per la coscienza retta. La parola coscienza consta di due componenti, con e scienza: solo la coscienza esente da errore può quindi essere rispettata.233

231 232 233

Ivi, pagg. 196-197. Ivi, pag. 197. Ivi, pag. 198.

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Rispetto alle posizioni raggiunte dalla filosofia scolastica, “secondo cui la coscienza può essere nell‟errore ma rimane tuttavia vincolante finché non venga illuminata”, quella protestante è chiaramente più arretrata, in quanto afferma che la coscienza umana è tenuta a seguire ciò che reputa giusto, anche sbagliando, “ma non ha diritto a che si tenga alcun conto di ciò che gli sembra giusto. Quel che egli pensa nn c‟entra per nulla: bisogna che sia nel retto perché gli siano riconosciuti i suoi diritti”.234 Ma chi decide della sua giustezza? Lutero infrange il principio di autorità (papale) ma non può eliminarlo, per cui si tratterà solo di sostituire il referente discretivo, ovvero di ammettere l‟anarchia ermeneutica del soggettivismo relativistico. L‟uomo di fede crede nella verità, che non può essere che unica, e ispirata dallo Spirito Santo. Per l‟umanista, invece, se “l‟incertezza rimane e le discussioni stesse stanno a dimostrarlo”, e “se fra coloro che sono uniformemente corredati di sussidi critici permangono divergenze, ciò significa che la materia in esame non è chiara”.235 Spostati i termini della verità dall‟oggetto al soggetto, la originaria certezza della verità divina e l‟incertezza della ragione umana, fece trasferire l‟alea della ricerca, dogmaticamente assicurata della sua giustezza dal metodo, nell‟oggetto, tale che il problema non risolvibile metodicamente veniva considerato non razionalmente significativo, per cui anche Dio diventa un‟ipotesi non verificabile. Il dogmatismo si spostava insomma nel metodo scientifico, infallibile a prescindere dai risultati conseguiti. Ora, che “la distruzione del dogmatismo ecclesiastico non si dimostrò, di per sé stessa, una garanzia di libertà”, non fu dovuto solo al fatto che “ai tempi della Rivoluzione francese il razionalismo e lo scetticismo mandarono le proprie vittime al patibolo”,236 ma soprattutto alla circostanza che, più semplicemente, l‟ammissione della verità, comunque venisse conseguita, implicava necessariamente la sua affermazione dogmatica; e, poiché alla verità di ragione si annetteva una speculare realtà di fatto, l‟astrattezza della determinazione teoretica si rifletteva nella vita concreta come

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Ibidem. Ibidem. Ivi, pag. 200.

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eliminazione degli elementi a essa contraddittori, e quindi alla lotta contro il divenir stesso della storia. Mantenendo ferma la costruzione idealistica dell‟Essere e la teoria della “corrispondenza” o del “rispecchiamento”, soltanto la negazione della verità poteva ragionevolmente eliminare ogni forma di dogmatismo e le sue conseguenze pratiche. Oltre al monoteismo giudaico, un altro presupposto della persecuzione era l‟importanza che si annetteva alla materia del contendere. Infatti, perché una fazione sia disposta a mandare a morte gli oppositori, bisogna ch‟essa sia convinta che la propria sicurezza è in pericolo in qualche punto delicatissimo [talché] i più grandi persecutori, nella storia del cristianesimo, non sono stati ipocriti o degenerati, ma crociati d‟un ideale ch‟essi ritenevano d‟importanza suprema per l‟umanità. 237

Per costoro, la benevolenza di Dio era decisiva tanto del destino terno dell‟uomo che del suo benessere sociale, legati al‟appartenenza alla Chiesa che Egli ha voluto per la salvezza dell‟umanità, sicché un credo ortodosso appare [a costoro] più importante d‟una condotta retta, perché chi accetta la dottrina può anche emendare la vita; mentre chi respinge la dottrina, per quanto possa essere temporaneamente irreprensibile, è destinato quasi fatalmente a naufragare perché la fede è l‟unico saldo fondamento dell‟etica.238

Da qui la necessità che la Chiesa, quale “santuario di ogni buon vivere”, influenzi della sua spiritualità e missione “tutte le istituzioni” e che “il braccio secolare sia a sua disposizione per la repressione dell‟eterodossia”, fornite di altri perniciosi contagi.239 Invece, “per gli spiriti liberi, dovevano ritenersi più importanti agli occhi di Dio i fatti che non le dottrine”, per cui l‟ “atteggiamento etico” dei razionalisti e dei tolleranti “considerava le opere buone come il collaudo delle dottrine, e riteneva che fosse migliore quella fede che fa migliore

237 238 239

Ivi, pag. 200. Ibidem. Ibidem.

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l‟uomo”.240 La preminenza della “azione” caritativa rispetto al “sentimento” religioso, nasceva dal bisogno di verificare sul piano esistenziale il portato di quella fede che tradizionalmente era considerata un‟acquisizione intima della coscienza che nella metanoia coinvolgeva non soltanto i comportamenti, cioè le occasioni mondane di testimonianza, ma soprattutto l‟intimo rapporto mistico con Dio. La stessa virtù della “sincerità”, intesa come “fedeltà interiore a ciò che al momento ci appare vero”, era sinonimo di rettitudine, cioè di conformità comportamentale ai modelli ideali di condotta virtuosa, che manifestassero indirettamente la distanza del probo dalle nequizie del mondo rei reprobi. Il sindacato morale degli altri era il germe dell‟importanza che l‟opinione pubblica avrà nella vita sociale dei paesi riformati quale sostituto dell‟occhio di Dio. Senza “sincerità” non pareva possibile la ricerca della verità, essendo convinti che non esistesse “un deposito di dottrine che fosse ugualmente valido, siano sincere o insincere le persone che le professano”.241 Un terzo requisito delle persecuzioni “è che la coercizione possa essere efficace”. Ma efficace a quale scopo? Non certo ai fini della fede, poiché essa è un dono di Dio, e non può ottenersi “con la spada del magistrato”.242 Come afferma Lutero, “la fede è una libera attività a cui nessuno può essere costretto. E‟ un‟attività divina nello spirito. Non è dunque neanche da pensare che una forza esteriore possa imporla o crearla”.243 Eppure la Riforma, legittimando teologicamente la defezione da Roma, apriva la strada all‟assolutismo politico anche in materia religiosa, stabilendo, col principio del “cuius regio eius religio”, la priorità dell‟appartenenza politica rispetto all‟identità religiosa. Tutte le confessioni religiose combattevano l‟assolutismo in quanto credevano in una legge morale universale – la legge di natura – che vincola tutti gli Stati, cristiani o non cristiani. La pretesa machiavellica che lo Stato possa essere legge a se stesso non sarebbe mai stata ammessa da alcuna collettività

240 241 242 243

Ivi, pag. 202. Ibidem. Ivi, pag. 205 Ivi, pag. 206.

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cristiana.244

Ma, a partire dalla Riforma, proprio la teoria della sovranità limitata degli Stati trovò una confutazione pratica, prima che teorica, nella esautorazione del ruolo moralmente direttivo della Chiesa. E per quanto “l‟affermazione che tutte le correnti religiose del secolo XVI contribuirono, nel loro contrasto, alla formazione della democrazia” sia “irrefutabile”,245 è pur vero che, sia la resistenza – morale o fisica – al sovrano, che la questione relativa alla giurisdizione, statale oppure ecclesiastica, in materia religiosa, partivano dal presupposto che esistesse una comunità cristiana, per cui anche il fondamento della sovranità popolare era costituito non già dal “contratto” politico stipulato col sovrano, ma dal “patto” sacro stabilito con Dio originariamente da Israele e quindi cristianamente con tutte le genti del mondo. Quando il rapporto fondativo della legittimità sovrana fu inteso in senso esclusivamente politico, la questione resistenziale al potere illegittimo fu spostata interamente sul piano dei rapporti sociali e istituzionali. Ma alla base di tale interpretazione c‟è il passaggio da una considerazione religiosa e teologica della esperienza umana a una di tipo esclusivamente mondana e laica. Pertanto, se la “democrazia” di stampo religioso corregge sia la monocrazia papista che l‟assolutismo regio nel senso dei diritti “naturali” universali e originari degli uomini quali esseri spirituali, la versione laica e politica della “democrazia” stabilisce che il principio di sovranità risieda nel popolo, e che la sua volontà sia decisiva circa ogni potere, aprendo la strada alla concezione totalitaria dello Stato. La differenza radicale fra le due ipotesi è che, nella forma religiosa, il rapporto tra volontà popolare e potere ha come elemento costante e imprescindibile l‟alterità di Dio, laddove, nella forma politica, la volontà popolare e il potere possono coincidere, determinando una assoluta auto-referenzialità morale che legittimi ogni autorità. E‟ la trascrizione in termini politici laici del patto religioso a creare le condizioni ideali della monocrazia assolutistica e del totalitarismo

244 245

Ivi, pag. 220. Ibidem.

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ideologico statalistico. 10. La conseguenza della visione razionalistica del mondo è legata alla distinzione tra sacro e profano, non nel senso di fondarla, essendo essa alla radice dello stesso concetto di sacertà, ma nel senso di attribuire alla dimensione profana una sua legittimità ontologica in conseguenza della sua determinazione logica dell‟Essere. Essere portatore del lògos, che è la “legge” di ragione del pensiero, e cioè legis-latore, attribuisce alla fondazione logica della sacertà una essenza distinta dalla fede, che diventa un suo attributo, che non inficia la sua definizione, la quale consente di distinguere ciò che “è” sacro da ciò che “si ritiene” che lo sia. Come abbiamo visto a proposito dell‟Eutifrone platonico, soltanto ciò che “è” santo lo può definire tale, laddove la venerazione sentimentale non è che una “proprietà accidentale” della sacertà, il cui venir meno non altera la sua essenza.246 Si infrange l‟unità di sacertà e giustizia, per cui l‟essenza del valore sacro non è determinato dalla fede, cioè dalla credenza religiosa, bensì dalla giustizia, ossia dall‟essere del concetto definito dal giudizio logico, il quale, contraddicendo la credenza che tutto ciò che è giudicato santo sia anche giusto, afferma “l‟opposto di ciò che disse il poeta”, ossia quanto tramandato dal racconto mitico. La possibilità di distinguere ciò che è “giusto” da ciò che è solo ritenuto “sacro”, implica la necessità di attenersi all‟essenza immutabile del sacro, e non alla variabilità del pathos religioso, ossia all‟accidentalità della fede. Questo comporta che la coscienza razionale del mondo venga intesa come uno stadio ultroneo a quello fideistico della coscienza religiosa, e il solo ontologicamente decisivo. Che senso ha, infatti, emotivamente credere quando si può razionalmente pensare? La dinamica del pensiero logico, inteso come stadio superiore della sapienza umana, che soppianta il pensiero mitico, ricorre in ogni gnoseologia idealistica, e risale appunto a Platone, che distinse per primo una verità di fede da una verità d‟essenza. Ora, questa gerarchia fu capovolta dal Cristianesimo, che pose la fede, non soltanto a fondamento dell‟Essere, ma anche della sua “ragione”, ossia come la sua stessa verità, che la comprende. Da qui l‟eternità del Mistero della

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Eutifrone, 11 a.

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fede, che la ragione può cercare di definire ma mai di comprendere interamente, in quanto nel Tutto vi è anche ciò che la ragione non coglie. Solo la fede, pertanto, può conoscere a suo modo la verità del Tutto, per cui essa non può essere soppiantata dalla conoscenza razionale, la quale si definisce espungendo dal Tutto ciò che “non-è” definibile, quel Negativo ignoto alla ragione ma che pure “esiste” (come “diverso” da ciò che logicamente “è”). Il concetto di una fede che, in quanto relativa alla verità del Mistero, costituisca un orizzonte di senso più comprensivo di quello configurato dal livello di coscienza razionale, capovolge la simmetria idealistica platonica, che invece viene riaffermata dal razionalismo moderno; il quale, nondimeno, nasce all‟interno della cosmologia cristiana, come polo dialettico della corrente religiosa mistica Queste due fondamentali correnti interne al Cristianesimo, e precedenti alla Riforma, convergevano, nella specularità delle rispettive posizioni teoretiche, nell‟idea che fosse possibile conoscere Dio indipendentemente dalla ragione (la posizione mistica, per la quale i dogmi e la tradizione della Chiesa sono inutili al fine di un congiungimento con Dio), ovvero dalla fede (la posizione razionalistica umanistico-rinascimentale). Tale “indipendenza” reciproca dei due fondamentali elementi della gnosi cristiana, la fides e la ratio, costituiva la premessa logica dell‟idea di libera coscienza e di tolleranza religiosa che formeranno i contenuti ideologici dell‟Illuminismo. Ma l‟espressione razionalistica ancora interna all‟orizzonte di senso cristiano, e quindi genericamente religioso, è il teismo universale, il quale “si potrebbe definire […] come il sistema extra-politico del movimento razionalista”.247 Rispetto a questa fase originaria del razionalismo teorico elitario, l‟Illuminismo rappresenta il succedaneo divulgativo di un movimento intellettuale che, “disceso dal suo fastoso castello, entra nelle vie e nelle botteghe di ogni giorno, divenendo l‟oggetto non più di esposizioni filosofiche nelle scuole, ma di discussioni sulla piazza”, allorquando, Anziché superare il passato, si è presi da un‟opposizione ad esso, anziché

247

R. Stadelmann, Op. cit., pag. 255.

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mettersi semplicemente a costruire il nuovo ci si dà a un‟attenta critica, là dove si era essenzialmente lavorato a porre delle fondamenta si è tutti occupati a stabilire delle delimitazioni, lo slancio del filosofo si è trasformato nell‟orgoglio calcolatore di un intelletto avvertito e libero da pregiudizi.. [Da qui l‟analogia tra la] Atene del IV secolo [e l‟] età dell‟Illuminismo nell‟Europa occidentale moderna.248

In altri termini, la coscienza critica, anziché fondarsi sul presupposto della fede da cui è nata, prende a negarla rinnegando la dimensione religiosa dell‟Essere, senza la quale la ragione diventa senza fondamento, poggiante sul vuoto della sua auto-affermazione. E proprio questa auto-affermazione costituisce il suo movimento estroverso, anelante al consenso dell‟opinione pubblica. Paradossalmente, tradendo la sua inconsistenza ontologica, la ragione che si emancipa dalla fede per costituirsi come verità indipendente, ricerca nel consenso pubblico quel fondamento di fede perduto, manifestandosi quindi come opinione “forte”, decisa alla sua affermazione pubblica, ma non “vera”. In tal senso, l‟Illuminismo è il momento in cui il razionalismo, perdendo la sua verità di fede, la ricerca nella società, diventando movimento politico, chiudendo la parabola che da ancilla della teologia ha condotto la ragione ad essere serva della ideologia. Ma, appunto perché tale “passaggio dal razionalismo all‟Illuminismo” importa che si compia un “passo ulteriore” rispetto alle semplici posizioni teoriche, esso va chiaramente indicato nel principio universalistico del razionalismo, ossia nella sua forma idealistica, la quale, come ormai sappiamo, consiste nella posizione dell‟Idea, che è un modello di realtà, al posto dell‟Essere. E tale giustapposizione, sostituendo all‟Essere possibile, cioè al Tutto, il solo Essere attuale, quello definito logicamente come oggetto del giudizio razionale, astrae dal divenire, e cioè dalla dimensione temporale della storicità, nel tentativo di affermare al suo posto ciò che non-è storico, ma utopico. E per voler affermare ciò-che-non-è-storico, combatte contro la tradizione, la quale, nel campo religioso, è l‟orizzonte di senso della fede, e nel campo teoretico è l‟orizzonte stesso della verità, dal quale la ragione è sorta come coscienza logica dell‟Essere. Nella prospettiva 248

Ibidem.

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cristiana, i due orizzonti della fede e della verità coincidono perfettamente, costituendo quel Tutto che è insieme Essere e Mistero. La crisi del mondo medievale aveva “mutato il cardine della visione del mondo, che adesso non si chiama più Dio ma ratio”, lasciando però presagire la possibilità che rimanesse “intatta la struttura dei valori medievali e del loro ordine”, assegnando tale “sforzo” teorico al “nominalismo”, diventato il “rigido e inflessibile difensore del passato”, e il compito pratico di conservare il declinante “carisma trascendentale” della Chiesa al suo “particolare diritto”, in grado di controllare la “nuova situazione di maggiore interiorità” che si era venuto sviluppando dal confronto con “altre forme e gradi della religione” rispetto a quelli tradizionali.249 Il fallimento di un tale tentativo era inevitabile, poiché quella trasformazione lenta che portava al disfacimento dell‟intero albero aveva colpito non solo le fronde, ma anche le radici del tronco, [minando] tre punti soprattutto […] di importanza vitale per l‟intima struttura dell‟edificio medievale: il principio d‟autorità, il primato del religioso, il sistema della gerarchia ecclesiastica, [i quali] a poco a poco erano stati privati del loro peso e li si era fatti divenire superflui.

La morale, costruita su categorie razionalistiche dell‟etica, fece “tacere il senso dell‟origine e del movente religioso della moralità e, accanto alla cattedrale della pietà”, fu innalzato il “tempio del justum et utile”.250 La critica del mito, in età moderna, intacca la dottrina del “peccato originale”, che in Wessel Gansfort si traduce nella difesa dei “diritti del momento, di ciò che di volta in volta è presente per l‟anima”, così che “per il giudizio di Dio esiste solo l‟attuale, il passato è un niente”.251 Torna il principio della “attualità” del giudizio, di ciò che “è” nel momento in cui è posto logicamente in essere dal niente del passato.252 249 250 251

Ivi, pag. 256 Ibidem. Ivi, pag. 258.

252

L‟importanza del Negativo risiede nella presa di coscienza che la possibilità esclude la teoria gnoseologica secondo cui la conoscenza attuale sia l‟unica conoscenza, e nell‟ammissione della trascendenza dell‟Essere, non riducibile all‟esistente, cioè al dato storico. L‟ontologia della storicità, che concepisce l‟Essere nella sua possibilità idealmente diacronica e non nella mera attualità sincronica in cui

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convergerebbe storicisticamente l‟essenza e l‟esistenza, considera l‟Essere totale, il Tutto, come processo di possibilità di cui l‟attualità è l‟aspetto fenomenico, la cui realtà richiama per esclusione, cioè per opposizione logica il suo negativo, che Kant indica come “noumeno”, che consiste in quell‟in sé non riducibile alla attualità contingente, e perciò trascendente la temporalità meccanica. Hegel comprese che la totalità dell‟Essere coincide con la sua processualità dialettica, intendendo però la “attualità” come “sintesi” idealistica, dando adito sia all‟identità del giudizio storico col giudizio logico, e sia all‟attualismo come processualismo eleatico. Infatti la “sintesi” segna la fine del processo, e può aversi solo fuori della realtà in fieri, e non nella “attualità” dell‟Essere, che è uno dei momenti del processo dialettico, quello dell‟astrazione del “fatto” dal suo divenire. La “attualità” non è dunque la “sintesi” del processo ma l‟aspetto fenomenico e finito del “fatto” umano. I concetto di “sintesi” elimina la teoria kantiana della causalità, ossia supera la sua contraddittorietà, ma nel senso di renderla superflua entro la realtà della coscienza, dove regna l‟assoluta volontà e libertà del Soggetto ideale. la causalità fenomenica, ha senso solo se l‟assolutezza dell‟esito (come “fatto”) venga accompagnata all‟assolutezza della causa, ossia isolando i fattori causali dal processo reale, così come gli effetti del divenire. La conoscenza per causas è dunque a posteriori, alla stregua di ogni cognizione scientifica, storiografica compresa. Ma tale conoscenza non riguarda l‟Essere nella sua possibilità ontologica, ma solo la fenomenologia degli enti astratti dal processo del divenire, ossia dalla Totalità del loro senso ontologico. solo l‟ontologia conosce l‟Essere, conoscendo il Tutto e non solo i singoli fenomeni attuali. Ma l‟ontologia non è una “scienza” in senso epistemologico, ma un‟intuizione trascendentale che coglie l‟essenza di un processo diacronico così come l‟intuizione artistica coglie l‟essenza dei singoli fenomeni. Per la cognizione scientifica, ogni oggetto di conoscenza “è” sia in senso logico che ontologico, in quanto il suo esistere dipende dal suo essere ideale. Da questa sincronia deriva l‟analisi a priori dell‟ipotesi scientifica da verificare empiricamente ai fini della sua legittimazione razionale, cioè della sua sostenibilità ideale; e l‟analisi a posteriori della ricognizione storiografica, la cui legittimità razionale è legata alla documentazione fattuale. In entrambi i casi, l‟elemento “scientifico” della conoscenza consiste nella corrispondenza del (l‟Essere del) giudizio al (l‟essere del) fatto. Secondo questa prospettiva, ogni oggetto di giudizio si equivale nel suo essere ciò che è, ente, a esclusione di ciò che “non-è” e semplicemente esiste. Da qui il paradosso per cui il “diverso” da ciò che “è”, il non-essere logico, sul piano della realtà effettuale a sua volta “è” anch‟esso, e perciò “è” nello stesso senso di ciò che “è” per il giudizio. Ma se ciò che esiste, esiste indipendentemente dal giudizio che lo pone in essere, allora la realtà empirica non può valere da misura di realtà del giudizio logico, per cui ciò che “è” in senso logico è soltanto ciò che l‟Idea pone e riconosce come suo oggetto. E poiché a porre e a giudicare è il Soggetto, la realtà oggetto di giudizio, ossia di conoscenza scientifica, è soltanto quella posta dal Soggetto. Non diversamente da quanto accade nel Mito e in genere dall‟attività fantastica. In tal senso, la “conoscenza” scientifica ri-conosce solo ciò che pone come suo oggetto, ossia ciò che “vuole” conoscere. Il primato della volontà sulla contemplazione nasce in conseguenza della

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Anche in questo caso, lo “eudemonismo sociale-utilitario” oscura la “grande emozione” della fede religiosa, anche se continua ad avvalersi di “moventi e scopi religiosi”.253 L‟eudemonismo deriva dal trovarsi nel “giusto e vero”, che costituisce il vertice della felicità, consistente nel “liberarsi dei propri sentimenti spiacevoli”, legati alla condizione antropologica di finitezza. E‟ questo il radicale movente “demonico” di Socrate, la “gravosa inquietudine [che] non cessa finché l‟ideale non è raggiunto”, anche per piccoli passi, che procurano però “un sentimento di felicità che non possiamo ottenere in nessun altro modo”.254 La “felicità” è qui sentimento di riscossa umanistica su un ordine originario cui ci si poteva solo adeguare, e che ora viene riscritto in termini tutto umanistici, nel segno della razionalità, per cui “l‟agire umano è orientato da un sistema di valori il cui ordine gerarchico fisso è fondato sulla ragione e che esige, in risposta, un movimento rigorosamente razionale delle energie morali”.255 Tale “economia

gnoseologia idealistica come forma di conoscenza scientifica alternativa alla forma intuitiva della conoscenza ontologica. Ma le due forme di conoscenza non si equivalgono teoreticamente, poiché una è la verità, e non è quella ideale, che muta col variare delle posizioni idealistiche e che conduce al nichilismo contraddicendosi come conoscenza dell‟Essere. Infatti, ciò che è diverso non può essere uguale se non astraendo dalle sue qualità specifiche, ossia appunto dal suo Essere ciò che è, dalla sua possibilità, che è anche la sua verità. la cognizione scientifica pertanto è resa possibile attraverso l‟astrazione idealistica dei “fatti” fenomenici dalla loro essenza ontologica. astratti dalla loro essenza o qualità specifica tutti gli enti si equivalgono, per cui il Molteplice reale equivale all‟Uno ideale. da qui la dialettica di ogni razionalismo idealistico, che convertendosi nel suo contrario reale si contraddice. L‟Unità affermata dal giudizio ideale non è l‟atomo fisico, l‟elemento primo e indissolubile, ma l‟idea di unità, comprensiva di una molteplicità di elementi empirici. In questo senso è attività di pensiero, costituito da elementi molteplici. Senza tale attività, gli elementi sarebbero liberi e non “ruoterebbero” intorno al suo “nucleo” ideale “radioattivo”. E perciò, ogni idealismo, per ovviare alla sua contraddizione intrinseca, finisce per rinunciare alla sua unità ideale, trasformandosi in empirismo, ossia in volontarismo irrazionalistico. ] 253 Ivi, pag. 259. 254

Ibidem. Si tratta dell‟inquietudine della contraddizione idealistica, che cerca di trovare nella realtà quel superamento del negativo postulato con l‟affermazione dell‟identità dell‟Essere e dell‟Idea. 255 Ibidem.

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dell‟utile” impone che “ciò che è migliore [sia] nemico di ciò che è semplicemente bene e di infrangere o trascurare, in vista di un bene maggiore, anche gli imperativi più vincolanti”.256 Il principio eudemonistico della “beatitudine terrena”, nato dall‟utilitarismo sociale dell‟ideale razionalistico della felicità, si scontrava, quale “modo di agire orientato verso il successo” col “principio della stretta obbedienza”, che costituiva il cardine morale del sistema etico gerarchico medievale. Il “prossimo” della morale cristiana non è più il “fratello” di fede ma un soggetto astratto e generico, la cui universalità anonima perde l‟afflato caritativo proprio dell‟ “amore” cristiano, per cui non è più l‟esigenza religiosa di una attività ispirata all‟amore che chiama il seguace di Cristo ad uscire dal chiuso del suo chiostro o della sua cella, bensì l‟ideale razionale di un generale stato di felicità. [Pertanto,] mentre per il pensare gerarchico-monastico la subordinazione ai comandi di superiori è una virtù in sé stessa, indipendentemente da ciò che viene comandato, per Wessel anche l‟obbedienza dipende da un sistema naturale di nessi e di fini in cui la posta deve valere il gioco, dove anzi la partecipazione attiva può venire giustificata solo da un calcolo dell‟esito possibile. 257

Cambia l‟unità di misura, che non è più il bene necessario, ma ciò che è “conforme a ragione” (rationabiliter) in base a una valutazione di mezzi e fini. Da qui la crisi del concetto medievale di “autorità” e la messa in mora del dovere assoluto di obbedienza, e cioè di conformità a quanto stabilito e tramandato. Contestare, o almeno ridimensionare, l‟autorità costituita equivaleva a eliminare la mediazione della tradizione, il cui deposito sapienziale consentiva, da un lato, l‟ortodossia della sua conservazione, e dall‟altro la possibilità del progresso continuativo del processo della conoscenza umana. Tale continuità si interrompe allorquando l‟insorgenza della coscienza critica non inerisce al processo di avanzamento limitatamente all‟elemento inedito, che andava razionalmente giustificato nel contesto dell‟orizzonte tradizionale, ma coinvolge l‟intera tradizione come oggetto di giudizio e di valutazione alla luce del dato innovativo,

256 257

Ivi, pag. 260. Ivi, pag. 260.

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per cui la legittimità di questo si misura sulla capacità di giustificare la tradizione, reinterpretandola sulla “attualità” del dato di coscienza temporalmente più avanzato, e perciò considerato logicamente più maturo. Per cui, la tradizione aveva una sua precisa rilevanza positiva, in quanto determinava il livello di progresso relativo della posizione più avanzata rispetto ad essa, e una rilevanza negativa, in quanto l‟avanzamento di livello della coscienza critica veniva misurato sulla base dell‟arretratezza relativa della tradizione nel suo insieme. Sicché, tanto più innovativa ed eslege risultava la posizione novella, quanto più appariva retrivo il deposito tradizionale rispetto al quale essa innovava. Il capovolgimento prospettico spostava il fuoco della rilevanza ottica sul dato di coscienza innovativo, non già sulla sua compatibilità con la tradizione sapienziale, che fu progressivamente avvertita come un fardello ingombrante rispetto alla libertà di coscienza, anziché l‟argine di sapienza consolidata opposto alla volubilità della coscienza individuale, tanto che al singolo viene riconosciuta una sovranità in conseguenza della quale la libertà della decisione individuale vale più dell‟obbedienza, anche se questa mantiene la pace dell‟amore; la libertà della decisione morale diventa qualcosa come un valore in sé. L‟autorizzazione a giudicare in materia pratica spinge da sé all‟esigenza di un esame soggettivo degli insegnamenti della Chiesa.258

La legittimazione dell‟esame soggettivo, liberato dalle pastoie ermeneutiche della tradizione, apriva la strada alla reinterpretazione della tradizione come oggetto storiografico del soggetto teoretico, il quale, dalla determinazione trascendentale, trasferito sul piano sociale, diventava il giudizio di un qualunque soggetto empirico. Dal punto di vista sociale, la rivoluzione ermeneutica di rimettere in discussione l‟impianto dogmatico-fidesitico della stessa verità di ragione, si traduce in rivoluzione politica, consistente nel mettere in dubbio la legittimità del Potere tradizionale, ossia i fondamenti stessi della convivenza sociale gerarchicamente organizzata. Ogni limitazione e cautela originaria era puramente psicologica, legata alla transizione

258

Ivi, pag. 261.

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dall‟uno ad altro sistema formale di giudizio di valore, ma essa cadeva appena varcata la soglia della prima infrazione, e la quale diventava la regola del giudizio come dell‟azione delle nuove generazioni ideologiche. E infatti, l‟iniziale limitazione del principio soggettivistico, attraverso la distinzione fra “coloro che possono permettersi di fare una critica ed una scelta autonoma, e quelli che, per la loro immaturità, sono rinviati, nel caso d‟incertezza anche minima, alle verità indubitabili”,259 viene superato in seguito dalla tendenza universalistica intrinseca al razionalismo astratto, il cui esito individualistico non era originariamente intenzionale. Ma è proprio tale “esito intenzionale” di ogni individualismo astratto a far ritenere ai suoi moderni propugnatori razionalisti che i fini sociali siano frutto di una auto-regolamentazione spontanea delle volontà soggettive razionalmente indirizzate a fini particolari utilitaristici. In realtà, il divario fra scopi soggettivi e fini sociali, non è conseguenza “spontanea” dei comportamenti razionalmente orientati, ma l‟esito necessario, e quindi logicamente prevedibile, della dialettica del pensiero astratto che si fa movente delle azioni storiche. L‟appello alla “esperienza” è rivolto al senso retrospettivo dell‟esperienza attuale e non all‟indirizzo consolidato dalla tradizione, per cui ogni novità, dovendo diventare il nuovo parametro della realtà passata, costituiva una singolare esperienza, a partire dalla quale veniva reinterpretata la storia passata, la quale pertanto, scollegata dalla unità del processo fenomenico e ricollegata all‟unità del processo ideale dell‟interprete, diventava un récit mitico, il cui grado di plausibilità razionale era determinato dalla coerenza strutturale del racconto, alla stregua di una qualunque opera della fantasia del genio immaginativo. Che la storia narrata alla luce della astratta ragione idealistica fosse un‟opera d‟arte, lo comprova la circostanza che il supposto discriminante “principio di realtà”, che distinguerebbe la narrazione storica dal prodotto fantastico, vale solo per il passato ma non per il futuro, che resta incognito, e perciò imprevedibilmente slegato da quella ragione che dovrebbe essere universalmente valida anche in senso temporale, e che invece lega la sua plausibilità alla verifica degli eventi posteri, come una qualunque ipotesi scientifica. Ciò conferma che solo la realtà che “è”, è

259

Ibidem.

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quella vera, mentre quella passata e quella futura sono soltanto ipotesi, l‟una, quella storica, riguardante l‟opinione sul passato, l‟altra, l‟opinione sul futuro. La scienza del passato e la scienza del futuro no solo altro, dunque, che opinioni soggettive e ipotetiche frutto della immaginazione soggettiva. L‟indipendenza della coscienza dagli obblighi dottrinari tradizionali, è il correlato della emancipazione della ragione (astratta) dall‟Unità dell‟Essere totale e dalla sua possibilità. Le dispute teologicodialettiche di Wessel richiamano il modello della diatriba tra “ratio” e “confessio” religiosa rappresentato dall‟ Eutifronte platonico, che è all‟origine della stessa tensione tra Girolamo ed Agostino rievocata dal Wessel 260 a proposito del concetto di eresia. Infatti, la ricerca soggettiva della conoscenza razionalmente condotta può inscriversi nell‟ambito della virtù della fede quando questa venga presupposta come orizzonte di senso in trascendibile della verità cui la ragione umana è chiamata a partecipare. Ma stornato da quell‟orizzonte teologico fideistico, la ricerca in senso precipuamente umanistico di verità di ragione, mostra il suo lato nobile in relazione agli esiti logicamente coerenti e perciò sostenibili. Fuori, quindi, dell‟orizzonte religioso della fede, la ricerca razionalistica diventa “ diabolica curiositas”, costitutiva di grave colpevolezza secondo l‟insegnamento della Genesi, per cui “la libertà del cercare e il diritto di trovare hanno una sola direzione, quella dell‟amicizia con Dio”.261 Secondo la ricostruzione di Stadelmann, è la mistica che “nell‟ambito tardo-gotico” ha consentito il sorgere di un soggettivismo di transizione, “le cui basi e le cui ragioni non sono né propriamente mistiche, né propriamente umanistiche”.262 Egli definisce “ingenuo” l‟atteggiamento critico di questa condizione di emancipazione dalla tradizione, sostituendo però la sua posizione di estraneità storica al clima ideale del tempo con quella di partecipazione religiosa alle verità comuni propria degli esegeti di allora. Lo sguardo critico poteva apparire come “negativo” solo a condizione di avere ad oggetto metafisico le comuni verità di fede della tradizione cristiana, poste

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Ivi, pag. 262. Ivi, pag. 263. Ibidem.

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come il relativo “positivo”. Solo allorquando la negatività dei postulati di ragione verrà assunta come fondativa di una diversa autorità di pensiero, emancipata da quella religiosa e a questa antitetica, la ragione idealistica costituirà l‟ambito di una fede altra, a movente della quale viene posta non più l‟amore fraterno cristiano, ma la libertà di coscienza. E‟ tale libertà a generare lo spirito eversivo della spiritualità tipicamente moderna, esercitato in ogni ambito di ricerca teoretica e di prassi sociale, che si esercita come “singularitas” o “volontà di originalità che deriva più da un atteggiamento di critica e di insoddisfazione che da una visione nuova e che è più una conclusione e dissoluzione che l‟inizio di una nuova epoca”.263 Il termine dialettico oggettivo di questo spirito critico è l‟autorità, la quale, in ambito di persistente religiosità, non è la fede scritturale bensì la tradizione gerarchica della Chiesa. La verità di fede aveva nelle Scritture la loro fonte intoccabile, a rispetto della quale la critica poteva ragionevolmente incidere sulla tradizione umana, sia pure eminente e pluri-secolare. Il “senso del vangelo” non è più accertabile sulla scorta di una tradizione ermeneutica maggioritaria, ma attraverso una ricerca della verità che il singolo deve proporsi come confermativa della stessa fede. Ciò che qui entra in gioco è la traslazione del valore della fede religiosa dalla tradizione al fondamento della legittimazione razionale, da cui dipende la stessa verità religiosa. La ratio non è più, dunque, ancilla fidei, ma fundamentum fidei. Il presupposto, cioè, è che la ragione stia allo stesso piano di verità della religione rivelata, emanando dalla stessa fonte divina, per cui la ricerca individuale non può che comportare la verità religiosa. “Questo presupposto tacito della identità di personalità e Vangelo è anche la chiave della teologia di Erasmo”, la quale “mantiene il legame con la rivelazione del passato e con l‟assoluto” senza “reprimere la voce dell‟interiorizzazione individuale”, dell‟esperienza vissuta di ciascuno e della fedeltà alla coscienza”.264 Ma la tensione tra i due principii – tradizionale e fideistico, e razionalistico e liberale – non poteva mantenersi lungamente in equilibrio in mancanza di una sintesi teologico-filosofica significativa,

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Ivi, pag. 264. Ivi, pag. 266.

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per cui da un lato l‟istanza scritturale e dogmatica impersonata da Lutero, e dall‟altra l‟istanza spiritualistica di autonomia della ricerca individuale portata avanti dai pensatori del sec. XVI, tendono al reciproco “sopravvento”.265 In entrambe le tendenze c‟era alla base un “elemento rivoluzionario dissolutore”, costituito dalla responsabilità di coscienza, che è la prima e ultima istanza morale, sia nel caso di una scelta filosofica a favore di un sistema razionalistico di fede religiosa, sia nel caso di conformità alle direttive teologiche eteronome. Così la “coscienza” diventa il crocevia tra lo “ius divinum” e lo “ius naturale”, che nel tomismo trovano la sintesi tra dogma e ragione. La secolarizzazione delle verità religiose inaugura una nuova stagione di umanesimo cristiano, che già con Occam concede alla ragione naturale una fonte legittima di morale autonoma da quella evangelica. Il “pericolo” costituito dal razionalismo etico e religioso poteva essere superato “se non vi fosse introdotto quel terzo criterio di validità che è la conscientia”, che avrebbe di lì a poco infranto l‟unità tradizionale di fides et ratio, menando ciascuna tendenza a un autonomo sviluppo. La Parola, in un nuovo senso profetico, dovrà diventare il giudice supremo degli spirito (Lutero), la ragione scientifica dovrà stabilire il contenuto storicamente originario o razionale della rivelazione (umanesimo), infine la voce soggettivistica dello spirito soffocherà le pretese di rivelazione della Scrittura, già minata dalla critica (Sebastian Franck).266

Il rapporto tra dogma e ragione è, originariamente, tra verità di fede – la fede in una “verità” a suo tempo professata come “ragione” del mondo – e critica della verità – una verità che per la critica è appunto “fede” e non “ragione” -. Tale rapporto è quello classico tra Mythos e Logòs, in cui la ratio che sostiene la fede mitologica viene criticata in nome di un lògos che autoreferente, fondato su proprii princìpi di realtà. Poiché ogni principio di realtà è originariamente un fondamento di fede, anche il principio razionalistico si fonda sulla fede nella ragione quale criterio di verità. nel momento in cui la verità di ragione viene acquisita come realtà, essa è diventata verità di fede, religione.

265 266

Ibidem. Ivi, pag. 268.

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La essenza della religione riposa nella fede nella sua rappresentazione della realtà, nella sua “verità”, appunto. E‟ la critica alla fede come verità a fare della verità di fede una mitologia, una rappresentazione non-realistica del mondo. Vi è da dire che la dimensione di fede della verità costituisce la condizione antropologica della socialità cosciente dei gruppi umani, in quanto si basa su una comune interpretazione del mondo. Su questa base fideistica si erge la coscienza razionale, ossia la consapevolezza della funzionalità che quella lettura del mondo ha sulla stessa convivenza sociale. La lettura consapevole, cioè razionale, della fede comune la distingue culturalmente, come lettura alta dalla posizione della generalità della componente sociale bassa, definendo attraverso questa dicotomia ideale anche la differenza sociologica tra la élite dirigente e la massa diretta. Il razionalismo, emancipando la ragione dal suo fondamento di fede, crea le condizioni del superamento di questa divisione sociologica, introducendo un concetto di uguaglianza di ragione che si costituisce come un orizzonte di senso alternativo a quello dicotomico tradizionale, che sul piano politico tende a superare ogni gerarchia sociale, e quindi la stessa distinzione tra classe dirigente e classe diretta, facendole coincidere idealmente nella “rappresentanza”, il cui concetto pubblicistico rimanda a quello idealistico del “rispecchiamento” del mondo ideale in quello reale. In entrambi i casi, la condizione della loro effettualità e congruità è l‟eliminazione di ogni mediazione, ideale o storica, tra i due termini riflessi, per cui, così come la coscienza stabilisce un rapporto diretto con la verità o Dio, la sovranità individuale lo stabilisce con il Governo, tale che ogni coscienza e ogni cittadino è l‟elemento speculare della forma ideale comune a ciascuno, e che costituisce la loro unità. Pertanto, senza l‟Idea e senza il Governo, il caos intellettuale e quello sociale non sono riconducibili a ragione, cioè diventare sistema. E ciò comporta che l‟Unità ideale e sociale sia un postulato di ragione, una necessità logica, e non la costituzione ontologica e antropologica, per cui la distinzione, essendo una opposizione puramente ideale, può essere superata logicamente e sociologicamente, in modo che la tradizionale dicotomia tra fede e ragione, e tra Potere e Obbedienza possa essere considerato un mero

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dato culturale, relativo alla credenza dei tradizionali gruppi pensanti e dominanti.267 La “fides” distinta dalla “ratio” è una religione astratta dalle sue ragioni di fede, cioè dalla ragionevolezza dei suoi enunciati di verità. viceversa, la “ratio” emancipata dalla “fides” è una ragione astratta dalla sua verità, cioè dalla fede nella sua fondatezza ontologica, tale da tradursi in tecnica del pensiero, o appunto a logica astratta dal suo fondamento di verità, dalla sua religiosità. Una religione che accetta il principio della “doppia verità” – quella di fede e quella di ragione, distinte – si condanna alla rappresentazione fantastica della realtà, dove la “fede” è puro esercizio di volontà, senza adesione di ragione. Viceversa, un razionalismo che voglia costituirsi come verità e insieme come esercizio critico della ragione, è contraddittorio, in quanto assume la fede in se stesso e nel suo metodo critico come strumento di dissolvimento di ogni fede, alla maniera del dogmatismo scettico, che fa della negazione di ogni verità la sua unica verità. superstiziosa, perciò, non è solo una fede priva di ragionevolezza, e cioè di verità, ma anche una ragione priva di fede nei suoi presupposti e nei suoi fini, e perciò “debole”. Se la religione senza “ratio” si risolve in “rito”, in rappresentazione puramente simbolica, ossia in ludo estetico, parimenti il razionalismo privo di “fides” si risolve in sofistica e in tecnica confutatoria, che incide sulla strumentalità logica della religione e metodologica del sapere formale, ma che non può intaccarli né accreditarli sul lato del loro fondamento di verità, sul quale essa è muta. D‟altro canto, una verità di fede lasciata senza ragionevole supporto teoretico, si fonda sull‟intuizione mistica, cioè appunto su una affermazione di fede nella verità non razionalmente giustificata. La ragion critica non incide sulla fede, quando questa sussiste, ma sulla sua ragionevolezza o giustificazione razionale. Confutata questa, la fede resta sospesa in se stessa, orfana di ragione, ma non perciò insussistente. E in tal caso si fonda sulla intuizione di verità, sulla

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Vi è da aggiunger che la logica egalitaria del razionalismo giungerà a porre le stesse distinzioni naturali tra i sessi un “dato di cultura”, e come tale superabile da una mentalità diversa. Ved. il classico libro manifesto del femminismo di S. De Bouvoire, Il secondo sesso, etc.

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mistica, per definizione non comunicabile, e perciò strettamente e assolutamente soggettiva nel rapporto con la verità. sta qui il rapporto tra mistica religiosa e individualismo spiritualistico o soggettivismo. Ed è l‟incomunicabilità mistica a creare il soggettivismo teoretico, che è il contrario della “scienza” in senso platonico, fondata sulla logica comunicativa, sulla “dialettica” come metodo d‟apprendimento e insegnamento dell‟unica verità, razionale e non semplicemente intuitiva. Il soggettivismo è misticismo, perché deriva da questo. E il misticismo, privo di comunicabilità razionale, è fantasia, creazione di realtà immaginata, prodotto dell‟immaginazione. Parimenti, il razionalismo, come metodo del soggettivismo teoretico, è una rappresentazione mistica della realtà, una immaginazione razionalmente costruita, una “teoria” priva di fondamento veritativo, ossia una “credenza” o ipotesi di realtà. E dunque una “mito-logia”, in cui la fede nella ragione si identifica con la stessa ragione della fede. Una tautologia, la cui “coerenza” sistemica viene scambiata per “verità”, cioè viene “creduta” essere tale solo per convenzione formale, per “gioco” noetico. Il posto che la critica dell‟autorità ecclesiastica (prima, e quindi filosofica, mettendo in dubbio l‟autorità di Aristotile da parte dei nuovi filosofi della scienza) ha lasciato alla volontà in materia di fede è lo stesso di quello che il razionalismo ha lasciato alla mistica. Rotto il rapporto tra fede e ragione, anche il fondamento autoritativo viene a perdere la sua ragionevolezza, acquisendo di conseguenza la sola forza di una efficace pedagogia, la quale, agendo sulla formazione spirituale iniziale, persegue un suo scopo di indirizzo intellettuale conforme ai suoi presupposti religiosi. La riduzione della tradizionale auctoritas ecclesiastica a credulitatis initium coincide con la trasformazione del “mysterium” in una versione razionalistica di una “mediazione empirico-pedagogica”, in conseguenza della quale l‟appartenenza al corpo dei credenti diventa una casualità storica. [Se] il carattere divino dell‟annuncio di Cristo non ne subisce alcuna conseguenza, l‟idea di chiesa visibile e forse anche quella invisibile ha subito un colpo, [sicché] il grande tema della fase finale del Medioevo è la distinzione,

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dall‟esterno e dall‟interno, della Chiesa.

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Il posto che la volontà ha lasciato alla ragione emancipata dalla tradizione dogmatica ha reso la testimonianza religiosa dei singoli fedeli un atto non giustificabile in base a un presupposto di verità – sia pure accolto per via eteronoma dalla tradizione -, ma in base a una condizione spirituale assolutamente indipendente da ogni necessità oggettiva, di carattere teoretico o morale, tale che la “emancipazione” della ragione dalla fede acquistasse un implicito valore di “indipendenza” della coscienza dalla stessa morale comune, fondata sulla fede tradizionale.269 Le conseguenze di questa impostazione del rapporto coscienziale tra religione e ragione, una volta universalizzate come caratterizzanti la coscienza moderna e quindi socializzate a opera delle ideologie razionalistiche, furono culturalmente devastanti, in quanto sostituirono al sentimento sacrale della comunità di vita, presente già nella visione greca della socialità, un antropocentrismo umanistico auto fondato sulla coscienza individuale, riflesso mistico dello spirito di Dio incarnato nell‟esperienza umana particolare e irrepetibilmente personale, nonché implicita premessa di ogni attivismo,270 ermeneutico come politico. Originalità della propria visione [può esprimere l‟] orgoglio del dotto teologo

268

Ivi, pag. 270.

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In senso lato, il razionalismo, negando l‟Essere della fede, ossia Dio, e contrapponendogli una realtà fenomenica idealisticamente giustificata dal suo modello ideale o categoriale, si costituisce essenzialmente come una forma, non tanto di ateismo, quanto di poli-teismo, ossia un‟espressione di idolatria gnostica che minava in radice le fondamenta, non già della religione, il cui spirito messianico anzi si arricchiva di nuove forme secolarizzate, ma dell‟antropologia religiosa, ossia della pretesa universalità della visione del mondo cristiana, sostitutiva della cosmologia etnocentrica greca ed ebraica. Tale sostituzione interessava anzitutto la figura personale del Dio di Isacco e di Giacobbe, che divenne un‟Idea appunto universale, e come tale impersonale, mentre la Sua espressione terrena fu rappresentata da Gesù Cristo, la cui costituzione sintetica, una volta dimidiata nelle due distinte e irrelate essenze umana e divina, fu considerata il modello di ogni ideologia messianica che procedesse a sostituire alla figura religiosa una essenza mondana, secolare. L‟insistenza, pertanto, da parte di molti critici cattolici sul presunto a-teismo delle filosofie escatologiche moderne, non considera che il modello teoretico di ognuna di esse risale all‟ideal-tipo religioso della teologia cattolica. 270 Ivi, pag. 271.

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[…] oppure può nascere dalla certezza mistica di far parte di quei pochi che sono progrediti dall‟ascolto alla visione, o dal sentimento superiore di essere del numero di coloro che sono esperti del divino, [oppure] da una filosofia critica che fa della rarità della verità il suo criterio, poiché gli illuminati dello spirito sono sempre una minoranza, [in modo tale che] l‟esclusività diviene un costitutivo essenziale della verità, e lo stare a sé […] distintivo anche di grandi filosofi, [il cui ermetismo si coniuga col] disprezzo aristocratico del profanum vulgus.271

La separazione dalla comunità del gruppo, religioso dapprima e poi generalmente sociale,alimenta non solo l‟originalità della ricerca di ciò che è proprio, ma lo spirito negativo, cioè la critica, e con essa lo spirito filosofico come pensiero eretico.272 In ambito anti-dogmatico, razionalistico o mistico, l‟eresia non è vista come superba o velleitaria o peccaminosa disposizione d‟animo ma il risultato del singolarismo religioso, il cui esito “paradossale” è “moderno” nel senso del suo universalismo sociologico, ma di per sé è inscritto nella logica stessa del processo razionalistico. Il razionalismo antico di Platone e di Aristotile trovava il suo correttivo etico-politico nella persistente dimensione sociale della loro teoresi, fondata sul presupposto naturalistico di uno status antropologico di cui la struttura della società era la proiezione empirico-reale intrascendibile. Allorquando l‟universalismo razionalistico si liberò – attraverso lo stoicismo prima

271

Ivi, pag. 272.

272

“Eretico” è ogni pensiero non riconosciuto dall‟ortodossia, e cioè dalla opinione condivisa, pertanto il pensiero “privato” e non (ancora) socializzato, ossia considerato interno all‟orizzonte di senso della fede comune. Il pensiero del livello di coscienza razionale è in linea di diritto costitutivamente “eretico” rispetto al pensiero fideistico, e lo sarebbe anche di fatto se non fosse omologato dalla tradizione, che riconoscendolo lo assume come pensiero di fede comune. Questo movimento dialettico di riconoscimento del pensiero privato nella comunità di fede pubblica, sarebbe normale se il razionalismo non avesse creduto di poter invertire il rapporto fede-ragione attraverso la riduzione dell‟orizzonte di senso della fede a livello di coscienza “ingenuo”, che il livello superiore della ragione avrebbe “superato” e inverato dialetticamente. In questo senso, la pretesa della ragione a costituirsi come senso universale del mondo sostitutivo di quello mitico-fideistico ha scatenato una vera e propria guerra di religione tra universi di senso reciprocamente alternativi ed esclusivi.

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e poi soprattutto col Cristianesimo – di ogni residuo naturalisticosociologico antico, fu la struttura ecclesiale a fungere da orizzonte comunitario della salvezza spirituale. E quand‟anche questo orizzonte comunitario entrò teologicamente in crisi, anche la filosofia che l‟aveva servito e giustificato si liberò di ogni remora morale, dispiegandosi come spirito individualistico e universalistico insieme. Sia nella prospettiva greco-classica che in quella cattolico-medievale, la tradizione, tramandata come costume etico ovvero come autorità teologale, aveva un carattere divino e come tale imprescindibilmente certo e sacro, e in tal senso “naturale” per gli uomini civili e di fede. Con la critica della tradizione, anche il senso del sacro fu disgiunto dalle leggi naturali, sì che la fondazione religiosa del mondo comune fu avvertita come una superstizione, anziché una virtù, a partire da citato Eutifrone di Platone. Le remore etico-politiche di Socrate o quelle teologiche di Lutero furono alla fine del Medioevo del tutto superate a freno della hybris razionalistica e soggettivistica, in favore dell‟esaltazione della coscienza individuale, intesa come “umana capacità, indipendentemente dal suo carattere di grazia che le viene dall‟essere riempita da una rivelazione”.273 A questo punto sorge il problema di “un criterio della autenticità dello spirito e il bisogno di un foro davanti al quale possa mostrarsi la sua natura”,274 e lo si trova nel “nostro cuore”, sicché Criterio di verità sono la risonanza soggettiva, l‟esperibilità diretta, l‟intima evidenza, la disposizione emotiva [e pertanto] il cuore del singolo diviene il cardine della realtà spirituale, poiché solo l‟accordo spontaneo del cuore, l‟originaria forza religiosa dell‟Io, pongono il sacro come tale. 275

La centralità del Soggetto è già preludio a un‟etica idealistica, ma soprattutto predilige l‟abbinamento di coscienza umana, della sua dignità umanistica di excellentia hominis, alla stessa rivelazione divina, che diventa l‟oggettivo riscontro scritturale della “natura umana”. Questa “autarchia della coscienza morale” cerca un nuovo fondamento

273 274 275

Ivi, pag. 273. Ibidem. Ivi, pag. 274.

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assoluto di verità, trovandolo nella “univocità delle decisioni della coscienza nell‟ambito etico, nel senso dell‟Illuminismo”. 276 La coerenza etica è di responsabilità del Soggetto, non conformità a un precetto comunitario. La “chiesa invisibile” di Lutero trova nel foro interiore quella disciplina morale che viene ricusata in senso antiistituzionale nei confronti della “Chiesa evangelica” guidata da pastori. Il Soggetto cerca solidarietà elettiva, non conferme autoritative, in direzione di una “rinascita” spirituale emancipata da ogni delimitazione comunitaria e istituzionale. La “comunione degli eletti” non è una condizione prefigurabile a priori, ma l‟esito di u riconoscimento spirituale della “fratellanza sovra-confessionale di tutti i giusti e tolleranti” riscontrabile in ogni popolo e religione storica. Così l‟idea soggettivistica e quella di tolleranza si richiamano reciprocamente, ponendo al centro di ogni possibile disputa ermeneutica e contraddizione scritturale legata alla libertà dell‟anima, la propria coscienza, che si fa giudice e censore di ogni arbitrio e di ogni inganno. Un giudice tanto più libero e coscienzioso quanto silenzioso e discreto, a un tempo deciso a opporsi all‟ “eterno inganno” e alla “rassegnazione” di fronte alla caduca realtà del mondo, deciso pertanto a rinunciare sia “ad una qualunque forma di predicazione […], contrariato dalle dispute”, che a “ogni presa di posizione tra le grandi istanze del presente”, giungendo a rifiutare di “tracciare delle linee di demarcazione della prospettiva vera, che siano visibili all‟esterno, poiché ciò che sta intorno non merita che ciò venga espresso”.277 Ma a essere taciuta non è “un convincimento personale bensì la verità”, la quale deve poter riunire ogni particolarità individuale, e non rilevarla come segno, sia pure sublime, di distinzione. Il soggettivismo eretico conduce così all‟istanza anti-ereticale, secondo la tipica movenza dialettica di una ragione del Molteplice che finisce di affermare l‟esigenza dell‟ideale Unità, che viene trovata non a caso nel silenzio, ossia nella dimensione del Negativo, in cui si condensano le diverse espressioni positive della frantumata fede comune. A seguito della dissoluzione dell‟oggettivismo medievale, si presentano due tendenze eterogenee di pensiero: il singolarismo, di

276 277

Ivi, pag. 275. Ivi, pag. 277.

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origine mistica, che si richiama allo spirito, e il diritto naturale, di origine scolastica, che si richiama alla ragione. Esse si compongono a proposito della questione del sacerdozio come esperienza spirituale immediata, non abbisognevole di alcuna mediazione sacramentale o comunitaria o scritturale, legata invece solo alla natura e alla ragione, 278 in cui si ravvede l‟intera legge divina. “Questo sacerdozio di coloro che sono naturaliter consacrati distrugge l‟idea della legge ieratica e biblica”,279 aprendo sia l‟adito alla teologia nominalistica dell‟etsi Deus non daretur che all‟idealismo giusnaturalistico rousseauiano di una storia primitiva pre-civile e pre-religiosa nel senso della Scrittura. Non a caso tali tendenze furono combattute più dal Protestantesimo nascente che dalla Chiesa, mettendo in discussione la parola della Bibbia. Esse infatti celavano, sotto il “ripiegamento sentimentale […] anche elementi attivi, di un razionalismo disgregatore”, che annunciava, all‟interno della storia delle religioni, il carattere tipico del razionalismo moderno, a es. di un Thomasius, che poneva la figura di Cristo come quella di un riformatore della religione, anziché di un fondatore della verità. spiritualismo e illuminismo qui si compenetrano in nome della vera fede in Dio contro quella oscurata dall‟istituzione ecclesiastica, con conseguente estensione della critica autoritativa al campo socio-politico. Una volta caduto il privilegio della Chiesa di essere ispirata, doveva cadere anche l‟ostacolo che durante l‟alto Medioevo aveva impedito che la sua concezione politica del patto di sottomissione e del diritto di opposizione facesse presa sul terreno ecclesiastico. 280

Il principio della sovranità popolare, intesa come “ius divinum et naturale” fu estesa alla Chiesa da parte di Cusano, stabilendo “il più compiuto parallelismo tra la struttura della Chiesa e quella dello Stato”281 in senso contrattualistico. Ma l‟idea di Cusano non è quella di un democraticismo egalitario, propugnata da Marsilio, di segno

278 279 280 281

Ivi, pag. 279. Ivi, pag. 280. Ivi, pag. 281. Gierke, cit. in Ivi, pag. 281.

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illuministico, tendente a sottolineare il carattere sovrano del popolo. “Al contrario, egli ravvisa una rigorosa necessità nel sorgere delle formazioni statali”, sostenendo che quando colui che è incapace e limitato, nell‟interesse della sua stessa autoconservazione, riconosce il predominio dei saggi, di coloro che eccellono per virtus animi, constantia e fortitudo e si lascia guidare da costoro, subisce in fondo una costrizione naturale, voluta da Dio.282

La visione di Cusano implicava una concezione dualistica dell‟Essere che si rifletteva nella storia sociale, mentre la concezione di Marsilio poneva un‟idea di totalità monistica inclusiva degli illuminati e, “in ogni caso più grande e più intelligente di ciascuna parte” e tale che “solo questo totum è competente nel consiglio e nell‟azione”. Tale idea di totalità è “utopistica”, in quanto anti-storica, e “irrazionale” in quanto pone il contratto come premessa non sostenibile storicamente ma solo per ipotesi e finzione giuridica. L‟infallibilità della totalità era il “dogma” su cui si fondava la teoria del diritto naturale assoluto.283 Ma non era questa l‟ideologia di Cusano, al quale non sfuggiva l‟imprescindibilità della disuguaglianza naturale per la teoria del contratto sociale. Per conciliare l‟istanza d‟ordine con la realtà storica delle condizioni umane, Cusano, prima di Hegel, concepisce l‟idea di una libera sottomissione dei deboli ai forti, prodotto da un “istinto naturale” a trovare “l‟accordo tra coloro che guidano e coloro che sono guidati”. A presidio dell‟ordine costituito Cusano pone la auctoritas del communis consensus, cui devono piegarsi sia le tradizioni dottrinarie che le singole concezioni, dipendendo quell‟auctoritas dallo stesso diritto naturale divino, affidando egli “senza limitazioni il diritto di approvare ed interpretare la legge e il canone alla comunità dei credenti, di tutti coloro che devono esserne gli autori”.284 L‟aspetto veramente innovativo, come sottolinea il Ritter delle teorie della devotiomoderna non risiedette tanto nei contenuti polemici,

282 283 284

Ivi, pag. 282. Ivi, pag. 283. Ibidem.

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quanto dal loro trasferimento in ambito teologico.285 La ratio viene inserita come criterio di validità nei praecepta e nella nuova concezione del factum subjectionis, che ora viene inteso come rapporto fiduciario cum praelato che può sciogliersi in relazione alla libertà stessa di deliberazione. “La deliberatio soppesa le ragioni e le conseguenze [del rapporto pattizio] e ogni dovere che si contrae vale solo finché ne risulta un valore”.286 Il “bonum” che “expectat ex observato” vincola l‟obbligazione. Il “valore”, che è concetto economico trasferito da Lotze in campo spirituale, risiede nel “bene”, ossia nei terini della sua definizione.287 La transizione dal bene religioso a quello mondano si rendeva agevole a seguito della secolarizzazione del suo concetto ideale, concomitante con l‟evoluzione del rapporto di subordinazione dalla organica visione sociale a un rapporto liberamente economico, cioè a contratto di compra-vendita.288 Su questa falsariga, il rapporto socializzato diventa, illuministicamente, relazione politica tra governo e governati che reciprocamente si sorvegliano e stabiliscano regole di convivenza, la cui validità è derivata dal “consensum omnium”, trascrizione razionalisticosecolarizzata del “consensus sapientium”, che fonda eticamente ogni ideologia democratica. A questo esito si perviene attraverso la critica della tradizione istituzionale della Chiesa, la quale opera corrosivamente anche in ambito socio-statuale, a partire dal diritto di opposizione, quale conseguenza più incisivamente eversiva della dottrina della sovranità popolare. In termini religiosi, la resistenza al potere statuale assumeva un carattere spiritualistico relativo alla dottrina cristiana, ma politicamente essa, elevando a valore universale i consilia evangelica, conduceva all‟anarchismo e alla critica radicale della società, facendo assumere ai suoi propugnatori una sfumatura oggettivamente rivoluzionaria e consapevolmente democratica. Soltanto la diffidenza teologica verso la sanità razionale (o recta ratio)

285 286

Ivi, pag. 285. Ivi, pag. 286.

287

Per Aristotile il Bene aveva gli stessi significati di Essere: Etica nicomachea, 1096, a, 23. 288 Ivi, pag. 286.

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delle masse raffrena gli empiti democraticistici di questi mistici e razionalisti, impedendo che il loro giusnaturalismo trabordi in svalutazione dell‟ordine mondano e di ogni autorità politica. Lo sforzo, già presente in Lutero, era di mantenere il diritto di resistenza attiva in ambito evangelico, lasciando alla sola volontà di Dio il ruolo di giudice censore. Ma questa remora fideistica si mostrò labile per il razionalista emancipato; e se Lutero, da uomo religioso indifferente di fronte alle vicende del mondo, giustificava l‟atteggiamento passivo del popolo al cospetto della tragedia del Golgota in nome di una giustizia ideale, già Wessel ne faceva una colpa, sulla scorta di Agostino,289 superando le posizioni di acquiescenza, sia pure critica, della religiosità pura, che né accetta né combatte le situazioni di fatto. Infatti, quanto più intensità mistica si affievoliva, tanto più spontaneamente si facevano avanti motivi giusnaturalistici a fondare e a contrapporre alla Roma storica l‟idea della communio sanctorum e della Chiesa invisibile, intese in certo modo individualisticamente.290

11. Il sentimento del declino di un‟epoca o di una società non è un‟affezione soggettiva di un‟anima intransigente legata a una sua particolare o singolare visione del mondo, ma è il risultato di un giudizio sul tempo presente in riferimento al tempo possibile. Soltanto chi predilige il presente, trovandovisi a suo agio da anima integrata alle sue necessità, può negligere la comparazione di esso con il tempo possibile (passato o futuro che sia), negandosi la possibilità di vivere in maniera più conforme a un ideale di vita migliore di quella attuale. Ed “ideale” proprio perché migliore di quella presentemente vissuta e “reale”. Tale sentimento sopravviene quando si prende coscienza che le strutture della vita sociale, ossia le istituzioni storiche preposte alla convivenza, non riescono a esprimere funzionalmente gli scopi per i quali erano state costituite, reprimendo non solo le energie eversive dell‟ordine stabilito, ma soprattutto ogni anelito vivificante lo spirito

289 290

Ivi, pag. 288, n. 350. Ivi, pag. 290.

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della migliore convivenza possibile, costringendo gli animi a un adattamento al peggio che ai migliori e più sensibili appare intollerabile. Parlando di istituzioni, si parla nel contempo non solo di meccanismi tecnici di regolamentazione della convivenza, ma anche di apparati burocratici e di strutture sociali che quei meccanismi producono in senso attivo e passivo, cioè come custodi e come prodotti. Questi apparati sono naturaliter conservatori dello status quo, e rappresentano le forze sociali meno sensibili e meno disposte al cambiamento di una condizione che identificano con la propria, e quindi come la migliore. In tal senso essi vi costruiscono una legittimazione morale che presentano nei termini di un valore ideologico. Tale “valore”, originariamente, era fondativo della stessa socialità, e accettato come universale, cioè conforme alle esigenze dell‟intera società storica. Solo in seguito alla perdita di tale universalità, ristretta per così dire alle sole classi dominanti, quel valore diventa particolare, e perciò ideologico. Sentimento del declino e critica dell‟ideologia dominante sono congiunti. Lo spirito delle leggi, cioè delle istituzioni storiche, è, in quanto “spirito”, fuori di esse, fuori cioè del regno della politica, e di ambito morale. Sono i valori che animano le istituzioni, le quali, venendo meno i primi, si riducono a meccanismi di potere, a tecnica di controllo sociale. Pertanto, la riduzione dei valori morali a ideologia e della forza istituzionale in tecnica burocratica sono fenomeni paralleli e logicamente connessi. Se per “religione” s‟intende, in senso lato, il collante morale di una società, ogni crisi di decadenza riguarda sempre il rapporto tra valori e forze sociali, ed è quindi questione religiosa. L‟idea che la religione perciò sia mero strumento di governo confonde il valore come forza morale di unione con la sua vigente effettualità, che è il deposito proprio del “regnum”. Come non esisterebbe socialmente (e non in interiore homine) la presenza del valore morale senza la sua incidenza istituzionale, così non potrebbe giustificarsi una tecnica di governo senza la considerazione della sua legittimità morale, cioè del suo “principio”, che coincide anche col suo “fine”. Il senso ideale di un governo è sempre trascendente la sua forza reale, e perciò religioso. In questa prospettiva, l‟ipotesi della politica come fine in sé, assoluto da ogni legame teleologico, attesta solo la crisi dei valori religiosi che si 459


proietta conseguentemente nell‟ambito della convivenza sociale, entro il quale la stessa politica, nell‟apoteosi della sua effettualità, è priva di senso, e perciò incapace di un qualunque reggimento durevole dello Stato. Pertanto, la assolutezza della politica e la crisi religiosa tardomedievale e la teoria machiavelliana della politica come tecnica di potere sono strettamente consequenziali e l‟idea che “gli Stati non si governino coi paternostri” registra appunto la crisi ideale di un‟epoca che, perdendo la legittimità della forza, crede superstiziosamente nell‟idolo del potere, che da strumento servile ai fini dell‟uomo diventa fine in sé stesso, ossia l‟opposto ideale di ciò che razionalmente dovrebbe. Lo strumento razionale che diventa tecnica disponibile a indeterminate fruizioni, ossia a fini diversi da quello originario, segna l‟oggettivazione e la congiunta presa di coscienza di una rappresentazione del mondo vissuta e poi ritualizzata. Questa coscienza ritualizzata in tecnica neutra, prelude, per un verso alla razionalizzazione del piano di coscienza mitico, ossia a quel processo di intellettualizzazione dell‟esperienza fideistica innescata dal filosofare, e per l‟altro alla formalizzazione ludica della rappresentazione mimica, ossia all‟estetizzazione artistica di un vissuto esistenziale. Ciò che vale idealmente per la società, quale unità di un processo molteplice, vale anche per la Storia, intesa come movimento unitario dell‟esperienza dell‟umanità. In ambito storico generale, come Storia umana, il valore che possa darle un senso idealmente unitario e complessivo, al di là della molteplice fenomenologia delle esperienze particolari, è dunque trascendente la stessa storicità vissuta, e perciò divina, in quanto legata a una dimensione meta-temporale priva di divenire, eterna. L‟incidenza del divino nella Storia diventa la condizione della sua stessa significatività unitaria, senza la quale essa si decompone in molteplicità realtà di fatto, ognuna delle quali risponde solo al suo intimo senso d‟essere finito. La visione idealistica dell‟Essere, liberta dall‟originario naturalismo greco, diventa la tecnica teoretica dell‟universalismo teologico cristiano, la cui rappresentazione rituale ricupera il culto religioso in una chiave simbolica meta-sociale, a favore di una soggettività meta-empirica che sublima l‟appartenenza fisica dell‟uomo al contesto naturale e lo destina a una comunità mistica trascendente, ignota alla sociologia classica. Nell‟opposizione metafisica alla fatticità della realtà mondana, si ritrova una dimensione 460


dell‟altrove che non è abitato da impulsi alienanti auto-distruttivi e anomici, ma da una prospettiva utopica di tipo soteriologico in cui si innestano le speranze messianiche dell‟escatologia religiosa., secolarizzabili in empito rivoluzionario palingenetico. La più rigorosa condanna di una data situazione può anche essere dettata da un ideale che si vive forse solo in forma negativa, ma che, con le sue esigenze, sta sullo sfondo della diagnosi e, il più delle volte, è anche già pronto a condurre il rinnovamento. In questo caso, il barometro della critica del tempo non annuncia la decadenza, ma un nuovo slancio.291

Un giudizio simile l‟espresse Berdjaev sul Medioevo come età di incubazione della fioritura spirituale rinascimentale, ma il senso più profondo dell‟ “ideale negativo” a cui si fa riferimento qui va rintracciato, a proposito del Cristianesimo, nel rapporto stesso che la fede ha con la Storia. Rapporto che è incentrato proprio su un evento “negativo” centrale per il suo significato generale, quale la morte di Gesù. L‟evento mortale racchiude tutta intera la prospettiva escatologica entro la positività della Storia. E‟ la morte, quale evento “negativo” unico, a dare senso agli eventi positivi storici, ai molteplici fenomeni temporali. L‟evento unico della Morte si dispone nell‟orizzonte di senso della fede cristiana, come lo stesso Essere che opponendosi alla molteplicità degli eventi storici li tra svaluta di un senso negativo, momenti di un non-Essere che solo grazie ad esso diventano i momenti distinti di un processo ideale unitario, quello della Storia, che è l‟unico orizzonte di senso in cui i fenomeni possono inscriversi per averne uno. La morte, come “ideale negativo”, rende il senso unitario altrimenti assente dell‟intera vicenda storica dell‟uomo. Necessariamente l‟ideale della fede è vissuta “in forma negativa”, come attesa parusistica del compimento del senso di ciò che appare. In tal senso, la “critica del tempo” annuncia un “nuovo slancio” spirituale, fuori del tempo. Il periodo di più intensa coscienza della decadenza dei tempi è il secolo che va dal 1430 al 1530, e di cui Lutero è il maggiore interprete religioso, in quanto

291

Ivi, pag. 295.

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il punto di partenza, per lui, non è la considerazione della situazione storica, bensì la tensione religiosa, l‟attesa del ritorno di Dio. La riforma assoluta, che è la grande e vittoriosa speranza del suo spirito, si può compiere solo attraverso l‟ingresso dell‟al di là nella storia. 292

La sua ermeneutica della Storia è in funzione di tale attesa apocalittica, in relazione alla quale lui interpreta la realtà storica, con un capovolgimento di segno che parte appunto dall‟attesa (che perciò riguarda una realtà futura) per decifrare gli eventi reali (presenti). E‟ il non-essere (attuale) della speranza escatologica a costituire il fondamento epistemico di ciò che appare nella realtà degli eventi storici. Non è dunque l‟Essere come realtà fenomenica a decidere del senso della Storia, ma, all‟opposto, è il non-Essere come attesa di fede a fungere da paradigma assiologico della vita, ponendo al centro del senso l‟inattualità, sia come vento eterno (chairòs) che come speranza futura (parousìa). Lutero intuisce che “ciò che di contrario a Dio presenta questa epoca sta nel fatto appunto che l‟Anticristo diffonde indifferenza, tiepidezza, pace e sicurezza, e toglie ai cristiani la benedizione della lotta”.293 Non dunque la lotta interna alla Chiesa, le guerre civili e i contrasti politici sono i segni del Maligno, ma “l‟attesa angosciosa che spinge alla pazzia non solo i singoli, ma la moltitudine, o che li distrugge con una permanente e divorante tristezza”,294 che è stato d‟animo contrario alla speranza dell‟ultimo giorno e alla stessa redenzione pasquale. “Il fervore religioso solleva l‟escatologia di Lutero dall‟alternativa di ottimismo e pessimismo”, poiché egli “non pensa in senso terreno ad una crescita o ad una caduta storiche, ma solo il contrasto tra l‟essere assoluto e quello provvisorio”. Il protestantesimo misurava il progresso umano non sui dati di uno sviluppo storico, ma sul sentimento religioso, vedendo perciò la sua epoca come il tempo della rivelazione e del rinnovamento inauditi, e questo con un‟enfasi che è inferiore alla gioia umanistica della scoperta e della rinascita solo per il fatto di restare relativa e di riservare il risplendere

292 293 294

Ivi, pag. 295. Ivi, pag. 296. Ibidem.

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definitivo della verità ad un imminente miracolo di Dio. 295

Nella prospettiva del giudizio sub specie aeterni, Lutero “parla con disprezzo di quei preti che possono a tal punto abbassare l‟assoluto da credere che, con la Riforma, e con la guerra dei contadini, la catastrofe profetizzata sia già superata”.296 Ma le voci d‟entusiasmo per i tempi presenti, e la critica del sentimento pessimistico, considerato come “follia”, provengono da chi si poneva in una prospettiva apocalittica, ossia dai gioachimiti e dai visionari in genere che “vivono ormai per intero nel mondo rinnovato, destinato a sorgere dalle ceneri di quello presente”.297 Per gli altri credenti, costituiva invece un “delittuoso consenso” tale disposizione favorevole al “rinnovamento” del mondo, anziché al suo inabissamento. Nondimeno, tutte le diagnosi positive, l‟umanistica, la protestante, la chiliastica, l‟utopica e la restauratrice, sono inscritte in una precedente ipotesi di decadenza, che ammette di venire modificata, ma non ammette in alcun modo di venir negata. L‟idea che fornisce lo sfondo teorico di tutte le reazioni di fronte alla storia del tempo e come la veduta panoramica della storia universale, non è altro che la imperante metafisica della storia, l‟idea della graduale continua degenerazione della Chiesa, [il cui] principio è stato volgarizzato dall‟umanesimo 298

e poi travisato, ma che risale già all‟alto Medioevo, quando viene fissato lo schema del corso universale della Storia, che vede apogeo e decadenza cristiani in parallela similitudine alle vicende dell‟Impero romano, e che verrà quindi ripreso dagli scrittori ecclesiastici del XV secolo e fino al cattolicesimo tridentino del secolo successivo. Opposto a questo schema di decadenza della triplex discessio è la periodizzazione tripartita di matrice spiritualistica e luterana, orientata a rappresentare la pacificazione della Chiesa di Cristo e gli effetti soporifici della pace come il più grande processo di decadimento della ecclesia. Nei tre periodi che scandiscono questo corso, il ritmo decrescente è indicato fin

295 296 297 298

Ivi, pag. 297. Ivi, pag. 296. Ivi, pag. 297. Ivi, pag. 299.

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dall‟inizio come una legge essenziale. Non si tratta del funesto infrangersi di avvii pieni di speranza, né di una specie di rovina evitabile, ma di un accadere parziale delle “ultime cose”.299

Ciò che in ogni caso rileva è che “esse appartengono tutte ad uno stesso sistema di filosofia della storia, che si presenta con pretese pressoché assiomatiche”, in cui il presupposto di una “legge escatologica di degenerazione” priva di importanza le considerazioni soggettive di pessimismo circa il secolo, malato della stessa vecchiaia del mondo,300 un tòpos della filosofia cristiana della storia che risale ad Agostino e fu ripreso da Gregorio Magno e quindi da Gioacchino. L‟inevitabile declino delle cose terrene, non riguarda il cielo, la cui provvidenza è ben più efficace di quella umana, riguardando l‟eternità. Contro la decadenza si prospetta la soluzione escatologica, che assume inevitabili tratti polemici.301 Propria del tempo incapace di grande pensiero è la tendenza a mescolare “il grande ed il piccolo, senza senso delle dimensioni”, fondando metafisica e didattica,302 rassegnazione al male e predicazione morale, in cui si offre la “immagine sociologica di una situazione di malattia”303 che ha smarrito “ciò che si conviene”, secondo un concetto morale non ecclesiastico ma cortese. La critica sociale, di espressione medievale intessuta di idee convenzionali, ha carattere romantico, dove “la barbarie del presente viene descritta, da un punto di vista cortese-cavalleresco, in un modo che è immediatamente affine alla tesi umanistica della degenerazione e che conduce ad essa”.304 La critica ecclesiale del luteranesimo poggiava sul fondamento di un ottimismo antropologico che inclinava verso una fiducia per le masse, ritenute capaci a costituire una comunità di fede più autentica di quella ecclesiastica istituzionale. Questo ottimismo

299

Ivi, pag. 300.

300

Ibidem. Ivi, pag. 301. 302 Ivi, pag. 302. 301

303 304

Ivi, pag. 303. Ibidem.

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rientra tra le più profonde sorgenti di energia della personalità luterana [e] – malgrado la dottrina del peccato originale e la politicizzazione del cristianesimo di Stato – è rimasto un elemento centrale del protestantesimo luterano [che] ancora in Hegel, lotta col senso tragico che del mondo ha il filosofo della storia; in questo conflitto si deve forse vedere la chiave per la sua essenza.305

Sul piano politico, invece, il luteranesimo è conservatore, volendo “tenere a freno l‟innata malvagità dei sudditi mediante una rigorosa disciplina”,306 e questa visione è la stessa di Franck, che pensa il mondo come il luogo della storia della malvagità umana. La storia infatti per Franck contiene certi leggi di costituzione e di svolgimento in base alle quali è dato pensare, da un punto di vista della filosofia della stria, ad un‟oscura immagine complessiva. Il cammino storico dell‟umanità appare come un dramma assurdo nel quale, con una sempre rinnovata ripartizione dei ruoli, si ripete la scena della crocifissione [in cui] gli attori, per una illusione grottesca, santificano le vittime della rappresentazione precedente, nell‟istante stesso in cui rappresentano la stessa scena di atrocità attuando, per nuovi sconosciuti motivi, lo stesso martirio. Ogni nuova generazione crede di essersi sollevata al di sopra dell‟accecamento dei padri, ma contemporaneamente colma, con gli stessi terribili delitti, “lamisura del mondo precedente”.

Questa ciclicità antropologica è precedente e persistente la venuta di Gesù, “perciò il mondo di continuo crocifigge e dilania l‟agnello che dall‟inizio fu ucciso in Abele”,307 facendo della Storia “l‟infinito Golgota dello spirito”,308 l‟infinito catalogo delle nefandezze umane. Storicismo e pessimismo sono congiunti. Franck disprezza l‟uomo perché ha visto in fondo la mancanza di valore della sua stria, e scrive storia per ritrarre l‟homo vulgaris, per contrapporlo all‟uomo eletto, veramente libero, sereno, della rinascita, [cercando però sempre di] attenersi a una generale concezione storica e non rinunciando a priori ad una unità di senso, isolando singole infamie come prove della corruzione

305 306 307 308

Ivi, pag. 320. Ibidem. Ivi, pag. 321. Ivi, pag. 322.

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dell‟uomo naturale.309

Il dramma storico della lotta tra le “duae civitates” agostiniane, che raccoglievano e contrapponevano “duo genera humanae societatis”, viene ripreso in Franck in chiave più sociologica che metafisica, dove il piano storico si incontra con quello spiritualistico, ma senza il profilo pedagogico assegnato da Agostino alla storia dell‟umanità, e una sostanziale diffidenza verso la cultura che si converte in “un monotono lamento”, che “non sta solo nell‟essenziale della storia, in questa lotta a morte contro il sacro, ma è in ogni pensare e agire, nell‟insieme della produzione politico-culturale”.310 D‟altro canto, la idea dell‟eterno ritorno risale ad Aristotile. Ma l‟aspetto saliente della filosofia della storia di Franck è che la decadenza abbia un decorso progressivo in senso negativo, ossia procede dal meglio delle origini religiose al peggio della cultura attuale. Non è la cultura, dunque, il luogo del progresso storico, ma nella vera religione, quella cristiana. La sua teoria della storia non ha carattere solo spiritualistico-religioso o escatologico, ma anche organico, e improntato a un fondamentale pessimismo, per cui “la costituzione originaria dell‟umanità decaduta, nello sviluppo della storia, può solo ampliarsi, così come le cattive disposizioni dell‟individuo non recedono con l‟età, ma solo „divengono più cattive‟ ”.311 Proprio per questo la conoscenza della storia è un “vivum exemplar” del carattere stereotipo delle vicende umane, n cui l‟intelligenza pratica di ciò che è stata ed è la vita si unisce all‟esemplarità della saggezza divina attraverso la condotta degli uomini, da cui traspare “l‟opera miracolosa di Dio”. Il senso di questo “miracolo” è dunque riposto nelle “decisioni etiche”, quelle che hanno autentico valore educativo, manifestando il “potere” di Dio “col quale abbatte i boriosi e innalza gli umili, rovescia i potenti e fornisce cibo agli affamati”. 312 Chi è a conoscenza delle leggi della Storia, ha il compito di divulgarle a favore

309 310 311 312

Ibidem. Ivi, pag. 323. Ivi, pagg. 325-326. Ivi, pag. 323.

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di coloro che sono privi di esperienza della vita. La teodicea storica di Franck è l‟opposto del pragmatismo eroicomoralistico degli storici umanisti, “per i quali l‟esempio spaventoso dei pravi è appunto il rovescio del modello morale dei boni viri, degli eroi della storia, la cui azioni, virtù e titoli di gloria sono nella storia come oggetto di emulazione”. Al contrario, in Franck l‟umanesimo si concentra sull‟ “esito felice di coloro che sono stati tormentati” e sulla “fine triste di tutti gli orgogliosi”.313 La tragedia storica e il pessimismo antropologico sono i due elementi complementari di una visione teologica della lotta tra i bene e il male in cui il soggettivismo mistico rifiuta in nome del suo estremo spiritualismo ogni glorificazione del mondo naturale. la “frattura” metafisico-religiosa della teoria della storia di Franck non è altro che l‟emersione della coscienza cristiana tardo-medievale delle due anime della sintesi cattolica tra il naturalismo greco e il suo principio d‟ordine rispettoso delle tradizionali virtù cardinali formulate per primo da Pitagora (coraggio, temperanza, giustizia e saggezza) e pervenute ai cristiania attraverso l‟etica stoica e al Medioevo attraverso la riscoperta di Platone e di Aristotile e lo spiritualismo ebraico, con la sua concezione creazionistica e l‟umanesimo coscienziali stico cristiano. Ognuna di queste tendenze originarie, tra svalutate dalla tradizione cristiana, riemerge in età di dissoluzione teologico-filosofica come spinta spiritualmente eversiva dell‟ordine cosmologico-religioso, avanzando le sue pretese teoretiche e morali. L‟effetto è duplice e inevitabilmente contraddittorio. Da un lato, infatti, scaturisce la esigenza di stigmatizzare lo scenario instabile e apparentemente assurdo delle vicende storiche dell‟uomo, votato, nonostante ogni sforzo generoso o vile, a uno scacco finale; dall‟altro, si fa notare a titolo pedagogico l‟intervento divino nella Storia come rimedio esemplare di ogni stortura e stoltezza umane e volontà provvidenziale che impedisce il trionfo dell‟ingiustizia, scongiurando una deriva grottesca al dramma storico. Così, l‟uomo si presenta come “larva” di Dio, attraverso la quale Egli governa il mondo e dietro cui “si nasconde la sua attiva onnipotenza”.314

313 314

Ivi, pag. 328. Ivi, pag. 330.

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Il dramma esistenziale, da scenario insensato della volontà divina, viene poi rappresentato come pensiero autonomo, nn più rapportato a Dio, nei termini di “una mascherata, che il primo giorno di quaresima avrà l‟aria di un brutto sogno”. Ciò che tiene unita la “tensione fra teodicea storica e pessimismo della storia” è esattamente questa immagine simbolica del dramma umano, che, nella sua autonoma rappresentazione storicistica, “rispecchia l‟eliminazione dell‟elemento teologico dall‟involucro della storia”.315 Una storia intrisa di caos e di insensatezza, dove domina la relatività di ogni opera umana rispetto ai valori eterni dell‟altro mondo. Riappare in ogni caso la dicotomia tra valori finiti ed eternità, che dà adito al soggettivismo spiritualistico di affermare che “in fondo, tutto l‟essenziale può compiersi attraverso l‟anima individuale”, microcosmo elementare nel macrocosmo universale.316 La perdita di oggettività viene compensata con la soggettività, per cui “l‟uomo deve imparare a vedere se stesso nel tutto”,317 e viceversa. Fin quando la fede assegnava al “tutto” un inizio divino e una fine escatologica, restava all‟uomo il compito ricognitivo di “ascoltare” il “progetto di Dio”; ma quando la fede nn supportò più la soggettività, questa acquisì valore indipendente, al pari di quanto avvenne con la Storia nei confronti della teodicea. Da quel momento la “ratio” divenne legge a sé, non più strumentale alla “fides”, la quale venne intesa non più come ragione delle cose ma superfetazione mitica. Fede e Storia prendono a declinarsi secondo paradigmi diversi, tali che il processo della coscienza soggettiva sia un percorso alternativo a quello sociale e collettivo. Da qui il legame tra misticismo e filosofia spiritualistica come altro modo di conoscenza dell‟esperienza umana rispetto ai processi storico-sociali. “Si danno così tre metodi della conoscenza di Dio: la via evangelica, la via historica e la via mystica”, che “qua e là si intersecano”.318 Il punto di rottura è il discrimine tra spiritualismo mistico e storicismo, l‟uno volto alla “comprensione degli insegnamenti di Dio”, l‟altro a “un atteggiamento naturale di curiosità”

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Ibidem. Ivi, pag. 331. Ibidem. Ivi, pag. 332.

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per gli avvenimenti mondani; il primo immediato e diretto, l‟altro mediato e passivo. Il rapporto Soggetto-Dio è sorretto dalla fede nel Dio provvidente e creatore del mondo. Senza fede nel mondo come mistero per l‟uomo, il rapporto si introietta come ricerca del Soggetto, di sé e del mondo che vi abita. In questa dimensione il misticismo prende il sopravvento, e la fede diventa, al di là di ogni professione, solo il pretesto per un esame autarchico dell‟Io. Questo è comprovato dal fatto che “il segno” di questa “cultura tarda” vada rinvenuto nella mancanza di “punti di appoggio” della sua “visione del mondo”,319 siano di tipo ecclesiale o scritturale, mistico o naturalistico. Lo stesso appello storicistico di Framck ripiega su un intimismo mistico privo di un supporto metafisico di tipo cosmologico, che lo renda comprensibile e comunicabile.320 La sua teoria storica della decadenza si impernia sull‟ostacolo rappresentato per l‟uomo dal Male, inteso come mancanza del Bene, riservato ai soli iniziati o predestinati spiritualisti. Di fronte ad esso, è saggio affidarsi alla Provvidenza, rimettendo ad essa la lotta altrimenti inane e lasciando il mondo al suo corso, poiché “partecipare alla mischia significherebbe rinunciare alla distanza che sola assicura la visione e l‟ampiezza dello sguardo”.321 Era un “modo di aggravare il suo pessimismo, non di superarlo, così come la tua teodicea teistica ha solo aperto una frattura nella sua filosofia della storia, non l‟ha portata ad un piano più alto”.322 La colpa del mondo, “maligno e inquieto”, che lo avvilisce e tormenta, segnandone la fine, è quella di aver “distolto le orecchie dalla verità”, imboccando una “strada sbagliata”.323 Questo “tradimento della verità” è quello che Lutero sintetizza nel termine “epicureismo”, a metà tra l‟eresia e l‟indifferenza religiosa. Con esso si vuole indicare la tendenza a emanciparsi dal terreno religioso abbandonando la tensione provocata dalla coscienza del “paradosso dell‟essere”, della sua insuperabile antinomicità, che si riflette nella polarità del divino con l‟umano.

319 320 321 322 323

Ivi, pag. 333. Ibidem. Ivi, pag. 336. Ivi, pag. 337. Ivi, pag. 338.

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Fin dalla sua origine, ogni rapporto con l‟assoluto ha in sé un momento ideologico che, pensato fino in fondo lungo la propria linea, deve condurre al superamento del carattere di rapporto, poiché uno degli elementi, almeno tendenzialmente, trapassa nell‟altro e la tensione corre, come al suo fine, ad un assoluto stato di quiete.324

Ma proprio l‟indicazione divina riportata da Luca, per cui “oportet semper orare”, segnala all‟uomo che Lo stato finale fisso non sarà mai raggiunto, ma è destinato a permanere sempre il rapporto di tensione tra miseria e aspirazione, tra sordes imperfectionis e orare, tra uomo e Dio che è posto nella idea religiosa di preghiera, [talché] l‟opposizione, creatrice di vita, è essa stessa il valore supremo e non deve essere cancellata in una unisona armonia.325

Dala intuizione areopagitica del mondo quale “coincidentia oppositorum” parte la riflessione di Cusano e la critica al “pensiero lineare” dominato dal “principium contradictionis et rationis sufficientis”, col quale “non si abbracciano le opposizioni del mondo”.326 La soluzione mistica rappresenta il modo religioso di superare le contraddizioni metafisiche di affermazione e negazione, facendo del paradosso stesso una cifra metafisica per il “passaggio alla sfera transrazionale, dove l‟incomprehensibiliter è nel suo diritto”.327 In Cusano l‟idea della coincidenza “non è più un dato dell‟intuizione immediata, ma della pura ragione”, secondo una “metafisica platonizzante” che si differenzia dalla modalità propriamente mistica, e dove Dio significa la coincidenza degli opposti solo nel senso che nell‟assoluto sono contenuti il massimo e il minimo, il misurabile viene trasceso e l‟in sé infinito viene contrapposto alla alteritas finita. In questo contesto la coincidentia serve solo ad una determinazione formale del carattere di infinità

324 325 326 327

Ivi, pagg. 340-341. Ivi, pag. 341. Ibidem. Ibidem.

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della sostanza, non al superamento delle opposizioni reali. Con ciò il rapporto di finitezza e infinità torna ad essere duale e le posizioni teistiche non sono messe in pericolo.328

La tendenza razionalistica era di trasformare la antinomia metafisica in una antitesi logica, nel segno filosofico (Cusano), ovvero teologico (Franck): da una parte Dio e lo spirito, dall‟altra l‟uomo e la carne, “perciò duplice è la pietà, saggezza, natura, ragione, arte, scienza, fede, amore, ricchezza, religione, giudizio, quiete, preghiera, ed ogni cosa in base a cui l‟uomo considera e giudica”. Ciò comporta che niente è assoluto, ma giusto e ingiusto, vero e falso, sono relativi “a seconda di come si vede e si giudica”.329 E‟ – apparentemente - un ritorno alla sofistica e il ripudio della dialettica platonica e la sua pretesa scientifica di fondare e comunicare la verità. In realtà, la contestualità del giudizio non implica necessariamente la relatività del valore, ma solo la sua relazione con il contesto normativo referenziale. Entro un universo di senso univoco, l‟opinione coincide con la stessa verità, la quale è asserita non in virtù della sua distinzione dall‟opinione ma appunto della sua coincidenza. E‟ la dialetticità dell‟Essere che consente la distinzione, per cui la verità, intesa come decisione di senso, deve presupporre un senso simbolico dal quale scaturisce la decisione distinguente. Non si tratta di confondere sofisticamente l‟utile col vero, ma di considerare la loro simultanea esistenza, sicché ogni dialettica deve ammettere la sua fonte simbolica. Proprio l‟ammissione della possibilità che la verità sia una realtà assoluta, di fronte a una alteritas negativa e nel contempo reale, presumeva la contraddizione dell‟Essere, che però veniva oggettivata astrattamente e considerata in sé come realtà fenomenica o ideale distinta. La distinzione, che è operazione tipica della logica formale e definitoria, opera astraendo dall‟unità (che non vuol dire univocità, ma unità simbolica) dell‟Essere gli opposti considerandoli appunto distinti, ovvero realmente altri. La “distinzione” del giudizio logico-definitorio consiste nell‟astrazione dal Tutto di elementi “opposti” dialetticamente e considerati realmente “distinti”. La operazione teoretica di attribuire

328 329

Ivi, pagg. 242-243. Ivi, pag. 343.

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realtà oggettiva a un‟astrazione formale è quella stessa di trasferire nella realtà finita un‟essenza infinita o ideale attraverso un processo o rito di partecipazione (metessi). Questo “passaggio”, idealizzando il finito, lo rende partecipe dell‟assoluto, indicato come Idea, Spirito o Dio. La realtà spiritualizzata diventa così parte di un Tutto: parte finita e caduca di un Tutto infinito ed eterno. Ed è così che sorge la dicotomia tra spirito e materia, e la stessa convergenza nel sinolo fenomenico, cioè il suo superamento reale. Chi garantisce il “passaggio”, detiene il potere della realtà eterna sul mondo finito della realtà terrena. La ricerca del Potere costituisce il contenuto dell‟attività di governo del mondo. Governare, nella logica dialettica, è decidere. Ma la decisione non è l‟atto della distinzione logica, bensì l‟atto di fondazione ontologica, che la scelta di ragione deve confermare. La scelta razionale è confermativa della decisione ontologica, ma non è creativa di senso ontologico originario. L‟indebita estensione al giudizio logico della fondazione ontologica di senso è l‟attività propria di una ragione emancipata dal suo fondamento ontologico-sacrale, la quale si pone astrattamente fuori della possibilità di scelta, costituendosi come scelta compiuta definitiva. E così l‟Essere di ragione diventa scelta razionale, decisione d‟essere in base alla scelta logica, rovesciando l‟ordine originario della fondazione ontologica, che la logica doveva semplicemente confermare. In tal senso, la ratio emancipata dalla sua fides ontologica tende inevitabilmente, cioè necessariamente, al suo opposto, ossia alla irrazionalità di scelte contraddittorie rispetto ai suoi scopi d‟ordine, e anziché al cosmos tende al caos, a una realtà priva di razionalità, cioè di distinzione. Quest‟ordine caotico non è quello “sacro” degli dèi cari a Eutifrone e celebrato da Eraclito, dove “tutto è bello, buono e giusto”,330 ma è il regno della volontà, ossia dell‟assoluto atto di fede nella verità della “parte” razionale. Una volontà di credere è una fede senza supporto di ragione, in cui la scelta diventa arbitrio, cioè una certezza che annega nel relativismo, ossia nell‟incertezza religiosa, che è l‟opposto della fede liberatrice dal dubbio ontologico. Il “tutto” della decisione logica è in realtà la parte senza alterità, un Essere privo di possibilità simbolica e quindi senza

330

Eraclito, fr. B 102.

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distinzione e opposizione. Tale “tutto”, essendo in realtà la parte logica dell‟Essere assurta a modello ontologico, non può avere le qualità del vero Tutto ricordate da Eraclito, ma soltanto imposture credute vere, ideo-latrie. voluntas (fideismo: decisione ontologica); relativismo (arbitrio della coscienza). Ratio sine Fides = idealismo razionalistico (logicismo dialettico); razionalismo tecnico. Fides et Ratio = religio (unità di senso simbolico); libertà di coscienza (laicità). Fides sine Ratio

=

Un mondo “sacro”, ossia “separato” dal divenire e quindi eterno, deve ammettere una realtà simbolica da cui è possibile distinguersi dall‟elemento profano. La scoperta dell‟alteritas segna l‟inizio della laicità, ossia del riconoscimento del diverso, iniziato col parricidio di Parmenide da parte di Platone. Il relativismo di Franck è l‟esito coerente delle sue premesse coscenzialistiche e fideistiche. Rispetto alla relatività delle verità “opposte” (le astratte verità distinte), la verità appare “paradossale” e trascendente ogni conoscenza relativa. E ciò a conseguenza della credenza che la conoscenza formale sia conoscenza vera e non, com‟è in realtà, conoscenza astratta, relativa alla sola opposizione trascelta come forma vera di realtà. Legittimando la relatività del principio di realtà, sorge una concezione che attribuisce di fatto una relativa giustificazione anche alle forme esterne dello spirito, a tutte le variazioni nella vita politica e religiosa, poiché si tratta dell‟immagine di un infinito, ne sono il negativo, è vero, ma questo negativo è legato al positivo mediante l‟opposizione. 331

Tale opposizione, indicata nell‟ “oggetto” reale-fenomenico, cioè nell‟ente, anziché nell‟Essere ideale-trascendente, resta fissata in una antiteticità insopprimibile se non per negazione e assimilazione, per cui gli opposita non ruotano più intorno ad una stella invisibile, ma presentano un

331

Ivi, pag. 344.

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orientamento dualistico fisso: “Deus mundi antithesis”. Spirito e carne, interno ed esterno, verità ed apparenza, Dio e mondo sono ora grandezze fisse inconciliabili. Continuano a chiamarsi paradossi, poiché stanno sempre in un rapporto reciproco, ma che ora è quello di ostilità. Ed il paradosso sta ora nel fatto che i contrari sono posti nella loro alterità, non più nel fatto di presagire ciò che di comune sta dietro di loro. Ne nasce l‟immagine del mondo di Franck quasi polemica, che già abbiamo trovato espressa nella sua idea di eretico e nella sua filosofia della storia, nel leitmotiv di temere e di credere in tutte le cose “l‟immagine contraria”.332

L‟alterità, fissa nella sua astrazione, non è superabile se non per sincretismo ideale (relativismo) o per pratica tolleranza, ovvero per riprovazione “polemica”. L‟incapacità di pensare dialetticamente l‟Essere spinge a superare il dualismo razionalistico nel misticismo spiritualistico, ossia le contraddizioni del mondo nell‟ascesi e nella fuga dal mondo. Da qui la sfiducia nelle capacità cognitive dell‟uomo, e il loro declassamento teoretico a “opinioni” senza fondamento. Il “para-dosso” della pluridimensionalità del pensiero, se da un lato spinge verso l‟universale tolleranza propria dell‟atteggiamento razionalistico, dall‟altra suscita la libertà ermeneutica di comprensione delle Scritture, e cioè il relativismo gnoseologico. Entrambi appaiono atteggiamenti di superiore comprensione dell‟unilateralità delle conoscenze ingenue della realtà, proprie delle visioni assolutistiche e non antinomiche del mondo. Atteggiamento di tolleranza che portava a sminuire le posizioni radicali ed estremistiche, come quelle di Gioacchino da Fiore, di Thomas Muenzer o dei battisti. [Al Franck] in tali certezze gli pare trascurata l‟essenza della religione che è processo non mai compiuto. Così radicalismo e paradosso, visione lineare e visione antitetica del mondo stanno l‟una di fronte all‟altra nello stesso rapporto in cui stanno il razionalismo scolastico e la mistica del Cusano: razionalismo e mistica, soluzione ed enigma, fissità e mobilità, compiutezza ed infinità.333

Questo dualismo metafisico, lacerando l‟unità simbolica dell‟Essere,

332 333

Ibidem. Ivi, pag. 348.

474


suggerisce al razionalismo l‟autonomia dalla morale, ossia l‟autodeterminazione degli scopi della politica come tecnica economica o ricerca dell‟utile. L‟idea machiavelliana dell‟auto-fondazione razionale della politica come tecnica del Potere, universalizzata a prassi erga omnes diventa costume immorali stico e liceità di ogni scopo meramente utilitaristico. Il riverbero pedagogico di tale teoria sofistica è devastante per l‟anima poplare ingenua e abbisognevole di guida; tanto più pericolosa per la convivenza civile e per la stessa civiltà, quanto più sollevata da ogni incombenza giustificativa di tipo razionale. Infatti, la morale utilitaristica e quella eudemonistica si giustificano da sé come istinto naturale di sopravvivenza, assurto a valore oggettivo a fronte della crisi dei valori ideali e religiosi. Il ripensamento di tale sofisma morale è necssario al fine sia della salvezza della morale pubblica che del senso stesso della vita umana. Infatti, l‟idea di un dualismo nn mediabile e irriducibile genera quello che Tolstoj chiamava “lo spirito maligno del conflitto”,334 da cui discende il politicismo razionalistico dell‟età moderna; età diabolica. Lutero era convinto che senza una “salda dottrina”, il mondo sarebbe andato verso un esito “maomettano ed epicureo e non sarebbe rimasto più alcun cristiano”.335 Per epicureismo, il riformatore intende sia l‟anarchia soggettivistica di quanti “credono che libertà cristiana sia che ognuno dica o faccia ciò che gli piace, senza badare che cosa garbi agli altri, o che cosa sia meglio”,336 che l‟indifferenza di “coloro che sono ormai purtroppo quasi del tutto raffreddati nella religione, e non chiedono più per nulla, o molto poco, la parola, la preghiera, i sacramenti e le altre pratiche della fede”.337 Soggettivismo e indifferentismo sono i due lati della stessa medaglia della moderna visione del mondo, che già al tempo di Lutero si prospettavano come le tendenze essenziali del pensiero della dissoluzione cristiana. Tendenze che si intersecavano in un‟atmosfera disposta al compromesso [in cui] poté svilupparsi quella

334 335 336 337

L. Tolstoj, Anna Karenina. Maligno = diabolico = conflittuale. Cit. in Stadelmann, Il declino del Medioevo, pag. 349 n. 2. Ivi, pagg. 349-350 Ivi, pag. 350.

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scepsi moderata, quella distillata religiosità, quella liberalità e senso mistico del generale, che si è abituati ad indicare come erasmiana religione di cultura [la quale] non è stata soltanto il risultato dell‟umanesimo ma, nella stessa misura, il prodotto di una mistica ormai passata, di una rassegnazione pietistica, di un individualismo spiritualistico, di una filosofia razionalistica della religione.338

Il sincretismo, come tendenza anche psicologica a un superiore compromesso pratico di tendenze teoriche inconciliabili, nessuna delle quali poteva rappresentare l‟intero spirito del mondo, nasceva dalle stesse premesse ideali di un sapere che, emancipato dai suoi fondamenti di fede e assegnato alla sola ratio, riteneva insolubile il problema della verità, portando così il discredito sullo stesso strumento razionale, ormai irrelato dalla fede ultra-mondana. Lo stesso movimento ideale di emancipazione dalla fede si registra nei confronti della Chiesa da parte dei credenti riformati, i quali, escludendo la mediazione tra fede e ragione, negano anche la credibilità storicoteologica dell‟istituzione ecclesiale. I due aspetti sono correlati e congiunti nell‟affermare la legittimità di un aut-aut di cui, nel contempo, asseriscono l‟impossibilità esistenziale. Infatti, la stessa fede in Cristo quale “via, verità e vita”, senza un contesto di appartenenza comunitario, restava una via solitaria, una verità intima e una vita personale. Cioè l‟opposto del corpo mistico tradizionale. D‟altronde, le dinamiche sociologiche di una tendenza razionalizzatrice della vita tendevano a risolvere l‟ autaut religioso in una dissociazione empirica tra la canonica pratica votiva e la quotidianità legata ad esigenze del tutto oggettive e impersonali. La visione religiosa del mondo di Lutero fa leva sul dualismo metafisico di cielo e inferno, di spirito e carne, per affermare la necessità inderogabile di una scelta tra la salvezza e la dannazione che costituiva la via di uscita dalla opposizione e dalla stessa soluzione accomodatrice di tipo sincretistico, basata sulla prospettiva del “totalmente altro” propria della rivelazione. In un mondo materialmente spartito, senza residui, tra bene e male, tra Cristo e Satana […] non è pensabile alcun punto di transito tra il vero e il falso, non è possibile in

338

Ivi, pag. 351.

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rapporto a Dio alcun tendere idealistico [dove sia possibile] per la libertà della volontà […] occupare una posizione superiore neutrale, dalla quale soltanto sarebbe possibile prendere una decisione definitiva per la vita o per la morte.339

La ricerca vocazionale al Bene, che era pratica propria della filosofia antica e pagana, non riusciva a produrre lo “stato di grazia”, ma restava agostinianamente “al di qua della linea di confine tra tenebre e luce”.340 Da qui il giudizio liquidatorio di Lutero per ogni forma di universalismo teistico e di ogni “etica della coscienza”, frutto solo di “sciocca presunzione”.341 Infatti, “solo un prodigioso intervento che viene dalla sfera divina strappa alla rovina l‟anima di per sé perduta”.342 La visione luterana – di origine agostiniana – del peccato originale si oppone a ogni idealistica e razionalistica concezione, propria anche del misticismo medievale, di una originaria e inestinguibile redenzione antropologica che può essere ridestata e ricongiungere l‟animo umano alla totalità divina. Solo la premessa dell‟“insuperabile dualismo DioSatana” poteva dar senso all‟opera stessa della redenzione, altrimenti superflua. Redenzione appunto dallo “status non cristiano e precristiano non redento”343 Dal dualismo originario discende una pietà che rivaluta “la maestà di un Dio personale che non può venir compreso né nel „suo odio eterno per l‟uomo‟, né nel suo amore che salva”,344 restando all‟uomo inaccessibile la libertà che Dio ha riservato a sé e che proibisce ogni domanda, esigendo solo la fede che è fatta di “timore e invocazione”. Il “Deus absconditus” di Lutero non è il Dio infinito della coincidenza assoluta di Cusano, conoscibile solo negativamente o intuito misticamente; non è “l‟assoluto al di sopra degli opposti”, ma la sua trascendenza riguarda “quella parte del suo volere che è insondabile e temibile”, la quale resta ben distinta dalla

339 340 341 342 343 344

Ivi, pag. 353. Ibidem. Ibidem. Ivi, pag. 354. Ibidem. Ivi, pag. 355.

477


parte oggettiva, “che Dio ha dato a conoscere per mezzo della sua parola”, e che costituisce il contenuto dell‟annuncio di fede del “Deus praedicatus”.345 Se il cattolicesimo, accogliendo la prospettiva evangelizzatrice ed istituzionalistica della Chiesa-nel-mondo, aveva accettato le regole del mondo, anche a costo di subire compromessi a volte indegni, il ritorno al dualismo, alla versione radicale, non considerava il nuovo orizzonte della cristianità come storicamente diverso rispetto a quello dell‟età pre-cristiana, ma ripropone la dicotomia con o contro Dio come immanente a ogni contesto esistenziale. La non curanza della dimensione storica e culturale declina la purezza religiosa come l‟alternativa al mondo peccatore. “Solo di fronte a questa follia di una religione radicale emerge con evidenza il carattere unitario del „filosofismo‟ medievale”,346 che, innestato di arabismo e di mistica teorica, conducono a un “soggettivismo divinizzato”. Da una sfiducia, tutt‟altro che sempre consapevole, nel sistema oggettivo di un istituto teologico-gerarchico, che tiene nelle sue mani il rapporto col divino, e dal contemporaneo rifiuto di un‟esperienza religiosa immediata, nasce il tentativo di una regolazione teoretica di questi rapporti tra Dio e l‟uomo che, a seconda dei casi, dà un peso maggiore all‟assoluta inconoscibilità della sostanza o alla possibilità del soggetto di accostarsi ad essa.347

Il soggettivismo mistico libera l‟uomo dalla contraddizione del dualismo metafisico, e soprattutto “da quella mancanza di libertà, che è propria del membro della Chiesa o del predestinato”, ma non raggiunge la dimensione esistenziale perché lega la sua condizione di grazia e di rinascita spirituale dalla volontà imperscrutabile di Dio. Mancando questa dipendenza divina del “momento estatico e carismatico della mistica”, essa si risolve in moralismo razionalistico, in religiosità universale, ovvero in “quietismo semplicistico”, oppure ancora nello storicismo, ossia “all‟atteggiamento contemplativo del filosofo della storia, che trova in una storia della fede la giustificazione 345 346 347

Ibidem. Ibidem Ivi, pagg. 356-357.

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al suo soggettivismo”.348 Motivi tutti che contengono in nuce la spiritualità romantica. Affidarsi (o abbandonarsi) alla Storia, oppure rinunciare al compito di costituirsi come “coscienza” del mondo, assumendo su di sé la mediazione tra i due emisferi metafisici, consegue a uno stesso sentimento di impotenza spirituale, nato dalla “distruzione della religione concreta”, ovvero, come ormai è per noi chiaro, dalla dissoluzione del mito cristiano. I processi di tale dissoluzione attraversano e coinvolgono tutta la modernità, le cui tappe ideali sono caratterizzate da movimenti storici di affermazione e di resistenza dei motivi salienti che la determinano nel senso della sua sostanziale autocoscienza, di cui le diverse ideologie socio-politiche rappresentano le relative tappe culturali. Entro tale orizzonte, le scansioni storiche dei vari periodi che, a partire dal tardo Medioevo, giungono sino al Novecento, vanno interpretate come momenti particolari di uno stesso processo ideale, per cui sarebbe riduttiva ogni chiave di lettura autoreferenziale, di tipo sociologico o istituzionali stico o economicistico o politicistico, che mancasse o perdesse il senso essenziale del processo medesimo. 12. Intendendo la coscienza come fonte di legittimazione razionale della volontà umana, e supponendo appunto razionale la sede del giudizio della volontà, ossia della necessità di ragione, dobbiamo distinguere dalla coscienza razionale la coscienza intenzionale, sede della intuizione della verità, ovvero di Dio, e fonte della libertà o Possibilità, che coincide appunto con l'intenzione. La libertà di coscienza, intesa come volizione razionale, concentra nel giudizio di ragione l'intera possibilità dello spirito umano, rimuovendo dall'ambito del giudizio intenzionale ogni istanza intuitiva di verità, confinata nella sfera irrazionale della religione e dell'inconscio, dunque mitica e fantastica. La libertà intesa come volizione, astratta dalla sua Possibilità e considerata come realtà assoluta, presuppone la rimozione della coscienza intuitiva, che è la fonte, appunto intuitiva, della verità e della sua sacralità. Lo sviluppo della personalità morale dell'uomo, cioè

348

Ivi, pag. 357.

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della sua maturità esistenziale, avviene nella coscienza intenzionale, e non in quella razionale, la quale ultima determina le sue rappresentazioni della realtà sulla base di fondamenti ideali astratti dal mondo-della-vita e quindi dal divenire. Proprio perché privi di divenire, le rappresentazioni razionali della coscienza sono inadeguate alla conoscenza della storia umana e alla interpretazione dei fenomeni spirituali. Ciò vale soprattutto per l'età moderna. Il principio di autodeterminazione del soggetto, politico e razionale, deriva dal presupposto che la coscienza razionale sia la sede del governo delle passioni umane, ossia lo strumento sufficiente a stabilire i modi e le opportunità per la realizzazione del bene per l'uomo. La prospettiva razionalistica moderna, dando rilievo assoluto alle facoltà umane di decidere liberamente del destino del singolo, si veniva di conseguenza a negare valore comune al bene collettivo, ritenendolo astratto se non relativo al bene individuale. La libertà venne perciò intesa come possibilità riconosciuta al soggetto individuale di dar forma reale alla propria rappresentazione del mondo, indicata come “felicità”, consistente nella possibilità di conformare la realtà del mondo alla soggettiva ideale visione interiore, intesa come “libertà”. Questa teoria liberale della soggettività ha in pratica consegnato alla volontà più forte le sorti dei singoli, privati di riferimenti socioculturali comuni e tradizionali, e delle comunità, disgregate dai loro legami etici e religiosi. Il costituzionalismo liberale fu la premessa dello statalismo, dando alla potestà legale tutto il potere. Infatti la collettività tradizionalmente organizzata per ceti era il popolo quale soggetto distinto dal principe, ma anche dalla plebs incondita et confusa turba, la quale era disgregata e disorganizzata. Il razionalismo giuridico-politico fa cadere la relazione al principe, facendo del popolo un ente politico-giuridico assoluto, depositario della sovranità, dotato di facoltà di giudizio autonomo dal potere costituito. Ma la stessa teoria democratica, dovendo riconoscere il pluralismo partitico, confuta la finzione concettuale che pure teoricamente la legittima. La realtà delle formazioni sociali, spontanee o tradizionali, contrasta storicamente col principio della sovranità popolare come determinazione fattuale di una volontà collettiva che si esprime unitariamente e univocamente. La libertà privata, garantita dalla legislazione statale, diventa concessione di diritto pubblico, spostando 480


sul piano politico la facoltà di disporre dei propri beni, ai quali vengono equiparati i diritti politici. Ciò che conta è che, a fronte della titolarità formale, il riconoscimento e la garanzia dei diritti giuridici soggettivi è dello Stato, il quale può pertanto, oltre che proteggerli, anche revocarli. Nel Medioevo, “in conseguenza della concezione patrimonialisticofeudale della società, solamente il possesso della terra dava il crisma del potere. Avere il dominio equivaleva essere Signore, possedere cioè la sovranità”.349 Se la concezione antica faceva rilevare l'elemento gentilizio della sovranità politica, quella medievale designava lo Stato come “territorio”, diviso a seconda della sua grandezza o estensione. Non già i popoli ma i territori facevano uno Stato. Il principio di sovranità popolare spezza il legame storico tra Governo e Popolo, cioè tra Corona e sudditi, per stabilire un patto sociale interno alla sovranità popolare, tale da farlo coincidere con un contratto politico. L'identità di contratto sociale e di patto politico trasferisce la solidità originaria e storica della convivenza civile nei rapporti politici, assumendoli anch'essi come necessari e non contingenti al pari della condizione sociale, e del pari trasferisce a sua volta ai rapporti sociali la contingenza propria dei rapporti politici, stabiliti per pattuizione e quindi per volontà soggetta a revisione. Ciò comporta che le dinamiche della competizione politica si riflettano sugli assetti sociali in termini corrispondenti, privando perciò la convivenza sociale di quella stabilità e sicurezza indispensabili per ogni equilibrio esistenziale dell'uomo. Il “principio di movimento” (Grundsatz der Bewegung), diventando universale, rende la società estremamente instabile e la vita umana precaria, a tal punto che il Prinzip der Stabilitaet, che dovrebbe costituire una priorità per ogni avvicendamento generazionale e ogni riforma sociale, diventa invece una aspirazione problematica che si riverbera come insicurezza antropologica e angoscia psicologica; ossia come dramma culturale. Sicché, la crisi culturale, quella socio-politica e quella religiosa sono intimamente intrecciate nell'Europa moderna, a seguito della contrapposizione tra Natura e Storia, intesa la prima come condizione di necessità e l'altra di libertà o possibilità. Assegnando alla Storia il campo della libertà, diventava possibile per l'uomo realizzare

349

E. Bussi, Evoluzione storica dei tipi di Stato (1970), Milano, 2002, pag. 26.

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ogni disegno ideale di società e di Stato di tipo nuovo e antitradizionale. Liberata da ogni vincolo trascendente, naturalistico o divino, la volontà umana si credette capace di operare qualsivoglia cambiamento nella vita sociale, politica e culturale, solo a costo di una disponibilità di risorse materiali e tecnologiche, le quali funsero da correttivo storico alle stesse disposizioni della Provvidenza. Infatti, separata o smentita la correlazione tra Verità (presunta) e Possibilità (effettiva), ossia tra la giustizia ideale e la forza reale, la differenza decisiva era riposta nel potenziale materiale, nella tecnica. Assunta per certa la relatività delle convinzioni morali di fronte al potere degli strumenti tecnici, che decidevano le sorti belliche tra Stati e i contenziosi politici tra i ceti sociali, la mentalità moderna fu foggiata da una cultura delle distinzioni astratte tra i valori spirituali e tra essi e la pratica operativa, cioè dalla sofistica del pensiero razionalistico, e dall'individualismo egalitario, personale o nazionale, che alimentava l'illusione dell'autodeterminazione dell'uomo, a prescindere dalle sue condizioni storiche che le rendevano significative, determinò la posizione illuministica del rigetto del passato come condizione del progresso avvenire, presupposto di quella frattura rivoluzionaria che caratterizzò la civiltà europea moderna o post-medievale. L'emancipazione dell'uomo dalle sue condizioni storiche (sociali e culturali) provoca l'individualismo economico e il soggettivismo intellettuale, prodromici dell'egalitarismo politico e delle teorie democratiche, legittimate dall'ipotesi che l'uomo sia un microcosmo autonomo e assoluto, rispetto al quale ogni forma di convivenza sociale o di relazione politica sono contingenti. Se la civitas antica era il “coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus”,350 ciò che differenza lo Stato antico da quello medievale e moderno è “la perfetta comunione fra l'elemento religioso e quello statuale”.351 Il Cristianesimo predicò l'autonomia della coscienza dallo Stato, mentre nello Stato antico la coscienza del cittadino era inscindibile da quella religiosa. La Chiesa si fece portatrice del diritto del popolo verso il diritto del re, contrapponendo sacerdotium a

350 351

Cicerone, De Republica, I, 26. E. Bussi, Op. cit., pag. 129.

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imperium. L'unità antica di società e Stato viene infranta nel Medioevo, anticamente, tutti e solo i cittadini erano lo Stato, a esclusione di schiavi e stranieri. Nel Medioevo la Chiesa, accordando protezione agli esclusi, ne affianca la loro esistenza collettiva a quella dello Stato, dando vita a un organismo parallelo che è appunto la Società, intesa come l'unità dei gruppi sociali interni allo Stato. Nel caso in cui i gruppi sociali si costituirono in ceti, e questi in Parlamenti o Stati, essi non si pensarono come rappresentanti universali dell'intera società o popolazione nel suo complesso, ma soltanto essi intesero essere il popolo o la nazione in senso giuridico.352 Ciò comportò che la maggior parte dei sudditi restasse fuori della vita pubblica. La teoria medievale della sovranità popolare è del tutto diversa da quella moderna, la quale prende vita solamente nel XVIII secolo. Nel Medioevo, infatti, si era ben lungi dall'avere una concezione democratica del popolo, perché la dottrina medievale della sovranità popolare trovava le sue basi reali nella formazione delle corporazioni di arti e mestieri, nell'esistenza degli Staende nell'Impero, nel progressivo distaccarsi dei Regna dallo stesso, nell'affermata preponderanza dei Concili sul Papa e così via. 353

La sovranità popolare nasce con il sentimento nazionale e dunque, in mancanza d'esso non si può parlare di rappresentanza degli interessi particolari, ma semmai di rappresentazione, “perché gli Stati e i Parlamenti, i ceti organizzati e le corporazioni, esercitano un diritto altrui, unitamente al proprio”.354 Se mai è esistito uno Stato di diritto, questo è stato quello medievale, perché la principale cura del potente è stata quella di provvedere alla pace della tutela pubblica, cioè alla tutela del diritto. (Non nel senso che) nello Stato patrimoniale ci si possa incontrare in una compiuta e organica legislazione (…) ma si deve intendere che il diritto scritto regola per lo più rapporti di diritto pubblico, (il quale, per quanto) rozzo e rudimentale quanto alla qualità e scarso quanto alla quantità, è sempre molto rispetto all'attività amministrativa e all'attività di governo. (…) Il governo patrimoniale è, in sostanza, cura dei propri affari da parte del principe e la eventuale cura di

352

Ivi, pag. 136. Ivi, pag. 137. 354 Ivi, pag. 138. 353

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interessi generali è la conseguenza di particolari rapporti ed accordi, che potrebbero sorgere mercé la estensione della difesa a nuovi commendati. 355

L'amministrazione dello Stato è, in fondo, governo degli affari del re.356 La divisione di fatto dei campi tra il Re, che si occupava dei suoi affari e del rispetto del diritto e della difesa, e la Chiesa, che si occupava dell'educazione, consentiva una formazione spirituale cristiana che univa tanto gli uomini sotto una stessa credenza religiosa, che gli Stati sotto una stessa identità di fede, sicché “mentre gli antichi consideravano legittimo solamente il loro proprio Stato, ora è subentrata (nel Medioevo) l'idea di una comune fraternità cristiana e di un cristiano consorzio delle genti”.357 Le organizzazioni politiche del Medioevo erano tutte sovranazionali o anazionali, quale il Sacro Romano Impero. I popoli in quanto tali non avevano alcun peso politico, che avranno solo col costituirsi come nazioni. All'interno degli Stati medievali, il collante tra signore e suddito è la “fedeltà” (Trene) politica, di carattere personale, che si estingue con la morte delle parti. L'obbligo dei fideles di servire il sovrano era condizionato dall'esercizio della sua protezione armata e dal riconoscimento dei loro diritti, a cui si aggiunse quello di osservare il diritto statuale esistente: Magna Charta, in Inghilterra (1215); successione salica, in Francia (1327); Bolla d'Oro, in Germania (1356). Il vincolo diventa dunque giuridico, poiché le parti sono entrambe legate al diritto.358 Il Re non poteva creare nuovo diritto ma doveva solo attenersi a quello esistente, confermandolo con documenti. “Ciò che era diritto non era scritto, ma era trovato dalla sapienza di persone esperte”.359 Il diritto dipendeva dalla condizione del soggetto a esso. Nel Medioevo non era distinto il diritto privato da quello pubblico. Lo Stato di diritto, rigorosamente attuato, ridurrebbe lo Stato ad una semplice

355 356 357 358 359

Ivi, pagg. 162-164. Ivi, pag. 165. Ivi, pag. 171. Ivi, pag. 178. Ivi, pag. 181.

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istituzione per l'amministrazione del diritto, in cui il potere legislativo avrebbe il compito di fissare il diritto in generale e dovrebbe riconoscere e proteggere la giustizia stessa in ogni singolo caso, mentre al governo non rimarrebbe quasi alcuna funzione se non quella del servizio della giustizia o dell'uso della pubblica forza (a scapito degli) interessi nazionali (che costituiscono la) grande politica. (…) Nello Stato patrimoniale (cioè nel sistema feudale) difetta completamente il concetto di Stato, (essendo) territorio e popolo solamente oggetto dell'attività del principe, (il cui patrimonio privato), per effetto delle concessioni feudali, viene ad esautorare il potere del principe stesso frazionando in tanti contratti di diritto privato quelle che per noi sono le prerogative sovrane dello Stato.360

Il processo inverso a questa frantumazione del potere sovrano è “la ricostruzione dello Stato”, ovvero del potere centrale.361 Emilio Bussi individua quattro fattori categoriali che hanno influito sulla evoluzione della forma di Stato in Occidente.362 Il primo è di natura filosofica e religiosa. La filosofia cristiano-teocratica medievale fu contestata dal risveglio della cultura classica e dall'ideale scientifico di Bacone. Da un lato, la Riforma contestò l'autorità spirituale del Papa, esaltando la coscienza individuale e la libertà religiosa; dall'altro, l'istanza religiosa divenne politica e civile. Sul piano teologico-politico, la distinzione fra regno del Vangelo, in cui vige la libertà di coscienza, e il regno secolare, in cui vige il diritto dei principi, portò Lutero ad affermare l'autonomia della religione dagli interessi sociali, lasciati al potere politico e al dominio della legge. Sicché il potere mondano, derivando da Dio, ha l'autorità di regolare la vita dei sudditi a suo piacere e giudizio per il miglior fine comune, pervenendo a dare norme al culto esterno e a cambiare autoritativamente la religione dei sudditi, secondo il principio affermato a Westfalia del “cuius regio eius religio”. La cultura neo-classica fece rinverdire anche l'antico concetto di polis, il cui potere si estendeva a tutti gli aspetti della vita pubblica e privata dell'uomo. Nacque la ragion di Stato, sostituto empirico dell'autorità divina che offre un appoggio all'autorità politica più razionale in rapporto ai suoi fini pratici che non la legislazione divina,

360 361 362

Ivi, pagg. 205-206. Ivi, pag. 206. Ivi, pagg. 206 sgg.

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giustificandosi in sé stessa. Ma poiché la ragion di Stato, sciolta da ogni soggezione divina e libera di ogni rispetto umano, provocò un declino del livello morale del Potere, facendo dello Stato la fonte di diritto di ogni violenza, non oppugnabile per principio.363 Il principio di libertà religiosa ben presto coinvolse anche la sfera politica, innescando il secondo fattore storico di cambiamento. Nel sec. XVI in Francia, Scozia e Spagna una serie di scrittori affermarono il principio della sovranità nazionale sotto una monarchia costituzionale, per cui rex propter regnum, non regnum propter regem. Questi teorici, detti monarcomachi, sono protestanti che aspirano alla libertà religiosa, e cattolici avversari di Enrico III ed Enrico IV. Le loro teorie furono sopraffatte da quelle di Bodin, che nella sua Repubblica (1577) distingue l'imperio legittimo dei magistrati chiamati ad applicare la legge, da quello assoluto, che è la maestà del principe. Il potere “summum” e “solutum” dello Stato è indivisibile e tale che non ammette controlli, sindacati giudiziari o divisioni di tipo feudale, e si rifà alla formula di Ulpiano del “princeps legibus solutus”, incarnato da Luigi XIV, da Federico II, da Ludovico di Baviera e da Federico Guglielmo I, tutti concordi nell'esprimere la supremazia assolutistica sulle leggi di cui erano gli autori. Fu Bodin a coniare il senso moderno della sovranità, che dalla Francia si diffuse in tutta Europa. Con Hobbes lo Stato diventa l'unica fonte di diritto. I concetti di legale/illegale, giusto/ingiusto e bene/male sono condizionati dal concetto di Stato, poiché “ante imperia iusta et iniusta non existere”, e la stessa religione è al servizio dello Stato, se è vero che “voluntas Dei nisi per civitatem cognoscatur”, essendo il principe interprete e ministro. Quanto al fattore giuridico, lo statalismo assolutistico in Francia e in Italia avvenne tramite il recupero dei filosofi antichi e dei giuristi romani, dai quali si mutuò il concetto di imperio come assolutismo imperiale: “rex in regno suo est imperator”. In Germania avvenne invece attraverso le teorie del diritto naturale, espresse per primo da Grozio, il quale nel suo De jure belli ac pacis (1625) tese a dimostrare la ragionevolezza della convivenza pacifica tra gli uomini, sia in

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Ved. in argomento il testo classico di F. Meinecke, Die Idee der Staatsraeson in der neueren Geschichte del 1957.

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ossequio alla legge divina, che rifacendosi all'insegnamento della storia. Sul fondamento della vita pacifica e rispettosa della legge dello Stato, Grozio costruisce la teoria generale dello Stato moderno, la cui funzione è di regolare e conservare la vita sociale, possibile solo se i governati riconoscono l'autorità dei governanti. L'implicito patto civile fra cittadini e regnanti fonda lo stesso diritto dello Stato a porsi come legittimo detentore del Potere. Tale teoria fu più facile applicarla alla situazione inglese che a quella tedesca, complicata dalla presenza di un'autorità imperiale accanto a quella regale, che si poneva tra l'imperatore e i sudditi. Ciò comportò che il rapporto col principe variò a seconda dei suoi particolari poteri locali e dei compiti concreti che doveva espletare per il bene dei sudditi, chiamati pertanto ad adattarsi ai bisogni dei loro principi. Questa dottrina si prestò all'assolutismo dei principi tedeschi e fornì la base dello Stato di Polizia. Il quarto fattore fu di natura amministrativa. Lo Stato si rafforzò “a cagione dell'aumento dei compiti cui esso si trovò a fare fronte, dopo che, spontaneamente o per forza, la Chiesa dovette rinunciare a certe sue attività: l'educazione, soprattutto, e la beneficenza”.364 Prima nei paesi riformati, in virtù dello ius reformandi riconosciuto ai principi, e più tardi nei paesi cattolici. Lo ius reformandi consisteva nel “diritto di dare norma all'esercizio della religione e perciò di permetterlo, di mutarlo, di restringerlo, di estenderlo o di abolirlo”, e dunque interessava solo il culto che fosse pubblico.365 Se lo si riteneva insopportabile, il suddito poteva cambiare paese e quindi autorità: beneficium emigrandi. Il trasferimento di compiti dalla Chiesa allo Stato comportò la creazione di una burocrazia di funzionari regi, che diede corpo allo Stato di Polizia. Nello Stato patrimoniale, i funzionari erano incaricati degli affari del re e di quelli addetti ai suoi affari, secondo precise istruzioni e senza procura generale, mentre i compiti dei funzionari dello Stato di Polizia erano più organici e organizzati per settori, secondo una responsabilità gerarchica rigida e conforme a una prassi, la cui fissazione darà poi vita al diritto amministrativo, separato da

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Ivi, pag. 219. Ibidem.

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quello civile e dal penale. In entrambi gli Stati, i funzionari rispondevano al principe, e non avevano alcuna relazione giuridica con lo Stato, per cui le loro funzioni potevano essere avocate o corrette dal mandante. Altro corpo dello Stato di Polizia fu l'esercito, col quale il principe superò le resistenze feudali, difese il suo territorio e impose le riforme. I comandanti non dipendono più dai vassalli ma dall'autorità diretta ed esclusiva del re, al quale i militi giurano fedeltà, servendo non solo in guerra ma per lunghi periodi (miles perpetuus), regolarmente stipendiati con gli introiti delle imposte. La struttura politica ha sviluppato una sua amministrazione che, come nel caso esemplare della Francia, ha esautorato, sostituito o surclassato la struttura organica sociale. La sovrapposizione dell'ordine politico all'organismo sociale, pur garantendo una sicurezza di risultati pratici, ha esonerato la convivenza sociale delle sue libertà di costituirsi secondo costume e tradizioni, di solito religiosi. Il Potere politicoburocratico, incidendo sulla sfera della socialità, ha interposto al legame di gruppo un legame formale, non esistenziale come quello originario del diritto storico.366 L'idea contrattualistica che la società sia conseguenza di un pactum, anziché di una fides nella comune verità divina, ha posto il Potere politico in funzione religiosa, di legame sociale. Lo Stato di diritto, in senso assoluto, è lo Stato ideologico totalitario. La forma contemporanea di esso è stata possibile per l'incremento del potere burocratico in senso capillare e pervasivo, ma la funzione governamentale incarnata dal re assolutista rappresenta il modello ideale, così come la funzione giudiziaria il modello istituzionale di servizio alla volontà del re. In senso lato, la costituzione fondamentale, intesa come “le leggi fondamentali dello Stato che non possono venire offese neanche dallo Stato stesso o dal capo di esso”,367 acquistò un valore legale che oscurò la comunità religiosa nel rapporto al suo vincolo sociale.

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“Per diritto storico dobbiamo intendere l'insieme delle norme che in una determinata epoca sono in vigore: ma non solamente l'insieme delle norme giuridiche, sibbene anche di tutte quelle altre: sociali, morali, di contegno, di etichetta e così via, che danno particolare fisionomia nonché allo Stato, alla società stessa”: E. Bussi, Op. cit-, pag. 75. 367 Ivi, pag. 236.

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La rimozione del vincolo sociale originario, di natura religiosa, consentì al vincolo politico di costituirsi come l'unico collante sociale, interprete e garante del quale era il re, l'istituzione concreta del titolare fisico del potere. Quando i teorici dell'assolutismo attribuirono allo Stato le prerogative regali, anche il prestigio si trasferì all'istituzione astratta. L'autonomia dei principi tedeschi dall'Imperatore non avvenne sul piano legislativo, ma su quello giurisdizionale, poiché “nella amministrazione della giustizia si vedeva allora la manifestazione di quel potere che oggi viene chiamato sovranità”.368 E poiché l'Imperatore era, fino al sec. XV, l'unica fonte di giustizia, l'ottenimento della superiorità territoriale passava attraverso l'autonomia giudiziaria. Nel 1495 fu creato il Tribunale Camerale dell'Impero, con un Regolamento, in cui erano prescritte le forme di giudizio sottratte all'Imperatore e assegnate all'organo. In conseguenza della loro sovranità, i principi espansero la loro autorità territoriale senza limitazioni giudiziarie, dando vita allo Stato di Polizia, che “si risolve a potere statale, intollerante di qualsiasi resistenza od opposizione”.369 Il concetto di polizia fu introdotto nel Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca solo nel sec. XVI, anche se il primo “gute Ordnung und Policey” fu emanato nel 1530. la Policey dei secoli XVI e XVII aveva per compito di sostituire l'attività degli enti locali la cui amministrazione non riusciva più a espletarsi adeguatamente per ragioni di decadenza dei centri urbani. Al principe perciò “compete uno ius politiae, il cui ambito di efficacia si estende fino là, dove questi enti con amministrazione autonoma esplicavano effettivamente la loro azione”.370 L'equiparazione dell'amministrazione interna con la Policey avvenne nel sec. XVIII, quando nel 1705 apparve il Traité de la Police del Delamare, che costituì la prima base del diritto amministrativo francese, in cui si afferma che “la puissance souveraine est une éclat de la toute puissance de Dieu”.371 Lo ius politiae è quella parte del Potere che ha il compito di allontanare

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Ivi, pag. 249. Ivi, pag. 256. 370 Ivi, pag. 260. 371 Delamare, Traité de la police etc., Paris 1722-1738, vol. I, pag. 238; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 282. 369

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i mali futuri (cura avertendi mala futura), ma non di promuovere il pubblico benessere (cura promovendae salutis publicae). Per riprendere il Bluntschli, “polizia è la cura dello Stato per il bene comune, mediante l'esercizio della sua autorità coattiva”.372 Tale bene comune è definito da v. Justi come un rapporto di coerenza giuridico-ideale tra il fine generale della polizia e il “benessere delle singole famiglie, dalle quali lo Stato è composto”.373 Lo ius politiae fu inteso come un atteggiamento etico di carattere non autoritativo, inerente cioè l'auctoritas di una istituzione carismatica, ma come un esercizio potestativo, consistente appunto nel “potere del principe di procurare una situazione di benessere nello Stato”.374 Nello Stato di Polizia, dunque, si realizza una situazione giuridica e insieme etico-politica di esautorazione dei diritti storici e insieme delle istituzioni che li legittimavano, di tipo sacrale-religioso e sociale-tradizionale, affermate autorevolmente dalla Chiesa nella sua dottrina del diritto naturale, per cui “tutte le idee fondamentali del diritto naturale stavano in diretta opposizione con l'idea assolutistica dello Stato di Polizia”.375 Fin quando era il principe a dover provare i titoli di esercizio della sua potestà nei territori, i sudditi erano garantiti dalle consuetudini locali, ma allorquando la sovranità si impone in tutto il regno, sono i sudditi che vogliono far valere i loro diritti contro il potere di polizia del principe a dover provare le ragioni giuridiche che limitano quel potere. Lo Stato assoluto di diritto diventa una istituzione ideale, e come tale potenzialmente illimitata come un principio universale, laddove la Corona, quale istituzione concreta, costituiva l'esercizio del potere umano stabilito in virtù di norme e consuetudini tradizionali, e pertanto condivise in quanto riconosciute dal consenso comune. L'elemento consensuale del Potere tradizionale costituiva quell'elemento di partecipazione etica alla vita socio-politica che lo Stato moderno, segnatamente nella sua versione “democratica”, deve

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J.C. Bluntschli, Allgemeine Staatslehre, Stuttgart 1875, vol. III, pag. 66; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 274. 373 J.H.G. v. Justi, Die Natur und das Wesen der Staaten, Berlin, 1760, § 271, pag. 466; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 300. 374 E. Bussi, Op. cit., pag. 300. 375 Ivi, pag. 282.

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concepire in termini di militanza attiva e di propaganda elettorale finalizzata alla legittimazione di un Potere puramente formale. Il rapporto, sempre coltivato dalla Chiesa, tra dottrina colta e pratiche religiose popolari, trovava nel diritto storico quel referente etico tradizionale che collegava le istanze di governo del terriorio con il “collettivo di pensiero” di una società, inteso come l'orizzonte sociologico-culturale entro il quale dei fatti o delle dottrine assumono la loro giustificazione razionale, fondata sulle credenze dominanti del tempo in quel contesto di conoscenza, che è sempre socialmente condizionata. Il carattere scientifico del diritto statuale moderno fa di questo sostanzialmente una ideologia, coi suoi dogmi e le sue credenze e i suoi riti procedurali. Diritti inalienabili dell'uomo e potere assoluto dello Stato sono concetti antitetici. Si deve a Kant se l'astratto razionalismo fu portato ed applicato nel diritto, inteso da Kant come solo ciò che corrispondeva alla ragion pratica, ossia la sola volontà determinatasi secondo la logica di ragione.376 Lo Stato così diventa prodotto della ragione e non della umana socievolezza o conseguenza di un accordo di interessi. Lo Stato ideale razionale era per Kant il modello di ogni forma empirica di organizzazione politica. Senza più fine eudemonistico, lo Stato razionale diventa di diritto, per cui il momento giuridico viene separato da ogni considerazione etico-morale e da ogni preoccupazione politicoeconomica. La salute pubblica coincide con la Costituzione, cioè col sistema giuridico razionale, che costituisce la legalità universale entro la quale si svolge la “libertà” umana, che da condizione antropologica diventa situazione giuridica. Lo Stato si fonda sulle libertà legali dei soggetti giuridici singolari, che vengono limitate solo dalle azioni di altri uomini. Lo Stato, in ipotesi, diventa il regolatore di questa presunta dinamica della libertà razionalizzata da diritto e il suo unico scopo è la sicurezza giuridica dei singoli. La salus publica va modernamente intesa come “la maggior consonanza della costituzione coi principi del diritto”, che sono quelli a cui si ispira la ragione con l'imperativo categorico.377 La libertà negativa, ovvero dallo Stato e dal Potere, viene razionalmente giustificata da Kant come “egoistico

376 377

Ivi, pag. 387. Ivi, pag. 389.

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isolamento” dell'uomo dedito all'intrapresa economica senza limiti. Poiché il fine eudemonistico cui era votato lo Stato e l'azione virtuosa del principe non aveva un fondamento giuridico, anche il loro Potere non trovava più una base razionale. Sia i diritti e i doveri dello Stato che quelli dei cittadini sono ora regolati dalla legge, e non più da rapporti fiduciari e tradizionali o convenzioni ad personam. Il freno al Potere non viene più dal diritto naturale, ma dalla legge stessa dello Stato. Alla felicità dei popoli si sostituisce la libera attività. In riferimento allo Stato, la sua “libertà” giuridica consistette nell'autonomia della politica dall'etica, parallela a quella della economia dalla morale. Il diritto diventa la tecnica del Potere assoluto, che legifera anche in materia di controllo della propria attività, sicché pone il proprio volere al controllo di sé. Lo Stato di Polizia esercitava il suo arbitrio nell'amministrazione, mentre lo Stato di diritto lo estendeva anche in ambito politico. Lo Stato, avendo perso il suo fine eudemonistico, si adopera solo alla sua conservazione e al suo potenziamento, non già come mezzo di governo paterno del popolo, ma verso gli altri popoli. Il germe del nazionalismo totalitario è già in queste premesse. Il Totalitarismo non è che l'assoluto potere legale dello Stato emancipato da ogni remora morale e tradizionale e da ogni freno autorevole di una istituzione carismatica rappresentativa della fede comune. Il legalismo taumaturgico è il portato ideologico-giuridico del razionalismo illuministico. Se infatti Bossuet faceva discendere la legge dal cielo sulla terra, i teorici delo Stato di Polizia ne laicizzano la origine, sostituendo al cielo la ragione umana, e nutrono per essa una fiducia altrettanto ingenua quanto illimitata, soprattutto quando possono farla derivare da un testo scritto. 378

L'autonomia locale, i privilegia e le immunitas sono sinonimi di libertà, che presuppone la legittimità dei poteri costituiti, cioè la autorità, da cui si può derogare, ma senza rivendicazioni di assoluta autonomia. E questa autonomia, questa rivendicazione di diritti particolari di ogni individualità senza negare i principi supremi dell'organizzazione sociale,

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Ivi, pag. 401.1

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costituirono forse uno dei tratti più caratteristici della civiltà medioevale e ci additano l'esempio di una configurazione dei rapporti fra l'individuo e lo Stato che è nello stesso tempo lontana dalla concezione anarchica del puro individualismo, e dalla opprimente statolatria di ogni totalitarismo. 379

La contesa fra Chiesa e Stato, apertasi nel 1296 per un contenzioso fiscale, manifestava una questione culturale e teoretica che trascendeva quella contingente e politica, e inerente alla conservazione o dissoluzione della società organica cristiana e della forma imperiale che la caratterizzava. In questione non erano le distinzioni formali tra i poteri religioso e laico, ma la legittimità della loro possibilità teorica, prima che pratica. Infatti, l'affermazione della libertas christiana dall'onnipotenza del Potere politico, trasferita in ambito politico, quale istanza sovrana verso l'ingerenza della Chiesa negli affari di Stato, equiparava la libertà spirituale trascendente alla libertà della volontà regia di autodeterminarsi nella sua propria sfera giuridico-politica. Questa indebita equiparazione poneva l'auctoritas religiosaalla stregua della potestas secolare, ingenerando perciò la questione del primato di una sull'altra sullo stesso terreno concorrenziale, quello politico e mondano. Il criterio medievale che reggeva il sistema imperiale era quello gerarchico, non egalitario, sicché l'integrazione dei due poteri era la condizione della loro reciproca legittimazione morale. Nel momento in cui la teoria dello Stato autonomo e superiorem non recognoscentem veniva con Marsilio e con Ockham fondato sulla plausibilità razionale e sulla volontà sovrana di costituirlo, la legittimazione religiosa diventava superflua al pari di ogni riconoscimento esterno al sistema statuale, basato sulla sua propria forza politica. Se la ragione perdeva la sua funzione ancillare verso la verità di fede, diventando autonoma dalla teologia, anche lo Stato razionalmente fondato acquisiva le proprietà tipiche di un'opera e di un pensiero auto-giustificato. Porre la questione metafisica in termini giuridici e formali, fu errore capitale della Chiesa, che non comprese che la posta in gioco non era il suo potere, quanto la funzione della fede cristiana in relazione alla Verità, che per il fedele è il dato originario della ricerca razionale e dell'esperienza esistenziale, mentre per il razionalista è l'obiettivo auspicato della ricerca scientifica. In 379

R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari, 1951, pag. 25.

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senso lato, la questione verteva sull'identità della civiltà europea, che poteva sussistere solo in quanto metafisicamente cristiana. Assegnato invece il primato alla ricerca, non restava a qualificarla che il metodo, cioè la tecnica del sapere. Se la ragione può pervenire alla verità, perché la fede nella Rivelazione? Da qui la tendenza umanistica a rivalutare il passato come civiltà razionalistica e visione del mondo improntata al Logos naturalistico. La Natura, il mondo sociale e la realtà politica di fronte alla coscienza sono materia da interpretare e rifondere in nuova forma ideale. Se la coscienza razionale può giungere alla verità e costruisce un mondo migliore, essa non può piegarsi all'autorità costituita né ad alcuna tradizione, politica o religiosa che sia. Volontarismo e personalismo sono aspetti complementari del razionalismo, cioè dell'auto-nomia della ragione a conseguire la libertà teoretica, spirituale e pratica. Anselmo d'Aosta (realismo) e Abelardo (concettualismo) inaugurarono una nuova civiltà, segnando l'antitesi all'agostinismo. “Per Sant'Anselmo infatti il peccato originale non ha profondamente alterato l'equilibrio” divino, stabilito attraverso il principio naturale della giustizia originale. “L'incarnazione del Verbo è stata dunque necessaria per ripristinare fra gli uomini quella possibilità di giustizia”.380 L'antropologia pessimistica agostiniana viene corretta dall'idea delle possibilità umane di giungere alla salvezza, dunque da una visione ottimistica. A partire dalla procreazione, alla quale Tommaso tolse il marchio degradante della fornicazione e concupiscenza dell'originario stato di colpa, per giustificarla moralmente come funzione naturale di generazione della specie. In genere la scolastica rappresentò un indirizzo spirituale, cioè antropologico e soteriologico, antitetico all'agostinismo. Anche dal punto di vista gnoseologico, all'atteggiamento agostiniano prevalentemente mistico e basato sulla validità dell'esperienza interiore, del testimonium animae, si sostituiva con la Scolastica un atteggiamento intellettualistico, una tendenza a condizionare il reale al pensiero, un razionalismo che essa aveva mutuato in pieno dal più intellettualista filosofo della Grecia antica (...). Tutto ciò che era esperienza mistica in S. Giovanni e

380

Ivi, pag. 363.

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in Sant'Agostino, era divenuto, così, concetto preciso, logicamente determinato. Si traduce in termini logici, intellettuali, sociali ciò che in San Paolo era intuizione profonda delle realtà spirituali, rivissute intensamente nell'affocata speranza dell'avvento imminente del Regno. 381

Gli elementi mistici del Cristianesimo lasciano il campo ai valori razionali e intellettualistici, determinando una profonda trasformazione della struttura della Chiesa, sempre più teocratica e accentratrice, che diviene interprete esclusiva sia delle Scritture che della tradizione. Ed è sul modello totalitario della Chiesa che lo Stato moderno, operando una rimozione del sacro ed esaltando la funzione del metodo razionale nella ricerca della verità, diventerà col tempo quel sine nomine monstrum che crescendo su se stesso giungerà infine a voler modellare ideo-logicamente l'intera esistenza umana, prendendo il posto di Dio come creatore che forgia l'uomo a sua immagine ideale e somiglianza politica. Questo esito non era inscritto nella historia sacra agostiniana, fondata sul percorso della rivelazione ebraico-cristiana, ma è dovuto allo sviluppo conseguente alla inserzione della cultura greca, tramite la sua metafisica, nella civiltà cristiana, determinando un cambiamento di prospettiva soteriologica orientata verso l'ordine razionale, verso una cosmo-logia in cui si rivela l'Essere, anziché la Verità. Il problema filosofico, perché coincida col problema della salvezza, deve essere fondato sulla verità di fede, deve cioè presupporre la Rivelazione, senza la quale non vi è una storia della salvezza personale dell'uomo, ma solo della coscienza del Logos impersonale. Se l'avvento dell'Essere costituisce una rottura dal mito, lo stesso avvento del Cristo va inteso razionalisticamente come una frattura antropologica, anziché la rivelazione alla coscienza naturalistica e onto-logica della Possibilità della coscienza morale come luogo della salvezza spirituale. Era difficile, infatti, estendere in senso logico-universale una verità circoscritta storicamente alla ricezione dell'evento cristiano, per cui ebbe buon gioco il tentativo di Voltaire di denunciarne i limiti nel suo Essai sur l'histoire générale (1756), in polemica evidente con il Discours sur l'Histoire universelle (1681) dell'agostiniano Bossuet. La

381

Ivi, pag. 364.

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questione, però, non riguardava la sussunzione entro un modello paradigmatico cristiano-occidentale di storia universale, bensì la possibilità riservata alla spiritualità cristiano-europea di offrire un valore soteriologico cattolico e fruibile erga omnes, in quanto interessante l'esperienza dell'uomo in quanto essere spirituale, caratterizzato dunque dalla possibilità della sua libera redenzione, ispirata dalla Grazia e non partecipata dalla cogenza del Logos. La difficoltà era quella di inquadrare la figura singolare della persona spirituale entro la cornice culturale molteplice e variegata delle nazioni storiche. Trascegliendo tra le tante la matrice simbolica razionalistica, l'esperienza culturale europea divenne il campione rappresentativo di un ideale universale di umanità che Dante indicò come Monarchia cristiana, ma il cui ordine storico era costituito dalla civiltà medievale. Ciò che realizzò il Medioevo in termini teologico-culturali e politicoistituzionali fu l'intersezione nell'alveo della storia cristiana della matrice filosofica greca, facendo di questa l'ancilla del finalismo escatologico. Ed è nella scissione di questa struttura storico-simbolica che consiste l'età moderna, quale processo di dissoluzione dell'ordine classico-cristiano. L'ordine cristiano, per la sua legittimazione trascendente, volle costituirsi come un orizzonte di realtà fondato sulla verità divina, e dunque totale rispetto a ogni possibile esperienza umana, che in quell'ordine avrebbe trovato il suo valore eterno e la sua salvezza mondana. La pretesa di asservire a tal fine la filosofia greca, facendone una tecnica di pensiero simbolico atta a tradurre in espressioni umane quel valore, che divenne perciò culturale, oltre che cultuale, fu resa possibile per il declino della potenza autonoma della civiltà greca e la sua sopravvivenza come tradizione culturale in età ellenistica; ma, appena le condizioni furono mature nel corso dell'assimilazione dello spirito della filosofia greca nella metafisica cristiana, la pretesa teologica si scontrò con l'antica pretesa filosofica di costruire un ordine a sua volta vero e universalmente valido, inevitabilmente confliggente con quello che nella sua logica non poteva che apparire mito-logico. L'intera esperienza intellettuale del Moderno può essere intesa perciò come un processo di de-mitologizzazione della teologia cristiana da parte delle sotterranee correnti del razionalismo greco rivisitato sotto forma di istanze illuministiche e storicistiche. Ma la innegabile superiorità della prospettiva cristiana su quella classica è, al di là del 496


dato fideistico, ovvero proprio per esso, la sua capacità di aver costruito una civiltà storica e non solamente un modello ideale di socialità, che per oltre un millennio e mezzo ha rappresentato per la cultura mondiale il paradigma antropologico dell'umanità, riuscendo dove né il razionalismo antico, né tantomeno quello moderno, sono riusciti a realizzare, in quanto privi di quel fondamento veritativo eterno che ha caratterizzato l'esperienza cristiana. Una cultura senza fondamenti può infatti offrire una rappresentazione della realtà come mondo razionale, ma non già come mondo-della-vita, la cui concretezza comprende ciò che la dialettica della ragione rimuove come negativo non-essere, cioè quella particolarità dell'esperienza storica personale sulla quale conta la fede cristiana, che rifiuta la considerazione, non dico del creato, ma dell'uomo a mero ente di ragione. Ed è proprio la sconsiderazione teorica del mondo-della-vita a impedire alle strutture razionalistiche del pensiero moderno di fondare modelli durevoli di socialità e di civiltà, tutti esposti a quell'incontenibile divenire, tenacemente osteggiato dai costrutti della ragione. Non è dunque solo un auspicio del credente il ritenimento che il nuovo ordine socio-culturale post-moderno riconsidererà, in termini non sappiamo quanto originali, il rapposto tra fides et ratio come centrale e necessario per ogni futura costruzione degli assetti sociali della storia avvenire. Per un motivo semplice quanto essenziale, poiché la considerazione della realtà ontica come totalità onto-logica è pura rappresentazione fideistica, decisione etica, senza alcun crisma di vera necessità; idonea al controllo scientifico della realtà naturale, alla quale la ragione tende ad omologare anche l'esperienza umana, ma non alla conoscenza della verità, che trascende la finitezza entro cui si muove la logica dell'ordine razionale.382 La sua costituzione ontologica la rende perciò esposta alla stessa opera di destrutturazione alla quale essa procede per statuto epistemologico alla demitizzazione teoretica dei saperi noetici, trasferendo la potenza negatrice del suo metodo dialettico entro le strutture del proprio orizzonte di senso, facendole criticamente implodere. Sul piano delle strutture politiche, le ideologie razionaliste, emancipate

382

Ved. C. Marco, Dalla metafisica classica al Grande Errore moderno, in “Coscienza storica” online n. 3, 2020.

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dal loro fondamento mitico-veritativo e diventate pura tecno-logia del potere, esaltano l'aspetto pragmatico rispetto a quello ideale fino alla catastrofe della civiltà. Era già avvenuto nel V secolo a. c. con la Guerra del Peloponneso,383 e avvenne nuovamente con la guerra civile europea che portò alle due guerre mondiali nel sec. XX. La pretesa del razionalismo, e dunque della filosofia greca, è di eliminare dal problema della vita il mistero, pensando all'Essere come al Tutto. Diversamente dalla prospettiva del Mito, che per la filosofia è pseudos, il discorso filosofico rappresenta la realtà come una trama di eventi causali, senza mediazione, connessi per un criterio di legalità, ritenuta non disponibile, e dunque necessaria, ma le cui condizioni sono in realtà create dall'uomo, che dunque le vive come una dimensione della sua libertà. Il carattere illusorio di tale libertà è dato dall'esito ipotetico di quella supposta necessità, che rimette alle conseguenze umane la responsabilità che nel Mito viene attribuita al ruolo divino, esautorato dal criterio razionalistico. Il passaggio dalla prospettiva mitica a quella filosofica, liberando la vita umana dal legame col sacro mistero, la consegna all'alea dell'autodeterminazione della coscienza razionale, la quale, fondando la sua credibilità procedurale sulla finzione ontologica che l'Essere sia Tutto, si regge su una superstizione metodologica, quella scientifica, che i processi storici inevitabilmente smentiscono sempre, in quanto la realtà non è, ovviamente, vincolata ad lacuna convenzione gnoseologica. Il riflesso metodologico di tale disposizione ideologica fu la trattazione della civiltà medievale come un organismo politico-statuale, riscontrando perciò in esso mancanze e imperfezioni parametrate al contesto giuridico-istituzionale dell'età moderna. Se l'opinione pubblica liberale ha carattere di vincolo morale quando riesce a persuadere, nei regimi autoritari l'autorità pubblica delle istituzioni è universalmente intesa come un vincolo di natura morale, anzi religiosa, sicché nel Medioevo “il destino dell'Impero, nella storia governata da Dio, obbliga tutti i cittadini a rispettare i suoi ordini e ordinamenti. La vita della collettività è determinata dall'autorità, non dall'opinione di partito o dalla sovranità popolare”, essendo l'autorità

383

Ved. E. Voegelin, Order and History, vol. II The World of the Polis, tr. it., Milano, 2015, pag. 47.

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pubblica il referente primario della vita morale e spirituale della collettività, la cui storia di civiltà non è “tutto l'accadere umano”. Accanto ad essa, infatti, “vi è una vita tradizionale, comune agli uomini, che nei suoi aspetti naturali e nelle sue tendenze rimane essenzialmente sempre la medesima. (…) Solamente ciò che concerne il destino generale dei popoli, solamente ciò che appartiene al comune senso dell'attualità e dell'Impero, appartiene alla realtà storica”, mentre le decisioni istituzionali prese una tantum hanno effetti che durano nel tempo e “fanno epoca” nella vita collettiva. Da qui la possibilità di rifarsi alle fonti documentali, politiche, alle grandi personalità che segnarono eventi epocali, insomma al potere pubblico.384 L'ordine storico in senso moderno non è dunque il percorso privilegiato della civiltà medievale, la cui avvenimenzialità non rende il senso del suo processo epocale, che invece va indicato attraverso una trama escatologica che ne riveli l'orizzonte cristiano del suo ordine socioculturale. La storia in senso medievale va declinata dunque nella relazione con il trascendente, che si costituisce come il referente muto e onnipresente verso il quale le istituzioni del potere civile e religioso si pongono per l'avallo alla propria legittimazione. Tutto il contenzioso tra Chiesa e Impero si può intendere come una contesa tra interlocutori divini, ognuno dei quali vantava, in virtù della sua funzione, un primato rappresentativo. Se “il salto nell'essere filosofico scopre la forma storica” nella cultura greca,385 la concezione storica della cultura cristiana sposta il terminus a quo della costituzione arcaica del Mito classico di fondazione, alla proiezione, a partire dall'evento cristico, verso un terminus ad quem escatologico che conchiuda nell'esito sacro le vicende della storia profana. In tal modo si recuperano le vicende significative entro l'economia della salvezza cristiana delle civiltà maggiori che hanno anticipato la Rivelazione e il cristianesimo storico. In tal senso, il Medioevo diventa il crogiuolo di fusione della civiltà romana, di quella greco-ellenistica e di quella barbarica.

384 385

A. Dempf, Sacrum Imperium (1933), tr. it., Firenze, 1988, pagg. XIV-XVII. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 58.

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