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Proprio la diversa e diacronica conversione dell‟uomo singolo alla salvezza in Cristo giustifica il processo soteriologico della Storia in vista della fine dei tempi come evento differito e relativo alla responsabile e libera disposizione umana. In tal senso, i tempi dell‟attesa della parousia sono messianici, in riferimento alla fede salvifica a quo, ed escatologici in riferimento all‟evento soteriologico ad quem. Diversamente dalla storia profana ed etico-politica, quella sacra e caritatevole include nella sua fenomenologia l‟elemento diabolico e maligno dell‟opposizione negativa al Bene, consustanziale ontologicamente alla stessa realtà della sua affermazione, e ve lo comprende quale elemento provvidenziale alla stessa libertà spirituale dell‟uomo. E in virtù della con-sistenza nell‟uomo singolare delle due nature, biologica e spirituale, è possibile assumere la figura umana come simbolica della realtà dell‟Uomo per antonomasia, ossia del Cristo, il cui sacro modello divino-umano consente altresì la considerazione della sacertà dell‟essere umano empirico, destinatario della Grazia divina, che diventa pertanto il vero mediatore tra i due Regni, strappando il ruolo arbitrariamente assunto nel frattempo dalle due Città agostiniane. Costituisce un autentico limite culturale non considerare l‟importanza in tal senso della esperienza intellettuale di Kierkegaard, il quale ha inteso prima e meglio di altri pensatori cristiani la necessità di deflettere dalla traiettoria teologico-politica inerziale assunta dalla civiltà moderna in conseguenza dello smarrimento del senso originario del messaggio cristiano in seno stesso della comunità evangelica riformata, richiamandola alla necessità di un profondo e radicale ripensamento che fosse nel contempo un invito ai cristiani di ogni confessione ad uscire dalla selva oscura della tradizione che stava portando l‟Europa a quello che Maritain chiamerà ”l‟ateismo pratico”. Ma già l‟infausto esito storico al quale è pervenuto l‟impegno ecclesiale dovrebbe indurre a più ponderata riflessione le opinioni confermative della convergente intesa della Chiesa con le potenze terrene sui fini escatologici della missione cristiana, ritenendo imprescindibile che “esplicitamente o implicitamente, le potenze terrene debbono concepirsi
affermazione di enti universali, astratti dalla loro concretezza di esistenza storica in senso spirituale ed escatologico.
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in funzione di quella generale conversio, per la cui grazia la Chiesa lavora”.187 Infatti, solo all‟interno del presupposto che il processo storico effettivo sia, secondo la visione razionalistica della Storia, l‟unico necessariamente possibile, la Chiesa potrebbe perseguire, al di là dei risultati empirici della sua predicazione, il ruolo che essa si è assegnata in conformità della sua teologia politica. Ma se quel presupposto razionalistico venisse a cadere insieme ai suoi fondamenti onto-logici, allora la stessa lettura della Storia della salvezza dovrebbe essere ermeneuticamente rivista nella prospettiva di una rinnovata esegesi scritturale. A partire dalla ridefinizione categoriale di concetti come quello della “mediazione”, al quale, in una prospettiva mutata, potrebbe sostituirsi quello di , ossia di “passaggio” o “transizione”, non da una “realtà” sacra a una profana, o viceversa, come se l‟una o l‟altra potessero sussistere in senso ideale anche nella concreta condizione esistenziale dell‟uomo, ma bensì da una ad altra “dimensione” che preveda come possibilità storica a) la stabilità politica come remedium mali, e quindi la condizione di socialità come del rispetto alla deriva anomica, ovvero b) la costituzione ecclesiale quale condizione di esistenza improntata alla spiritualità dei rapporti fraterni. In questo secondo caso, la non potrebbe confondersi, neppure “dialetticamente”, con una mondana, ma tra le due comunità umane esisterebbe la stessa distanza ontologica che divide l‟essere spirituale dall‟essere naturale. La lotta diabolica dovrà interessare la condizione costitutiva dell‟esistenza umana, ossia la de-finizione della sua condizione antropologica, sul fondamento della quale pensare i termini della sua co-esistenza. Se pertanto, sul presupposto naturalistico che l‟uomo sia uno , volessimo costruire una ecclesia spiritualis universale, è chiaro che ci proporremmo una utopia non soltanto “irrealistica” ma essenzialmente in-possibile, perché sarebbe come definire un legno di ferro. Ma è esattamente questo il percorso tracciato dalla Chiesa finora, assumendo che anche il Regno di Dio fosse per gli uomini una “città”, ossia un consorzio politico, di cui bisognasse indicare, per diversificarlo dalla città profana, solo un fine spirituale, conservando gli stessi strumenti operativi della
187 M. Cacciari, Op. cit., pag. 73 e passim. 70
pagana, legittimati dalle stesse categorie sociologiche che avevano sorretto il cosmo antico. Questo percorso è stato tampoco dia-bolico da confermare la stessa dimensione politica anche all‟interno della comunità ecclesiastica, ridotto istituzionale della impossibile comunità ecclesiale.188 [Estremamente significativa la vicenda che ha riguardato, in riferimento ai rapporti tra la Chiesa e l‟Impero, la figura eccezionale e unica di Federico II di Staufen, fondatore della “prima monarchia assoluta d‟occidente”,189 che, paragonato come famulus Dei ad Alessandro, si fece discendere dal prototipo di “rex inclytus”, David, il progenitore degli imperatori del Sacro Romano Impero. “Vicarius Christi” per i cristiani orientali che il 17 marzo 1229 lo videro entrare in Gerusalemme come l‟eroe “dell‟antichissima profezia che voleva un signore d‟occidente a liberatore di Gerusalemme”, Federico II Barbarossa ebbe invece l‟appellativo di “pirata” e “discepolo di Maometto” e la comminazione della scomunica per non aver ossequiato i termini di partenza per la crociata da parte di Gregorio IX, che gli
188 Se fosse vero, come sostiene ancora Cacciari, che “la Chiesa è katechon nei confronti della natura umana vulnerata, trattenendola dall‟essere preda dell‟inganno; è katechon nei confronti della sovranità politica, cercando di imporle il riconoscimento che essa è rappresentante anche di fini che quella sovranità trascendono; è, infine, è katechon in se stessa, poiché sa che nel suo stato di peregrina et militans non può non partecipare anche all‟energia dell‟Avversario”, allora tutta la storia travagliata stessa della Chiesa, le sue interne eresie, apostasie, scismi, non avrebbero alcun significato trascendente la dimensione politica e apparirebbero come fenomeni legati a petizioni superstiziosamente dogmatiche e prove di senso escatologico. Solo assumendo infatti che “in linea di principio, in virtù di una legge generale, che per la Chiesa sarebbe divina, la sovranità terrena tanto più sarà effettuale, quanto più apparirà „contenuta‟ in una dimensione spirituale, e saprà mostrarsi ministra dei fini che in essa si esprimono”, si potrà pervenir a quella conclusione. Ma l‟assunzione di quella “linea” è legata solo alla credenza metafisica in quel “principio”, che però per i cristiani è “follia”, e dunque non può essere produttivo della stessa “legge generale” che regola l‟etica politica della civiltà pagana. Solo uscendo dall‟ontologia pagana si può pervenire a un‟etica cristiana, e per far ciò è indispensabile rimettere a Cesare ciò che è del Logos e a Dio ciò che è dello Spirito. Il sine nomine monstrum partorito dalla teologia alessandrina è una Chiesa istituzionale separata dalla dei fedeli, lasciata di fatto in pasto al Potere delle secolari. 189 E. Kantorowicz, Federico II imperatore, tr. it., Milano, 1976. pag. 201. 71
attribuiti “i tratti dell‟anticristo venuto a oltraggiare la fede, a troneggiare come un dio nel tempio del Signore, per gettare nella confusione il mondo e i veri credenti”.190 Indicato come cosmocrate e un “secondo cherubino” per la sua somiglianza con il Figlio Unigenito, che lo rendeva alla stregua dei papi “inferiore a Dio, ma superiore agli uomini”, Federico, prima di Napoleone, si auto-incoronò imperatore posandosi sul capo la corona d‟oro a Gerusalemme il 18 marzo nella chiesa del Santo Sepolcro, compiendo così,
senza volerlo, anzi quasi contro la sua volontà […] un atto simbolico di ampia portata: rinnovava nel luogo più sacro della cristianità la dipendenza diretta della regalità da Dio e si legava trionfante a Dio senza l‟intermediario della chiesa. […] Non tanto sulla base di dottrine o teorie, quanto sulla base del miracolo, chiaro e manifesto a tutto il mondo, della sua ascesa: il che mostrava la diretta predilezione della sua persona di imperatore più che della astratta regalità” .
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Per la prima volta, Federico abbinando secondo le Scritture la figura del Cristo al regno di Davide, l‟imperatore al Salvatore, confermava la pretesa imperiale avanzata a partire da Carlo Magno di definirsi eredi dell‟eletto da Dio, rivendicando da Dio la diretta dipendenza della loro autorità. Con Federico, re di Gerusalemme, la pretesa diventa realtà, sicché l‟autorità spirituale si trasforma in eredità materiale di Davide.192 Con lo Staufen “fu compiuta l‟era dell‟impero cristiano e se ne aperse una nuova [in cui] rifulse ancora una volta l‟unione della autorità e sacralità dei primi imperatori cristiani, con lo splendore della nuova monarchia estendentesi su tutto il mondo occidentale”.193 Infatti, combinando la sovranità feudale germanica con la dignità davidica e
190 Ivi, pag. 182. 191 Ivi, pag. 183. 192 Ivi, pag. 185. Il Kantorowicz ricorda opportunamente che a questa pretesa incarnazione cherubinica del Cristo Re, faceva riscontro speculare la figura di Francesco d‟Assisi, “il quale aveva rinnovato il Cristo serafico, il liberatore e il martire”: Ivi, pag. 186. 193 Ivi, pag. 187.
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quella di princeps Romanorum “lo Staufen aveva elevato l‟autorità cesarea del medioevo cristiano a un‟altezza unica”, in quanto, a differenza degli altri imperatori cristiano-romano-germanici che l‟avevano preceduto, Federico II poteva “affermare di possedere un popolo proprio”, a lui strettamente congiunto e con lui identificato tanto da “seguirlo incondizionatamente, non importa se per paura o per amore”. Ciò che fu creazione federiciana fu insomma il “popolo cristiano” che, dopo la fine del popolo romano, potesse dare corpo al concetto di Imperium, in nome del quale gli imperatori governavano l‟ecumene sottoposta al loro potere. L‟accortezza e la capacità di Federico fu di legare la legittimità imperiale del sacro romano impero al proprio carisma personale attraverso la realtà di un popolo, quello tedesco, che per lui funse da “terreno in cui affondare le radici” del suo potere, soddisfacendo il suo “bisogno di dedizione assoluta e consenziente”, indispensabile a “rinsanguare il suo impero”.194 L‟Impero federiciano era così il prototipo di Stato nazionale, creato al fine di dominare le entità politiche locali prive appunto di quella organizzazione amministrativa e militare in grado di contenerle entro la sua volontà di potenza politica. La differenza rispetto a ogni altra forma di Potere, compreso quello imperiale, risiedeva nell‟idea che lo Stato come entità politico-amministrativa dovesse incarnare anche l‟elemento sacrale del rapporto diretto con la volontà di Dio, che esonerava la mediazione della Chiesa, sacralizzando l‟etica del Potere politico. orbene, questo processo di convergenza verso l‟Imperium del fattore religioso e di quello politico era una novità solo in riferimento alla fede cristiana, ma costituiva l‟essenza stessa della tradizione imperiale romana e del suo statalismo. Federico non fece altro che portare a rinnovata realtà i fondamenti tradizionali del Potere imperiale romano. E tale possibilità, al di là della sua storica effettualità, era insita nel concetto stesso di Imperium ereditato dalla Chiesa romano-alessandrina nei suoi rapporti con lo Stato costantiniano, sicché Federico non fece che riprenderla con maggiore accortezza rispetto al tentativo abortito di Ottone III, spostando il baricentro politico dell‟Impero dalla vetusta tradizione romana alla nuova tradizione germanica, non attraverso una rinnovata teologia politica, come avverrà con Lutero, ma trasferendo
194 Ivi, pagg. 202 e 203.
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sulla nazione tedesca quel supporto radicale di cui si è detto, che non poteva più sussistere per ragioni storiche nelle stirpi italiche. E‟ appena il caso di aggiungere che se questo movimento politico-nazionale interno all‟Imperium fosse stato seguito dalla Chiesa, questa avrebbe evitato probabilmente lo scisma luterano e l‟Europa la tragedia rivoluzionaria che segnò la fine della stessa Cristianità. Rispetto a questa prospettiva federiciana, che conduceva a una stretta organicità politico-religiosa dell‟Impero cristiano, la renitenza ecclesiale funse indubitabilmente da katechon conservatore di una polarità dialettica che si rivelerà non derimibile se non con la rimozione dell‟altro termine oppositivo e l‟astratta universalizzazione del proprio, ossia col fideismo mistico da parte religiosa, e con l‟assolutismo statalistico da parte politica. per l‟intanto, ognuno cercava di egemonizzare la propria prospettiva, rendendo difficile la realtà dell‟altra. Vi è da dire che, in virtù della sua fede oltre che della sua accortezza politico-intellettuale, Federico, nonostante considerasse “lo Stato come fine a se stesso, attribuendogli una virtù divina non inferiore a quella della Chiesa”,195 considerando l‟eresia non tanto un peccato di fede quanto una minaccia all‟unità dello Stato,196 si mostrò pur tuttavia molto più disponibile al dialogo rispetto ai suoi interlocutori ecclesiastici, rivelandosi “d‟una pazienza, d‟una arrendevolezza quasi inconcepibili” verso il Papa, sicché “non fu colpa sua se mancò poco si venisse a nuova guerra” con Gregorio IX.197 La comminazione della scomunica, le trattative di pace, l‟influenza sui poteri secolari cristiani e la salvaguardia dei possedimenti ecclesiastici, erano pratiche pontificie a tutti gli effetti politiche, che stabiliscono sul piano storico una tensione per il Potere che legittimava da parte secolare una resistenza al dominio ecclesiastico tutta giocata sul piano dell‟immanenza. Ma l‟aspetto forse più deleterio di tale connubio politicistico di sacro e profano consiste nella intercambiabilità dei ruoli sovrani da parte delle due principali autorità storiche, sicché allorquando “l‟eroe” politico prende “sicura coscienza della sua origine
195 E. Kantorowicz, Op. cit., pag. 223. 196 Ivi, pag. 247. 197 Ivi, pag. 191.
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divina […] riesce a poco a poco a ottenere la propria deificazione”, ossia perviene attraverso le proprie gesta militari a riscuotere un consenso ammirato da parte dei sudditi che gli devono per diritto divino ossequio e obbedienza. La legittimazione sacrale si consegue così attraverso un tipico movente politico, il Potere. Ma questa stessa legittimazione di carattere morale, e di conseguenza religioso per la stretta attinenza alla dimensione pubblica, non potrebbe ottenersi validamente senza una previa e consolidata tradizione ecclesiastica a misurare la portata spirituale dell‟azione politica in riferimento stretto alla sua efficacia mondana, dandole il crisma della approvazione e benedizione divine, facendole così assumere un significato di valore simbolico che in sé esse non potrebbero avere. Questo significato simbolico, che trascende la stessa fatticità empirica dell‟evento politico, è a sua volta consentito dal carattere ideale rivestito dal Potere quale espressione reale di un principio metafisico di cui è riflesso speculare. E di fatto, “nel contempo, non appena si fa manifesta a sua origine divina, la vita del monarca prende un altro corso: dal piano dell‟azione e del successo personale passa a quello della creazione universale”.198 Senza questa proiezione universalistica del significato simbolico dell‟evento politico non sarebbe stato possibile fargli assumere un carattere anche religioso. E tale significato simbolico era appunto quello teologico.
3. Le posizioni teologiche tra le più significative del tempo medio sono quella, di parte guelfa, espressa dalla teoria del francescano Matteo d‟Acquasparta (1240 ca.-1302), “il più grande discepolo di Bonaventura”,199 e quella, di parte ghibellina, espressa da Dante (12651321). Esse, più di quelle di Tommaso d‟Aquino, risentono infatti della loro diretta portata politica, che le rendono perciò cariche di un forte senso della realtà storica, che mancherebbe loro se fossero meri scritti teoretici. La distinzione evangelica tra il regno di Cesare e quello di Dio, che determina in linea di principio la frattura in ambito ebraico tra mondo
198 Ivi, pag. 201. 199 H. Wolter, Il papato sotto l’influenza degli Angiò, in Storia della Chiesa a c. di H. Jedin, tr. it., Milano, 19932, vol. V/1, pag. 75
politico e sfera morale tipica della cultura ellenistica, si ricompone in senso religioso attraverso la giustificazione teologica del Potere riassunta nella formula per cui omnis potestas a Deo. Questa, per un verso, implicava la remissione a Cesare degli affari politici, per l‟altro si prestava a considerazioni di ordine politico nel campo spirituale, delle quali si faceva interprete istituzionale la Chiesa, quale corpo mistico di Cristo. Se pertanto il razionalismo etico greco veniva superato dal cristianesimo di cultura ellenistica in virtù di una prospettiva personalistica che consegnava al foro interiore la sfera morale, il retaggio romanistico ricevuto dalla Chiesa spostava la relazione tra etica e politica tipica della concezione classica dell‟Imperium sul piano della visione teologica elaborata in funzione del ruolo mondano-religioso della Chiesa, la quale diventa per lo Stato cristiano ciò che era la prospettiva ideale per il razionalismo politico classico, ossia la depositaria e custode storica dei principii morali eterni di origine divina. La teoria agostiniana delle “due città” o “società umane”, in cui si concentrano, nella prima, “coloro che vivono secondo l‟uomo” e nell‟altra “coloro che vivono secondo Dio”, riflette la visione platonica delle due realtà distinte, facendo, entro la “città terrena”, dello Stato il luogo del “supplizio eterno con il diavolo”, cioè la condizione peccaminosa naturale peritura in sé non redimibile e fomite di magna latrocinia, e della Chiesa il “simbolo della città celeste”, ossia il riflesso della città ideale-divina, per cui entrarvi equivaleva a mondarsi della dimensione umano-terrena, diventando “vasi di misericordia” da “vasi di collera” che si era secondo natura. Citando la prima Lettera ai Corinzi, Agostino afferma che per necessità “ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale”.200 Questa divisione antropologica tra i membri della stessa “città” terrena dava alla Chiesa una superiorità morale che inevitabilmente, entro la originaria natura lapsa dell‟umanità, costituiva il luogo privilegiato della redenzione, per cui extra Ecclesiam nulla salus, con uno spostamento ideologico del luogo soteriologico dal foro interiore della coscienza a quello storico della istituzione ecclesiastica, che legittimerà il ruolo inevitabilmente politico della Chiesa.
200 Agostino, De civitate Dei, XV, 1.1-2, tr. it. cit., pagg. 742-743. 76
Da questa premessa ideologica, infatti, discende che il rapporto tra politica e morale interessa lo Stato e i singoli cristiani, laddove la relazione tra etica e politica diventa dialettica istituzionale tra poteri costituiti rispettivamente in Chiesa e Stato, con la conseguenza che si sviluppa nella storia del Cristianesimo occidentale, in rapporto alla politica, un doppio binario referenziale, uno personale e inerente alla salvezza dell‟anima, e l‟altro relativo alla affermazione della superiorità dei valori religiosi nei confronti di quelli del mero Potere politico. La vera novità rispetto sia al messianismo ebraico che alla prospettiva filosofica ellenistica era che entro l‟ecumene imperiale cristiano sia il Regno che la civica maxima della tradizione stoica coincidevano con la Chiesa universale, la quale, realizzando in terra la comunità degli eletti, legittimava dialetticamente la possibilità di realizzare storicamente anche la comunità politica ideale, avente in sé le proprie ragioni di esistenza. E‟ da questa visione monopolistica della sfera religiosa che nasce per opposizione la assolutistica ragion di Stato fondata su puri princìpi di costituzione a autoconservazione del Potere, che diverrà consapevole oggetto della moderna teoria machiavellica della politica. La Chiesa non avrebbe mai potuto costituire una forza di contenimento () della dissoluzione imperiale a seguito delle invasioni barbariche se quel ruolo non fosse già inscritto nella possibilità della sua funzione religiosa nell‟ambito del Sacrum Imperium concepito da Costantino. Non si capisce altrimenti la sua missione di scongiurare l‟anomia barbarica, ponendola su un piano diverso da quello della civiltà romana, entrambe pagane. La Chiesa, infatti, non destinava più a Cesare le sorti della vita mondana, ma, convertendolo, gli consegnava anche le proprie sorti spirituali, facendo della sua politica il braccio secolare della fede. Da un punto di vista strettamente cristiano, la prospettiva teologicopolitica medievale costituisce una degenerazione ideologica della originaria missione escatologica dei testimoni della fede, in quanto concentra nella dimensione politica lo sforzo soteriologico della Chiesa, facendone un “potere” appunto politico, indicato come “spirituale” solo per distinguerlo da quello rivale dello Stato. di conseguenza all‟esercizio della sua “funzione catecontica, il suo simbolo deve essere anche politicamente rappresentabile. E non semplicemente nelle forme o „figure‟ del culto, ma anche nella sua relazione-conflitto con la sovranità terrena, [per cui] il „compromesso‟ con questa è immanente al 77
simbolo stesso”. Con la conseguenza ulteriore e politicamente decisiva che “la Chiesa potrà „giustificare‟ solo quelle forme di potere capaci di esercitare un‟autentica forza catecontica nei confronti dell‟anomia che sempre agisce, che nessuna energia umana potrà da sé super vincere, e che è destinata a disvelarsi nella generale apostasia”,201 intesa come tralignamento dal fine della conversio del Potere alla causa cristiana, definita dalla Chiesa stessa. Questo legame organico del Cristianesimo al Potere politico finisce per essere l‟identità storica stessa della Chiesa istituzionale, la quale pertanto si identifica teologicamente con la sua missione politica. Lo slittamento teoretico dalla tradizione platonica a quella aristotelica avviene teologicamente con san Tommaso, il quale, vinte le resistenze opposte alla ricezione occidentale dalla Chiesa, ancora agostiniana, ne intraprende una lettura assimilatoria che cerca di contenere la cosmologia naturalistica della Stagirita all‟interno della fede cristiana, trovando il punto di mediazione e di equilibrio tra fede e ragione proprio nella concezione del Potere. Anche Tommaso d‟Aquino accoglie l‟ipotesi classica che la condizione politica sia consustanziale alla natura imperfetta dell‟uomo, che nella socialità ne compensa i limiti, ma fa derivare l‟organizzazione politica alla volontà di Dio, anziché a tecniche razionali o all‟esperienza di governo, per cui l‟ordine provvidenziale diventa nella sua prospettiva teologica la fonte metafisica dei regimi statuali storici. La novità rilevante della teoria politica tomista è che se i principi sono dei meri reggenti (reges) del Potere secolare, la fonte della sovranità non è più nella figura carismatica dell‟Imperator, ma nei suoi destinatari, ossia nel popolo, il cui consenso diventa il criterio stesso della sua legittimazione divina (vox populi vox Dei). Questa teoria, se da un lato conferma l‟autonomia spirituale della Chiesa da ogni ingerenza del Potere politico, dall‟altro destina questo a sua volta a una sua intangibile autonomia ideale dal controllo spirituale della Chiesa, delegando il popolo a quello socio-politico. Pertanto, attribuendo alla Chiesa una sua intangibile sfera di competenza la emancipa da ogni controllo secolare, vincola di contro il Potere politico al consenso popolare, rendendo i prìncipi ostaggi dei loro sudditi. Il rapporto di
201 M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pag. 74. 78