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considerazione, che spinge l‟uomo alla pietà verso i destini singolari degli esseri viventi. Invece, la considerazione che di essi ne fa la conoscenza razionale, che universalizzando astrae ciò che è singolare e irripetibile in ognuno di essi, prescindendo dalle loro qualità specifiche, è intrinsecamente priva di considerazione misericordiosa, la quale consiste appunto di valutare il caso nel suo caso singolare, e non nel suo genere, per cui la giustizia in senso razionalistico è il contrario della giustizia divina secondo i Vangeli. In tal senso, prescrivere che “il fondatore di una città o di un regno debba scegliere le varie località secondo l‟esigenza di quelle cose che la perfezione della città o del regno richiede”,228 significa che il compito di chi governa lo Stato sia quello di conformarsi alle leggi di una razionale politica, che sono leggi naturali, cioè astratte e generali per ogni tipo di regno e di cittadinanza, e non spirituali, tese cioè alla salvezza dell‟anima. Questa, sotto forma di beatitudine, è prevista come premio al governo politico, ossia all‟ossequio a princìpi contrari alla predicazione evangelica. Ma se il governo politico della società è imprescindibile alla stessa sussistenza della comunità umana, ogni credo religioso dovrà conformar visi necessariamente, per cui sarà la politica, e ancor più la sua tecnicalità economica, a giustificare la razionalità di ogni credenza umana, ossia la sua plausibilità teorica. E‟ ovvio che la “perfezione della città” consista nella sua capacità di potenza politica, ossia dipende dalla entità economica del Potere che la governa, sicché la religione conforme a quella perfezione politica non può che essere una religione di Stato, che non è esattamente la fede in Dio, la cui potestà non è quella di comandare ai re, ma di giudicare anche loro come uomini di fede o perduti. Se così non fosse, ma fosse invece come teorizza Tommaso, allora la battaglia di Gesù contro la religione farisaica non avrebbe avuto alcun senso, né razionale né escatologico, così come non avrebbe avuto significato escatologico la presa di distanza da ogni posizione zelotica di rivalsa politica contro i Romani. Gesù muore per salvarsi, sacrifica la sua per affermare il Non agisce da “ipocrita”, né adotta la doppia verità di Nicodemo e dello stesso pavido Pietro, che rinnega il Salvatore dell‟anima per salvare il suo corpo. ma non aveva detto Paolo che “finché siamo nel corpo peregriniamo lontani
228 Ivi, Libro I, cap. 13, pag. 57.
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da Dio”?229 Se la perfezione consiste nel conservare il corpo, individuale come quello sociale, perché la fede, e perché con essa si dovevano smuovere le montagne, ossia cambiare il corso naturale delle cose, che è atteggiamento stolto per definizione secondo la sapienza pagana? E se dunque per Tommaso “governare significa condurre convenientemente ciò che si governa al debito fine”,230 allora governare equivale a secondare il corso naturale delle cose stabilito presuntivamente da Dio, ossia conservarne la destinazione mondana. Ma è propria tale conservazione () dello Stato che è il fine di Cesare, e non quello del profeta cristiano e della sua , che non può sussistere “nella città”, ma soltanto oltre i suoi confini politici, segnati dal tempo finito. E pertanto, in virtù di questa consapevolezza, “la Chiesa non può fingere eterna durata”, dal momento che “il luogo, qualunque esso sia, dove l‟Eterno si rappresenta non è eterno – né l‟Eterno si deve confondere con il tempo del resistere, del durare”. Ma la stessa consapevolezza che la Chiesa storica non possa essere il riflesso ideale della eterna Città di Dio deve consentire di sciogliere il legame religioso stabilito con il Potere catecontico, liberandola dalla sua storica contraddizione di costituirsi a sua volta come “una forza catecontica essenzialmente spirituale”, la quale “quanto più prega perché sia donato il tempo necessario alla conversione, tanto più annuncia l‟inessenzialità del tempo per l‟espressione compiuta dell‟atto di fede, che solo salva”.231 La salvezza spirituale in senso cristiano non sposta il fine “fuori di sé”, ossia oltre la destinazione naturale, ma impegna la fede a costruire un fine diverso da quello naturale sociale collettivo, che interessa il singolo uomo, la sua coscienza personale, e pertanto quel fine non può essere identificato con un “criterio”, ossia un concetto razionale, “identico per stabilire il fine di tutta la comunità e di ogni singolo uomo”.232 Poiché tal criterio non può che essere di natura etica, la virtù aristotelica, inerente cioè a un valore orientativo della prassi politica. Esattamente questa supposta corrispondenza ideale la
229 Paolo, 2 Cor, V, 6, cit. in Ivi, Libro I, cap. 14, pag. 59. 230 Ivi, Libro I, cap. 14, pag. 58. 231 M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pag. 77. 232 Tommaso, De Regimine Principum, tr. it. cit., Libro I, cap. 14, pag. 59. 100
morale evangelica rigetta come remedium mali. Infatti, laddove la legge comune costituisce la misura del “viver bene” politico di un popolo, e la sua osservanza la misura del buon governo, la misura della salvezza singolare è anch‟essa individuale, in quanto ogni anima ha una sua storia spirituale, ed è “criterio” dunque a se stessa, per cui ogni criterio di ogni esperienza esistenziale di ogni uomo è in sé fondamento di verità. Il “paradosso” di una verità singolare costituisce per Kierkegaard l‟essenza della fede cristiana. Da qui il movimento, opposto a quello socio-politico, della comunione spirituale, che ritrova la sua ragione accomunante nella stessa fede in Cristo, anziché in un fine eudemonistico, il quale ultimo viene posto a “criterio” della convivenza sociale. La fede non può che essere singolare, e come tale riconosciuta da ogni fedele. E la fede presuppone la realtà del Cristo, che è il principio unificante della . Se dunque il re del consorzio politico subentra alla sua realtà, che gli preesiste, la comunità di fede non potrebbe sussistere senza e prima della fede in Cristo. la cui realtà va dunque presupposta, e come tale è indipendente dalla stessa realtà comunitaria dei fedeli. Se dunque non si da re senza popolo, la verità di Cristo è anteriore alla formazione di ogni comunità di fede, e proprio perciò questa comunità può riunire ogni singolo uomo di ogni tempo. La comunione spirituale, dunque, sorretta dalla fede nell‟Eterno, partecipa della sua natura ed è perciò eterna. E solo la comunione singolare con Dio attraverso Cristo può essere veramente spirituale. Non già la empirica comunità universale, ossia la Chiesa istituzionalizzata. Questa confusione idolatrica tra fides spirituale e speculum rationis è all‟origine della perdita della “esigenza infinita” del Cristianesimo di cui diceva Kierkegaard. Ma l‟aspetto forse più essenziale della condizione spirituale dell‟uomo e della comunità ecclesiale, che occorre ancora ribadire, è l‟imprescindibile fondamento della fede per la sua esistenza, per cui non può esserci realtà ecclesiale senza fede. Mentre può sussistere un cosmo razionale senza la supposizione del suo fondamento ontologico, che la ragione ritiene mitico proprio in quanto originario ed extra-metodico, non può esistere la realtà di Dio senza il fondamento della fede in Lui. E ciò fa del Suo santo Mistero la Verità stessa della fede, che dunque è il fondamento armonico della realtà spirituale, l‟unica che non potendo astrarsi dal suo fondamento di fede, costituisce una realtà totale e in-finita, come invano
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ha cercato di essere l‟uni-verso razionalistico, la falsa ed esclusiva unità astratta del concetto ideale o categoria. La conseguenza di questa premessa è che anche il più santo apostolato non può sostituirsi alla presenza di Dio, al fondamento della fede in Lui. Soltanto a Cristo fu concesso questo unico e santo privilegio di rappresentare Dio in terra, e a nessun altro uomo, essendo simile la natura divina di entrambi. La diatriba di Gesù coi farisei, idolatri tutori della Legge, rimane a riguardo estremamente significativa, e andrebbe tenuta costantemente presente allorquando si ipotizzi che l‟ cristiana non sia che l‟universalizzazione trans-nazionale dell‟antico popolo eletto, per cui la differenza tra la sinagoga e la Chiesa sia in termini di diffusione quantitativa della Legge. La differenza risiede invece nella diversa determinazione, l‟una collettiva ed etniconaturalistica, e l‟altra concretamente esistenziale, dei suoi membri; l‟una confondibile con l‟unità politica della nazione in uno Stato, l‟altra inconfondibile con la società politica, in quanto singolarmente diversa da un astratto ente collettivo rappresentabile come persona giuridica. Se questo è vero, è sbagliata l‟asserzione tomista per cui il “bene” in senso spirituale sia conseguibile soltanto attraverso la pace sociale,233 ma è vero semmai il contrario. E cioè che la pace interiore spesso si consegue attraverso i travagli della vita mondana, la quale non può costruire alcun bene che non sia omogeneo alle sue premesse etiche, che per la collettività sono di natura politica, e perciò soggette a quella esclusività dialettica che costituisce il metodo stesso della ragione indicato come il “criterio” di saggezza della vita mondana, che anche per Tommaso presiede al “progresso” della città.234 Più interessante, invece, è la considerazione circa la differenza tra “governo politico” e “regale”, incluso come un inciso all‟interno della ripresa della distinzione aristotelica dei regimi politici. Infatti, a un certo punto, il redattore, che probabilmente non fu Tommaso ma un suo
233 Ivi, Libro I, cap. 15, pag. 64. 234 Ivi, Libro I, cap. 15, pag. 66.
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discepolo,235 introduce una notazione incidentale molto interessante, nella quale emerge la differenza essenziale tra il governo legale, indicato come “politico” e il governo etico, ispirato al re direttamente dalla Provvidenza. Il principato politico, si dice, è quello per cui un territorio sia governato temporaneamente “da una o da più persone secondo i propri statuti”.236 Esso, sia pure moderando il governo in conseguenza della sua temporaneità e dalla legislazione, è nondimeno più lontano del dominio regale dalla “prudenza divina”, poiché se “il reggitore politico giudica il popolo soltanto in base alle leggi”, il reggitore regale invece, “non essendo impedito dalle leggi, decreta per mezzo della legge che sta nel cuore del principe. Ecco perché il dominio regale imita maggiormente la provvidenza divina”.237 Questa incidentale apologia del regime regale assume ai nostri occhi una grande rilevanza, in quanto afferma la distinzione, a nostro avviso essenziale, tra un regime politico, amministrato da una normativa giuridica vincolante le decisioni del Potere, e un regime di Governo propriamente detto, in cui non è la vigenza di astratte norme legali a decretare la giustezza dei provvedimenti potestativi, ma bensì la decisione etica, conforme a princìpi morali desunti dalla fede escatologica. Orbene, soltanto le decisioni di Governo, prescindendo dalle astratte fattispecie normative, possono assumere un significato conforme al valore etico, mentre le previsioni legali possono assumere soltanto un significato di natura giuridica conforme ai principi del sistema normativo, il quale, contemplando casi astratti e generali, ha una portata erga omnes, e non singolare, come invece la decisione etica, la quale, pertanto, è sempre eccezionale. E dunque, mentre il regime politico, inteso appunto tomisticamente come “governo di molti”, trova la sua unità, ossia coerenza razionale, nella normativa astratta e generale delle leggi, il Governo regale,
235 Pare un certo Tolomeo di Lucca, vescovo di Torcello, di dieci anni più giovane di Tommaso, come indicato dall‟Oratoriano P. Frigerio nella sua Vita di S. Tommaso, in Opera, t. XIX, Venezia, 1754, pag. 514. 236 Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 90. 237 Ivi, Libro II, cap. 8, pagg. 92-93.
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essendo in sé unitario, non deve ricercare la sua unità in altro che dalla sua decisione di governo. E se la preoccupazione del Potere politico è la coerenza razionale rispetto ai princìpi giuridici, e quindi la conformità della decisione potestativa particolare con il modello ideale di giustizia formale, costitutiva della giustizia legale, la preoccupazione del Governo etico è la giustizia del caso concreto, che ha un valore singolare e assoluto per il destinatario; valore che nello stesso tempo trascende l‟eticità del caso concreto per diventare moralmente paradigmatico. L‟attitudine del paradigma morale è di potersi declinare in tanti modi, quanti sono i casi concreti, senza eccezioni di sorta, in quanto, non essendo un modello formale, non è esclusivo dei casi difformi al modello stesso, cioè al modello legale, che è coerente in senso sistemico, ma non è necessariamente giusto in senso morale. Un‟etica legata alla coerenza sistemica, ispira una giustizia puramente legalistica e formale, conforme ad astratti princìpi universali, ma non risolutrice necessariamente di questioni etiche situazionalmente concrete. La giustizia legale è razionalmente universale per la applicazione delle norme vigenti, ma non perciò giusta in senso singolare e concreto. Nel qualificare la Provvidenza divina, il redattore, citando il libro della Sapienza, afferma che essa “ha cura di tutti”.238 In realtà sarebbe più corretto dire che il Governo provvidenziale ha cura di ognuno, nel senso che la sua giustizia non è astratta e generale ma concreta e singolare. Ed è in questa straordinaria possibilità che va riscontrata la presenza della infinita poiesi dell‟eternità, intesa non come sinonimo di “immortalità” rispetto al tempo della finitezza, o di “ciò che resiste alla nostra distruzione”, ossia come katechon, ma come “ciò che è trasferibile e appropriabile da chiunque”.239 Ed è questa infinita appropriabilità della realtà, che per un verso trascende la finitezza e per un altro si trasfonde con l‟esistenza singolare, la caratteristica precipua della “immagine” () di Dio. Proprio per la sua astratta valenza universale, il governo del diritto è potenzialmente politico, cioè avente una gestione impersonale e variabile, di natura puramente applicativa e quindi tendenzialmente
238 Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 93. 239 E. Coccia, Op. cit., pag. 194.
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giudiziaria. Il Potere politico è un governo dei giudici,240 di coloro che, chiunque siano e comunque nominati a governare, applicano le leggi. Il governo delle leggi è lo Stato di diritto, mentre il Potere politico è il moderno regime parlamentare. Il regime politico è più di quello regale adatto a “uomini sapienti e virtuosi, come furono gli antichi Romani”, mentre il regime regale è più adatto a una umanità “corrotta” (lapsa) quale quella generata dopo la “condizione di innocenza”, per cui si rende necessario “frenare la natura umana, disposta in modo da tendere quasi alla sua dissoluzione. Ed è quanto è chiamato a compiere la maestà del re”.241 Da notare anzitutto l‟incongruenza tra la condizione generale del popolo, segnata dalla sua natura lapsa, e la funzione regale diretta a fronteggiarla in senso correttivo. Nello stesso luogo inoltre si ricorda con l‟Ecclesiaste che “i cattivi difficilmente si correggono”, dando a intendere l‟invarianza di una caratteristica umana che assume stigma antropologico, che renderebbe vano anche il buon governo regale. La confusione tra condizione antropologica (natura lapsa) e condizione storica dell‟uomo, espone il governo regale a una duplice funzione, in sé contraddittoria ma soprattutto impossibile da perseguire: quella di governare il popolo in vista della beatitudine, e quella di correggerlo in considerazione della sua disposizione naturale verso la “dissoluzione”, tanto della propria natura che dello Stato stesso. Qui emerge chiaramente come il fine precipuamente politico di garantire il benessere materiale del consorzio sociale è di tipo eudemonistico, tutto concentrato sul potere economico dei cittadini, laddove il fine morale del governo regale, ossia quello di portare i cittadini alla beatitudine, verte sulla possibilità di una giustizia equitativa se non caritatevole. I due fini sono semplicemente incompatibili. E non tanto per il fatto che al ricco sia difficile accedere al regno dei cieli, quanto perché il fine politico di garantire il benessere sociale è un fine collettivo, di tipo astratto e generale, stabilibile con una buona e coerente normativa, la quale, paradossalmente, se veramente efficace e tale da trasformare i cattivi sudditi in buoni cittadini ligi alle leggi, potrebbe cambiare il regime regale in regime politico. Di contro, considerata la condizione
240 T. d‟Aquino, Op. cit., Libro II, cap. 8, pag. 94. 241 Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 94.
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generale dell‟umanità in seguito al peccato originale, la salvezza non può che essere singolare, e non generale e tale da contraddire l‟elettività della beatitudine, e quindi una salvezza eccezionale, non preventivabile normativamente per tutti. Se per il fine eudemonistico occorrono buone leggi, per il fine morale occorrono sagge e ispirate decisioni. Ossia si prescrive nei rispettivi casi un regime di governo qualitativamente diverso, quale quello “politico”, preposto alla giustizia legale, e cioè alla conformità pratica di modelli comportamentali idealmente universali in senso razionale, e quello che qui si indica come “regale” ma che in realtà è il Governo etico, ispirato alla morale cristiana. Se il fine politico è quello di garantire il benessere collettivo, il governo conforme a questo fine non può che essere etico in senso appunto politico. L‟etica politica sta a indicare il senso razionale della condotta pratica, tale da ossequiare un principio di legalità universale. In tal senso, qualunque condotta politica che osservi il fine della potenza dello Stato diventa etica, e quindi etico-politica. Questa condotta etica conforme al principio razionale, essendo una condotta ideale è essenzialmente impersonale, cioè astratta dal caso concreto e codificabile in un comando legale. In tal caso, l‟etico e il legale coincidono. Diverso il caso di un‟etica conforme, non al principio razionale universale e astratto, ma al caso concreto, in cui la decisione potestativa tiene conto delle sue possibili conseguenze esistenziali, ponendo in essere una decisione moralmente responsabile, e non meramente legale. In questo caso, il brocardo Dura lex sed lex è privo di ogni valore giustificativo, poiché la decisione è rivolta non alla conformità di legge () ma alla giustizia (). Da quanto detto, il governo politico o legale stabilisce un regime razionale, diretto a fini economici di benessere sociale, laddove il governo etico in senso morale stabilisce un regime agapatico, diretto a fini di giustizia. L‟atto di giustizia, la decisione giusta, per il suo carattere simbolico, è suscettivo di sviluppo mitopoietico, ossia ha un implicita funzione immaginativa ultra rappresentativa, allusiva a una condizione che pur aderendo all‟evento concreto, lo trascende per diventare exeplum. Ciò che tradizionalmente viene indicato nell‟esempio come fonte di insegnamento morale (exeplum ad imitandum) contiene un intrinseco carattere immaginativo cui si fa appello () per la sua indeterminata rievocazione occasionale, che ne consente l‟imitazione. 106
L‟exeplum bonitatis è esattamente l‟azione morale ri-evocabile come evento memorabile. Il rapporto tra la memoria dell‟evento e il suo significato simbolico costituisce l‟essenza temporale del , il cui momento viene determinato dal significato del suo contenuto, e non dalla sua durata cronologica, come invece l‟. 242 La rievocabilità dell‟evento esemplare, attraverso la memoria attualizzante del suo contenuto significativo, fa di esso, nel senso etico chiarito, un caso simbolico di giustizia (). Ma in che modo l‟atto sovrano di giustizia si collega all‟ispirazione divina? Cioè, in che modo Dio può essere imitato dal principe giusto? L‟azione politica è, per sua destinazione funzionale, interna allo spazio del Potere, segnato dai limiti della sovranità. Il Potere, anche quando assoluto, è sempre condizionato dallo spazio di potenza, limitato dai confini dello Stato. L‟atto giuridico è, di conseguenza, sempre confinato alla sua destinazione di Potere, alla sua giurisdizione. Un Potere più ampio, anche imperiale, è comunque un potere definito dai limiti della sua giurisdizione. Avere “più potere” significa avere “più spazio di potenza”. Il Potere politico è intrinsecamente spazializzato. Il razionalismo etico ha cercato, non già di rimuovere lo spazio di vigenza dell‟azione politica, ma di conformarla a un modello d‟azione ideale dislocato nell‟altrove, in un extra locum suum assumendolo come un ydolum, una immagine che potesse rispecchiarsi nella realtà locale. Tale rispecchiamento ideale comportava l‟idolatria del locum suum della politica, cioè dello Stato. Solo trasformando il luogo del Potere in un luogo sacro, le sue azioni assumevano valore sacrale. Se il transfert teoretico del filosofo muoveva dal luogo profano del Potere per giungere al luogo sacro delle Idee, l‟universalizzazione della coscienza teoretica comportava il processo inverso del transfert politico. La Repubblica di Platone non intende fare di ogni cittadino un filosofo ma di idealizzare lo Stato, cioè il luogo del Potere e della vita sociale, mantenendo la differenza tra l‟uomo pubblico ( e i cittadini privati (). Far assumere al Potere un carattere sacrale equivale filosoficamente a razionalizzarlo, cioè a renderlo idealmente coerente. E
242 O. Cullmann, Christus und die Zeit, tr. it. cit., pag. 61.
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la coerenza razionale non è altro che l‟imitazione del modello metafisico e dunque anche meta-locale. Diversa è la posizione cristiana. La salvezza in Cristo è singolare, e presuppone una singolare conversione spirituale () che abbia in comune solo il modello storico dell‟esistenza di Gesù. Ma il modello esistenziale da imitare per la conversione spirituale non è un‟ipostasi ideale, cioè non è una fattispecie ortoprassica a cui conformare la nostra condotta, sicché ognuno possa somigliare a Gesù, divinizzandosi. Non basta cristianamente ossequiare la Legge, cioè la forma, per salvare l‟anima. La salvezza legale è impersonale, riguardando l‟azione, la attualità dei comportamenti umani, mentre la salvezza cristiana presuppone la conversione dell‟anima, l‟intenzione benevola che si traduce in azione. Un‟intenzione che, restando interna all‟agente, non è rilevante per la conformità legale, che richiede la sola azione conforme alla norma. La differenza è radicale tra le due prospettive, come lo è la differenza tra ognuno e tutti. La conformità razionale è l‟unità del branco civilizzato che occupa uno spazio politico sistematizzato, che non lascia cioè alcuno spazio vuoto di ragione. La ragione politica è un Potere del tutto pervasivo, che non lascia alcuna ombra indifferente alla sua sovranità. E‟ un Potere totalizzante, e a totalità del controllo politico razionalizzato comporta la completa prevedibilità delle azioni dei membri del gruppo sociale politicizzato. La politica razionalizzata, divenuta tecnica di controllo della prassi sociale, presiede uno spazio di potere totalitario. La filosofia, universalizzandosi, diventa ragione del Potere, che custodisce il valore etico-politico dello Stato. Se alla filosofia pagana sostituiamo la professione di fede cristiana, cattolica ma comunque interna allo spazio politico dell‟Imperium, noi abbiamo la religione politica del cristianità romana, cioè una mito-logia costruita su un ossimoro, una fides loci imperialis ma non abbiamo ciò che Gesù intendeva per fede come salvezza dell‟anima, ossia come estraneazione dai valori sociopolitici sostituiti dal valore trascendente della fede nel Mistero, che Lui stesso davanti a Pilato chiama “Verità”. Se l‟immagine della Legge è il diritto, il canone universale valevole erga omnes entro lo spazio politico del Potere, cioè lo Stato, invece l‟imago Dei non è spazializzabile, ma è extra locum politicum, in quanto è in interiore homine. Se dunque il processo filosofico radicalizza dialetticamente le opposizioni al Sé per omologargli il simile 108
sussumendolo nella sua unità sistemica, trasferita nello spazio politico del Potere, il processo spirituale, all‟inverso, operato dalla fede cristiana rimuove gli spazi sociali, cioè le discriminazioni politiche e le qualifiche naturali tra gli uomini, per rifondare la loro convivenza su un piano meta-politico ed ecclesiale in cui ognuno giunge all‟altro senza passare attraverso la mediazione istituzionale e normativa, ma sulla base del solo rapporto singolare con Cristo, che è convergente con ogni singolarità di fede. La comunità ecclesiale trascende le differenze sociali, non perché le neghi polemicamente, ma in quanto non sono rilevanti ai fini della comunione cristiana, non afferendo alla dimensione mistica della partecipazione fedele. La fede cristiana individua il luogo della comunità non più nello Stato ma nella Chiesa, stabilendo la ragione della socialità non più nella potenza economica del gruppo politico, ma bensì nella carità fraterna la cui unità è la paternità divina. Nel contesto ecclesiale la facoltà mimetica del fedele abbandona il Sé narcisistico, che è al fondo del rapporto polemico con l‟altro, a favore di una condizione pre-politica e pre-razionale nella quale il ruolo fraterno e filiale è del tutto interscambiabile nell‟Altro trascendente che per ognuno è lo stesso, e in questo reciproco riconoscimento Egli è Uno. Se, pertanto, la Legge vige anche senza il suo riconoscimento da parte dei cittadini, proprio perché il suo comando è impersonale, giammai Dio potrebbe esistere senza la fede di chi lo venera. Il Potere politico () ha come contraltare la passione () nella dimensione della fede. Alla natura cratetica della politica il cristianesimo propone la natura patetica della carità. Lo spazio della fede non è lo Stato, e non è neppure la Chiesa, ma è l‟esistenza spirituale di Gesù, la sua storia, imitando la quale è possibile all‟uomo costruire la sua propria vicenda storica, che è spirituale e singolare, e non politica. La storia politica è processo collettivo, e consiste nel processo genetico di una società e di uno Stato, che nascono vivono e muoiono nel tempo finito del loro sviluppo naturale di organismi economici. I corpi sociali, in quanto formazioni naturali, sono sempre esistiti, ma una storia si dà solamente per i fenomeni spirituali, che sono singolari e concreti, cioè esistenziali, e mai collettivi e impersonali, cioè astratti. Ciò che chiamiamo “cultura” di un popolo e di un gruppo umano, è l‟interazione dei modelli ideali, solitamente religiosi, di socialità con le forme politico-istituzionali con cui economicamente si realizzano. E chiamiamo “storia” di una cultura le 109