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Premessa

dimensione che non può non riguardare la conservazione delle strutture e della forma se non marginalmente. Appare di tutta evidenza che il costruito esistente debba essere classificato in base alle valenze culturali la cui trasformazione deve essere esercitata in modo coerente e rispettoso con la natura materica e costruttiva stessa delle fabbriche storiche e dei luoghi rappresentativi dell’identità collettiva, come ben precisato nella Convenzione di Faro (Consiglio d’Europa. 2005) sull’eredità culturale per la società; e quindi accomunare le modalità di trattamento a tutti i soggetti ritenuti meritevoli di tutela, quindi non solo per gli edifici di interesse storico-architettonico e documentale inseriti negli elenchi dei beni vincolati ex D.lgs. 42/2004 (“Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”). Saranno semmai gli istruttori, così come già avviene nelle attuali procedure amministrative, a richiedere alle Soprintendenze una verifica sovraordinata per i tipi monumentali senza generare condizioni di trattamento differenziate. La città di Firenze da questo punto di vista non ha mai posto sotto stretta tutela attiva il proprio Centro Storico, seppur risultato classificato per i suoi caratteri di interesse monumentale e storico-documentale; fanno eccezione i recenti studi sul sito perimetrato dal 1982 come Patrimonio Mondiale dell’Umanità e per questo incluso nella lista dei siti UNESCO.

Studi che hanno posto l’attenzione su tutto il ‘paesaggio urbano’ del centro storico, costituito dalle superfici materiche e cromatiche dell’edilizia esistente, monumentale e non, dei lastrici e la tutela istituzionale che riguarda gli edifici, pubblici e privati, le piazze ecc. in regime di vincolo. 2.Una seconda considerazione riguarda ancor più esplicitamente il caso Firenze. Si prende atto delle difficoltà odierne determinatesi a livello burocratico nel dar corso alle procedure riguardanti gli interventi nel centro storico, sul quale gravano nell’ambito della stessa definizione urbanistica di restauro, le conseguenze indotte dalla sentenza 6873 del 2017 della Corte di Cassazione. Quest’ultima, pur formulata per un caso specifico, il palazzo Tornabuoni trasformato in residence di lusso, ha introdotto un principio difficilmente aggirabile. Infatti, a seguito di quel pronunciamento, si è prima determinato in attesa di chiarimenti giuridici un blocco dei cantieri e, successivamente, una non risolta complessità procedurale, in specie nella gestione degli interventi privati laddove il cambio di destinazione veniva a prefigurare l’intervento come ristrutturazione non più motivato da esigenze di conservazione. Scavalcando in questo assunto le valutazioni derivanti dalle ragioni proprie del restauro che si sono bypassate in quanto che il restauro (disciplina) contempla pure nel suo essere anche aspetti progettuali di trasformazione purché compatibili con la qualità intrinseca dell’immobile (adeguamenti impiantistici, abbattimento delle barriere architettoniche, efficientamento strutturale, prevenzione ai fini sismici ecc.). In realtà questa sentenza, solo in apparenza di garanzia per il mantenimento dello status quo, ha prodotto effetti diametralmente opposti sia nel merito stretto del pronunciamento sia nella sua pratica attuazione, aprendo la strada alla “declassificazione” delle categorie d’intervento ai fini del rilascio autorizzativo richiesto, ovvero spostando il baricentro della questione, allargando l’ambito interpretativo della ristrutturazione, con svilimento della pratica del restauro, intesa dal legislatore in un’ottica di mero conservatorismo assai distante dalle

metodologie proprie della disciplina. La ristrutturazione, ancorché limitata nella sua applicazione non potrà mai contemplare le attenzioni e gli approfondimenti che si richiedono per il restauro, altrimenti cadrebbero le distinzioni tra queste categorie d’intervento e le opzioni sui modi del fare o l’una o l’altra sarebbero del tutto equiparabili. In realtà il restauro, a fronte di un’attenta e motivata anamnesi storico funzionale, di un rilievo architettonico particolareggiato, contiene già alla bisogna opzioni di messa in pristino e di riuso legate anche al possibile mutamento di destinazioni d’uso. Il restauro, infatti, vive nel progetto diagnostico ed architettonico e si sostanzia nel corretto approccio a salvaguardia dei valori culturali (non feticistici) espressi dalle emergenze architettoniche sulle quali si va ad intervenire a tutela delle valenze storico-documentali, nonché nel rispetto del tessuto edilizio esistente (prevalentemente seriale o di cortina) e degli aggregati che lo compongono per le loro valenze paesaggistiche, materiche e cromatiche. Oggi, procedendo in termini dettati dalla ristrutturazione, pur ricompresa in una versione light che ne limita l’accezione e la portata, si viene ad assumere senza alcuna contropartita il rischio dell’arbitrio, della gratuità del cambiamento, venendo meno tutte le necessarie salvaguardie e l’integrità stessa del costruito storico, non più ‘esaminato’ per l’autenticità dei caratteri. Si deve ulteriormente osservare che la disposizione imposta dalla Cassazione non è sostanzialmente migliorata ai fini della tutela neppure con la sentenza del Tar Toscana che limita la possibilità del provvedimento alle sole opere che non comportano modifiche interne che anzi! evidenzia ancor più la profonda discrasia esistente tra conservazione e rinnovamento, non considerando affatto che il riordino distributivo, qualora motivato, fa anch’esso parte dell’abaco degli interventi composti per il restauro delle unità immobiliari, specialmente quando queste ultime sono state oggetto nel passato di incongrue trasformazioni, frazionamenti o accorpamenti, frutto di sopraelevazioni, saturazioni ecc. Alla luce di questa considerazione non è dunque sulla categoria restauro in sé che dobbiamo intervenire, quanto piuttosto nel considerare le valenze intrinseche delle architetture nei centri storici da salvaguardare nei valori essenziali, architettonici e paesaggistici e non già negli stereotipi tipologici e distributivi. Per tali ragioni non possiamo prescindere, per la disciplina del restauro dal considerare quanto il dibattito culturale e scientifico abbia prodotto negli anni, rifacendosi quanto meno alla Carta del Restauro del 1972 e, in particolare, all’allegato C riguardante la tutela dei centri storici. Partendo dal concetto già espresso nel 1963 da Cesare Brandi che, in chiave di conservazione, si restaura solo la materia e non la forma, resta difficile immaginare che il restauro, in quanto sottocategoria della conservazione, unitamente alla prevenzione e alla manutenzione (ex Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, cit.), equivalga tout court alla ristrutturazione (così com’è declinata nell’eccezione normativa che s’intende introdurre). All’opposto riteniamo che il ripristino architettonico – che pure fa eccezionalmente parte del restauro (nella sua traduzione urbanistica) – non possa prescindere dall’esigenza del riordino funzionale e distributivo degli immobili da sanare, laddove alterazioni non congrue, arbitrarie e difettose possono aver prodotto fenomeni di impropria modificazione. Il restauro, anche alla scala

urbana, prende dunque forma e sostanza dalla conoscenza, dalla storia, dal rilievo strutturale e materico dell’organismo architettonico e dalla morfologia delle aggregazioni edilizie che non sono predeterminate e congelate nel loro status attuale, come qualcuno ha la volontà di far credere. Si tratta di fattori, che, definiremo piuttosto come naturali variabili dell’evoluzione costruttiva e della modernizzazione dell’edificato che non possono essere compressi e contraddistinti da demarcazioni lineari che si riflettono solo sull’astrattezza schematica della tipologia per avere i requisiti dell’ammissibilità. D’altronde una chiara dimostrazione di tale evidenza è rappresentata oggi dal restauro post sismico e dalla stessa necessità di mettere in sicurezza preventivamente le strutture murarie tradizionali, laddove la querelle tra miglioramento e adeguamento a contrasto del rischio sismico ne offre una palese dimostrazione. È dunque non solo ammissibile, ma anche necessario, intervenire a migliorare la staticità e la natura costruttiva degli edifici laddove se ne ravvisassero fattori di degrado, patologie e difetti costruttivi palesi, non a discapito del rafforzamento degli apparati murari tradizionali. Non altrettanto può dirsi nell’ambito del cambio di destinazione che evidentemente attiene ad altro tipo di utilità funzionali, o di motivazioni strategiche, come pare suggerire il gruppo di lavoro fiorentino a giustificazione dei cosiddetti processi di ‘rigenerazione urbana’. Piuttosto che generalizzare la definizione del limite di intervento da applicare al patrimonio esistente, sarebbe preferibile precisare, se l’obiettivo è la ‘rigenerazione’ (sul concetto di tale locuzione osserveremo più avanti), predeterminare le situazioni eccezionali per le quali si ravvisano, definendone i piani attuativi, procedure speciali di intervento, dichiarandoli preventivamente in un processo di confronto democratico e di partecipazione dei soggetti sociali coinvolti. 3.Come terza considerazione riteniamo che non possa essere dunque la giurisprudenza, attraverso una sentenza passata in giudicato per un caso specifico, come pure si evidenzia nella sentenza postuma del Tribunale Amministrativo Toscano, a sancire la regola generale attraverso la quale gestire il futuro dei centri storici. La mera estensione del caso particolare al piano generale è da giudicarsi come scelta impropria, se non addirittura azzardata, in quanto introduce fattori di imprevedibilità che altresì dovrebbero essere attentamente valutati. Pericolose estensioni del diritto di tutela dei beni architettonici e del paesaggio sono spesso contraddittorie perché si troverebbero ad essere causa/effetto di interventi ora ammissibili per la prassi urbanistica ora inammissibili per la prassi istituzionale della tutela. La proposizione del nuovo disposto normativo (nella Variante al RU) che determina a priori quali debbano essere le tipologie d’intervento autorizzabili e quali non, senza valutare nel merito le condizioni ex ante dell’oggetto sul quale si interviene può facilmente assumere caratteri di non idoneità e/o di astrattezza, al difuori del significato stesso delle parole e degli intendimenti. Infatti, il processo di trasformazione potrebbe avvenire senza avere prima definito e verificato quali siano i reali valori di autenticità ed integrità dei beni da conservare, preservare e manutenere rispetto a quelli da rinnovare, riadattare, riformare anche perché non sarebbe più necessario farlo nell’ambito della ristrutturazione.

4.Infatti, già il citato art. 29 del D.Lgs. 42/2004, ha stabilito per i beni soggetti da tutelare che la conservazione non può essere disgiunta dalla valorizzazione, rendendo implicito il concetto che anche il cambiamento della destinazione d’uso, con o senza opere distributive interne, una volta verificata la compatibilità con i caratteri propri dell’edificio, ovvero dei valori intrinsechi di quello, rientra nelle condizioni operative contemplate nel restauro. Per non equivocare, la valorizzazione va qui intesa come operazione di precipua valenza culturale e non già, come oggi più frequentemente s’intende, di mera rendita, o di compenso finanziario rispetto all’investimento fatto (o da fare), valutato in un’ottica di monocultura turistico-alberghiera o tout court dettata dalla domanda turistica, di certo più interessata al riuso di ambiti di valore che al recupero di aree dismesse o degradate.

Postilla: alcuni richiami normativi

Per tornare al dibattito odierno è senz’altro utile rifarsi alla sentenza 6873 della Corte di Cassazione penale (14 febbraio 2017), rileggendo il testo emendato del testo unico del decreto del 6 giugno 2001, n. 380) di cui all’ art. 65 bis, così com’è stato varato dal Senato della Repubblica. Ad esempio, l’articolo 65-bis (Interventi di restauro e di risanamento conservativo): inserito dalla Camera – modifica il Testo unico in materia edilizia, in materia di definizione degli interventi edilizi di restauro e di risanamento conservativo, al fine di prevedere che tali interventi consentono, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché con tali elementi compatibili nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. La disposizione modifica il comma 1, lettera c), dell’articolo 3 del D.P.R. 380/01, recante il Testo Unico in materia edilizia, che disciplina la definizione degli interventi edilizi relativi agli interventi di restauro e di risanamento conservativo. Con questo dettato normativo si prevede che tali interventi - rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico di opere – ne consentono, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, anche il mutamento delle destinazioni d’uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. La disciplina vigente prevede che gli interventi di restauro e di risanamento conservativo consentono, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, destinazioni d’uso con essi compatibili. In particolare, si ricorda che la lettera c), oggetto del testo normativo, definisce come “interventi di restauro e di risanamento conservativo”, gli interventi edilizi rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio.

Si segnala che con la recente sentenza n. 6873/2017, la Cassazione penale, nel cassare la sentenza di merito e rinviare alla Corte d’Appello, si è pronunciata sulla materia in questione, enunciando tra l’altro come il cambio di destinazione d’uso di immobili, a prescindere dei lavori, e dunque anche per interventi modesti, configura in ogni caso una ristrutturazione edilizia ‘pesante’, che richiede il relativo titolo edilizio, quale permesso di costruire. Più nel dettaglio, la Corte di Cassazione (punto 6.6.2. della sent. cit.) ha rilevato che la categoria Ristrutturazione edilizia, a fronte del più ristretto ambito di quelle del Risanamento conservativo e del Restauro, come configurate dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e dal Decreto Legislativo n. 42 del 2004, comporta la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell’intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l’aumento delle unità immobiliari nonché l’alterazione dell’originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici, ricordando che «quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l’ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura in ogni caso un’ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall’articolo 3, comma 1, lettera d) del cit. T.U., in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di “un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente», per cui l’intervento rimane assoggettato al previo rilascio del permesso a costruire (con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione) (punto 6.6.3). Inoltre, dopo aver evidenziato come non abbia rilievo l’entità’ delle opere eseguite, considerando che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi: • di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d’uso (articolo 3, comma 1, lettera b, del cit. T.U.); • di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli ‘elementi tipologici’ dell’edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c, T.U. Edilizia), ha affermato che gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi ‘di nuova costruzione’, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e, cit. T.U. (punto 6.6.4., sent. cit.); per cui, ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative e penali richiamate dalla stessa Corte. La Corte ha poi affermato (punto 6.7., sent. cit.) che la imprescindibile necessità di mantenere l’originaria destinazione d’uso caratterizza ancor oggi gli “interventi di manutenzione straordinaria” , non avendo alcun rilievo l’eventuale frazionamento degli interventi - anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico- e affermato che ciò vale anche per gli interventi di “restauro e risanamento conservativo” (punto 6.8., sent. cit). Infine, in ordine al concetto di restauro, la Corte ha ricordato (si veda, più ampiamente, il punto 6.9

della sent. cit.) la funzione essenzialmente conservativa e ripristinatoria rispetto al bene da restaurare (richiamando, sul punto, Sez. 3, n. 1978 del 18/06/2014, secondo cui nella categoria degli “interventi di restauro o di risanamento conservativo”, per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di ‘recupero abitativo’, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l’inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell’edificio). La pronuncia afferma quindi che, in ogni caso, gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti - in zona omogenea A, nel caso di specie all’esame della Corte - dei quali venga mutata la destinazione d’uso anche all’interno della medesima categoria funzionale. A ribadire questo concetto era intervenuto anche il Consiglio di Stato con la sentenza 2395 del 6 giugno 2016 che pare interpretare il restauro come intervento

che basa la sua stessa ragion d’essere nel riportare l’edificio al suo stato primitivo (originale?), giudicando ogni qualsivoglia modifica all’impianto esistente (non solo sotto il profilo distributivo, ma anche impiantistico e funzionale come “ristrutturazione”), di certo non aiutando a fare emergere le vere ragioni della salvaguardia dei valori culturali intrinsechi o legati alla trasmissione dei valori immateriali che appartengono alla comunità insediata.

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