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Il percorso formativo

vista etico e deontologico, al medico di base che ha pronunciato il giuramento di Ippocrate prima di iniziare l’esercizio della professione, quale che sia la sua futura specifica qualifica. Da questo punto di vista la consapevolezza del ruolo che l’architetto è, o dovrebbe essere, in grado di svolgere per la salvaguardia del patrimonio culturale resta un requisito essenziale dello stesso progettista che pure si muove sul piano dell’invenzione e della creatività, facendo di queste doti le ragioni primarie della propria attività futura. Nella formazione dell’architetto lo sviluppo tecnologico, una volta rispettate le convenzioni, si rivolge – come abbiamo osservato in precedenza – più al progetto compositivo che al restauro in quanto tale, anche perché la scienza della conservazione è parzialmente ‘passata di mano’ ad altri soggetti tecnici e professionali. Ma se il progettista è già tale quando è ancora alle prese con gli studi iniziatici, posto di fronte al foglio bianco sul quale abbozzare l’idea, così come il pentagramma vuoto lo è per il compositore, la carta da spolvero o la tela per il pittore, o il quaderno ancor intonso per lo scrittore, deve essere concesso al neofita del restauro di potersi confrontare con l’oggetto del suo operare quale esso sia. L’importanza della formazione è dunque per tutti questi soggetti vitale nella delicata fase di apprendimento, ed anche per questo la didattica dovrà corrispondere in modo adeguato a questa imprescindibile esigenza.

Il percorso formativo

Il percorso della conoscenza che attiene al progetto di conservazione e restauro segna sempre una precipua complessità che presuppone la capacità di assolvere alle problematiche tecniche in un ambito di ricerca da sviluppare coerentemente nei confronti dell’oggetto o del campo dell’intervento sia che si operi nella manutenzione preventiva come nella riabilitazione funzionale. Inoltre, per soddisfare il binomio conservazione/valorizzazione s’impone per il progettista una doppia verifica di congruità e di fattibilità da presentare alla committenza. Questa narrazione mette alla dura prova la capacità dell’architetto di costruire in parallelo all’intervento una comunicazione in grado di mettere in evidenza il plusvalore derivante dalla sua azione di restauro. In questo percorso il restauratore oltre ai benefici propri dell’intervento può eventualmente esaltare anche le “verità nascoste” che sono emerse durante lo studio del manufatto, o direttamente nel cantiere, come coagulo culturale di nuove conoscenze. Tuttavia, occorre in primo luogo che questi fornisca specifiche giustificazioni (o motivazioni) circa la compatibilità e l’efficacia delle scelte adottate in relazione alla valorizzazione e fruibilità futura del bene restaurato nella sua valenza culturale. «La coscienza che le opere d’arte debbano essere tutelate in modo organico e paritetico» (Brandi C. 1963, ried. 1977, p. 7) rappresenta da tempo il fondamento dell’operare nel restauro che «costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro» (ibidem, p. 133).

Il restauro dovrà in ogni caso garantire, non tradendo la materia, la trasmissione nel tempo di quei valori intrinsechi già posti alla base dell’azione di riconoscimento della risorsa culturale, vuoi artistica che architettonica, anche come documento di cultura materiale e di scienza. Non c’è dubbio, infatti, che il cantiere costituisca un’occasione, spesso unica e per questo irripetibile, di conoscenza ed arricchimento. Naturalmente ancor più ampia potrà essere la portata dei risultati acquisiti operando intorno alle opere d’arte, richiedendo da parte del restauratore un grande bagaglio di saperi ed adeguati strumenti critici di analisi, di discernimento in corso d’opera e di valutazione. Si può infine affermare che da questi assunti discendono le ragioni stesse del ‘buon restauro’, qui da intendersi ancora una volta non solo come risultato delle ‘buone pratiche’ bensì come strumento di conoscenza. Non basta dunque la buona osservanza dei protocolli per garantire all’intervento di restauro il buon esito, per quanto si tratti di principi e criteri che pure devono essere soddisfatti in ogni progetto, quali compatibilità, reversibilità, riconoscibilità, leggibilità, durabilità, manutenibilità ecc. Questi concetti, se non ben declinati nell’ambito del percorso di conoscenza sul manufatto oggetto dell’intervento, restano opzioni e qualità inespresse, vuoti e impersonali accenti nell’ambito della conservazione. Ancor più spinose sono le tematiche relative al ruolo del restauro nella società contemporanea, una società che ha perduto il traino della memoria, laddove la stessa istanza storica è stata da tempo messa in discussione, laddove l’autenticità del bene gioca un ruolo sempre meno centrale nella conservazione a vantaggio dell’immagine e della ricomposizione estetica e funzionale.

Il concetto di ‘restauro’ è uno dei più complessi che, su un piano culturale ed operativo, sia possibile incontrare oggi. Sia per la rapidità con cui istituzionalmente e scientificamente si è evoluto, sia per le implicazioni di ordine sociale ed economico che comporta. Bisogna subito riflettere, infatti, sul fatto che se il “«restauro dei monumenti” può essere ricondotto ad un unico solco metodologico, quello dei beni culturali deriva la sua specificità proprio dall’aspetto economico, strumentale, funzionale, urbano che ha l’oggetto da restaurare (Gurrieri F. 1978, p.3).

Di certo, dietro a queste specifiche qualità, si richiedono per l’architetto restauratore molteplici esperienze derivanti da percorsi formativi molto accurati e lunghi, una volta prerogativa delle botteghe dell’arte, laddove l’allievo incontrava il maestro imparando sullo stesso cantiere, cosa che la scuola non è in grado di sostenere. Allora resta di fondamentale importanza l’insegnamento delle metodologie dell’operare a fronte di una accertata propensione da parte dell’allievo a conoscere, a dialogare con il contesto, a studiare con umiltà e pazienza sui documenti del passato. Da questo punto di vista esiste oggi, pure nell’era della libera circolazione dei dati in rete, anche un problema di rintracciabilità e sapiente utilizzo delle fonti documentarie, sia quelle cartacee, storico archivistiche sia quelle digitali, dalle quali attingere i dati e le giuste coordinate spazio-temporali per condurre al meglio l’introspezione sul testo architettonico. L’altro valore messo frequentemente in discussione è dato dalla valutazione dell’integrità del bene da conservare, una qualità questa che non è più relazionata con l’unitarietà stilistica del documento

storico, che la moderna critica architettonica ha spicciolato in molteplici accezioni da rispettare per quanto non tutte ugualmente significanti.

… Si restaura perché si è primariamente riconosciuto ad una serie di oggetti (e non a tutte le preesistenze, per il solo fatto di essere tali) un «valore» particolare, artistico o documentario, estetico o storico, perché questi oggetti, in sostanza, sono considerati dalla cultura attuale, quale si è storicamente configurata anch’essa, come opere d’arte o come testimonianza di storia, o anche, come le due cose assieme. In ogni caso come «oggetti di scienza» e, in altre parole, come «oggetti di cultura», beni culturali, appunto, secondo la dizione ormai più diffusa e consolidata. Ma tale riconoscimento non può essere effettuato se non con gli strumenti della storiografia generale e di quella storico-artistica: da qui il legame primario del restauro e della conservazione con le discipline storiche ed il fondamento storico-critico del restauro stesso (Carbonara G. 1988, p. 30).

Si deve sottolineare che anche il rilievo, pur nelle più avanzate e moderne applicazioni tecnologiche, non consente di evidenziare, senza una chiave di lettura critica, i valori architettonici nella loro stratigrafia muraria e di rivestimento, per la qual cosa occorre condurre una corretta distinzione tra autentico e falso, tra posteriorità o contemporaneità stratigrafica, privilegiando semmai la riproposizione dell’immagine integrale, senza lacune e sovrapposizioni indesiderate. Senza entrare nel merito dell’annosa questione dei ‘falsi storici’ che hanno caratterizzato l’evoluzione stessa del concetto di restauro, dall’arbitrio della ricostruzione tipologica all’analisi filologica, dal rifacimento al conservatorismo, argomenti lungamente trattati che parevano definitivamente risolti, morti e sepolti dalla critica d’arte, stiamo in realtà ricadendo nella vexata quaestio proprio a causa della perdita della memoria e al venir meno della volontà di ponderare fino in fondo le coordinate della lettura storiografica. Così facendo si rischia nuovamente di fare rientrare dalla finestra, con la semplificazione dei processi di indagine, la cancellazione delle tracce del passaggio del tempo, delle cosiddette ‘rughe dell’invecchiamento’, dai monumenti, dalle opere d’arte, a vantaggio di un’ipotetica unitarietà estetica d’immagine o peggio ancora in chiave funzionale sia che si tratti del bene architettonico che di quello artistico mistificato, semmai da omologare e ringiovanire attraverso l’azione del restauro, dalla pulitura al consolidamento, producendo di fatto una mutazione del documento, quasi ad ottenere una nuova declinazione semantica del ‘falso artistico’ di una volta. Per il trattamento delle superfici sia monumentali che del costruito storico resta ancora largamente insoluto il problema delle patine e del colore di rivestimento nella complessiva sottovalutazione delle problematiche di pulitura dei lapidei a facciavista, nonché delle compatibilità fisico chimiche dei sistemi di tinteggio e coloritura dei rivestimenti moderni nel rispetto alle facciate storiche caratterizzate da supporti murari tradizionali e intonaci antichi a calce. Di nuovo, per gli architetti che operano nel restauro si apre in questa situazione un’ampia zona d’ombra che pone l’accento sulla marginalità dell’azione conservativa del progettista nei confronti dell’architettura esistente assistendo, da una parte, ad una progressiva ingegnerizzazione del restauro perseguito da altri soggetti tecnici e, dall’altra, dallo svuotamento di competenze in ambiti storicamente propri degli architetti.

Il Codice dei contratti pubblici, il progetto di restauro conservativo e la manutenzione programmata

Nel Codice dei contratti pubblici (ex D.lgs 50/2016) non si fa più riferimento agli architetti come attori unici del progetto di restauro, per i lavori aventi ad oggetto beni culturali.17

Aver sottratto agli architetti le competenze in materia di trattamento delle superfici architettoniche decorate, pittoriche o plastiche, il monitoraggio e la manutenzione di tali beni, equivale ad aver tolto tali competenze anche dal progetto di restauro conservativo che, per sua natura, si realizza sulla materia piuttosto che sulla forma.18

Si spiega così il mutamento sancito con delibera del Consiglio di Stato che riserva agli architetti, riconosciuti esperti di restauro, un ruolo di carattere generale, una sorta di direzione in parte estranea dalla pratica esecutiva, ribadendo quanto affermato nel dispositivo dell’art. 9 bis del citato Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.19 D’altronde le azioni di manutenzione e monitoraggio, nelle loro varie declinazioni, dal su menzionato D.Lgs 42/2004 e nell’ambito della recente revisione del Codice dei contratti pubblici sono riconosciute come azioni prioritarie per la buona conservazione del patrimonio, intendendo con esse tutte le attività volte a massimizzare la salvaguardia materiale del bene attraverso il controllo periodico e frequente delle sue condizioni di conservazione.20 In particolare, la cura dei beni patrimoniali è (e sarà sempre più) legata alla possibilità di interagire in modo preventivo, organico e tempestivo sull’osservanza del buono stato di conservazione degli immobili e segnatamente delle superfici di questi. Le competenze dell’architetto sono quindi di basilare importanza in questa prospettiva d’intervento. L’ampiezza e la diffusione dei fenomeni di degrado, di compromissione strutturale come di alterazione visiva sul piano paesaggistico che, con il passare del tempo, comportano la radicalizzazione e l’aggravarsi delle patologie e/o di comportamenti antropici incongrui rispetto ai caratteri

17 (D.Lgs 50/2016) «Capo III - Appalti nel settore dei beni culturali. Art 147, comma 2: Per i lavori aventi ad oggetto beni culturali è richiesta in sede di progetto di fattibilità, la redazione di una scheda tecnica finalizzata all’individuazione delle caratteristiche del bene oggetto dell’intervento, redatta da professionisti in possesso di specifica competenza tecnica in relazione all’oggetto dell’intervento». Con il decreto di cui all’art. 146, comma 4, sono definiti gli interventi relativi a beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico artistico o archeologico, per i quali la scheda deve essere redatta da restauratori di beni culturali, qualificati ai sensi della normativa vigente. 18 Ibidem, comma 3: «Per i lavori di monitoraggio, manutenzione o restauro di beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico artistico o archeologico, il progetto di fattibilità comprende oltre alla scheda tecnica di cui al comma 2, le ricerche preliminari, le relazioni illustrative e il calcolo sommario di spesa. Il progetto definitivo approfondisce gli studi condotti con il progetto di fattibilità, individuando, anche attraverso indagini diagnostiche e conoscitive multidisciplinari, i fattori di degrado e le modalità tecnico-esecutive degli interventi ed è elaborato sulla base di indagini dirette ed adeguate campionature di intervento, giustificate dall’unicità dell’intervento conservativo. Il progetto esecutivo contiene anche un Piano di monitoraggio e manutenzione». 19 Art. 9bis - Professionisti competenti ad eseguire interventi sui beni culturali (D.Lgs. 42/2004), al punto 1: «In conformità a quanto disposto dagli articoli 4 e 7 (omissis) e fatte salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate, gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi, di cui ai titoli I e II della parte seconda del presente codice, sono affidati alla responsabilità e all’attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale». 20 DM 154/2017 “Regolamento sugli appalti pubblici riguardanti i beni culturali tutelati ai sensi del D.Lgs 42/2004, di cui al D.Lgs 50/2016”.

storico architettonici da tutelare, impongono nell’interesse della collettività di operare scelte strategiche, qualitativamente idonee alla scala urbana, al fine di contrastare il progressivo decadimento materico delle strutture e l’obsolescenza funzionale, tecnologica ed economica dei beni architettonici ancor prima di ricorrere al restauro come estrema ratio. È possibile ottimizzare l’affidabilità complessiva dell’edilizia storica attraverso una costante opera di manutenzione programmata. Si tratta di una attività che prevede procedure continue e pianificate di controllo e utilizzo in ambienti GIS di dati conoscitivi, di archivio e di monitoraggio. Un modo di gestione che si rende necessario per la conservazione di un gran numero di soggetti e per il riallineamento funzionale delle prestazioni di ciascun edificio. La norma UNI 11257:2007 “Manutenzione dei patrimoni immobiliari - Criteri per la stesura del piano e del programma di manutenzione dei beni edilizi - Linee guida”, fornisce i criteri in base con i quali elaborare i piani e i programmi per lo svolgimento delle attività manutentive tanto sul costruito storico che su quello di nuova formazione, indipendentemente dalla destinazione d’uso. La conservazione del patrimonio edilizio assume nei processi di manutenzione programmata una caratterizzazione che va oltre l’azione di tutela del bene architettonico di riconosciuto interesse culturale per interessare più direttamente la corretta gestione dell’esistente con evidenti risvolti legati ad un commisurato e parsimonioso impiego delle risorse economiche disponibili. Alla sottrazione delle competenze specialistiche dell’architetto fa perciò ulteriore riscontro l’allargamento delle procedure d’intervento affidate con tutta evidenza a soggetti tecnico professionali diversi. Tuttavia, la fase istruttoria iniziale, la pianificazione della manutenzione programmata, ordinaria e straordinaria, così come quella predittiva riveste in questo contesto un’importanza fondamentale in tutto il processo gestionale, in quanto l’acquisizione di un quadro preliminare di conoscenze e di dati è necessario all’individuazione precisa dello stato fisico e funzionale dell’immobile e, quindi, alla definizione degli obiettivi da soddisfare con gli interventi riabilitativi e di restauro. La “manutenzione predittiva”, a differenza di quella programmata, è da valutarsi come un tipo di manutenzione preventiva che viene effettuata in cantiere per il miglioramento degli edifici, a seguito dell’individuazione di uno o più parametri che vengono misurati ed elaborati utilizzando appropriati modelli matematici allo scopo di individuare il tempo residuo prima del decadimento materico o del guasto. Nel cantiere di restauro, attraverso l’impiego di nuove tecnologie d’intervento e la messa in opera di materiali speciali (ad es. utilizzando materiali smart, sensorizzati e sostenibili per il costruito storico), adeguatamente monitorati, si riesce a portare avanti interventi migliorativi da un punto di vista prestazionale ottenendo risultati più durevoli, senza impatti economici pesanti, grazie alla pianificazione, alla progettazione di interventi di manutenzione predittiva. Il ruolo che l’architetto può svolgere in questa fase non può non essere di nuovo centrale per la molteplicità e la complessità delle azioni da pianificare e delle tecnologie da utilizzare nel campo del restauro. Infatti, la predisposizione di un tale quadro conoscitivo va effettuata secondo un principio di gradualità, distinguendo tra informazioni ‘indispensabili’ e informazioni ‘utili’. Il piano di manutenzione,

sebbene applicabile a diversi livelli di scala (a un patrimonio immobiliare, a un singolo edificio e alle sue pertinenze, a subsistemi edilizi e impiantistici, a elementi tecnici), è quindi da intendersi come un insieme strutturato e integrato di azioni da condurre alle diverse scale. Occorre rilevare che le forme di intervento manutentivo sono fondamentalmente due: manutenzione preventiva e manutenzione correttiva o a guasto. La prima è particolarmente indicata per gli edifici che presentano elevati livelli di criticità, mentre la seconda – che riguarda gli interventi effettuati a seguito della rilevazione di guasti – può essere adottata su componenti che non interessano sistemi critici o di sicurezza. Queste strategie di manutenzione possono ovviamente essere adottate in combinazione, secondo condizioni, forme e tempistiche opportunamente stabilite. La norma UNI 11257:2007 si configura come una guida completa in grado di fornire un supporto concreto alla gestione delle proprietà immobiliari: dai criteri generali di un programma di manutenzione, ai criteri e alle fasi di stesura; dagli orientamenti per la scelta delle strategie più opportune, alla programmazione operativa e al preventivo di spesa.

La gestione informatica dei dati

Le nuove competenze da acquisire da parte dei conservatori, come i temi della manutenzione degli edifici e dei relativi criteri di ‘informatizzazione’ dei dati e dei processi decisionali, nonostante il relativamente recente panorama normativo21, non sono ancora definiti da procedure unificate e standardizzate per quanto riguarda l’ambito specifico del restauro dei beni architettonici. In questo senso, il contributo degli strumenti di Business Intelligence (di seguito: BI) per la conoscenza e la gestione del patrimonio architettonico, può rivelarsi estremamente significativo e rappresenta ancora un campo piuttosto inesplorato. Più in generale si può affermare che esista ad oggi, nonostante l’avanzamento tecnologico e le ampie possibilità offerte, un certo ritardo nello sviluppo ai fini gestionali della ricerca sul patrimonio architettonico e nell’applicazione ai fini progettuali degli strumenti informativi per il restauro (DATA-BASE, GIS, BIM, ecc.), dove in carenza di appropriati riscontri analitici e, soprattutto, di una mirata sperimentazione permane una naturale diffidenza verso l’utilizzo di tali sistemi. La digitalizzazione nel restauro o si realizza in ambito scientifico oppure resta un esercizio teorico, non privo di palesi contraddizioni sul piano analitico. Non altrettanto sembra potersi dire nel settore della comunicazione e dell’archiviazione dei beni culturali dove da tempo sono state prodotte significative esperienze, anche a livello didattico22 . In estrema sintesi, gli strumenti di BI nascono per risolvere problemi comuni in ambito aziendale e bene si prestano per un efficace controllo degli interventi nell’ambito della conservazione: presenza di dati eterogenei per formato e tipologia e provenienti da più fonti, ridondanti, incompleti, di difficile fruizione e difficilmente integrabili tra di loro.

21 Cfr. UNI 10951:2001 “Sistemi informativi per la gestione della manutenzione dei patrimoni immobiliari”; UNI 11257:2007 “Criteri per la stesura del piano e del programma di manutenzione dei beni edilizi”, cit. 22 Cfr, ultra, il contributo di D. Fastelli.

Tali difficoltà sono riscontrabili quindi non solo in ambito aziendale, ma tipicamente affliggono i sistemi di documentazione e archiviazione (ove esistano) adottati in ambito di gestione del patrimonio architettonico e degli interventi di restauro e conservazione. Molto spesso gli enti preposti alla tutela dei beni architettonici e gli stessi professionisti nell’approcciarsi all’intervento, quale esso sia, su un manufatto/complesso architettonico o su un ambito urbano, si scontrano con la scarsa reperibilità e conoscenza dei dati di quel determinato edificio o contesto, con la difficile ricostruzione della filiera che li ha prodotti nel tempo, o ancora con la consultazione di banche dati obsolete e caratterizzate magari da un eccesso di dati inutili o non aggiornati che impedisce di discriminare quelli interessanti e significativi, rendendo quindi ardua l’operazione di analisi delle informazioni. La BI per sua stessa definizione23, può essere declinata con successo dal mondo aziendale all’ambito del restauro al fine di superare tali ostacoli, ma perché ciò si realizzi non è sufficiente ‘informatizzare’ gli archivi, digitalizzando documenti e creando le più disparate banche dati o molteplici fogli di calcolo: la tecnologia che i sistemi di BI offrono costituisce, infatti, il supporto al processo decisionale e non la soluzione. È dunque cruciale il contributo dei tecnici, dei professionisti, dei ricercatori che devono essere in grado di interpretare le informazioni in modo corretto per poter formulare le idonee ipotesi di intervento, coadiuvati in questo compito dalla BI, che semmai ha lo scopo di evitare alle persone di preoccuparsi di come accedere ai dati e come analizzarli, perdendo tempo e risorse preziose. L’architetto, in particolare, a cui compete nel restauro architettonico e del paesaggio la regia del progetto e del cantiere, non può non essere un artefice primario nella conduzione, applicazione e gestione dei sistemi informativi avanzati. Tuttavia, in queste specifiche competenze il gap di conoscenze da colmare resta ancora notevole. Nei laboratori di restauro che analizzeremo più avanti sono state portate avanti con risultati incoraggianti specifiche esperienze di questo tipo.

Le scuole di architettura e le esperienze di trattamento dati per il restauro

Appare di tutta evidenza che nelle scuole di architettura possa esserci, anche per queste problematiche, un problema legato alla formazione, soprattutto per quanto riguarda l’aggiornamento dei curricula degli studi nel restauro, nella progettazione come nella gestione dei dati per la conservazione, specialmente dopo aver fatto convergere nei laboratori tutti i corsi di un tempo sia quelli caratterizzanti che opzionali della disciplina. Nei corsi di studio del dipartimento di architettura dell’ateneo fiorentino, i laboratori di restauro del corso di studio triennale, del ciclo unico quinquennale e del biennio magistrale di progettazione dell’architettura hanno l’arduo compito di assicurare, contando ciascuno su

23 “La Business Intelligence è un sistema di modelli, metodi, processi, persone e strumenti che rendono possibile la raccolta regolare e organizzata del patrimonio dati generato da un’azienda. Inoltre, attraverso elaborazioni, analisi o aggregazioni, ne permettono la trasformazione in informazioni, la loro conservazione, reperibilità e presentazione in una forma semplice, flessibile ed efficace, tale da costituire un supporto alle decisioni strategiche, tattiche e operative” (cfr. Rezzani A. 2017, p.7).

pochi mesi di attività didattica, la copertura di competenze, tecnico-scientifiche e umanistiche, prima assicurate da una molteplicità di insegnamenti spalmati in curricula mirati, operando in poche settimane nella necessità di trasferire i fondamenti della disciplina e di tradurre in esperienze sul campo le attività seminariali e di esercitazione. Alla luce di queste sintetiche considerazioni, come si può ben comprendere, non si tratta di compendiare il restauro in nozioni di base, bensì di fornire gli strumenti conoscitivi e operativi per approfondire le molte competenze che oggi si richiedono e si pongono all’attenzione del mondo della conservazione. Occorre, altresì, intraprendere in una visione olistica un percorso di integrazione tra i vari soggetti che operano nel settore, forti anche di esperienze positive che negli anni passati sono state condotte con successo sia al di fuori delle università dal MiBACT, come pure all’interno degli atenei e nelle scuole di specializzazione. In ogni caso, per la messa punto di aggiornati programmi di studio e di ricerca è importante poter comunicare e trasferire il know-how prodotto dalle più avanzate esperienze di settore, recependole in modo integrale nei programmi didattici. Basti pensare, ad esempio, cosa negli Anni ’90 del secolo scorso ha significato e contribuito all’allargamento del dibattito scientifico, alla messa a punto di metodologie ed applicazioni per il restauro, l’esperienza maturata per la risoluzione del complesso problema conservativo affrontato per la conservazione del ciclo di dipinti murali, istoriati da Piero della Francesca nella Cappella Maggiore ad Arezzo, che ha visto operare all’unisono architetti, storici dell’arte, strutturisti, restauratori, esperti in diagnostica architettonica e ambientale, chimici, fisici, informatici ecc. Sotto il nome di Progetto Piero della Francesca, nell’arco di oltre tre lustri (1983 - 2000) si è tracciato e documentato l’intero ‘percorso della conoscenza’ per il restauro, dalle prime osservazioni sulle cause del degrado e delle patologie degli affreschi, al radicamento metodologico affidato alla ricerca storica come canovaccio da seguire in ogni ricerca, dal rilievo fotogrammetrico all’analisi diagnostica e al monitoraggio di controllo fino al compimento dell’intervento di restauro, pubblicando step by step24 non solo i risultati delle indagini eseguite, bensì l’intero profilo dialettico partecipato dalle diverse competenze scese in campo che ha preceduto, accompagnato e, infine, valutato, l’intervento restaurativo, interessando gli aspetti architettonici, le superfici dipinte, gli ambiti ambientali e il contesto urbano, ovvero tutte le diverse scale di lavoro che potrebbero interessare ogni cantiere del restauro. Tutto questo è avvenuto attraverso un affinamento congiunto delle problematiche conservative incontrate, risolte di volta in volta sotto l’attenta supervisione della Soprintendenza, attraverso un consulto multidisciplinare sia durante lo svolgimento delle ricerche che nella progettazione ed esecuzione dell’intervento, seguendo al tempo stesso l’evoluzione tecnologica degli strumenti in uso, creando all’uopo anche il “Sistema di Documentazione Archivio” (SDA) in grado di migliorare la gestione

24 Cfr. Centauro G.A., Maffioli M. (a cura di) 1989; Centauro G. 1990; Centauro G., Moriondo Lenzini M. (a cura di), 1993; Centauro G.A., Settesoldi E. 2000.

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