Interventi di restauro sui ruderi | Luigi Marino

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La protezione delle creste murarie

luigi marino
Interventi di restauro sui ruderi

La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo.

The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA).

The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community.

The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.

Editor-in-Chief

Saverio Mecca | University of Florence, Italy

Scientific Board

Gianpiero Alfarano | University of Florence, Italy; Mario Bevilacqua | University of Florence, Italy; Daniela Bosia | Politecnico di Torino, Italy; Susanna Caccia Gherardini | University of Florence, Italy; Maria De Santis | University of Florence, Italy; Letizia Dipasquale | University of Florence, Italy; Giulio Giovannoni | University of Florence, Italy; Lamia Hadda | University of Florence, Italy; Anna Lambertini | University of Florence, Italy; Tomaso Monestiroli | Politecnico di Milano, Italy; Francesca Mugnai | University of Florence, Italy; Paola

Puma | University of Florence, Italy; Ombretta Romice | University of Strathclyde, United Kingdom; Luisa Rovero | University of Florence, Italy; Marco Tanganelli | University of Florence, Italy

International Scientific Board

Francesco Saverio Fera | University of Bologna, Italy; Pablo Rodríguez Navarro | Universitat Politècnica de València, Spain; Nicola Braghieri | EPFL - Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne, Switzerland; Lucina Caravaggi | University of Rome La Sapienza, Italy; Federico Cinquepalmi | ISPRA, The Italian Institute for Environmental Protection and Research, Italy; Margaret Crawford, University of California Berkeley, United States; Maria Grazia D’Amelio | University of Rome Tor Vergata, Italy; Carlo Francini | Comune di Firenze, Italy; Sebastian Garcia Garrido | University of Malaga, Spain; Xiaoning Hua | NanJing University, China; Medina Lasansky | Cornell University, United Sta tes ; Jesus Leache | University of Zaragoza, Spain; Heater Hyde Minor | University of Notre Dame, France; Danilo Palazzo | University of Cincinnati, United States; Silvia Ross | University College Cork, Ireland; Monica Rossi | Leipzig University of Applied Sciences, Germany; Jolanta Sroczynska | Cracow University of Technology, Poland

luigi marino
Interventi di restauro sui ruderi La protezione delle creste murarie

Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze.

La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

Le illustrazioni utilizzate servono soltanto a rendere più chiaro il testo. Alcune soluzioni presentate sono buone, altre accettabili, altre ancora sono da rigettare.

progetto grafico

didacommunicationlab

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

Federica

didapress

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

© 2023

ISBN 978-88-3338-179-4

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset

sommario Presentazioni 7 Ilaria Romeo, Gianluca Belli Il restauro archeologico 17 Cause di deperimento nelle aree archeologiche 19 Meccanismi degenerativi nelle aree archeologiche 22 Rischio e vulnerabilità 29 Rischio nelle aree archeologiche 30 Documentazione dinamica 31 La protezione delle creste murarie 35 Manutenzione dei ruderi urbani 39 Trattamento delle lacune 41 Indagini per il restauro 44 I princìpi della protezione delle creste 47 Per un catalogo di interventi 55 Campionatura del sito/manufatto 57 Restauro e medicina 59 Per una scelta di soluzioni 61 La catena operatoria per il restauro 67 Copertine di malta 69 Copertine di terra 77 Protezioni per impregnazioni 81 Copertine in laterizio 83 Copertine in pietrame 87 Elementi protettivi monolitici 91
interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 6 La protezione con tettoie 93 Pellicole 97 Geotessili 99 Sacchi 103 Zolle erbose 105 Impronte allusive sul terreno 107 Interventi in condizioni di emergenza 111 Materiali di recupero 115 Protezione delle creste e didattica 119 Bibliografia 123

Il prezioso manuale che qui si introduce, diretto ai giovani che si avviano alla professione di archeologi, assolve a una pluralità di funzioni. Se da un lato esso suggerisce comportamenti e modalità di azione volti alla migliore conservazione dei monumenti allo stato di rudere, esso ripercorre a tratti anche l’affascinante storia del restauro archeologico nel nostro Paese. Le richiamate esperienze di Boni a Roma, di Calza a Ostia illustrano atteggiamenti e propensioni spesso di disegno opposto, che ci conducono per mano attraverso diverse - ma non necessariamente errate - accezioni del passato. Qui emerge la straordinaria competenza dell’autore, che per oltre un quarantennio ha svolto attività di conservazione e restauro in una molteplicità di cantieri sia nazionali che esteri, acquisendo dunque la necessaria capacità di osservazione critica delle metodologie con le quali egli si è dovuto confrontare nel corso della sua carriera. A questa esperienza il manuale affianca una scioltezza e agilità espositiva che lo rendono un vero manuale da campo per chi si trovi ad operare su ruderi e manufatti antichi. Quello che Luigi Marino ci offre è quindi soprattutto un manuale di carattere operativo. All’archeologo attivo sul cantiere esso segnala quale dovrebbe essere l’approccio più corretto alla conservazione del manufatto, prima, durante e dopo lo scavo. Il manuale si concentra sulle condizioni dei manufatti antichi, sulle loro condizioni di degrado e dissesto e le loro criticità, riconducendo gli interventi sul campo ai fondamenti della cultura restaurativa che in Italia come è noto ha una lunga e ragguardevole tradizione.

Siamo dunque estremamente lieti che anche questo nuovo manuale possa essere messo a disposizione dei futuri operatori archeologici e degli architetti che volessero intraprendere questa difficile ma affascinante professione. Il manuale infatti non cessa di segnalare la necessità di una collaborazione sempre più stretta tra queste due discipline. Una questione che spesso emerge è quella delle soluzioni da adottare quando il rudere si trovi in un contesto urbanizzato, spesso anche caratterizzato dalle necessità proprie della modernità. La convivenza tra moderno e antico è in Italia tuttora fonte di irrisolte controversie; altrove peraltro viene spesso affrontata con eccessiva disinvoltura. Si tratta di questioni tutt’altro che irrilevanti, in

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quanto puntuale riflesso della cultura che le genera. Diverse tradizioni nazionali di restauro hanno prodotto e continuano a produrre esiti del tutto differenti: si pensi al caso dell’acropoli di Atene i cui restauri, seppur preceduti da una straordinaria analisi conoscitiva delle singole componenti architettoniche, è poi degenerata in una ricostruzione a tratti francamente antistorica dei preziosi manufatti. Da questo punto di vista la conoscenza della storia del restauro nelle diverse nazioni europee, e delle motivazioni storiche e culturali che hanno portato al prevalere di questa o quella scelta operativa, offre ancora spunti di estremo interesse.

Infatti l’azione del restauro è qui presentata correttamente come un fattore di natura culturale che va affrontato con rigorose basi sia tecniche che storiche. Le attività esemplari qui debitamente suggerite, nella pratica trovano purtroppo raramente spazio sui cantieri archeologici sia didattici che programmati o di emergenza: molte delle misure che qui si raccomandano sono infatti spesso al di là della soglia economica o delle competenze delle maestranze che, a vario titolo, si trovano ad operare sul cantiere di scavo. Tuttavia, la segnalazione di quali dovrebbero essere gli interventi diagnostici preliminari alle operazioni di scavo è già di per sé un fondamentale caveat nei confronti di operazioni archeologiche che - spesso inconsapevolmente - li trascurano, concentrandosi sulle attività di tipo stratigrafico e la loro registrazione e riservando solo alla fase ultima dei lavori la rilevazione di criticità che necessitano di consolidamenti o particolari attenzioni conservative. Queste operazioni richiedono spesso una pluralità di competenze, ma la compresenza sullo scavo di restauratori o architetti e archeologi è un fatto ancora oggi eccezionale. Nel migliore dei casi esso è limitato appunto alle ultime operazioni dello scavo, e questa consuetudine produce - come ben rileva Marino - costi di cantiere ben più elevati di quanto non sarebbero stati se si fosse attuata una effettiva azione di prevenzione. A questo proposito non si può che rilevare però come in anni recenti nuove tecniche di fotogrammetria e di rilievo informatizzato abbiano fornito alla conoscenza del manufatto soluzioni spesso più adeguate dello stesso scavo archeologico, limitando non di poco i rischi connessi ad operazioni stratigrafiche condotte in maniera impropria.

Idealmente la funzione del rilevamento dei potenziali danni al bene oggetto di studio dovrebbe essere affidata a un conservatore o ad un architetto specialista di manufatti antichi. Purtroppo in Italia lo studio dell’architettura antica è in crisi ormai da decenni: l’insegnamento è marginalmente erogato nelle aule universitarie, e gli specialisti italiani di architettura antica sono ormai rari. Questa sciagurata condizione, che le scelte ministeriali certamente non muteranno in senso più favorevole nei prossimi anni, ha condotto ad un grave impoverimento nella tradizione degli studi e ad una sostanziale

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incomunicabilità tra il mondo degli architetti e quello degli archeologi. Non di rado può ancora avvenire di dover giustificare, per esempio durante incontri preparatori alla presentazione di progetti urbanistici, la necessità di preservare ai posteri anche monumenti apparentemente di non particolare rilevanza estetica o che non appartengano ai secoli d’oro dell’antichità, ma che spesso costituiscono una rara testimonianza di fasi storiche altrimenti non documentate.

Un altro aspetto su cui il manuale si concentra è quello della predilezione per il riutilizzo contemporaneo del monumento antico: la recente polemica sull’arena del Colosseo potrebbe rappresentarne un caso esemplare. Il concetto di valorizzazione del bene archeologico spesso nel nostro paese è infatti solitamente declinato con mero significato economico. Più corretto sarebbe invece accoglierlo con l’accezione di messa in valore dell’importanza culturale del monumento: la concezione del bene culturale come petrolio del nostro territorio ha infatti condotto e continua a condurre a un completo travisamento del ruolo del passato nella società contemporanea. Certo, la straordinarietà dell’Italia dal punto di vista monumentale può e deve avere anche delle ricadute economiche importanti, ma queste dovrebbero discendere da un indotto di natura turistica e culturale, piuttosto che dall’utilizzo improprio e spesso dannoso del monumento stesso.

Ilaria Romeo Direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo Università di Firenze

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nelle quali il confine tra atto conoscitivo – in questo caso riportare alla luce testimonianze materiali del passato – e atto conservativo –assicurare la trasmissione ai posteri delle testimonianze rinvenute – appare più labile. Lo scavo, per sua natura, è un’azione traumatica, che perturba lo stato in cui i manufatti portati alla luce si sono conservati per tempi spesso lunghissimi. I ruderi e gli oggetti rinvenuti sono esposti a condizioni ambientali nuove, che possono comportare il rischio di un rapido degrado. Lo scavo, dunque, deve sempre essere accompagnato dalla valutazione di questo rischio, e dalla conseguente adozione di opportuni provvedimenti che lo annullino o lo rendano minimo.

Tra le situazioni più ricorrenti, la protezione delle creste murarie è particolarmente rilevante, sia per motivi puramente conservativi, sia in ragione degli esiti estetici e comunicativi degli interventi. Le creste murarie prive di protezione, come è facile immaginare, sono infatti un importante veicolo di degrado, innanzi tutto consentendo l’infiltrazione dell’acqua all’interno dell’apparecchio, ma anche esponendolo all’azione disgregatrice del sole e del vento. Al tempo stesso, la sistemazione delle creste pone problemi di ordine estetico e figurativo a causa dei possibili conflitti formali e cromatici tra le strutture murarie antiche e le loro protezioni moderne, e potendo sfruttare questi nuovi elementi per suggerire andamenti originari, indicare fasi costruttive diverse, evidenziare nuclei edilizi distinti.

Il volume di Luigi Marino affronta questi temi in modo sistematico, proponendosi come un manuale didattico con un chiaro indirizzo operativo. Frutto della competenza e della lunga esperienza dell’autore nel campo del restauro archeologico, il testo inquadra il problema discutendolo all’interno del più ampio ambito della vulnerabilità da cui sono affette le testimonianze archeologiche una volta riportate alla luce dalle operazioni di scavo. Come sottolinea lo stesso Marino, il tema della vulnerabilità delle strutture scavate fatica ad affermarsi nella dottrina e soprattutto nella pratica operativa. Più in generale, è la stessa coscienza dei rischi a cui è soggetto il patrimonio archeologico durante e dopo lo scavo che spesso manca o è insufficiente, così come ancora stenta ad affermarsi una seria cultura della prevenzione, invocata solo quando eventi traumatici provocano danni a volte irreparabili.

Attorno alla necessità di affermare questo tipo di cultura ruota il testo di Marino, che a questo proposito invoca giustamente una maggiore collaborazione tra architetto e archeologo, in modo che le sensibilità verso i dati materiali e stratigrafici possano coniugarsi in modo efficace con l’esigenza di mettere in sicurezza strutture emerse e fronti di scavo.

Ma soprattutto, Marino guarda al superamento della cultura dell’emergenza, illustrando

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Lo scavo archeologico è una delle attività

e proponendo buone pratiche preventive rivolte all’attenzione degli operatori, e soprattutto di coloro che si stanno formando nelle scuole di specializzazione, dove è soprattutto necessario che si consolidino mentalità e abitudini volte a considerare le azioni di prevenzione come parte dell’attività ordinaria di chi è preposto alla tutela.

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Gianluca Belli Direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio Dipartimento di Architettura Università di Firenze
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la conservazione in situ non è una questione tecnica. è la riflessione sul progetto sociale che primeggia

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La conservazione dei ruderi non può essere improvvisata ma deve essere prevista ancora prima delle campagne di scavo.

La conservazione del patrimonio archeologico costituisce un campo di notevole incuria dove le devastazioni apportate dal generale disinteresse sono la causa dei danni maggiori (R.Francovich, 1982)

Il restauro archeologico, inteso prevalentemente come conservazione di “reperti” provenienti da scavo archeologico, qui è utilizzato come un ampio ambito interdisciplinare di restauro (con tutte le diverse accezioni che questo termine contiene) di aree archeologiche e manufatti architettonici allo stato di rudere indipendentemente dal fatto che possano avere o meno una destinazione funzionale1

Anche se l’interdisciplinarietà è riconosciuta a livello di principio come la migliore forma di intervento, nella pratica, gli interventi su manufatti archeologici continuano a rivelarsi un campo minato di estrema complessità quando emergono i punti di vista parziali dei diversi operatori, preoccupati di non perdere presunte posizioni di privilegio ma anche quando, per altro verso, prende il sopravvento “… la fascinazione dell’obiettivo, la sindrome del seguire il leader” (C.Brunelière, 2002).

Per i ruderi2, sia quelli che provengono da uno scavo archeologico sia quelli che sono già fuori terra, si continuano a proporre parziali o totali ricostruzioni, talvolta aggiornate soltanto nell’impiego di materiali o procedure di applicazione, con maestranze non specializzate perché provenienti dall’edilizia corrente e che utilizzano capitolati derivati da quelli impiegati nella costruzione di un nuovo edificio. I risultati più evidenti sono la cancellazione delle tracce della storia costruttiva dell’edificio a causa di una omogeneizzazione di superfici diverse e a causa di una diffusa trasformazione di strutture tendenzialmente elastiche in strutture

1 “L’esperienza ci ha insegnato che la tutela è efficace solo se attiva; solo, cioè, se si realizza il riscatto del monumento dallo stato di abbandono e conseguente degrado, se recupera l’opera alla funzione originaria, ovvero se le attribuisce finalità nuove, ma in armonia o almeno compatibili con le caratteristiche che danno significato al monumenti”. L’osservazione di P.Gazzola (1968) è certamente condivisibile ma diventa di difficile applicazione nel caso di molti ruderi per i quali il riutilizzo risulta impossibile.

2 “È necessario differenziare il rudere dalla emergenza archeologica. Quest’ultima infatti necessita di cautele conservative e preventive nel momento stesso del disinterro, per prevenire i danni, rapidi e irreversibili che seguono la messa in luce dei materiali archeologici. Per rudere preferisco intendere quelle strutture che hanno già superato, presumibilmente con danni di vario tipo, la fase critica della messa in luce, ed hanno poi subìto un degrado più lento (ma non meno grave) ad opera di fattori ambientali, antropici, chimici e fisici” (S.Pulga, 2008).

il restauro archeologico

Le risposte a esigenze turistiche poco attente agli aspetti conservativi può provocare interventi condizionati da soluzioni prevalenti di “immagine”.

Un monitoraggio costante può costituire un efficace strumento di interpretazione del progressivo deperimento e anticipare le migliori strategie conservative e di valorizzazione.

a maggiore rigidezza che presenteranno sensibilità e vulnerabilità verso futuri eventi calamitosi e/o periodi di abbandono. Nelle aree archeologiche e nei monumenti allo stato di rudere la fase 2 dell’evento calamitoso (periodo di incubazione)3 rischia di assumere

3 Per un monumento allo stato di rudere è possibile applicare lo schema delle fasi di un disastro: fase 1- punto di partenza (normalità apparente), fase 2- periodo di incubazione, fase 3- evento precipitante, fase 4- innesco,

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connotazioni ancor più delicate perché gli “eventi premonitori” possono risultare naturalmente meno avvertibili a causa della naturale o acquisita labilità ma anche perché il pericolo viene meno sentito a causa di un diffuso atteggiamento di riluttanza nei confronti del rischio.

Le architetture antiche presentano frequentemente la paradossale condizione di essersi conservate in forme quasi originarie per tempi lunghi e costituire, proprio per questo, giacimenti ad alto potenziale. di informazione. Ma succede di frequente che monumenti che pure si erano adeguati a condizioni naturali esasperate non possano sopravvivere se subentrano estreme cause esterne, spesso antropiche. Una delle cause più ricorrenti è lo stesso scavo archeologico quando non è condotto con una adeguata attenzione ai problemi conservativi immediati e alle successive azioni manutentive4.

Il manufatto interrato raggiunge un certo equilibrio con l’ambiente che lo circonda. Questo vuol dire che delle ogni mutazione del sistema ambientale provoca variazioni dell’equilibrio e conseguenti reazioni strutture nel tentativo di raggiungere una nuova stabilità.

Cause di deperimento nelle aree archeologiche

fase 5- soccorso e recupero (primo stadio di adeguamento), fase 6- adeguamento completo.

4 Non possiamo ignorare il fatto che, soprattutto in regioni ritenute a vario titolo marginali e perciò ricattabili, lo scavo archeologico possa assumere anche il ruolo di palestra di addestramento per operatori che sono, così, autorizzati ad operare in maniera sensibilmente più disinvolta di quanto non sarebbe permesso fare nelle loro nazioni.

Le cause di deperimento nelle aree archeologiche sono le stesse che si trovano in altri siti e monumenti ma si presentano in forme e frequenza diverse. In molti casi si presentano con evidenze improvvise e drammatiche (crolli di murature e fronti di scavo, soprattutto, ma anche allagamenti) più spesso, però, in maniera continua e subdola i cui effetti si renderanno manifesti soltanto a distanza di tempo. Quando, ormai, la situazione generale è degenerata al punto da non permettere più valutazioni ragionevoli e interventi fattibili, se non al prezzo di rilevanti impegni scientifici e costi esorbitanti. È evidente come i primi meccanismi degenerativi si attivino proprio a seguito delle operazioni di scavo archeologico se non sono attivati accertamenti diagnostici preventivi e procedure di cantiere attente ai problemi conservativi. I limiti sembrano essere costituiti dal fatto che gli eventi vengono considerati prevalentemente in sé come se fossero indipendenti dalle cause che possono averli provocati. In molti casi sembra non sia possibile nemmeno definire il limite tra cause naturali e responsabilità umane. Bisogna ammettere che una vera cultura del rischio, efficacemente definita «un aspetto culturale fondamentale della modernità, per il quale la consapevolezza dei rischi sostenuti diventa un mezzo per colonizzare il futuro» (A.Giddens, 1991) è ancora lontana nelle pratiche del restauro, e ancor più nel restauro archeologico, pur a fronte di formulazioni teoriche generali.

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Il progressivo degrado dell’area di scavo: in primo piano lo scavo di due anni prima, al centro lo scavo di un anno prima di quello in corso.

Un “pre-consolidamento” di cautela diventa d’obbligo prima delle operazioni di scavo.

Situazioni particolarmente difficili avrebbero potuto essere contenute con interventi conservativi in corso di scavo.

La protezione delle creste può essere determinante per la salvaguardia del nucleo murario.

Avviene non di rado che ci si accorga del patrimonio storico solo per costatarne la perdita o, comunque, per denunciare danni ormai irreparabili. Le segnalazioni si moltiplicano in occasioni di disastri di maggiore impatto e che sempre più frequentemente rischiano di diventare una normalità a causa di una sciagurata politica di sfruttamento che peggiora già precarie condizioni naturali. Tali denunce sono destinate a non avere alcun seguito apprezzabile (a parte improvvisate risposte emozionali) se non quello di aprire nuove vie di investimento straordinario destinato, nella maggior parte dei casi, a causare ulteriori peggioramenti. Il risultato più evidente di molte campagne archeologiche è di avere aree lasciate in abbandono, fronti e sezioni di scavi non protetti e destinati a degradarsi ancor prima della ripresa della campagna successiva. La componente antropica non è assolutamente marginale; non raramente rappresenta la più frequente e grave causa di deperimento del patrimonio culturale, direttamente (guerre, vandalismo, furto …) o indirettamente (abbandono, cattivo uso …). Strutture già naturalmente labili diventano ancor più vulnerabili quando vengono escluse da programmi di manutenzione ordinaria oppure quando sono soggette a un pesante e incontrollato riuso. È il caso di edifici da spettacolo antichi (gli unici che possono essere riutilizzati con funzioni congruenti con quelle originarie) che sono sottoposti a sollecitazioni sproporzionate e adeguate a una normativa di sicurezza che non sembra attenta ai problemi del restauro. Strutture già naturalmente labili possono acquisire una forte vulnerabilità quando sono soggette a una sovraesposizione funzionale o d’immagine che ne stravolge l’aspetto e la logica costruttiva. Gli effetti degenerativi possono presentarsi con meccanismi veloci ed evidenti ma, più spesso, con meccanismi lenti e subdoli i cui effetti si rendono evidenti soltanto in fasi avanzate. È probabile che siano i monumenti classificati come “minori” (spesso sulla base di dubbie e pretestuose categorie di merito) a subire i danni più pesanti per

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una generalizzata minore attenzione nei loro confronti e perché più facilmente vengono forzati a rispondere ad aspettative fortemente condizionate da interessi imprenditoriali. Altre volte possono essere i monumenti più importanti a rischiare di subire azioni degenerative (graffitismo, per esempio) quando non si tratti di vere azioni terroristiche mirate proprio al loro valore simbolico. L’unica soluzione sembra essere quella di un consapevole crescita civile attraverso l’educazione e il coinvolgimento. Un passo importante può essere non considerare i cantieri di scavo e di restauro aree chiuse ed esclusive ma piuttosto come luoghi di educazione permanente, archivi da tutti consultabili attraverso l’organizzazione di percorsi didattici, segnaletiche e attività formative capaci di coinvolgere i visitatori e provocare risposte adeguate5.

5 “La conservazione in situ non è una questione tecnica. È la riflessione sul progetto sociale che primeggia” (M.Colardelle, 2000).

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Meccanismi degenerativi nelle aree archeologiche

Il rilevamento diagnostico dei meccanismi degenerativi più ricorrenti in un’area archeologica e/o struttura muraria mira a evidenziare le forme patologiche e dimensionarne le incidenze anche in relazione alla velocità con cui tali fenomeni si presentano eccezionalmente o, più frequentemente, si ripropongono in maniera ciclica. In particolare si possono indagare fenomeni relativi a:

• perdita di verticalità delle strutture edili: differenze dei materiali lapidei, differenze di apparecchio, rovesciamento di cresta, slittamento al piede, spinta mediana, cedimento di base, degenerazione per scavi non protetti;

• perdita di orizzontalità: smembramento degli elementi di piccola taglia, rovesciamento degli elementi di grande taglia, spostamento di elementi per calpestio o lavorazione, erosione della terra, differenza dei materiali lapidei, degenerazione per scavi archeologici non protetti;

• perdita di allineamento: differenze di comportamento dei muri (spessori, materiali, leganti…), sollecitazioni esterne;

• vegetazione: vegetazione diffusa o concentrata non controllata, differenze di apparato radicale, presenza di alberi isolati o concentrati, vegetazione su terreni di riporto;

• presenza di acqua: acque meteoriche diffuse e aree di ristagno, linee e superfici di concentrazione di acqua, acque ritenute da piante o terreni smossi, inefficaci sistemi di raccolta e smaltimento;

• presenza di vento: effetto vento dominante, vento a raffica e incanalato, effetto Venturi ed effetto vela sotto le tettoie.

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La coesistenza tra murature e terreni parzialmente scavati crea nuove dinamiche di degrado. La scelta del materiale e modalità di protezione dovrebbe tenere conto degli esiti di precedenti interventi.

La parete in posizione di crollo rappresenta una nuova singolare cresta di non facile protezione.

Le osservazioni saranno estese a

Fenomeni erosivi si rendono maggiormente evidenti dopo una sospensione stagionale non adeguatamente protetta.

• superfici delle terre e delle rocce: terreno vegetale non controllato, terreno lavorato, terreno di scavo non orizzontale, differenze di terreno e contato con materiali diversi, presenza di materiali di accumulo, differenza di consistenza delle stratificazioni, pareti di scavo verticali o non verticali;

• lle situazioni più ricorrenti nelle aree archeologiche:

• strutture murarie parzialmente o totalmente scavate: perdita di geometria in verticale e/o orizzontale, erosioni concentrata e/o diffusa in cresta, erosione o scalzamento al piede a causa di acque meteoriche di ruscellamento e di infiltrazione, degradazione/dissesto a causa di vegetazione pericolosa o potenzialmente pericolosa, perdita di parti a causa di scavi archeologici non protetti, quadri fessurativi riconoscibili e plessi fessurativi estesi, espulsione di parti in cresta, al piede o mediane;

• aree di scavo: erosione diffusa e per ruscellamento delle superfici verticali e orizzontali, perdita di geometria e stondamento degli spigoli, accumuli di materiali di erosione, allagamenti in aree impermeabili o rese tali, fenomeni di espulsione di materiali, vegetazione infestante, fronti di scavo abbandonati.

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Le sistemazioni protettive devono tener conto delle future opere di manutenzione dei ruderi e della eventuale estensione degli scavi.

Le patologie da abbandono sembrano rappresentare una comune causa di deperimento di aree archeologiche e monumenti allo stato di rudere. Una delle singolarità che questi presentano è la dinamica con cui gli eventi si sviluppano e la variabilità costante delle condizioni in cui i manufatti si trovano a vivere. La difficoltà di conservazione di manufatti edili archeologici non dipende tanto dal fatto di essere stati per molto tempo sotto terra quanto piuttosto dai bruschi cambiamenti delle condizioni a cui sono soggetti durante lo scavo, alla variabilità delle condizioni ambientali che troveranno in seguito e al frequente stato di abbandono in cui verranno spesso lasciati prima di interventi che diventeranno, pertanto, inadeguati. Il danno diretto è destinato ad ampliarsi quando, alla ripresa dei lavori (sia che si tratti di interruzioni stagionali sia che si tratti di periodi molto più lunghi), lo stato di deperimento giustificherà interventi più pesanti, spesso resi necessari dalla intenzione di rendere comprensibili siti e monumenti che una politica più attenta avrebbe potuto conservare in originale. Infiltrazioni di acque meteoriche, microtraumi strutturali, forzature ad ambienti inadatti e non protetti, utilizzi parziali incongrui, piante a sviluppo incontrollato, ma anche atti di vandalismo, conducono a una ciclicità di sollecitazioni che, pur se di modeste proporzioni, possono mettere in moto meccanismi nuovi e più pericolosi che, quasi sempre, si renderanno manifesti solitamente quando porre rimedio sarà più difficile e costoso. I fenomeni di degrado dei materiali e dissesto delle strutture in siti lasciati senza protezione hanno decorsi solitamente subdoli, difficilmente controllabili. Il rinvio a tempi successivi è imputato, nella quasi maggioranza dei casi, a mancanza di mezzi economici anche

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quando per le campagne di scavo si sono resi disponibili rilevanti finanziamenti. La pretestuosa impossibilità di prevedere gli esiti di uno scavo archeologico e delle parziali demolizioni di strutture murarie conduce spesso a giustificare l’abbandono del sito/monumento nella convinzione che a conservare ci sarà sempre tempo. In molti casi, di fatto, si assiste alla progressiva perdita di parti originali che azioni conservative e manutentive tempestive avrebbero potuto contribuire a conservare a costi ragionevoli.

Ricerche recenti indicano che le dinamiche di danneggiamento seguono curve caratterizzate da periodi di relativa stabilità (nei quali i manufatti sembrano adeguarsi alle condizioni locali) seguiti da improvvisi picchi di peggioramento e, poi, da un nuovo ciclo di apparente stabilità. Se non si possono assicurare procedure di efficiente manutenzione nei periodi di interruzione dei cantieri si dovrebbero, almeno, predisporre programmi di monitoraggio che possano suggerire interventi di riparazione mirata e provocare azioni di pronto intervento. Questi dovranno svolgersi secondo un calendario che tenga conto delle dinamiche degenerative più frequenti e la velocità con cui si sviluppano.

La procedura che prevede il rinterro delle strutture rimesse in luce non sempre è vantaggiosa perché non annulla i rischi di perdite di parti 6 .

6 All’art. 4 della Carta di Venezia (1931) si legge: “Quando invece la conservazione di rovine messe in luce in uno scavo fosse riconosciuta impossibile, sarà consigliabile, piuttosto che votarle alla distruzione, di seppellirle nuovamente, dopo beninteso, averne preso precisi rilievi. È ben evidente che la tecnica di scavo e la conservazione dei resti impongono la stretta collaborazione tra l’archeologo e l’architetto”.

Le strategie conservative adottate durante gli scavi possono risultare determinanti per la futura conservabilità dei reperti mobili e quelli destinati a restare in situ.

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L’efficienza del sistema di raccolta e smaltimento delle acque meteoriche è legata alla efficacia della manutenzione ripetuta nel tempo.

La vulnerabilità dei resti è strettamente legata alle operazioni di cautela adottate durante gli scavi.

Edifici riscavati a distanza di tempo mostrano comunque nuove e non meno pericolose forme degenerative. Progetti basati su soluzioni tecnologiche ritenute (erroneamente) affidabili e prodotti edili ritenuti inalterabili, nella pratica, pur risolvendo momentaneamente alcuni problemi, sono destinati al fallimento nel giro di pochi anni quando le evidenze di degenerazione possono ripresentarsi, non di rado, in forme più dannose. La conoscenza del costruito antico, se vuole essere efficace e utile, non può fare a meno di indagini sui materiali edili e sulle tecnologie costruttive, sulle economie delle risorse, sulle fonti di approvvigionamento delle materie prime e le procedure di trasformazione, sulle modalità di impiego su vasta scala o con eccezionalità di soluzioni, sulle procedure di produzione e posa in opera, sulla gestione del cantiere antico, sulle dinamiche di uso e di riutilizzo (compresi i correttivi e gli inevitabili adattamenti apportati in epoche antiche) e di abbandono (istantaneo o progressivo, voluto o forzato), sulle trasformazioni avvenute nel tempo, sull’esistenza di soluzioni protettive o conservative antiche, sulla permanenza di procedure costruttive impiegate fino a tempi recenti. Importanti, però, possono risultare gli avvenimenti dall’epoca del rinvenimento o della presa in carico a

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oggi per cause naturali oppure per cattivo uso (compresi restauri sbagliati e scavi non attenti ai problemi conservativi), abbandono o vandalismo.

In estrema sintesi si può affermare che il restauro archeologico sia costituito da atteggiamenti protettivi nei confronti di manufatti edili allo stato di rudere e di aree archeologiche e la messa in atto di procedure conservative che ne permettano la sopravvivenza in condizioni non inferiori a quelle in cui sono arrivati a noi, per un tempo sufficiente (durabilità). La conservazione e la loro manutenzione sistematica hanno anche lo scopo di salvaguardare il potenziale di informazioni che i manufatti (ma solo se conservati “in originale”) potranno dare in futuro. La durabilità potrà variare in maniera determinante in conseguenza delle procedure di scavo7 e conservative adottate.

Un aspetto non secondario da tenere in considerazione è la compatibilità che non può essere riferita soltanto ad aspetti fisico-chimici ma deve comprendere ambiti che riguardano la compatibilità storica, ambientale, socio-culturale, operativa (procedure di intervento). Si tratta di organizzare una specifica catena operatoria che sia capace di rapportare ogni decisione e ogni azione tecnica, anche se isolata, al complesso di decisioni e azioni tecniche nelle quali ha senso. Analizzare la sequenza di un processo produttivo equivale a individuare i singoli sottosistemi che lo costituiscono e definire lo schema delle relazioni che intercorrono tra loro e i relativi condizionamenti.

7 È ovvio che lo scavo vada condotto nel rispetto delle regole dell’archeologia; il restauratore, però, può suggerire alcune strategie cautelative che in conseguenza delle diverse vulnerabilità che caratterizzano siti e monumenti possono ridurre i rischi a livelli accettabili. Si pensi, per esempio, alla utilità di scavi “a cantiere” in alternativa a scavi “open area”.

il restauro archeologico 27

Lo stesso sito a distanza di circa venti anni (oggi è scomparso).

Lo smembramento delle murature è stato facilitato dalla mancanza di una efficace opera di manutenzione.

rischio e vulnerabilità

•Tra i motivi che si portano a giustificazione del ritardo o incompletezza degli interventi conservativi ci sono anche quelli che si basano sulla idea che non sia possibile prevedere quali situazioni potranno incontrarsi durante gli scavi e, quindi, la pratica impossibilità di porre in atto le necessarie procedure conservative. Nella pratica se dal punto di vista del “rischio archeologico”1 le variabili possono essere numerose, per quanto riguarda lo stato di conservazione le variabili si riducono spesso a una casistica limitata di patologie conosciute o comunque riconducibili a classi note di degrado dei materiali e dissesto delle strutture. Il rischio2 definisce le conseguenze che si attendono, in termini di incertezza dei tempi in cui un fenomeno potrebbe avvenire, la gravità ed entità dei danni che un evento può determinare. Le carte di rischio sono, allora, mappe di pericolo. Nei cantieri di restauro e ancor più in quelli di scavo archeologico (caratterizzati da occupazioni temporanee, tempi ristretti e scadenze capestro, modalità esecutive singolari e impiego di mezzi non sempre adatti a fornire livelli di sicurezza adeguati nonché la presenza di operatori non sempre o non adeguatamente avvertiti dei rischi) non è infrequente addirittura un atteggiamento di “negazione del pericolo”. Le misure preventive, e soprattutto quelle a cui si ricorre solo dopo che si è verificato -e non di rado, ripetuto- un disastro, possono essere percepite spesso come una passiva ottemperanza alle normative piuttosto che un mezzo attivo per scongiurare, o almeno limitare, i rischi reali.

Una scheda di certificazione preliminare del rischio ha lo scopo di definire il/i tipo/i di rischio a cui il sito o il manufatto possono essere soggetti. Deve tener conto delle fonti di rischio che derivano dalla localizzazione e dal contesto ambientale. La vulnerabilità va valutata in relazione alle caratteristiche dei singoli manufatti e alle possibili interazioni tra essi (anche alla luce delle informazioni che si possono avere sulla “storia dei danneggiamenti” e delle

1 Va segnalata la non marginale differenza di significato che l’espressione “rischio archeologico” contiene in ambito archeologico (eventualità che si rinvenga qualcosa) e in quello conservativo (rischio che il rinvenuto vada in malora).

2 Alla definizione del rischio (UNESCO, 1984) concorrono i seguenti fattori: pericolosità H (probabilità che un fenomeno potenzialmente dannoso -hazard- si verifichi in un dato periodo di tempo, in una data area e per determinate cause di innesco), elementi a rischio E, vulnerabilità V e rischio specifico Rs (grado di perdita atteso a causa di un dato fenomeno).

riparazioni), la individuazione e indicazione dei possibili peggioramenti nel tempo per cause naturali e quelle indotte dalle lavorazioni che vi si compiono, le informazioni necessarie per migliorare l’efficacia delle operazioni, identificazione dei mezzi, delle risorse e del personale (livelli di competenza e abilità operative, singole e di squadra a disposizione).

Non esiste un modello standard di scheda diagnostica, utilizzabile in ogni occasione, per il rilevamento dei danni di un monumento archeologico. Le valutazioni vengono fatte sulla base di criteri personali e delle esperienze dei singoli operatori. Una scheda di vulnerabilità non avrebbe molte possibilità di essere esauriente e, soprattutto, condivisibile da tutti poiché non esiste un linguaggio comune nella descrizione del danno e degli

Rischio nelle aree archeologiche

La definizione rischio archeologico viene riferito, nella quasi totalità dei casi, alla segnalazione di aree archeologiche e al potenziale di rinvenimenti. Le carte del potenziale archeologico sono uno strumento, facilitato dalle procedure che l’informatica mette a disposizione, certamente utile per la pianificazione territoriale ma ancora non del tutto attento ai problemi conservativi e ai rischi di deperimento più o meno rapido a cui le aree archeologiche fuori terra e/o ancora interrate possono essere esposte. La Carta del rischio Archeologico redatta dall’ISCR è “un sistema informativo territoriale di supporto scientifico e amministrativo agli Enti statali e territoriali preposti alla tutela del patrimonio culturale”. A scala locale la carta del rischio permette di formare quadri conoscitivi a scale diverse e più adatte alle singole realtà e, quindi, la successiva elaborazione delle più adeguate politiche di gestione dei rischi e di corretto uso del territorio. Tra i rischi più frequenti che possono riguardare un’area di scavo archeologico, oltre a quelli direttamente connessi alla presenza di un cantiere edile in generale, si ricordano: i rischi che dipendono dalla mobilità, quelli di natura igienico-sanitaria, presenza di canalizzazioni e condutture (gas, elettricità …) aeree o sotterranee, impianti di terra e di protezione contro scariche elettriche, rischi di seppellimento, di annegamento, caduta dall’alto, lavori in galleria o contatto con strutture labili …; le aree di scavo archeologico potrebbero entrare in pericoloso conflitto con scavi di sbancamento (o saggi archeologici già effettuati e non protetti, aree di deposito, postazioni fisse di attrezzature, recinzioni …). La presenza occasionale nel cantiere di figure atipiche (p.e. il fotografo o il topografo che operano in maniera meno sistematica) può complicare ulteriormente l’organizzazione della sicurezza. Nel cantiere di scavo un problema può essere rappresentato dai “volontari” (soprattutto studenti) che, impegnati in una non facile attività di apprendimento, potrebbero presentare una personale minore capacità di autotutelarsi e una ridotta attenzione nei confronti del manufatto su cui stanno operando. La “Carta del danno archeologico” non va riferita soltanto allo stato di conservazione ma, partendo dalle cause di danneggiamento, può essere utilizzata come strumento di monitoraggio dei siti e dei monumenti e fornire dati per una previsione di danno futuro. La tecnica detta “l’albero dei guasti” (Fault Tree Analysis) bene si presta alla individuazione e registrazione degli scenari incidentali.

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elementi che caratterizzano i singoli fenomeni degenerativi da cui dipenderanno, in pratica, le definizioni dei livelli di vulnerabilità. Uno schema di massima per la valutazione del rischio deve comprendere i seguenti punti:

• comprensione della minaccia e saperla “confinare” in un ambito controllabile e gestibile;

• valutazione del livello di pericolosità e della velocità con cui gli eventi si potrebbero evolvere fino a raggiungere punti di irreversibilità;

• previsione di quali potranno essere i danni e di quali potranno essere i livelli di recuperabilità;

• conoscenza delle procedure necessarie per limitare i danni e/o di quelle necessarie alla gestione della documentazione.

Documentazione dinamica

Il restauro archeologico presenta la singolarità di essere condizionata dalle dinamiche con cui gli interventi avvengono e alla costante variabilità delle condizioni in cui il sito e i manufatti si troveranno a vivere. È evidente come a questa variabilità di condizioni (a sviluppo lento o improvviso, prevedibile o non prevedibile) debba inevitabilmente corrispondere un costante aggiornamento delle indagini e la continua registrazione dei dati che progressivamente emergono. Vanno registrate le differenze tra fenomeni ciclici a breve sviluppo (alternanza giorno-notte), medio sviluppo (variazioni stagionali) o lungo sviluppo così come vanno registrate le variazioni omogenee e lineari nel tempo e quelle “a salti”. La ripetizione delle indagini, gli aggiornamenti costanti su situazioni per le quali normalmente si crede di avere tutte le informazioni possono rappresentare un utile strumento per ridurre le complicazioni che si possono avere in un cantiere a causa dei tempi di cui i singoli gruppi di specialisti hanno bisogno; tempi diversi a seconda delle finalità con cui vengono eseguite. D’altra parte, la richiesta di tempi diversi per completare un saggio di scavo è spesso diversa da quelli che invece servono per indagini sui materiali. Si capisce quanto importante possa essere riscontrare e differenziare fenomeni presenti da lungo o breve tempo; fenomeni antichi ma ormai stabilizzati e altri ancora attivi, fenomeni più recenti attivi o (almeno apparentemente) già fermi. Si tratta di accertare gli elementi più rappresentativi della dinamica delle trasformazioni avvenute. Non di rado e soprattutto nei siti/ monumenti con storia di lunga durata, è possibile che alcune delle tracce relative al degrado di lunga durata, trasformazioni, reimpiego, degrado e dissesto (cause naturali o antropiche) possano essere documentate a causa di riparazioni, asportazioni, demolizioni che diventano, così, tracce guida per le interpretazioni anche delle stratificazioni costruttive e delle relative correlazioni cronologiche. Importante è l’accessibilità alla documentazione; la pratica di “deposito” in archivi consultabili potrebbe facilitare l’ampliamento e il miglioramento delle informazioni sui monumenti di una certa area. Le singole esperienze potrebbero costituire un capitale comune e rappresentare un vero ed efficace strumento per la redazione di una carta del rischio di valore territoriale. È come se si definisse un quadro delle patologie complessive di una Comunità (e quindi dei rischi collettivi possibili) basandosi sull’analisi delle singole cartelle cliniche.

rischio e vulnerabilità 31

Il rinterro, solitamente considerata una pratica efficace, spesso risulta nociva a causa delle differenti condizioni di compattezza e idrauliche dei terreni.

In pochi mq di muratura si notano diverse soluzioni di protezione delle creste (diversamente accettabili). Il loro “collaudo” può orientare scelte successive.

Di grande utilità può risultare la disponibilità di un indirizzario di personale specializzato3 e addestrato a cui far riferimento sia in condizioni “normali” che, in particolare, quelle di “emergenza”. Il permanere di condizioni di instabilità o peggioramenti più o meno improvvisi potrebbero far precipitare la situazione a livelli ancora più gravi4. La definizione di uno scenario di danni avvenuti e di quelli potenziali (più o meno prevedibili) diventa prioritario perché può costituire la base di partenza di qualunque intervento. In un’area archeologica si possono organizzare campagne di indagini finalizzate che, come nel caso di eventi sismici (studi di zonazione sismica del territorio) siano in grado di determinare la severità dei fenomeni attesi in una regione estesa o in un sito specifico. In una scala ridotta e in conseguenza degli obbiettivi delle indagini si possono avere studi di microzonazione, allo scopo di valutare le condizioni normali e le eventuali modifiche (protezioni, puntellamenti, riempimento di lacune, coperture …), più o meno stabili, adottate a contrasto delle sollecitazioni che derivano dalla singolarità delle condizioni locali, dalla predisposizione (naturale e/o acquisita) a subire danni che territorio e manufatti hanno (catalogo degli eventi significativi). La valutazione probabilistica della pericolosità locale e l’individuazione dei fenomeni (scenario degli effetti attesi) può condurre alla definizione dei possibili peggioramenti o mitigazioni. In condizioni di necessità le indagini possono basarsi

Il rinvio di operazioni conservative può innescare meccanismi degenerativi che sarà difficile e costoso contenere a distanza di tempo.

3 Il ricorso a specializzazioni non di rado può costituire solo un pretesto. Su un altro versante, altrettanto delicato per il restauro, avviene la stessa cosa, quando si ritiene che basti avere una stazione totale per autonominarsi un buon rilevatore.

4 Per avere un riferimento si consideri la scala dei livelli ed estensione dei danni agli elementi strutturali basata sulla scala macro-simica europea EMS98 che prevede danni nulli, leggeri, medi, gravi, gravissimi e crolli. Interessante è la definizione del danno medio-grave che pur senza arrivare al limite di perdita di parti del manufatto provoca comunque un cambiamento in maniera significativa la resistenza della struttura. Le cause che rendono difficile l’utilizzo di una scheda diagnostica proveniente da altri contesti riguardano la difficoltà di riconoscimento delle numerose tipologie e materiali variabili in maniera sensibile anche all’interno dello stesso manufatto, la variabilità dei comportamenti di strutture fortemente frammentate; le condizioni ambientali del contorno; le difficoltà di previsione del comportamento delle strutture in relazione alla complessità del sito e delle strutture; la variabilità dei livelli di approfondimento che è possibile assicurare in conseguenza del tempo, dei mezzi e del personale di cui si dispone.

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su accertamenti speditivi sulla vulnerabilità (metodologia adottata, modalità di svolgimento del censimento, determinazione dell’indice di vulnerabilità degli edifici…).

È evidente come una stessa sollecitazione o uno stesso tipo di incidente possano produrre conseguenze di volta in volta diversificate. Sulla base di una maggiore o minore predisposizione al collasso (basata su confronti con situazioni-tipo più o meno generalizzabili) si costruisce un indicatore di vulnerabilità. Nel caso di rischi di esondazione, per esempio, le valutazioni probabilistiche si basano sull’analisi di serie storiche e valutazioni di gravità per mezzo di scale empiriche. Nella valutazione della pericolosità dovute a scavi archeologici o cantieri di restauro risulta difficile eseguire valutazioni sui “tempi di ritorno” e, quindi, valutazioni sul ripetersi degli eventi. La situazione è destinata a complicarsi quando non si tratta di manufatti scavati da tempo (e che in qualche modo sono entrati in sintonia con l’ambiente circostante) ma di aree e monumenti ancora coinvolti in dinamiche ambientali (per esempio le sollecitazioni termo-igrometriche, le variazione dei carichi statici e dinamici). Al concetto di pericolosità è opportuno, allora, sostituire quello di pericolo che non ha alcuna valenza probabilistica. È evidente come anche un esame speditivo possa dare dei buoni risultati ma è ovvio che, in tal caso, determinante diventa la capacità e l’esperienza di chi esegue le perizie pur se condizionate da limitate percezioni soggettive. In un altro ambito disciplinare si tratterebbe di una sorveglianza sanitaria che comprende visite mediche ripetute e accertamenti specialistici5. Nella valutazione dello stato di conservazione di un sito e dei livelli di rischio presenti/prevedibili, a fronte di un insicuro quadro di conoscenze e la difficoltà di definire realistici scenari futuri, si dovrebbe adottare una strategia che è riconducibile proprio al principio di precauzione.

5 “troppo spesso un paziente viene curato da più medici che non dispongono di informazioni sul suo stato di salute o sulle medicine che prende […] l’edificio sopravvive all’insapienza del suo terapeuta, ma solo con il tempo è in grado di raccontare il suo disagio” (Treccani 2000).

rischio e vulnerabilità 33

In un fronte di scavo lasciato senza protezione si possono innescare meccanismi di vulnerabilità soprattutto in presenza di murature di piccolo apparecchio.

La protezione delle creste murarie, insieme alle integrazioni delle lacune, costituisce la più frequente categoria di intervento su manufatti architettonici ridotti allo stato di rudere al punto che, non di rado, si tende a identificarla in toto con lo stesso Restauro Archeologico. La definizione cresta di muro identifica la parte sommitale orizzontale di un muro e soggetta, se non protetta, all’azione di diversi agenti degenerativi. La definizione collo del muro identifica, invece, lo strato sottostante la cresta e interessa generalmente superfici solitamente verticali di paramento per 15-20 cm. Non manca, però, chi estende il termine collo fino a comprendervi anche la cresta e viceversa. Per comodità e con le necessarie cautele si possono utilizzare gli stessi termini per i fronti rocciosi o terrosi di scavo. I fronti sono la parte degli scavi che presenta la maggiore instabilità. Le zone più vulnerabili sono proprio gli “spigoli” che le superfici orizzontali formano con quelle verticali dove si evidenziano le azioni di erosioni concentrate e/o diffuse, espulsioni angolari di parti, trasporto di materiali… Gli interventi sulle creste vengono utilizzati come principale elemento di giudizio sugli interventi post scavo sulla base di valutazioni di carattere prevalentemente estetico e dell’efficacia immediata diventando, frequentemente, un modello di riferimento da riprodurre, quasi meccanicamente, in altri esempi. La protezione delle creste ha lo scopo pratico di impedire le infiltrazioni di acque meteoriche dei muri smembrati e non protetti da tettoie evitando allo stesso tempo ribaltamenti ed espulsioni degli elementi di apparecchio a causa dell’indebolimento delle parti sommitali delle murature. L’area di interesse può riguardare azioni locali (azioni concentrate che non di rado costituiscono l’innesco per meccanismi destinati a estendersi ad aree più ampie) oppure azioni estese che, anche se solitamente meno gravi, possono creare difficoltà diagnostiche e terapeutiche proprio a causa della loro estensione. Si deve ritenere che la classe degenerativa più frequente e pericolosa sia rappresentata dall’acqua che può essere presente in varie forme. Questa può agire direttamente (p.e. infiltrazioni più o meno concentrate che provocano azioni meccaniche) oppure diventa veicolo per altre forme degenerative che da essa possono dipendere (p.e. percolazioni che provocano una proliferazione di vegetazione infestante).

la protezione delle creste murarie

Dinamica di degrado/dissesto di una cresta muraria a causa dell’azione di acque meteoriche.

Le pareti di scavo, soprattutto se destinate a restare più o meno a lungo all’aperto, rappresentano un elemento di grande delicatezza che è ben riconosciuta, sia pure con motivazioni non proprio corrispondenti alle esigenze archeologiche, dalla normativa sulla gestione di un cantiere che prevede procedure di sicurezza, anche per fronti ridotti di scavo, con l’obbligo di scarpature1, inclinate in relazione alle condizioni d’attrito dei terreni e tagli a gradoni. Si tratta di soluzioni “di sicurezza” che non sempre sono in sintonia con le richieste degli archeologi che preferirebbero, invece, pareti di scavo verticali e libere. Evidentemente la delicatezza degli interventi sulle creste aumenta in siti nei quali coesistono strutture architettoniche e fronti di scavo che presentano grandi differenze di vulnerabilità come può succedere quando si riapre un cantiere di scavo e ci si trova a operare contemporaneamente su fronti e strutture già rimesse in luce in precedenza con quelli che si vanno via via scoprendo2. Le opere di consolidamento provvisorie o defini-

1 Nel terreno vergine (e in quello archeologico stabile da tempo) gli strati sono normalmente in equilibrio ma quando non sono più sostenuti lateralmente hanno tendenza a slittare o rovesciarsi. La casistica più ricorrente riguarda: tagli inclinati a circa 45° e pareti tagliate a gradoni; pareti a scarpa, la pendenza dello scavo aumenta con il diminuire della consistenza del terreno variando tra 1/2 e 1/5 della profondità della trincea di scavo mentre per terreni più compatti può arrivare anche a 1/8 ÷ 1/10; banchine, per profondità superiori a 2 metri; puntellamenti, per pareti fragili che devono rimanere verticali. Gli elementi di sbadacchiaturacomponente base del consolidamento precauzionale - non lavorano solo a compressione semplice; quando sono apparecchiati in posizione orizzontale o inclinata subiscono sforzi di flessione e di pressoflessione, indotta anche dal peso proprio.

2 La cresta di un fronte di scavo, come punto di inizio del degrado/dissesto, risulta particolarmente esposta a fenomeni erosivi più o meno concentrati. La geometria del fronte può essere determinante nel caso di pareti inclinate a scarpa (inclinazione di sicurezza). I fenomeni di degrado dei fronti di scavo non orizzontali e delle strutture adiacenti sono assimilabili a quelli franosi e di instabilità dei terreni erosi per i quali si può parlare di situazioni in atto o quiescenti in base alle variabili in gioco (dalla geometria del fronte di scavo alla piovosità del contesto climatico). I meccanismi degenerativi che si innescano (erosione concentrata, variazioni di umidità, crolli di porzioni e zolle o di elementi lapidei aggettanti) tendono a far perdere la configurazione originaria con un graduale sconvolgimento degli strati del fronte. Ulteriori complicazioni possono determinarsi qualora diversi aspetti negativi si sovrappongano nello stesso fronte di scavo come avviene per stratigrafie molto articolate. Alcune operazioni di cautela (monitoraggio, semplici accorgimenti protettivi come teli o tettoie provvisorie) possono ridurre la vulnerabilità in attesa di adeguati interventi protettivi delle creste.

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in contesti archeologici tendono ad assumere connotazioni particolari a causa dello stato di conservazione in cui si trovano siti e manufatti all’atto del rinvenimento. Oltre a contenere le spinte dei fronti di scavo e pareti devono permettere il massimo dell’agibilità del sito per adeguarsi alla costante e sensibile variabilità delle condizioni di lavoro. Il consolidamento, spesso fortemente condizionato dalle necessità di calcoli e verifiche strutturali, rappresenta un campo molto delicato. Rivendicato dall’architetto e dall’archeologo, di fatto, viene gestito dallo strutturista al quale si chiede soltanto di far stare in piedi il muro. I problemi di rischio immediato vengono risolti dagli operai con soluzioni solitamente efficaci per l’immediato ma, spesso, destinati a rivelarsi meno validi nel giro di poco tempo. Tra gli interventi di consolidamento3 precauzionale più frequenti si ricordano quelli che si rendono necessari per assicurare una maggiore distribuzione dei carichi a terra (con il rischio, però, di non tenere conto che si interviene su suoli archeologici potenzialmente molto delicati), quelli necessari a riportare in verticale i muri (con il rischio di non riconoscere e rispettare muri nati fuori piombo da quelli che invece lo sono diventati in epoca antica o più recentemente); quelli necessari per il ricarico di strutture a causa del brusco cambiamento delle condizioni di equilibrio delle spinte dovute alle operazioni di scavo (con il rischio di sovraccaricare parti della fabbrica o dei fronti di scavo, a labilità estesa o vulnerabilità concentrata); quelli che si rendono necessari per reintegrare parti murarie andate perdute e quelle che, invece, sono necessarie per motivi strutturali (con il rischio di inventare cortine mai esistite). Sempre più frequentemente si pone la necessità di operare interventi di consolidamento precauzionale, destinato a un lavoro a termine, da revocare appena saranno cambiate le condizioni che l’avevano provocato.

3 Consolidamento coesivo (sostituzione con un nuovo legante parti decoese) realizzato di solito con impregnazioni, consolidamento adesivo (ripristino dell’aderenza tra supporto e rivestimento) realizzato di solito con iniezioni, consolidamento funzionale (mira alla stabilizzazione della riutilizzabilità), consolidamento strutturale

la protezione delle creste murarie 37
tive

I fronti di scavo in terra risultano particolarmente vulnerabili a causa delle diverse locali compattezze (talvolta a breve distanza, per condizioni naturali o esiti di lavorazioni), geometria (più o meno verticali), condizioni termo-igrometriche (esposizione, ristagni o ruscellamenti di acque), elementi lapidei presenti (taglia, condizioni di infissione), procedure conservative (in atto stabili o stagionali). Differenze sensibili possono dipendere dal fatto che si prevedano riprese degli scavi oppure li si considerino completati.

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Manutenzione dei ruderi urbani

Il rischio maggiore che corrono i ruderi collocati in ambito urbano è quello che deriva dall’abitudine a convivere con i resti e alla progressiva riduzione di interesse e impegno nella loro manutenzione. Fenomeno questo che risulta più evidente per gli edifici allo stato di rudere ritenuti di minore valore o non utilizzabili immediatamente. Uno strumento efficace di conoscenza per la tutela attiva dei ruderi urbani è l’organizzazione e la gestione di un osservatorio dal quale si possano monitorare, in continuo e per un tempo adeguato, i cambiamenti, naturali (condizioni ambientali) e indotti (sollecitazioni del traffico, sovraesposizione …) che avvengono. Le soluzioni possibili dovranno dipendere inevitabilmente dalla risoluzione di una serie di osservazioni e accertamenti mirati:

• le forme patologiche e la velocità con cui i fenomeni degenerativi si presentano eccezionalmente o, più frequentemente, si riproducono ciclicamente;

• i rischi in atto e quelli potenziali dovuti alle condizioni naturali e quelli indotti da mancanza di manutenzione e/o cattivo uso;

• analisi delle soluzioni adottate finora e la valutazione della loro validità nel tempo;

• analisi degli elementi “esterni” che possono concorrere al progressivo deperimento dei ruderi (presenza di attività commerciali, aree di sosta e/o forte traffico …) e valutazione di quegli elementi che potrebbero contribuire a risolvere il problema;

• valutazione della naturale capacità dei ruderi di sopravvivere rispondendo al quesito: cosa (e fino a quando) succederebbe se non si facesse nulla?

I risultati delle rilevazioni possono rappresentare uno dei componenti necessari per la redazione di un progetto caratterizzato prevalentemente su procedure di manutenzione ordinaria, complete delle direttive di valore generale e schede operative specifiche, e adattabili caso per caso, per un controllo nel tempo. Eventuali estensioni potranno essere avviate se necessarie. Le operazioni più importanti da prendere in considerazione sono:

• raccolta di materiali relativi ad altre esperienze che possono essere riferite al progetto;

• verifica delle catene operatorie caratteristiche (di carattere generale e “locale”) in altri cantieri di scavo e di restauro;

• allestimento di stazioni di osservazione tra loro confrontabili (cantieri riferibili a situazioni simili, sequenze stratigrafiche raffrontabili, tipologie di reperti e strutture destinate a restare in situ, condizioni e caratteri dell’intervento …);

• definizione di atlanti diagnostici e di intervento specifici;

• definizione di procedure di intervento e di controllo specifici (capitolati specifici e schede tecniche dei prodotti e delle procedure);

• organizzazione di un archivio complessivo consultabile, basato sulla carta archeologica urbana, da tenersii costantemente aggiornato e tale da costituire patrimonio comune e sempre consultabile.

la protezione delle creste murarie 39

Gli interventi integrativi alla cortina muraria in opus reticulatum sono riconoscibili per regolarità di apparecchio, bordi delle parti nuove, stilatura tra i cubilia (di riciclo), trattamento delle superfici.

In molti casi la protezione delle creste può coinvolgere lacune nelle parti più alte delle murature. Quando si devono predisporre strati “preparati” a reggere le copertine ma anche quando le integrazioni si rendono utili perché i ruderi siano “comprensibili” da parte del pubblico1. La perdita di parti di murature può essere “suggerita” da ricostruzioni più o meno ampie di volumi capaci di alludere in maniera semplificata alle parti perdute. Le soluzioni adottate per le interazioni e completamenti prevedono un trattamento della muratura in addentellato (per far capire che il muro antico proseguiva) e a spigoli in facciavista (per suggerire che si tratta di un nucleo in vista).

La scelta delle integrazioni volumetriche può avere anche finalità documentarie e didattiche associando ai diversi volumi indicazioni strutturali e di apparecchio, cronologie e sequenze stratigrafiche, evidenze dello stato di conservazione.

Si tratta di soluzioni giù adottate tra le due guerre (con soluzioni, però, solitamente poco reversibili) ma sviluppate in particolare a partire dagli anni ’80 nella sistemazione di allestimenti museali e in aree archeologiche al coperto.

Le soluzioni più ricorrenti per la chiusura di lesioni e brecce di maggiore ampiezza (a causa di perdite di cortine superficiali o parti del nucleo interno) possono prevedere l’impiego di materiale diverso oppure il reimpiego di materiale simile antico più o meno trattato per renderlo riconoscibile:

• materiale diverso:

– materiale tradizionale “gerarchicamente meno nobile”: L’impiego di laterizi a integrazione di cortine lapidee è il sistema più impiegato, assicura una buona protezione e riconoscibilità;

– materiale tradizionale intonacato, laterizi o scaglie lapidee intonacati. Impiegato fin dal

XVII secolo ma ha bisogno di rinnovamenti periodici;

1 Il rapporto conservazione-divulgazione costituisce uno dei temi più importanti e ricorrenti nei dibattiti sul restauro con posizioni sempre più articolate con l’ampliarsi (forse talvolta incontrollato) dei nuovi strumenti informativi. Non è difficile verificare quante iniziative siano basate su elaborazioni di realtà aumentata che, in realtà, partono da una scarsa conoscenza della realtà

trattamento delle lacune

Interventi di completamento e regolarizzazione di cortine in opus vittatum in laterizio e opus reticulatum in tufo (tufelli) con soluzioni diverse e sottosquadro.

Integrazioni di parti in laterizio poste a suggerire, in maniera sintetica, volumetrie non più esistenti.

– conglomerato cementizio con inerte estraneo o graniglia/polvere dello stesso tipo litologico del supporto originale. Può essere spazzolato o lavato, presenta facilità di realizzazione ma rischia di risultare difficilmente reversibile;

– pannelli prefabbricati, elementi allestiti in situ o costruiti fuori opera possono svolgere anche una buona funzione strutturale;

– resine mescolate con polvere di pietra o laterizio. Rischiano incontrollabili variazioni di resistenza ed estetiche e incompatibilità con i materiali originari.

• materiale simile:

diverso apparecchio murario. Si utilizza lo stesso materiale, o simile, ma con una tessitura diversa;

regolarizzazione dell’apparecchio originale impiegando lo stesso materiale apparecchiato su piani di posa resi regolari o variato (p.e. a 45°);

rilavorazione superficiale del materiale originario tramite graffiatura, scalpellatura, martellinatura, bocciardatura, sabbiatura;

Sistemazione delle sommità dei muri con integrazione in laterizio (3-4 filari) e malta con caementa infissi.

“Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”: la partecipazione del pubblico al cantiere può rappresentare una privilegiata occasione di maturazione di nuovi interessi e di crescita di un senso civico.

– variazione della taglia degli elementi di apparecchio con l’impiego di pezzature più grandi o piccole;

– diversificazione dei giunti di malta con allargamenti o restringimenti, arretramento dei punti, diversificazione composizionale delle malte, coloritura delle malte;

– variazione della geometria delle superfici con arretramenti (avanzamento) di tutta l’area integrata;

– semplificazione delle masse. Allestimento di cornici, capitelli, trabeazioni con sagome semplificate e senza ornati.

L’evidenziazione del contorno può essere realizzato con:

– delimitazione del bordo dell’integrazione con nastro continuo o a tratti di materiali diversi (nei mosaici, tessere di colore o taglia diversi);

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 42

– delimitazione del bordo con un solco;

– giunti dilatati lungo i bordi.

Le principali classi di intervento, caratterizzate dai materiali disponibili, dalle direttive date dai direttori dei lavori e soprintendenti (ma più spesso dagli assistenti di cantiere che soprattutto in un certo periodo sono stati i veri gestori di aree e monumenti) sono il risultato di procedure diventate localmente abituali. Si potrebbe quasi dire che mentre per il trattamento di superfici verticali, che si tratti di interventi conservativi o strutturali, è sempre richiesta la competenza di un progetto adeguato, per interventi sulle creste dei muri si è spesso ritenuto che fosse sufficiente la pratica di muratori che di volta in volta hanno adottato la soluzione ritenuto più efficace prendendo a modello esempi già noti e utilizzando i materiali disponibili in loco, compresi quelli di risulta. D’altra parte gli stessi capitolati-contratti d’appalto non sempre forniscono indicazioni specifiche per la protezione delle creste considerandole, forse, come categorie di lavorazioni semplici che non hanno necessità di tanti chiarimenti2. Alcune soluzioni, ripetute per tempi sufficientemente lunghi, sono diventate tradizionali e, perciò, riproposte solo con piccole modifiche. La predisposizione di voci attente e adeguate alle esigenze del restauro archeologico deve essere supportata da specifiche schede operative che derivano soprattutto da sperimentazioni mirate in situ. Sempre più frequentemente le Soprintendenze e altri Enti di tutela si dotano di propri modelli di capitolato capaci di assicurare una chiarezza di comportamento altrimenti difficile e una maggiore certezza nei preventivi, con vantaggi anche delle Imprese addette ai lavori. Non è raro, infatti, che molte Imprese concorrano alla realizzazione di opere di scavo archeologico e restauro spinte dalla forte riduzione di cantieri di edilizia e di restauro monumentale.

2 Che siano considerati lavori di routine e non meritevoli di maggiori attenzioni è dimostrato dalla scarsità della documentazione disponibile. La consapevolezza che ogni intervento non sia l’ultimo ma soltanto uno che sarà seguito nel tempo da altri (manutenzione ordinaria) dovrebbe spingere a una maggiore e più corretta documentazione. L’impegno a documentare sia soluzioni positive sia negative è una procedura che in altre discipline è regola perché anche errori sistematici e incidenti di percorso possano ridurre il rischio che si ripetano.

trattamento delle lacune 43

Tra le voci previste in capitolato particolare attenzione deve essere data a quelle che si riferiscono agli scavi (sc. in genere, sc. di sbancamento e scotico, sc. di fondazione, sc. archeologici in estensione o a sezione obbligata) e le demolizioni (d. andanti, d. sistematiche, smontaggi, opere di stonacature…) per le quali bisognerà prevedere il massimo della cautela e il preventivo assenso di un D.d.L. specializzato prima dell’allontanamento dal cantiere (stivaggio cautelativo, trasporto a discarica). Allo stesso tempo, importanti saranno le norme di accettabilità dei materiali edili (materiali nuovi, materiali di reimpiego) e i prodotti per il restauro (consolidanti, prodotti per la pulizia, collanti, impermeabilizzanti) per i quali potrebbero essere opportuni preventivi collaudi in laboratorio e/o in opera. Le voci che contengono aumenti del prezzo unitario per far fronte a difficoltà di esecuzione dovranno essere controllate e monitorate con particolare attenzione dalla D.d.L.

Indagini per il restauro

Per il restauro archeologico è determinante che gli interventi siano preceduti da esaurienti e corrette indagini diagnostiche che potranno addirittura limitare le necessità di interventi di restauro che, nella maggior parte dei casi, sono proprio dovute all’arretratezza diagnostica. Di rilevante importanza è la ricerca storica; in particolare quella che riguarda lo sviluppo dei meccanismi degenerativi post-scavo. Dal momento della riscoperta possono essersi attivati processi degenerativi quasi sempre evidenti ma, non di rado, a sviluppo subdolo i cui effetti potrebbero evidenziarsi soltanto in momenti successivi, quando i livelli patologici potrebbero aver superato la soglia di tollerabilità. Raccolta di una documentazione relativa. Studio e realizzazione di una scheda strategica di catalogo e organizzazione di un archivio. Un programma conoscitivo generale, adattabile alla specificità delle diverse situazioni, prevede:

• Indagini sugli interventi pregressi. Verifica dello stato delle conoscenze delle realizzazioni di altri interventi nello stesso sito e in un’area congruente. Redazione di un atlante tematico degli interventi eseguiti in altre occasione con indicazione dei materiali e le tecnologie adottate, valutazione dei risultati ottenuti. Nella valutazione dei risultati bisognerà tener conto della compatibilità (criteri di compatibilità a livello tecnico e operativo, valenza di fattori tecnici e funzionali, criteri di compatibilità a livello estetico, criteri di campatibilità a livello chimico-fisico, criteri di compatibilità tra materiali tradizionali e moderni, criteri di compatibilità a livello socio-culturale).

• Rilievi ed accertamenti di emergenza. Hanno l’obiettivo di fornire strategie per la registrazione e la interpretazione dei fenomeni che altrimenti rischiano di andare perduti o di non essere sufficientemente compresi.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 44

Di volta in volta gli interventi possono essere catalogati secondo la riconoscibilità delle parti modificate a quelle originarie: distinguibilità minima e massima diversificazione con la periodica rivalutazione del criterio minimale e, infine, ricostruzioni didattiche reversibili ma anche interventi di nuova architettura (non di rado la pericolosità è proporzionale alla risonanza del nome della archistar che l’ha progettata).

• Rilievi dinamici. Il confronto tra due rilievi dello stato di conservazione di un manufatto, a distanza di tempo, può contribuire a chiarire e dimensionare fenomeni degenerativi in atto.

• Indagini non distruttive. Le attuali tecniche non invasive (prospezioni sismiche, misure di tipo elettrico e indagini con la tecnica del georadar, prospezioni magnetiche) applicate alle analisi diagnostiche risultano le più adeguate a effettuare indagini per il restauro in quanto aggiungono all’integrità dell’oggetto anche l’eseguibilità direttamente in situ potendo offrire risultati in tempi brevi e controlli immediati.

• Interventi distruttivi. Lo scavo archeologico, innanzitutto, e saggi esplorativi come carotaggi, tasselli in profondità crescente, transetti esplorativi. Si può ridurre l’incidenza distruttiva adottando procedure di cautela e strategie adeguate.

• Interventi per campioni. Accertamenti “per campioni” significativi e rappresentativi possono costituire un valido strumento per tenere sotto controllo situazioni più ampie e permettere estensioni controllate.

• Indagini sui meccanismi degenerativi. Rilevamento diagnostico dei meccanismi più ricorrenti allo scopo di evidenziarne le forme patologiche e dimensionarne le incidenze in relazione alla velocità con cui tali fenomeni si sviluppano.

trattamento delle lacune 45

i princìpi della protezione delle creste

L’interesse per la protezione delle creste, per molti aspetti dipendente da quello preminente per le integrazioni delle lacune, comincia ad articolarsi alla fine del diciannovesimo secolo in documenti che, pur non avendo autorità di legge, hanno permesso una definizione moderna dei princìpi del restauro1. Personalità fondamentali per la maturazione del concetto di restauro sono G.Boni e G.Giovannoni (1913). Giovannoni considera i monumenti come documenti da restaurare seguendo i valori storico-artistici dell’ambiente in cui si collocano valorizzando principalmente quelle stratificazioni storiche ritenute più importanti2. Gli interventi sui ruderi rientrano tra “i restauri di consolidamento3, cioè di: rinforzo statico e di difesa dagli agenti esterni (che) sono provvedimenti tecnici affini ai lavori di manutenzione e di riparazione, rappresentano lo stadio più umile dei restauri, che non accende la fantasia, ma che appunto per questo è più utile e dovrebbe essere oggetto delle massime cure”. In particolare per i ruderi propone interventi minimi suggerendo interventi riconoscibili “per forma e materiali (che) denotino chiaramente di essere nuovi e non vogliono contraffare gli antichi“ solo dove strettamente necessari.

1 Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione, 21 luglio 1882 (G.Fiorelli); III Congresso degli Ingegneri e degli Architetti, Roma 1883 (C.Boito). In un anno l’idea di un intervento prevalentemente mimetico si trasforma in quella di un intervento riconoscibile (“i monumenti architettonici, quando sia dimostrata incontrastabilmente la necessità di porvi mano, devono piuttosto essere consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati, evitando in essi con ogni studio le aggiunte e le rinnovazioni”). I ruoli del tecnico sono ben definiti nelle consegne che Fiorelli, direttore degli scavi a Pompei dal 1860 al 1875, dà all’ingegnere P. La Vega: “Si occuperà della continuazione delle piante di Pompei, ponendo né propri luoghi gli edifici, che si vanno tratto tratto scoprendo. Resterà incaricato di disporre le riparazioni, che giudicherà necessario che debbano farsi per la manutenzione delle fabbriche…”. Nel 1893 C.Boito sintetizza in maniera incisiva i princìpi della sua idea”…per mostrare che un’opera d’aggiunta o di compimento non è antica, voglio suggerire nientemeno che otto modi da seguire secondo le circostanze: 1) differenza di stile fra nuovo e vecchio; 2) differenza di materiali di fabbrica; 3) soppressione di sagome e ornati; 4) mostra dei vecchi pezzi rimossi aperta accanto al monumento; 5) incisione di ciascun pezzo descrizione e fotografie dei diversi periodi del lavoro, deposte nell’ufficio o in luogo prossimo ad esso, oppure descrizione pubblicata per stampe; 8) notorietà”.

2 I monumenti vengono distinti tra morti e vivi: “Sono tra i primi i monumenti dell’antichità, per i quali è ordinariamente da escludersi una pratica utilizzazione e una trasformazione da rudero con essenziali opere aggiunte. Tra i secondi si hanno palazzi e chiese, per i quali può praticamente, e spesso anche idealmente, apparire opportuno il riportarli a una funzione…”.

3 Gli interventi di “semplice consolidamento” vanno considerati come una operazione “quasi completamente tecnica” la cui esecuzione può essere assegnata a maestranze non particolarmente specializzate. Le categorie di intervento previste dal Giovannoni sono: restauri di consolidamento, r. di ricomposizione (anastilosi), r. di liberazione, r. di completamento e ripristino, r. di innovazione.

Per contesti archeologici le proposte di G.Boni sono più specifiche e puntuali. Per i colli dei muri appena scavati e perciò esposti in maniera brusca agli agenti atmosferici propone “uno strato di pietre intonato per dimensione e colore ma così resistente da servire da cappello a difesa dell’opera sottostante”, l’impiego di blocchi di conglomerato per coprire una struttura di blocchi monolitici superstiti, copertine di cocciopesto e di cotto, tettoie4 e stuoie, fogli di tela oleata e cartone bitumato o, più stabilmente, l’adozione di lamiere ondulate di ferro zincato e scandole di legno foderate di piombo. Per il trattamento di intonaci e stucchi prevede, in alternativa alle “cornici di inviluppo” e alle sigillature esterne, l’uso di “grappe di rame a testa piatta, che si faranno penetrare in forellini trapanati”. Una geniale anticipazione dei più recenti concetti di “minimo intervento e reversibile”. G. Boni, influenzato da J.Ruskin, sviluppa l‘idea di integrare le lacune e proteggere le creste dei muri con l’utilizzo di elementi vegetali. Le essenze vegetali non hanno solo il compito di mascherare le murature ma possano aiutare a ricostruire mentalmente i profili delle parti mancanti. Per proteggere le creste dagli agenti atmosferici suggerisce l’impiego di “pellicce erbose fatte crescere su di un sottile strato di humus alla sommità dei ruderi (che) li proteggono dall’arsura e dal gelo, formando un tessuto di radichette. La cresta dei muri, d’opera testacea e cementizia, facile a disgregarsi per le intemperie, viene tutelata dalle infiltrazioni mediante cocciopesto, sul quale si stende il terriccio misto a seme di fieno, per agevolare il formarsi d’una verde pelliccia; ottime a tal uopo le poae, tra le graminacee a radice fibrosa, e la lippia repens, graziosa verbenacea resistente alla siccità”.

Questi atteggiamenti di grande rispetto per gli originali rappresentano per l’epoca un novità e senza dubbio non da tutti condivisi se, nella pratica, si opera con interventi mirati a trasformare una “mutile informe rovina” in un “accento e ritmo di bellezza nella cornice del paesaggio pompeiano” come sosterrà pochi anni dopo A.Maiuri. In analogia con quanto si va facendo a Pompei (V.Spinazzola) e a Roma (C.Ricci) e, dopo gli interventi di D.Vaglieri e R.Paribeni, G.Calza è impegnato a Ostia “nella vasta e complessa opera di reintegrazione e sistemazione delle rovine”, operazioni queste su cui “converge il progresso archeologico e dalle quali s’esprime il valore dell’archeologo” (Calza 1916). Gli interventi ostiensi sono molto impegnativi anche per le numerose implicazioni estetiche ma soprattutto quelle d’ordine tecnico. In particolare le preoccupazioni del Calza sono riferite a problemi statici e a quelli della protezione dei ruderi dagli agenti atmosferici. Per la protezione delle

4 Al VII Congresso di Archeologia Classica (1958) P.Romanelli interverrà con la proposta di usare tettoie mettendo in guardia dal pericolo dei falsi, comunque sempre riconoscibili e talvolta giustificabili; il vero rischio è costituito secondo lui dalla tecnica costruttiva moderna e dalla “audacia e intelligenza degli architetti” che possono progettare “le strutture più geniali, ma anche le più audaci” con il rischio che le protezioni possano attrarre l’attenzione del pubblico più delle cose protette.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 48

creste dei muri al posto delle ormai usuali copertine di calcestruzzo propone di coprire le superfici esposte con una sottile pelliccia erbosa controllandone lo sviluppo per evitare flora parassitaria. Più in generale preferisce lasciare i muri senza protezione perché “il sacrificio di qualche centimetro di muro che si perderà ogni decennio nelle mura ad altezza d’uomo, non è nulla di fronte allo sgradevole effetto di quella orribile corteccia uniforme che sostituisce le linee movimentate delle rovine, monotone e convesse superfici biancastre” (Calza 1917). Una dozzina di anni più tardi a fronte di bauletti protettivi usualmente realizzati con malta cementizia, sabbia di fiume e brecciolino, a Ostia propone: “la copertina dei muri e cioè la protezione della sommità delle murature si ottiene efficacemente ed esteticamente, rivestendoli, dopo averli accuratamente puliti e lavati, di uno strato di 15 cm. di malta (calce e pozzolana pura) e pezzetti di mattoni e tufo. Questo sistema che è quasi un’imitazione dell’interno delle murature non solo le ripara dagli agenti atmosferici, ma conservando intatta la movimentata linea di rottura dei muri, è molto migliore dell’altro sistema di ricoprire le murature con una camicia di cocciopesto biancastro” (Calza 1929). Solo raramente la reversibilità dell’intervento è possibile; la sola separazione tra collo e cresta è una superficie di sacrificio costruita a imitazione del paramento antico in sottosquadro in maniera da essere riconoscibile. Nel caso di distacco del paramento la protezione del nucleo interno è realizzata con lastre di eternit.

Al III Convegno Nazionale di Storia dell’Architettura lo stesso Calza rivedrà almeno in parte le sue posizioni. Per le creste dei muri proporrà l’adozione di “uno strato di pietre intonato per dimensione e colore, ma così resistente da servire da cappello a difesa dell’opera antica sottostante” ma anche copertine di cocciopesto e di cotto, lamiere di ferro zincato e scandole di legno foderate di piombo.

Nel 1931 vede la luce la Carta di Atene, documento conclusivo dei partecipanti alla Conferenza internazionale (Atene, 21-31 ottobre 1931). Giovannoni suggerisce che per gli interventi più impegnativi si faccia ricorso “ai più svariati mezzi della tecnica e della scienza moderna” arrivando a proporre “l’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”5. L’uso talvolta incontrollato di malte di cemento provocherà negli anni successivi non pochi danni legati soprattutto alla facilità di impiego e di posa in opera nella illusione di avere risultati efficaci e definitivi6. Va constatato che interventi con l’uso di malte di cemento e di strutture di calcestruzzi armati (che pure dovrebbero

5 All’articolo 5 della Carta di Atene gli esperti “esprimono il parere che ordinariamente questi mezzi di rinforzo debbano essere dissimulati per non alterare l’aspetto e il carattere dell’edificio da restaurare; e ne raccomandano l’impiego specialmente nei casi in cui essi permettono di conservare gli elementi in situ evitando i rischi della disfattura e della ricostruzione”.

6 Per utili considerazioni sull’uso del cemento e rischi conseguenti: A.Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa, (Paris 2020) Milano 2022. “Il cemento ha cancellato tutte le peculiarità locali, tutte le tradizioni, e si è imposto come unica legge fin negli angoli più remoti del pianeta dove l’arte di edificare un tempo rispondeva a una pluralità di tecniche e di immaginari”.

i princìpi della protezione delle creste 49

essere vietati per principio) in alcuni casi, possono aver dato buoni risultati. Contano le caratteristiche delle murature, le condizioni ambientali, le dinamiche stagionali delle sollecitazioni, la qualità delle malte e, ovviamente, le capacità professionali degli operatori. Le istanze della Carta sono riprese e puntualizzate nella Carta del Restauro Italiana (1932) allo scopo di uniformare le metodologie di intervento nelle diverse Soprintendenze. Le indicazioni metodologiche e operative hanno carattere generale mentre per gli interventi di minuta manutenzione si lascia che siano gli operai a prendere le decisioni che di volta in volta si rendono necessarie ricorrendo a soluzioni in grado di assicurare “un carattere di nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo”. Un elemento di novità è costituito dalla raccomandazione (art. 10) che “negli scavi e nelle esplorazioni che rimettono in luce antiche opere, il lavoro di liberazione debba essere metodicamente e immediatamente seguito dalla sistemazione dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d’arte rinvenute, che possono conservarsi in situ”. Si tratta di quel restauro contestuale che, accettabile in alcuni casi di scavi in condizioni di emergenza e applicato soprattutto nella protezione delle creste, più frequentemente provoca falsificazioni che la presenza di più operatori applicati sullo stesso cantiere e scarsamente coordinati tra loro rischia di peggiorare.

In analogia con quanto era già successo dopo il Convegno di Roma, gli interventi di cantiere, però, contraddicono i princìpi teorici assecondando i piani di sventramento “d’ordine d’imperio” in previsione delle celebrazioni del Bimillenario della Romanità con disinvolte demolizioni, massicci consolidamenti nei quali il cemento giocherà il ruolo più importante per infiltrazioni, colature, e cuciture armate. Si tratta di interventi fortemente condizionati da ideologie che privilegiano l’effetto scenografico. La scelta di utilizzare materiali più resistenti di quelli antichi si rivelerà non sempre giusta, talvolta controproducente per i frequenti casi di rigetto dei materiali originali che può provocare. Allo stesso tempo fallisce il proposito “che sia tenuto ogni anno a Roma un convegno amichevole […] nel quali i singoli Sovraintendenti espongono i casi e i problemi che loro si presentano per richiamare l’attenzione dei colleghi, per esporre le proposte di soluzione”. Nel 1938 vengono emanate le Istruzioni per il Restauro dei Monumenti che confermano la validità delle Carte di inizio decennio suggerendo atteggiamenti di cautela mentre, nella pratica, tutta l’Italia e buona parte del bacino del Mediterraneo si trasformano in un vasto cantiere di restauro archeologico che consentirà di sperimentare, nel bene e nel male, tutte le soluzioni di intervento che all’epoca si possono immaginare anche se con una preminenza di progetti di immagine piuttosto che realmente conservativi.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 50

Esaurita la fase emergenziale delle ricostruzioni

postbelliche tra le diverse occasioni di riflessione importante è il Secondo Congresso Internazionale degli Architetti e Tecnici dei Monumenti (Venezia 25-31 maggio 1964)7. Due anni dopo la rivista “Ulisse” dedicherà il fascicolo LVI al “futuro dell’archeologia”8.

Qualche anno più tardi viene diffusa la Carta Italiana del Restauro (1972), organizzata in una relazione introduttiva nella quale si riconosce preminente la mano di C.Brandi, e quattro allegati specifici sui restauri concepiti come strumenti operativi aggiornabili secondo le necessità. Il primo è dedicato proprio ai restauri archeologici. La Carta non riuscirà mai a diventare legge ma costituirà soltanto uno strumento di raccomandazione per le Soprintendenze che dal 1939 possono avvalersi del supporto dell’Istituto Centrale del Restauro. All’articolo 9 si legge: “L’uso di nuovi procedimenti di restauro e di nuovi materie, rispetto ai procedimenti e alle materie il cui uso è vigente o comunque ammesso, dovrà essere autorizzato dal Ministero della Pubblica Istruzione, su conforme e motivato parere dell’Istituto Centrale del Restauro, a cui spetterà anche di promuovere azioni preso il Ministero stesso per sconsigliare materie e metodi antiquati, nocivi e comunque non collaudati, suggerire nuovi metodi e l’uso di nuove materie, definire le ricerche alle quali si dovesse provvedere con una attrezzatura e con specialisti al di fuori dell’attrezzatura e dell’organico a sua disposizione”. Pur vietando (articolo 6) “completamenti in stile o analogici, anche in forme semplificate” all’articolo successivo suggerisce “aggiunte di parti accessorie in funzioni statiche o reintegrazione di piccole parti storicamente accertate attuate secondo i casi o determinando in modo chiaro periferia delle integrazioni oppure adottando materiale differenziato seppure accordato, chiaramente distinguibile…”. Nelle Istruzioni per la salvaguardia e restauro delle antichità vengono date ulteriori indicazioni proponendo l’impiego di materiali lapidei simili ma che si dovranno mantenere le parti restaurate su un piano leggermente più arretrato mentre per le cortine laterizie sarà opportuno scalpellare o rigare la superficie dei mattoni moderni”. In alternativa all’arretramento delle superfici di restauro moderno “si può utilmente praticare un solco che delimiti la parte restaurata o inserirvi una sottile lista di materiali diversi. Così pure può consigliarsi in molti casi un diversificato trattamento superficiale dei nuovi materiali mediante idonea scalpellatura delle superfici moderne”9 .

7 Nella Carta di Venezia l’articolo 4 osserva che “la conservazione dei monumenti impone innanzi tutto una manutenzione sistematica”; l’articolo 15 è dedicato ai lavori di scavo da eseguirsi secondo i princìpi sanciti dall’UNESCO nel 1956. “Gli elementi di integrazione dovranno essere sempre riconoscibili, e limitati a quel minimo che sarà necessario a garantire la conservazione del monumento e ristabilire la continuità delle sue forme”.

8 L.Vlad Borrelli ipotizza tre livelli di intervento di conservazione in situ: pronto intervento per limitare i danni da scavo, pratiche per assicurare il consolidamento dei materiali, il vero restauro, “ultimo stadio critico ed interpretativo, sia che esso si valga di integrazioni e rifacimento, sia che miri semplicemente alla trasmissione nel futuro del monumento nell’aspetto in cui è stato rinvenuto”. Una decina d’anni più tardi proporrà un restauro “preventivo”, una serie di provvidenze perché “vengano predisposte ancor prima di iniziare un qualsiasi approccio allo scavo”.

9 L’utensile comunemente usato è il malepeggio.

i princìpi della protezione delle creste 51

Un preciso e finalizzato riferimento è riservato

agli interventi protettivi alle creste dei muri: “un problema particolare dei monumenti archeologici è costituito dalle coperture dei muri rovinati, per le quali è anzitutto da mantenere la linea frastagliata del rudere, ed è stato sperimentato l’uso della stesura di uno strato di malta mista a cocciopesto che sembra dare i migliori risultati sia dal punto di vista estetico sia da quello della resistenza agli agenti atmosferici”.

A fronte di un dibattito molto ricco sul restauro con salti di qualità e alcune realizzazioni esemplari si rileva una minore attenzione per la conservazione dei ruderi, e in particolare quelli non riutilizzabili e quelli in corso di scavo. Proprio lo scavo, se non attento ai problemi conservativi, il più delle volte è l’occasione per l’attivazione di meccanismi di degrado e dissesto oppure per il peggioramento di azioni degenerative già attive. La sproporzionata fiducia nella tecnologia e nei “prodotti per il restauro” 10 che sempre più affollano le vetrine delle fiere dedicate, resine innanzitutto, e la spregiudicatezza di alcuni interventi (l’antico come pretesto) sembra essere causa di molti danni. È paradossale il fatto che mentre i termini del restauro si spostano verso i princìpi del minimo intervento, la reversibilità e la manutenzione sistematica (ma anche a fronte di pregevoli esempi che evidentemente riescono a fare scuola solo marginalmente) si può verificare come una buona parte degli interventi su contesti archeologici continui ad essere caratterizzata da operazioni che prediligono trasformazioni e vaste sostituzioni di parti. Queste vengono giustificate dalle “situazioni anomale” e necessità straordinarie” che dipendono da eventi calamitosi (per contrastare i quali si rendono disponibili quelle risorse importanti che invece non si riesce ad avere per opere di manutenzione), da uno stato di vulnerabilità sempre più diffuso e soglie di tollerabilità sempre più labili. Il restauro (e quello archeologico in particolare) presuppone conoscenze specifiche e personale adeguatamente addestrato (ad ogni livello: dal progettista/direttore dei lavori all’ultimo operatore) con tirocini personali svolti a diretto contatto dei manufatti e non soltanto su modelli teorici. Personale addestrato a non cadere nei rischi della routine, capace di sapersi adeguare alle anomalie e singolarità che si riscontrano a cantiere aperto e alle inevitabili emergenze che un intervento di restauro può comportare. Di fatto, il restauro risente anche de “l’incapacità degli artigiani, l’orgoglio e l’incompetenza degli architetti” (Breitling, 1975).

10 Con un sospetto abuso di pretestuose definizioni bio ed eco. Il mercato specializzato mette a disposizione una vasta scelta di prodotti per il restauro, alcuni dei quali molto buoni e affidabili, tanti altri inutili, altri ancora addirittura dannosi. In questa sede non è il caso di citare etichette e denominazioni commerciali ma è opportuno osservare che avere soluzioni che garantiscano soluzioni definitive non è possibile e che non esistono prodotti che possano risultare efficaci in tutte le situazioni, indipendentemente dalle situazioni che si possono avere. In tutti i casi è indispensabile fare test preventivi, da eseguirsi preferibilmente in situ

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 52

maniera determinante dalle brusche variazioni ambientali a seguito dello scavo, con differenze locali negli esiti che dipendono anche dalle strategie di scavo (sull’applicazione dei metodi non dovrebbero esserci dubbi), dalla variabilità delle condizioni in cui i manufatti edili si troveranno a vivere in seguito e dalle possibilità di assicurare loro pratiche di manutenzione ordinaria. Rare sono le soluzioni mirate alla protezione delle creste durante le operazioni di scavo quando infiltrazioni dall’alto e variazioni delle spinte laterali, se non controllate, sono destinate a peggiorare con l’avanzare della profondità di scavo quando si possono avere erosioni concentrate o diffuse, spanciamenti e ribaltamenti, perdite di orizzontalità e infiltrazioni di acque.

Non sempre del tutto accettabili sono le procedure protettive temporanee da adottarsi nei periodi di interruzione dei cantieri e, ancor meno, quelle che dovrebbero proteggere le creste “a cantiere aperto” quando infiltrazioni dall’alto e variazioni dei sistemi delle spinte laterali sono destinate a peggiorare lo stato di conservazione.

Così come in un cantiere edile o stradale in aree a rischio archeologico si prevede che un archeologo faccia assistenza potendo richiedere maggiori attenzioni e saggi esplorativi strategici non si potrebbe pensare a un architetto o un restauratore che facciano assistenza durante uno scavo archeologico? Potrebbero essere utili per suggerire eventuali “soluzioni di prudenza e di sicurezza” in situazioni che, sottovalutate, potrebbero innescare pericolosi meccanismi degenerativi. È opportuno ricordare come nei cantieri archeologici non si trovano quasi mai attrezzature11 e personale addestrato per le condizioni di emergenza ricorrendo piuttosto a rimedi improvvisati e soluzioni legate soltanto alle disponibilità momentanee.

11 Utili in particolare per la protezione cautelativa delle creste: teli di plastica (contro la pioggia) e vecchie coperte o sacchi di juta (contro le inclemenze termiche), assi di legno e bancali, lamiere grecate e finanche bende gessate. Una attenzione particolare va dedicata ai geotessili nei quali si ripongono solitamente grandi aspettative ma che, al contrario, possono risultare di scarsa efficacia.

i princìpi della protezione delle creste 53
È evidente come le principali difficoltà a conservare manufatti archeologici dipendano in

per un catalogo di interventi

La boîte noire contient la vérité de ce qui s’est passé, mais somme-nous sûrs que l’enregistrement est transparent qu’il est lisible, qu’il n’est pas codé? (L.Olivier, 2022)

Le osservazioni sugli interventi realizzati, nella ampia variabilità tipologica e casistica di risultati, consentono di elaborare una lista, sia pure incompleta, di classi di protezione delle creste allo scopo di assicurare protezioni provvisorie con “superfici di sacrificio”1 provvisorie oppure protezioni a lunga scadenza. L’osservazione di soluzioni poste in opera da più o meno tempo e in condizioni più o meno simili, se non manomesse da interventi successivi, permette un collaudo sul campo con livelli di affidabilità che possono essere molto elevati e costituire uno degli elementi di valutazione per scelte successive. In ogni sito si riscontrano singolarità nei materiali impiegati, tipi e cause di degrado dei materiali e dissesto delle strutture correlate all’ambiente in cui si trovano ma anche alle modalità operative di ogni Amministrazione, Soprintendenze soprattutto, coinvolte e responsabili per territorio. In non pochi casi è possibile riconoscere la mano del Soprintendente e del direttore dei lavori ma anche dell’assistente di cantiere (personaggio talvolta determinante fino a un paio di decenni fa) e dell’impresa a cui sono stati appaltati i lavori. Non raramente le imprese possono influire sull’andamento e la riuscita dei lavori quando condizionano la scelta dei materiali, lavorazioni e relativi prezzi già in fase di progettazione e in corso d’opera proponendo tutti i sostituti di uguale efficacia e di più facile applicazione.

Il sito archeologico di Pompei, tra gli altri, scavato fin dalla metà del 1700 è stato sempre il campo di una vasta sperimentazione di metodi restaurativi e di materiali molti dei quali

1 “…a protezione delle murature antiche, è stato individuato un accorgimento particolare: la creazione della superficie di sacrificio, ossia di un colmo moderno della superficie muraria, eseguito però rigidamente in sottosquadro, in maniera da non potersi confondere assolutamente con il passare degli anni, con l’originaria struttura antica. Sarà questa superficie moderna a disgregarsi per l’usura temporale e degli agenti atmosferici, e non quella antica. Il cemento […] è stato ormai bandito dal restauro. anche le sarciture e le stilature murarie si avvalgono delle malte ottenute col semplice ricorso della calce spenta mista a sabbia, come in antico” (Progetto Pompei 1988). Le altre soluzioni per le integrazioni e la protezione delle creste sono malte di pozzolana ventilata, pozzolana tufacea, calce idrata con additivi antiritiro, antigelo, antivegetazione.

saranno poi adottati anche in altre aree. Non sempre i diversi interventi, da quelli di G. Fiorelli in poi, sono stati documentati ma in molti casi ne restano le realizzazioni: stuccature, risarciture, fissaggi di intonaci, rinzaffi, bauletti e murature di sacrificio posti a protezione delle creste. Questi possono rappresentare utili elementi di confronto e costituire suggerimenti per nuovi interventi. In particolare può essere interessante osservare i diversi tipi di malta impiegate, malte non cementizie all’inizio ricche di inclusi lavici e laterizi e quindi molto simili a quelle antiche, sostituite dagli anni venti, da malte cementizie e più recentemente da resine, talvolta coesistenti con malte di calce. Nell’ambito del “Progetto Pompei” si è stabilito il ricorso a materiali adeguatamente testati eliminando, quando possibile, malte di cemento e calcestruzzi, facendo piuttosto ricorso a malte naturali, calce spenta mista a sabbia2.

Da poco tempo si è cominciato a ridimensionare il ruolo di interventi spinti oltre il necessario e ridurre le aspettative di interventi definitivi a vantaggio di un consapevole recupero di antiche tradizioni artigianali.

Una utile procedura preventiva a un intervento di restauro può essere costituita da ricognizioni mirate ad altri interventi eseguiti in precedenza sullo stesso monumento per registrarne i caratteri e i risultati. La valutazione di pregi e difetti può rivelarsi utile per la previsione di nuovi interventi che potrà giovarsi dei risultati positivi precedenti ed evitare il ripetersi di errori per un tempo sufficiente (durabilità).

2 Nel Documento di indirizzo alla progettazione per “Lavori di manutenzione straordinaria ciclica delle strutture archeologiche e architettoniche …” (categoria OG2) redatto dal Parco Archeologico di Ercolano (S.Marino) si legge: “Gli interventi previsti per le creste murarie sono divisibili in due grandi categorie, quelli di rifacimento semplice e quelli di rifacimento ‘armato’: le operazioni di armatura della parte sommitale del nucleo sono realizzate attraverso un parziale smontaggio della muratura e in particolare attraverso lo svuotamento del nucleo per alcune decine di centimetri in profondità, in base allo spessore della muratura e alla presenza di un nucleo murario originale integro. Tale operazione viene sempre effettuata in presenza dell’archeologo. La tipologia di armatura, in fibre di vetro, di inox o di basalto, deve essere definita di volta in volta per essere il più possibile compatibile con le caratteristiche della muratura esistente“. In Valle d’Aosta “… si esclude a priori l’uso del cemento ordinario e derivati (Cemento Portland, Cemento pozzolanico, Calinto) nonché di premiscelati di composizione ignota. All’impresa esecutiva si richiede di conseguenza l’uso di malta di calce idrata ed idraulica naturale (nome NHL) formulata a seguito di campionature da sottoporre all’approvazione della D.L. e D.S. e a regolari controlli di qualità” (Aver Guida, 2007).

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 56

Campionatura del sito/manufatto

La conoscenza globale di un sito e/o un manufatto e delle loro caratteristiche specifiche comporta la necessità di programmare strategie di ricerca che permettono di razionalizzare il lavoro svolto e di ottenere i necessari risultati finali. I ruderi architettonici possono rappresentare primarie classi documentarie solitamente autentiche capaci di diventare essi stessi fonte originale di informazione; possono essere assunti a campionatura significativa da cui emergono i dettagli di sistemi di più ampio respiro e complessità. Il processo di conoscenza di un sito/manufatto si può riassumere essenzialmente in tre fasi:

• la definizione dell’area d’indagine e l’assunzione analitica dei dati esistenti (storici, archeologici, geo-ambientali…);

• la raccolta e l’organizzazione dei dati attraverso ricognizione/sopralluogo (survey) e la campionatura (sampling);

• l’elaborazione e l’interpretazione dei dati raccolti con la conseguente definizione delle problematiche esistenti e delle maggiori cause di degrado e di trasformazione.

Nel caso in cui non sia possibile estendere a tutto il territorio in esame una rilievo di buona affidabilità, si potrà ricorrere a indagini “a campione” capaci di rappresentare strategicamente porzioni significative dell’intera superficie (volume). La campionatura è il procedimento di individuazione di una parte da indagare rappresentativa di un più ampio ambito investigativo). I tipi di campionatura maggiormente utilizzati nella ricognizione/sopralluogo sono:

• la campionatura arbitraria, nella quale le zone da coprire sono scelte senza far ricorso a un criterio esplicito. Si utilizza soprattutto in condizioni di emergenza ma con risultati difficili da analizzare e inserire in un quadro organico;

• la campionatura ragionata in cui i criteri e le procedure che conducono alla scelta delle aree da coprire sono omogenei ed espliciti. Costantemente aggiornabile ed estensibile, si presta bene per indagini su siti e monumenti;

• la campionatura casuale, nella quale alcuni passaggi della scelta da coprire sono affidati al caso. La forma dei campioni può variare a seconda delle condizioni di lavoro e per adattarsi al meglio alle particolari situazioni morfologiche: per punti, linee, superfici. Il sistema più frequente è costituito dal cosiddetto transetto (rettangolo allungato isolato o in serie) detto anche sistema dei “fili del tram”. La restituzione dei dati provenienti dalla ricognizione e, più in generale, dalle indagini di superficie dovranno essere riportate sulle cartografie disponibili oppure potranno essere utilizzate per la stesura di nuove carte tematiche. L’organizzazione dei dati di rilievo in sequenze ordinate deve essere riferita a notizie storiche (archivi di carta) e indagini sviluppate direttamente sul campo (archivi del suolo) per poter definire nuove catene di correlazione e più aggiornati modelli di riferimento. Il confronto tra le condizioni presenti nello stesso sito/ monumento, in momenti diversi può fornire informazioni utili e livelli di conoscenza capaci di indicare quali possano essere state le trasformazioni che il manufatto ha subìto fino alla data del rilevamento e della redazione della carta e suggerire contemporaneamente realistiche ipotesi di sviluppo ulteriore.

per un catalogo di interventi 57

Le attenzioni per le creste dei muri si attivano solitamente a scavo concluso quando, il più delle volte, possono essersi già avviati nuovi processi degenerativi. Più corretto ed efficace, invece, sarebbe intervenire all’inizio, quando le creste dei muri fuorescono appena dal terreno, in conseguenza delle caratteristiche dei materiali, degli apparecchi e, ovviamente, dello stato di conservazione. Un rilievo dettagliato della cresta, una pianta con sezioni trasversali dei colli, può dare preziose indicazioni su eventuali mobilità degli elementi di apparecchio (soprattutto quelli più piccoli e già disarticolati) e aree di infiltrazioni di acque. La sovrapposizione di una serie di aggiornamenti del rilievo consente di registrare, come in una sorta di cartone animato, le trasformazioni geometriche e materiali delle parti superiori dei muri e, non di meno, valutarne le vulnerabilità, intrinseche e indotte, e quindi i rischi che i muri potrebbero correre in futuro. La situazione tende a peggiorare con l’avanzare dello scavo quando vengono progressivamente meno le spinte che prima erano assicurate dal terreno. Ancora più delicata potrebbe essere la situazione se lo scavo avviene da un solo lato del muro quando la spinta del terreno non ancora scavato non può essere contrastata da quelle del terreno asportato.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 58

Restauro e medicina

Alcune corrispondenze tra l’architetto-restauratore e il medico sono ormai riconosciute in maniera abbastanza estesa; la similitudine edificio/individuo è stata usata già da Vitruvio, Petrarca, Serlio, Ruskin. Cambia l’oggetto della cura ma metodiche, strumentazioni e procedure (soprattutto nella fase di accertamento diagnostico) sono le stesse. Fondamentali sono le indagini sulla storia delle malattie pregresse (anamnesi) e sulle diverse forme delle patologie (evidenti e nascoste) per arrivare a diagnosi affidabili (passando attraverso ipotesi diagnostiche) e definire terapie efficaci. Ma di quale medico si tratta? Il primo riferimento può essere con il medico di famiglia che conosce il suo paziente, ne conosce la famiglia e le singole storie sanitarie, che è capace di inserire le singole patologie in quadri conoscitivi più ampi, che accompagna per molti anni l’evoluzione sanitaria complessiva dei singoli componenti della famiglia riuscendo a definire eventuali patologie familiari e contenerne possibili sviluppi preoccupanti. Questa figura di medico può avere un immediato riferimento nell’architetto che ha in consegna un monumento; riesce a leggere e interpretare ogni manifestazione o anomalia, ne assicura la conservazione nel tempo riuscendo ad ”anticipare” le inevitabili crisi (pratica della manutenzione ordinaria e della prevenzione).

Un altro tipo di medico è quello che si occupa delle emergenze. Al medico dell’ambulanza o del pronto soccorso si chiede di risolvere in tempi ridotti situazioni complesse dovendo intervenire con efficacia contemporaneamente su più soggetti colpiti seguendo protocolli prestabiliti e assunzioni di responsabilità personali di grande delicatezza. Parte delle operazioni di restauro possono essere facilmente associate alle procedure che si attivano in un Pronto Soccorso soprattutto quando si è in presenza di situazioni che si evolvono continuamente e con grande velocità sotto l’incalzare degli eventi. La capacità di gestire ogni azione è fondamentale perché da ognuna può dipendere la riuscita o meno delle altre. Nel campo del restauro archeologico, però, il riferimento più realistico è con la medicina delle catastrofi. Il medico di guerra o il medico che interviene in occasioni di un cataclisma e l’architetto restauratore che interviene in un’area archeologica hanno in comune, tra l’altro, la necessità di dover intervenire su un numero molto ampio di soggetti, ognuno con le sue specificità, senza avere il tempo di assicurare accertamenti diagnostici adeguati e specifici interventi per tutti. Si sa per certo che non tutti, con buona probabilità, potranno ricevere gli stessi trattamenti terapeutici e che, per la legge dei grandi numeri, sarà probabile che alcuni soggetti possano non sopravvivere. Alle terapie immediate si devono associare le azioni capaci di ridurre i rischi di contagi e di una proliferazione incontrollata.

Le conoscenze di base e le abilità operative che si acquisiscono sul terreno sono fondamentali per riuscire a collocare i vari problemi nel giusto ordine e assegnare a ognuno la dovuta importanza in costante relazione a quadri complessivi che soltanto un occhio clinico addestrato (e un efficace supporto organizzativo) può assicurare. Si assiste spesso all’adozione di soluzioni “pesanti” (cemento armato e resine, soprattutto) nella errata convinzione che questi interventi possano risolvere, una volta per tutte, ogni problema. Gli accanimenti terapeutici rischiano di ridurre i manufatti originali a “copie” di se stessi con la perdita di ogni valore documentario immediato e futuro.

per un catalogo di interventi 59

per una scelta di soluzioni

Un criterio generale per la scelta di soluzioni appropriate dovrebbe tener conto preliminarmente di alcuni fattori:

Valutazione della/e specificità della/e situazione/i

Attenzione deve essere posta alle particolarità che ciascuna area e ciascun monumento presentano pur a fronte di sostanziali omogeneità generali. Lo stesso muro potrebbe presentare differenze dello stato di conservazione in parti diversamente esposte oppure in parti rimesse in luce in tempi o condizioni diverse.

Valutazione del materiale e delle tecnologie utilizzate e rispetto di quelli originali

Il controllo delle soluzioni adottate su un monumento/sito in altre occasioni può costituire una sorta di prezioso collaudo a distanza di tempo. Una particolare attenzione deve essere posta all’uso più o meno recente di malte cementizie e al confronto tra campioni diversi. Il controllo di soluzioni messe in atto molto tempo prima, anche se a un primo collaudo non sono catalogabili tra le migliori ma ancora valide e il confronto con soluzioni ritenute tra le migliori, poste in opera da poco tempo e già ammalorate, può costituire una buona base di valutazione e fornire suggerimenti per i futuri interventi. Irrinunciabili risultano le indagini sulla storia degli interventi pregressi ma anche quelle delle “anomalie che proteggono” (F.Ferrigni 2005), di quelle soluzioni che, pur non ortodosse o finanche sbagliate, possono aver svolto comunque una inaspettata azione protettiva.

Valutazione della componente antropica

Spesso sottovalutata, può invece costituire una potente causa di deperimento direttamente (guerre, vandalismo, furto …) o indirettamente (abbandono, cattivo uso …). Strutture già naturalmente labili diventano ancor più vulnerabili quando vengono escluse da programmi

Protezione con tavoletta di malta arretrata sopra una integrazione di alcuni filari di cubilia.

La sopravvivenza del sito archeologico è legata alla costante azione di un sistema di pompaggio dell’acqua.

di manutenzione ordinaria oppure quando sono soggette a un pesante riuso con una incontrollata sovraesposizione. È probabile che siano i monumenti classificati come “minori” (spesso sulla base di dubbie e pretestuose categorie di merito) a subìre i danni più pesanti per una generalizzata minore attenzione dei loro confronti e perché più facilmente vengono forzati a rispondere ad aspettative fortemente condizionate da interessi commerciali. Per altro verso, possono essere i monumenti più importanti che rischiano di subìre azioni degenerative (graffitismo, per esempio) quando non si tratti di vere azioni terroristiche proprio per il loro valore simbolico.

Valutazione del rispetto del minimo intervento e della reversibilità. Fare il minimo possibile e far in modo che sia al massimo reversibile è un principio relativamente recente che, pur riconosciuto da quasi tutti, nella realtà sembra ancora poco praticato.

Valutazione della riconoscibilità

Costituisce da sempre uno dei temi più presenti nelle discussioni sul restauro, con posizioni molto variabili, quando non opposte. Sul campo, in molti casi la scelta tra i diversi criteri di riconoscibilità può definire con buona approssimazione la ”scuola” di appartenenza dell’operatore.

Valutazione delle vie di smaltimento delle acque

L’acqua, presente sotto forme diverse, rappresenta, forse, la più forte e frequente causa di degrado/dissesto nelle aree archeologiche, sia per azioni dirette che indirette. Uno strumento di grande utilità per la gestione delle informazioni relative alla presenza di acqua e per la programmazione di opportuni interventi è costituito dalla cosiddetta tavola dell’acqua. Questa riassume in un solo elaborato grafico (con annesse documentazioni fotografiche e annotazioni scritte) tutti i fenomeni legati alle acque, la loro collocazione, la provenienza, la valutazione di una possibile soluzione naturale dei problemi (evaporazione, assorbimento locale, allontanamento…), la valutazione del potenziale di rischio. È evidente quanto importante possa risultare il confronto tra dati (rilievi e accertamenti diagnostici) raccolti in momenti diversi quando aumenti o riduzioni delle presenze possono offrire significative indicazioni dinamiche sulle possibili evoluzioni1

1 Tra i più rilevanti fenomeni legati alla presenza dell’acqua che possono innescare meccanismi dannosi: - infiltrazioni da acque meteoriche non raccolte (acqua in superfici ampie, acqua in rivoli concentrati, acque di infiltrazione a monte dei muri, acque di infiltrazione sulle creste dei muri, infiltrazioni immediate a causa di pioggia battente o ritardata -neve);

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 62

Valutazione dei limiti dell’intervento e dei processi di invecchiamento nel tempo

La pretesa affidabilità nel tempo sembra essere una delle più ricorrenti caratteristiche pubblicizzate nella merceologia dei prodotti per il restauro. Negli ultimi decenni si sono impiegati materiali ritenuti innovativi con troppo ottimismo e fiducia e che, invece, hanno dato risultati deludenti quando non controproducenti. Una valutazione affidabile degli esiti è resa ancora più difficile da una sovrastima di materiali e procedure che, di fatto, ha ritenuto inutile lasciare traccia documentale degli interventi eseguiti2

Valutazione dell’aggiornabilità dell’intervento

Il rifiuto del principio di intervento “definitivo” porta, ovviamente, all’adozione di metodologie manutentive, azioni (preferibilmente blande) ripetute nel tempo secondo un calendario prestabilito, almeno in linea di massima, o attraverso interventi urgenti in risposta di sopraggiunte condizioni di emergen-

- rischio da acque meteoriche canalizzate (canalizzazioni artificiali e cunette danneggiate, canalizzazioni naturali provocate da ruscellamenti precedenti, ruscellamenti superficiali, ruscellamenti nelle superfici verticali, ruscellamenti nelle superfici sub orizzontali)

- acque di ristagno (avvallamento dei terreni o delle strutture a monte degli scavi, avvallamento dei terreni o delle strutture a valle degli scavi, avvallamenti tra strutture murarie, inefficienza dei sistemi di raccolta, canalizzazioni ostruite, tombini intasati, acque ritenute da terreni smossi o accumuli di materiali di risulta -foglie comprese-, acque ritenute da piante, ristagno a seguito di esondazioni, ristagno a seguito di risalita di acque di falda, ristagno a seguito di inondazione, perdita da collettori fognari, errori nelle azioni protettive a monte dei muri. In ogni caso è utile verificare quanto possa influire il peso delle acque di infiltrazione e il rischio di spinte, concentrate e/o diffuse. Un fenomeno da non sottovalutare è quello della forte essicazione di terreni nei periodi di siccità con fessurazioni sempre più profonde che faciliteranno successive inevitabili infiltrazioni in occasione di piogge.

- acque di cantiere. Si tratta di perdite locali da canalizzazioni (giunzioni difettose, tubi rotti) o contenitori presenti in cantiere, aree di deposito di acque già utilizzate per operazioni di pulizia dei reperti, flottage … che possono modificare le condizioni (colore, compattezza…) di piccole aree.

2 Fondamentale per la gestione di un restauro è la redazione di una scheda/rapporto che è destinata a seguire un intervento in ogni sua fase, allo stesso modo con cui la cartella clinica accompagna il decorso di una malattia. Tale scheda potrà servire come documentazione e giustificativo dell’intervento a cui si potrà fare utile riferimento anche in seguito.

per una scelta di soluzioni 63

Protezione provvisoria tramite teli di plastica ed elementi di legno staccati dalle creste per facilitare una circolazione d’aria ed evitare umidità di condensa.

za. Avviene spesso che si intervenga solo quando le condizioni dei manufatti hanno raggiunto livelli di pericolosità avanzata. In tali casi frequentemente si ritiene genericamente inefficace il precedente intervento (del quale si sa poco o niente) preferendo utilizzare nuovi materiali e procedure. I nuovi interventi esigono spesso la rimozione dei resti delle precedenti soluzioni con il rischio di asportare anche elementi originali. Altre volte può succedere che i nuovi materiali entrino in conflitto con quelli precedenti creando condizioni di nuove e subdole vulnerabilità.

Valutazione dei pregi e dei difetti per l’immediato e nel tempo

Il controllo dei risultati ottenuti in altre occasioni può costituire un collaudo utilizzabile come base per gli interventi successivi. Pregi e difetti delle procedure, dei materiali, delle lavorazioni, degli interventi di manutenzione vanno confrontati con dati noti e con altre fonti di informazione (fonti d’archivio, bibliografie specifiche, testimonianze dirette …).

In tal modo si potrà avere un quadro per ricostruire tutte le fasi di deposito/erosione e la storia delle vicende “sanitarie” che riguardano il sito e il manufatto. In particolare quelle che riguardano i processi degenerativi a cui questi sono stati soggetti sia in fase post-depo-

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 64

sizionale sia quelli che si riferiscono alla variazione dello stato di salute (e i correttivi che di volta in volta sono stati messi in atto) dall’epoca del rinvenimento ad oggi.

Valutazione della estensibilità dell’intervento ad altri monumenti dell’area Le possibilità e opportunità che le soluzioni (ritenute valide) adottate in un monumento siano replicate su altri manufatti sono soggette a quelle condizioni che definiscono le “regole dell’arte e buon magistero”; regole basate sulla osservazione e la ripetizione delle esperienze, scambi di informazioni, adattamento a cambiamenti delle condizioni, collaudo nel tempo. Le condizioni di “compatibilità” richieste per un intervento corretto si ottengono incrociando le risposte alle diverse componenti del concetto di c.: familiarità con il concetto di c.; criteri di c. a livello operativo (necessità di competenze e abilità); consapevolezza degli specifici fattori tecnici e funzionali negli interventi di conservazione; conoscenza delle caratteristiche della c. chimica e fisica; verifica della c. tra materiali tradizionali e moderni (rischio di fenomeni di rigetto dei materiali originari); c. a livello estetico (importante ma non predominante); c. a livello socioculturale. Questo ultimo aspetto è rilevante perché potrebbe essere responsabile di non marginali conseguenze quando si tratta di una subdola forma di colonialismo culturale abilmente nascosto dietro interventi ritenuti neutrali. Colonialista è l’intervento di quelle missioni archeologiche e di restauro che operano in regioni

per una scelta di soluzioni 65
La presenza di acqua, sotto forme diverse, rappresenta una delle più frequenti cause di deperimento di aree archeologiche e monumenti.

diverse dalla propria al solo scopo di assicurarsi quell’addestramento che in casa propria non sarebbe possibile.

Valutazione della gestibilità

Le scelte dei criteri utilizzabili e i materiali necessari devono tener conto delle reali possibilità che siti e monumenti hanno per l’immediato e soprattutto per il futuro. Non è raro che un intervento, pur se corretto, nel giro di poco tempo denunci un grave stato di degrado dei materiali/dissesto delle strutture per mancanza di fondi destinati oppure più banalmente per riduzione di interesse.

Valutazione della economicità dell’intervento e valutazione strategica

La mancanza di risorse economiche viene portata come principale e condizionante causa di impedimento per scavi archeologici e interventi di restauro. Nella pratica si assiste, di fatto, a una non indifferente disponibilità economica che diventa ancora più consistente in quelle occasioni celebrative nelle quali scavi e restauri trovano il loro posto di rappresentanza. Il vero problema è la scarsa valutazione che di scavi e restauri si fa preferendo interventi utili per risposte immediate ai problemi che si presentano piuttosto che interventi strategici di più ampio respiro

Utile può essere una raccolta di soluzioni poste in opera in epoche e località diverse che sembrano aver dato buoni risultati, altre risultati accettabili e altre ancora esiti assolutamente inaccettabili. Nelle aree archeologiche di maggiore interesse è naturale trovare una ricca casistica di soluzioni non sempre di agevole riconoscimento e soprattutto di difficile datazione poiché frequenti sono i casi di integrazioni e sostituzioni soprattutto dalla metà del XX secolo.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 66

La catena operatoria per il restauro

Il concetto di catena operatoria viene sviluppato agli inizi degli anni ’50 da studiosi francesi e inglesi di varia formazione allo scopo di definire una logica capace di rapportare, in una concatenazione di operazioni consequenziali, ogni singola azione alla “serie nella quale esso ha senso” (H.Balfet, 1991). Dalle prime formulazioni riferite prevalentemente all’antropologia il concetto di catena operatoria e dei conseguenti schemi operatori sono stati applicati ad altre discipline per le quali sia possibile individuare ogni piccola azione umana sulla materia, ottenuta con un solo gesto oppure con una concatenazione di più gesti uguali tra loro. L’associazione di più azioni tecniche formano delle sequenze che, raggruppate tra loro, definiscono le fasi, tappe logiche delle azioni tecniche identificabili senza ambiguità pur in presenza di alcune locali discordanze (varianti codificate, individuali, di situazione e contestuali). L’attenzione riservata agli attrezzi e utensili, per esempio, potrà facilitare la comprensione di attività umane, altrimenti di difficile interpretazione, nel quadro di quella che è stata efficacemente definita “archeologia del gesto” (S.De Beaune, 2000) che può rappresentare un valido strumento interpretativo anche per la storia delle costruzioni, delle trasformazioni e degli adattamenti successivi. Dalla traccia sul muro è possibile ricavare l’utensile che l’ha lasciata, da questo è possibile capire qual è stato il movimento (l’azione) che l’ha provocato e da questo è possibile ricavare informazioni sulle conoscenze e sull’abilità (la cultura) di chi è intervenuto.

Per altro verso, le stesse operazioni di scavo e di restauro, talvolta uniche e irrepetibili ma continuamente obbligate a confrontarsi con un numero crescente di scenari, rappresentano catene operatorie specializzate che devono essere tra loro correlate al fine di individuare e valorizzare i numerosi elementi di contatto nel tentativo di definire teoricamente, e sperimentare sul campo, una nuova catena operatoria comune (obiettivo, metodi e strategie, strumenti, verifica raggiungimento obiettivi, previsioni) nella quale siano presenti e rispettate le singole esigenze dei diversi ambiti disciplinari.

per una scelta di soluzioni 67

Protezione stagionale del mosaico pavimentale e adozione di copertine a bauletto.

Costituiscono la più ricorrente soluzione tanto da identificarsi con la protezione stessa delle creste1. La soluzione più semplice e immediata è la spalmata con funzione di rinzaffo protettivo2. A un controllo sulla vasta casistica delle copertine disponibili appare evidente che queste sono per la maggior parte mal conservate, spesso però meno danneggiate delle murature che avrebbero dovuto proteggere. Spesso contengono cemento come legante principale e sono composte prevalentemente di malta3. L’utilizzo di malte di cemento viene sostituito

1 Per un primo riferimento alla situazione odierna si riportano la voce del Prezzario per la conservazione e il restauro dei beni culturali e paesaggistici della Calabria 2019, Cap. B – beni archeologici redatto dalla Segretariato Regionale per la Calabria: “B.01.314 Finitura della sommità delle murature ovvero cupping: stuccature sulle creste murarie, finalizzate sia alla sigillatura dei colli murari, sia alla loro protezione con uno strato di sacrificio in malta, la cui misura media di spessore sarà indicata dalla DL, e che sarà sistemato secondo l’andamento del muro antico, con formazione di scivoli per lo scorrimento delle acque piovane. Incluso: lavaggio e imbibizione delle superfici da trattare; stilature delle pendenze e verifica dell’efficienza delle stesse; saggi da sottoporre alla D.L. per la composizione della malta; lavorazione superficiale della stessa (spugnatura) e pulitura perfetta di eventuali residui dalle superfici circostanti. Incluso l’allettamento di elementi smossi e/o distaccati dalla sommità, tipo caementa o elementi di cortina…”, “B.01.409 Malta di cocciopesto modellata a ‘schiena d’asino’ per realizzazione di bauletto di malta a protezione delle creste murarie: composizione legante/inerte 1/3, (legante 50% calce idraulica e calce grassa) con inerti ricavati dalla triturazione di laterizi, per uno spessore di malta di 10 cm” e quelle redatte dalla Cooperativa Archeologia di Firenze: “Restauro di colmi di murature antiche già diserbate, eseguito con malta di cocciopesto modellata a “schiena d’asino”. La malta deve essere esente da cementi e ogni altra forma di clinker, o additivi, e deve essere composta da calce idraulica naturale conforme alla UNI EN 459-1 di classe NHL5 e soggetta a marcature CE secondo la normativa vigente: composizione legante/inerte 1/3, (legante 50% calce idraulica e calce grassa), inerti fini di granulometria da 1 a 3 mm (ricavati dalla triturazione di laterizi). Spessore massimo della malta 10 cm.”; “Esecuzione di ‘sguscio’ di malta da eseguirsi in corrispondenza delle aree di contatto tra opus caementicium e paramento murario, per la protezione dall’infiltrazione delle acque meteoriche. La malta da utilizzare, per lo strato di profondità deve essere composta da calce idraulica naturale conforme alla UNI EN 4591 di classe NHL5 e soggetta a marcature CE secondo la normativa vigente e inerti selezionati di granulometria da 1 a 3 mm. Lo strato di finitura deve essere eseguito con malta di  grassello di calce e inerti selezionati di granulometria inferiore a 1 mm,. Occorre mettere in opera la malta fresca, così preparata mediante cazzuola, sino a realizzare la corretta sezione dello sguscio. È compresa la spugnatura dello  strato finale”.

2 “…il muratore per dare il cemento sopra i monumenti…” è la rara annotazione nel giornale di scavo in via della Fortuna di P.Rosa (fine ’800). Poco prima una nota è riservata a generici lavori al Palazzo Reale per evitare infiltrazioni della pioggia. Il termine cemento va forse inteso come malta bastarda di calce e aggregati di frammenti lapidei con una piccola percentuale di cemento.

3 Sulla base delle esperienze fatte in Valle d’Aosta, Svizzera e Francia S.Pulga ha ipotizzato la formulazione di malte che tengono conto dei seguenti fattori: che tipo di sollecitazione la malta dovrà sostenere, che materiale dovrà legare e quali saranno gli spessori sostenibili. Le malte da impiegare su murature protette avranno la formulazione: sabbia lavata e vagliata (10 parti in volume), grassello di calce (4 parti in volume) con un rapporto inerte/legante 2,5:1. In un contesto molto umido la variante è: sabbia (10), grassello (3), calce idraulica (1) con lo stesso rapporto. Nel caso di muri all’esterno si può smagrire ulteriormente la malta: sabbia (12), grassello (2), calce idraulica (2) con un rapporto

copertine di malta

Soluzioni diverse di copertine: cuscino piatto, bauletto e tavoletta. La scelta di nuove soluzioni non può non tener conto di quelle che (nel bene e nel male) sono state adottate in precedenza.

soprattutto a Ostia agli inizi del XX secolo da malte in cocciopesto 4 che, però, provocheranno contrarietà da parte di G.Boni a proposito degli interventi al Palatino (1893). Il cocciopesto verrà utilizzato da D.Vaglieri. Questa volta, seguendo maggiormente le superfici frastagliate dei muri, ne rispetterà maggiormente l’autenticità ma creerà non pochi problemi tecnici. A metà degli anni’20 si assiste a un deciso cambiamento che prevede in sostituzione delle malte in cocciopesto conglomerati di malta pozzolanica con elementi di tufo e laterizio. La tecnica esecutiva prevede una buona pulizia della cresta5

inerte/legante 3:1. Nel caso di copertine con laterizi in esterno la malta sarà così composta: sabbia (8), trito di laterizio (2), grassello (3), calce idraulica (1) con un rapporto inerte/legante 2,5:1. Il cocciopesto conferisce idraulicità alla malta pur conservandone le caratteristiche di permeabilità al vapore acqueo. Per copertine all’esterno che includono pietre calcaree si prevede: sabbia (10), grassello (1) e calce idraulica (3) con un rapporto 2,5:1. La componente idraulica è notevole per assicurare un buon ancoraggio al calcare. Nel caso di murature in esterno con prevalenti materiali silicei la formulazione è: sabbia (12), grassello (1), calce idraulica (2), cemento bianco (1) con un rapporto 3:1. L’aggiunta di cemento bianco al posto di una parte di calce serve ad aumentare la componente silico/alluminosa che favorisce l’ancoraggio alla pietra silicea. Per quanto riguarda lo spessore delle copertine per contenere i rischi di fessurazioni si avrà l’accortezza di non posare mani di malta spesse più di tre volte la granulometria massima tra quelle variabili dell’inerte. Questa procedura limita le fessure da ritiro e dona una buona elasticità alla malta.

4 I primi utilizzi di tale malta pozzolanica e frammenti di laterizi antichi (tufo e laterizio a Ostia) vanno riferiti ai lavori (1900-1905) dell’arch. G.De Angelis riguardanti buona parte delle murature fino ad allora scavate. L’idraulicità della malta è assicurata dai frammenti fittili e alla pozzolana. L’applicazione del cocciopesto prevede anche il recupero della procedura antica e che consiste nella battitura della malta all’inizio del processo di presa con un fratazzo per migliorarne le prestazioni e la resistenza anche a trazione. L’eccessivo chiarore delle malte si pensa di contenerlo con tinteggiature che non daranno, però, i risultati sperati così come scarsi saranno gli esiti di patinature con terra messa in opera prima della presa delle malte.

5 Recentemente “Prima di qualsiasi intervento, i supporti saranno oggetto di interventi preliminari necessari alla creazione delle condizioni ottimali del supporto, ciò al fine di sviluppare una corretta aderenza tra supporto e

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 70

e la successiva stesura di alcuni cm di malta destinata ad accogliere i caementa ben apparecchiati e fatti emergere tramite battitura della malta. Un eventuale secondo getto di malta può inglobare le scaglie lapidee e i fittili. La presenza di questi elementi ha una funzione certamente estetica per mimetizzare le vaste superfici grigie ma anche per contenere il craquelé, le fessure nei raccordi tra murature diverse, nelle riparazioni occasionali di copertine danneggiate oppure per realizzare scossaline. Un altro tipo di malta, utilizzato già nei primi anni del ‘900, è la cosiddetta pelle d’elefante, usata tra gli altri da A.Avena, formata da calce, asfalto e brecciolino tratto dallo stesso pietrame su cui è applicato.

Le copertine di malta possono avere diverse sezioni:

• Bauletto. La soluzione più ricorrente fino a tempi recenti è la schiena d’asino, alto mediamente una quindicina di cm e caratterizzata da una superficie lisciata6 atta all’allontanamento dell’acqua.

Talvolta il bauletto è semicilindrico e detto anche a cassa da morto

• Cuscino . Ha la sezione parabolica schiacciata con spessore di circa 10 cm.

malta. In particolare si procederà ad una pulitura manuale, con l’ausilio di cazzuola, pennelli e spazzole, con conseguente asportazione di parti di malta in fase di distacco, di elementi lapidei sconnessi, di polvere e della vegetazione infestante. Immediatamente prima dell’applicazione di formulati si inumidirà la superficie con acqua” (Pompei 2017). In alcuni casi potrebbe essere opportuno effettuare un preconsolidamento (selettivo o esteso).

6 “…dall’aspetto gelatinoso” secondo G.Boni.

copertine di malta 71 •
L’analisi di soluzioni errate può evitare che si ripetano gli stessi errori. In particolare quelli causati da malte di cemento.

L’adozione della stessa soluzione per tutto il rudere, pur se gradevole alla vista e di sufficiente affidabilità protettiva, potrebbe risultare negativa se non permette il riconoscimento delle diverse USM.

Il giunto di dilatazione in asfalto tra due tratti di copertina si è sciolto per il caldo.

Protezione della cresta tramite una spalmata di malta.

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può avere la superficie lisciata ma spesso è resa ruvida da sassi7 e spezzoni di mattoni più o meno emergenti.

• Tavoletta. La sezione è approssimativamente rettangolare con uno sviluppo regolare lungo il muro ma talvolta adattato alle irregolarità presenti. Di norma l’estradosso è orizzontale o leggermente inclinato su un lato. Il suo impiego è frequente soprattutto negli anni ’60-70 spesso insieme a forti integrazioni dei colli.

• Capanna. La sezione è caratterizzata da due falde contrapposte di conglomerato oppure, più raramente, da una sola falda più o meno inclinata.

• Canaletta. È poco presente ma comunque utilizzata in regioni molto piovose. Ha una sezione concava in maniera da funzionare un po’ come vere canalette atte allo smaltimento delle acque.

I lati esterni delle copertine tradizionalmente arrivano al bordo del muro adeguandosi alle linee di frattura ma non di rado possono debordare in maniera da formare una sorta di gocciolatoio che protegge il collo del muro. In alcuni casi il gocciolatoio diventa un vero cordolo perimetrale. Altre volte le copertine vengono tenute arretrate di qualche centimetro rispetto ai bordi, soprattutto quando le creste coprono colli non originali ma ricostituiti e regolarizzati, formando in tal modo una sorta di scossalina la cui efficacia però non sempre risulta assicurata8. Il trattamento del nucleo interno presenta una casistica non ampia: getto di calcestruzzo indefinito con caementa casuali, allettamento di laterizi e pietrame a strati approssimativamente orizzontali solitamente regolati sugli apparecchi delle cortine, getto di calcestruzzo coperto da frammenti laterizi. La mancata predisposizione di giunti di

7 Si vedono anche copertine realizzate con una malta a forte prevalenza di brecciolino.

8 Il vantaggio estetico è dato dal fatto che nei muri più alti toglie ai visitatori la vista delle sfrangiature che sui bordi si possono formare.

copertine di malta 73
Il bauletto è adattato alla morfologia delle murature. Protezione della cresta in laterizio con una malta e brecciolino.

Diverse soluzioni di copertine: in particolare, tavoletta con bordi arretrati e a filo muro, canaletta. Gli interventi che possono proteggere le creste murarie, non di rado, possono risultare controproducenti perché, pur contribuendo a risolvere alcune esigenze, rischiano di attivare altri meccanismi degenerativi. L’errore più frequente è quello di credere che gli interventi possano essere definitive e che non abbiano bisogno di una accorta opera di manutenzione.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 74 •

dilatazione e la maggiore durezza di malte di cemento rispetto a quelle originarie talvolta possono causare fratture nelle copertine. Recentemente sono state adottate malte antiritiro che, però, per vaste superfici sviluppate in una direzione prevalente, com’è ricorrente in creste muraria, non riescono comunque ad evitare fessurazioni trasversali alla direzione del muro. Le malte possono essere rinforzate utilizzando frammenti di tela oppure reti di piccola maglia. La predisposizione di giunti di dilatazione, sigillati con paste elastiche (frequentemente asfalti o prodotti siliconici), può ridurre il rischio di fratturazioni. Talvolta si vedono lesioni nelle copertine malamente risarcite con malte di cemento che danno risultati scadenti a causa delle spinte anomale che si creano soprattutto nelle aree di nuova vulnerabilità9. Alle malte dei bauletti è possibile aggiungere biocidi a lento rilascio per ridurre i rischi di crescita e proliferazione di specie infestanti. Non è difficile osservare come, in molti casi, il danneggiamento delle copertine invece di funzionare come elemento di sacrificio a vantaggio degli originali, rischia di accelerare il degrado dei materiali e dissesto delle strutture, innescando meccanismi di rigetto più o meno concentrati proprio nelle parti che avrebbe dovuto proteggere10. Una ricca casistica di danneggiamenti alle copertine è legata alla mancata manutenzione (come se un intervento potesse risolvere in maniera definitiva i problemi) e all’uso di malte sintetiche. Pubblicizzate come specifiche per il restauro sono certamente efficaci in cantieri di nuova edilizia ma possono essere potenzialmente pericolose in quelli di scavo e di restauro.

9 Spesso le copertine sono allettate senza una preventiva pulizia delle superfici dai resti delle malte antiche già ammalorate ed eventuali nuovi depositi. Le nuove stilature vanno ad ammorsarsi a materiali inaffidabili provocando frequenti fenomeni di downcycling (riciclaggio peggiorativo).

10 Lo strato di sacrificio, ovviamente, deve avere una durezza e una resistenza inferiori a quella del muro che deve proteggere. In non pochi casi si assiste a copertine che provocano direttamente o indirettamente danneggiamenti alle creste originali.

L’impiego di una cattiva malta non riesce a legare il pietrame. Il dissesto della copertina in malta di cemento coinvolge nel crollo parte della muratura antica.

copertine di malta 75

Prove di allestimento di copertine di protezione in terra.

In alternativa all’impiego di malte, e in condizioni ambientali favorevoli, è possibile utilizzare impasti di terra, preferibilmente terra rossa e argilla che hanno buone capacità leganti e agglomeranti. Alla terra può essere aggiunto utilmente un trito di paglia con funzione di armatura e stabilizzata con leganti aerei e idraulici. La terra può essere allettata sulla cresta del muro e modellata secondo necessità (secondo la tecnica del Bauge e del Torchis) 1, assicurando una buona via di allontanamento delle acque meteoriche2. Con la terra cruda è possibile confezionare mattoni di dimensioni varie in relazione alle caratteristiche dei muri su cui andranno posizionati. Si possono realizzare mattoni, pressando l’argilla all’interno di casseforme della misura opportuna e lasciandoli essiccare al sole con la tecnica dell’Adobe, oppure con quella del Pisé.

Un intervento che segua i principi della bioarchitettura deve avere strategie di intervento in equilibrio con l’ambiente: materiali del luogo, utilizzo del minimo di energia, materiali non inquinanti posti in opera con interventi non invasivi e facilmente reversibili.

La durata solitamente non elevata di una malta di terra (terra, sabbia fine e acqua) può essere migliorata e allungata con periodiche bagnature e lisciature che migliorano la resistenza all’acqua oppure con la realizzazione di adeguate copertine protettive. Per un buon rinforzo delle creste di muri in terra cruda si può armare lo strato superiore con strisce di tessuti, stuoie, cordami e incannucciati. Le esperienze di cui si ha notizia anche in Europa e Italia sembrano confermare la bontà di malte di terra che sono dei naturali regolatori di umidità e temperatura ed evitano la formazione di muffe3

1 Tecniche usate comunemente per l’allestimento di pareti a graticcio e il riempimento di strutture in legno.

2 A Festos, dopo la guerra, la Scuola archeologica di Atene adotta il consueto sistema delle colature di cemento aggiungendo però una “aspersione della superficie di uno straterello di terra in modo da ridare l’immagine del muro com’era apparso dopo gli scavi”.

3 Copertine in terra possono essere utilizzate anche a protezione di murature in laterizio/lapideo. A mo’ d’esempio si cita un recente intervento: “… è stato steso uno strato di geotessile del peso di 500 g/mq. su questo è stato posizionato uno strato areante di risetta locale 0-3 e paglia sminuzzata […] il getto è stato eseguito in tre strati successivi (dallo strato di base verso lo strato di copertura: decresce la granulometria dell’aggregato, diminuisce fino ad annullarsi il contenuto in terra, aumenta il contenuto di cocciopesto e aumenta il tenore di legante) […]: strato di base […], strato di collegamento […] e strato di copertura […], posti in opera a distanza di circa 15 ore l’uno dall’altro, fresco su fresco, e dello spessore medio finito, dopo successive costipazioni, non inferiore a 50 mm. Sul conglomerato ancora umido, e comunque dopo il primo indurimento, è stata eseguita la battitura a umido con mazzapicchio di legno e occlusione di eventuali fessurazioni da ritiro, segnandola con spazzola di saggina o tamponandola con tela di juta ruvida. Infine, la superficie è stata riplasticizzata e levigata con spugna e acqua” (C.Megna, A.Saba, N.Sanna, D.Schirru, 2016).

copertine di terra

Risarcitura di una lesione in un muro in adobe con boiacca di terra.

Sempre più frequentemente si ricorre a prodotti che per impregnazioni a pennello, pistole a spruzzo o percolazioni possono consolidare, o quanto meno proteggere, le superfici delle creste. I requisiti richiesti da tale prodotti sono: inerzia chimica nei confronti dei materiali, controllo e limitazione dell’azione delle acque liquide favorendo quella dell’acqua vaporizzata, controllo della cristallizzazione dei sali e dei fenomeni legati al gelo-disgelo e degli eventuali agenti inquinanti. Elementi determinanti sono costituiti dalla porosità dei materiali trattati e dalle caratteristiche dei prodotti diluenti o solventi, dalla capacità di questi a penetrare nei materiali senza cambiare colore e favorire scagliature nel tempo. Alcuni dei consolidanti tra i più impiegati sono prodotti fortemente invasivi e non reversibili ma in condizioni di estrema emergenza possono anche essere l’ultimo tentativo di salvezza prima della perdita del manufatto. Tali prodotti possono dare dei risultati che appaiono accettabili per l’immediato ma non sono controllabili nel medio e lungo periodo (insufficienza delle prove di invecchiamento artificiale) e i danni che possono fare non vanno sottovalutati.

È evidente che la scelta del prodotto (fosse anche una semplice cera, kerosene o miscele d’olio, e a maggior ragione resine artificiali) deve essere preceduta da una appropriata indagine e da una esauriente sperimentazione sul terreno.

protezioni per impregnazioni

Completamento della superficie di crollo di un muro in terra con mattoni cotti al sole.

copertine in laterizio

Sono usuali in molte aree archeologiche sia nel caso di murature in mattoni sia di quelle in pietrame anche se più di rado. Si utilizzano laterizi antichi di recupero e soprattutto laterizi nuovi (talvolta realizzati con le correnti misure antiche) apparecchiati in maniera più o meno regolare ma anche tegole. In alcuni casi una superficie regolare copre tutta la cresta1, altre volte i laterizi vengono alloggiati su piani posa diversificati in maniera da rispettare le differenze esistenti nelle varie parti della muratura. Altre volte ancora i laterizi, spesso frammentati, sono apparecchiati a suggerire le volumetrie movimentate che caratterizzano la maggior parte dei ruderi. Differenze di trattamento sono riservate alle creste di murature in laterizio a tutto spessore rispetto a quelle che invece sono in laterizio i due paramenti esterni con un sacco cementizio all’interno. In non rari casi le parti superiori dei muri sono protette da uno strato di integrazione di 3-5 filari di laterizi apparecchiati in maniera riconoscibile rispetto alla cortina sottostante2. Tali interventi comportano l’attivazione di procedure di scuci e cuci più o meno ampie. Le copertine realizzate in laterizio presentano il vantaggio di una relativa facilità di esecuzione e di manutenzione, smaltimento delle acque ma presentano, di contro, lo svantaggio di rendere indifferenziate le superfici. In caso di protezioni temporanee risulta vantaggioso l’impiego di una copertina realizzata con un doppio strato di laterizi sfalsati e intervallati da una guaina impermeabile anticondensa.

1 Superfici in laterizio solitamente frammentati sono utilizzate anche a indicare elementi particolari, interruzione di murature oppure varchi di porte.

2 Con cornici, laterizi in filari sottosquadro o scalpellati, a “spigoli a vista”, con “scuretti di demarcazione”. Sebbene non direttamente riferibili a creste di muri archeologici si segnala la ricca campionatura di soluzioni di copertine protettive raccolte in uno studio sui muri di Foligno (L. Radi, L.Radi, 1997).

La presenza di un elemento architettonico scomparso è suggerita da filari sporgenti di mattoni.

I mattoni sono impiegati come integrazione di volume con funzione di contenimento.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 82 •

I mattoni sono utilizzati per delimitare i bordi delle strutture e integrare parti di cortina.

Muratura con una forte presenza di frammenti fittili di reimpiego a forte vulnerabilità.

I resti dei pilastri sono inglobati in nuove strutture in laterizio, arretrate rispetto a quelle antiche. La copertina in laterizio nasconde il nucleo cementizio originale.

Ricomposizione del colonnato e dello stilobate con materiali riconoscibili.

copertine in laterizio 83 •

Pietrame di pezzatura e tipo litologico variabili in relazione alle superfici da proteggere può essere impiegato a formare uno strato protettivo in piano (si impiegano sassi e scaglie tendenzialmente piatte) oppure un bauletto a falde (con pietre da spacco di taglia adeguata1). Nel primo caso i lapidei sono legati da una malta spalmata mentre nell’altro risultano affogati in una malta più abbondante. Spesso il pietrame viene posto su uno strato di lastre di piombo, cartone catramato, guaine o, più raramente, su uno strato di sabbia o terra. Avviene spesso che il bauletto sia in realtà formato dalla protezione di malta del sacco interno superstite rispetto alla più frequente perdita di qualche centimetro delle cortine esterne. Forse meno impattanti dal punto di vista estetico risultano però vulnerabili quando si impiega pietrame tondeggiante. Un rischio da non sottovalutare è costituito dal fatto che il personale addetto alla formazione della copertina non tenga conto delle caratteristiche dei resti della muratura e tenda a realizzarne una del tutto estranea alla originale che confonde le specificità delle diverse murature e complica la interpretazione delle relazioni stratigrafiche tra le parti che pure erano state oggetto di accorte analisi. Una soluzione non frequente prevede l’impiego di elementi di pietre artificiali2, una miscela di malte -anche sintetiche- con aggiunta di polveri di tipi litoidi simili a quelli dei muri su cui devono essere collocati, formati in appositi stampi o modellati direttamente sulle murature in opera in maniera da riempire tutti gli interstizi e coprire nel miglior modo tutte le superfici.

1 La Guida Aver annota: “… si è positivamente sperimentato su alcuni ruderi di area valdostana (castelli di Cly, Ussel, Morgex) l’uso di pietra locale o di crollo frammentata decisamente più piccolo dell’originale, così da rendere facilmente identificabile il limite fra muratura protetta e muratura di protezione, sottolineato da un leggero ‘sottolivello’”

2 Non di rado sono state utilizzate pietre artificiali (talvolta addirittura rocce artificiali) anche se allo stato attuale sono di non facile identificazione. Diversi manuali ne fanno testimonianza suggerendo una ricca casistica di soluzioni con funzioni non soltanto decorative. A mo’ d’esempio si riportano le indicazioni per il finto granito (L.Gaspari, 1947) “Si prepara una malta così composta; per granito rosa tipo Baveno:Cemento Portland di colore chiaro parti 10, Cemento Bianco scelto parti 10, granito polverizzato parti 12, marmo rosso polverizzato parti 6, mica in frammenti parti 2”. Per la realizzazione di un finto alabastro “Si mescola ad idrato di magnesia in povere, un uguale volume di marmo bianchissimo polverizzato misto ad un po’ di talco. Il tutto s’impasta con silicato di sodio a 32 Bè, e si getta rapidamente. Avvenuto l’indurimento (che succede dopo breve tempo) si può levigare e lucidare il pezzo”.

copertine in pietrame
interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 86 •
Protezione delle creste con elementi lapidei e integrazioni con conci di pietra di grossa taglia.

La copertina è costituita da una malta cementizia e grossi inerti adattata alla morfologia della cresta.

La cresta del muro è protetta da lastame su pilastrini fittili.

copertine in pietrame 87 •

Elementi lapidei sagomati proteggono le strutture murarie sottostanti suggerendo la geometria dei singoli elementi molto degradati.

Le protezioni alle creste possono essere realizzate con lastame lapideo, elementi fittili di taglia adeguata (pianelle, tavelloni), lastre prefabbricate, pannelli di polistirolo, policarbonato e stiferite1 ma anche assi di legno, eternit, lamiere, tubi di plastica di sezione adeguata segati a metà con funzione di tutela stabile o prevalentemente temporanea. Tali elementi possono avere una forma indifferenziata tale da coprire contemporaneamente una vasta superficie di cresta oppure può essere opportunamente sagomata in conformità della forma della muratura sottostante. L’utilizzo di lamierini e più frequenti fogli di piombo consente una copertura che bene aderisce alla muratura seguendone tutte le asperità2. Gli elementi di copertura devono essere posti in opera con una opportuna inclinazione o essere dotati di un sistema di gocciolatoio per evitare fenomeni di ristagno o percolazioni. Nel caso di protezioni provvisorie, in particolare se realizzate con elementi3 che facilitano fenomeni di condensa, è opportuno interporre tra esse e la cresta del muro degli elementi (laterizi, pezzi di legno) che facciano una camera necessaria per la circolazione d’aria e impedisca fenomeni di condensa ed effetto serra. L’eventuale umidità può essere assorbita da tele di sacco o coperte di lana poste al di sotto delle protezioni di plastica4

Una soluzione che sembra avere buone qualità protettive è costituita dalla schiuma di poliuretano. Può essere impiegata per il riempimento di cavità e preparare un buon piano di attesa per gli elementi del bauletto; ha una buona capacità di isolamento dall’acqua e resistenza e consente una perfetta reversibilità. La schiuma dopo l’espansione e l’indurimento può essere lavorata, segata, limata, intonacata e verniciata.

1 Pannelli di poliuretano espanso rigido. Ovviamente questi pannelli, ottimi per la protezione termica e idraulica, devono essere protetti a loro volta.

2 I fogli (solitamente nastri) di piombo sono utilizzati efficacemente anche come separatore tra cresta e copertine ma diventano molto vulnerabili nel caso di correnti vaganti.

3 In particolare teli di plastica (solitamente trasparenti ma anche neri). Questi teli di plastica possono essere molto utili contro le acque di infiltrazione ma rivelarsi deleteri quando per un uso scorretto possono favorire fenomeni di umidità di condensa e di sviluppo di piante, muffe, funghi soprattutto a seguito di una esposizione al sole.

4 Teli di plastica a diretto contatto con i muri possono rivelarsi utili quando si voglia mantenere un forte tasso d’umidità come nel caso di murature di mattoni crudi o in presenza di reperti che potrebbero essere danneggiati da una asciugatura violenta.

elementi protettivi monolitici

In un cantiere complesso va tenuto conto delle dinamiche delle diverse lavorazioni e delle frequenti necessità di trovare nuove condizioni di appoggio dei ponteggi.

la protezione con tettoie

In molti casi a fine campagna di scavo l’area viene protetta in maniera inefficace che talvolta può diventare controproducente se le soluzioni adottate saranno in grado di provocare nuovi e subdoli meccanismi degenerativi. La situazione è peggiorata dal fatto che non di rado le coperture stagionali vengono posizionate prevalentemente a difesa di possibili clandestini con abuso di materiali di ricarico (terra e brecciolino soprattutto). Questi possono provocare anomalie nei carichi, vie di ruscellamento incontrollate di acque e di erosione concentrata, ma soprattutto zone di ristagno e marcescenza i cui effetti saranno ben evidenti quando le coperture saranno eliminate. Non di meno, va osservato come molto spesso le operazioni di copertura vengano eseguite in condizioni di ristrettezza di mezzi da personale non adatto. Alcune protezioni localizzate (tettoiette, serre, contenitori vari), pur efficaci per il breve periodo, spesso vengono lasciate in situ senza alcun controllo e manutenzione. Il loro degrado o asportazione (talvolta basta un colpo di vento) innesca un processo degenerativo del reperto che avrebbero dovuto proteggere. Mentre quasi sempre sono gli archeologi a gestire le operazioni di riapertura di un cantiere di scavo quelle di “sigillatura” stagionale sono lasciate ai manovali di una impresa di costruzione. Una classe di danneggiamento frequente è costituito dalla consuetudine di poggiare le coperture provvisionali su elementi collocati sul bordo dei fronti di scavo. Questi, sotto l’azione alternata dell’acqua di infiltrazione e/o ruscellante e della brusca asciugatura (anche a causa della ventilazione che proprio sul bordo fa sentire maggiormente i suoi effetti) rischia di fratturarsi e cadere provocando, oltre tutto, il trascinamento di parti della copertura che diventano un ulteriore carico sulle superfici scavate.

In molti casi per la protezione stagionale si ricorre a casse, solitamente di legno che coprono i ruderi su tutti i lati. Possono essere allestite fuori cantiere e collocate sulle murature oppure possono essere costruite in situ in conseguenza della volumetria dei diversi resti da coprire. Di grande efficacia se usate per tempi brevi possono diventare controproducenti se, lasciate per tempi più lunghi, non si permette all’interno una adeguata circolazione d’aria, facilitando ristagni di acqua e proliferazione di vegetazione infestante.

Protezione di aree archeologiche al riparo: tettoie definitive e provvisorie. La progettazione dei ripari deve tener conto della singolarità delle condizioni che si incontrano (termoigrometriche, circolazione d’aria, dinamiche di utilizzo, movimentazioni, fruibilità per visitatori…).

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 92 •

Soluzioni protettive definitive (musealizzazione in situ) e provvisorie (cassoni, passerelle sopraelevate).

la protezione con tettoie 93 •

Sono guaine-membrane flessibili protettive e impermeabilizzanti (confezionate in rotoli) o realizzate tramite pennellature liquide di asfalti1, poliuretaniche o acriliche, sostanze gommose e similari2. Possono essere poste in opera, previo una buona pulizia delle superfici ed eliminate agevolmente se il prodotto impiegato forma un film che non si lega alla muratura. In alcuni casi possono risultare utili le soluzioni, soprattutto in casi di emergenza, che si basano sull’impiego di bende gessate poste a formare una base di appoggio oppure uno scudo protettivo che, però, deve essere a sua volta riparato dall’azione delle acque meteoriche.

1 Le sigillature di asfalto sono protette da una spalmata di calce o uno strato di sabbia.
pellicole
2 Anticamente la stessa funzione era svolta da mastici.

La protezione stagionale è spesso demandata a geotessili che, se usati in maniera errata, possono diventare essi stessi veicolo di degrado.

geotessili

Una attenzione (e cautele) merita il tessuto non tessuto1. Le caratteristiche di idrorepellenza e di permeabilità al vapore, la resistenza a temperature quasi estreme e la morbidezza che lo rende adattabile a qualunque superfice ne fanno uno strumento il cui uso è sempre più frequente nelle aree archeologiche. I geotessili costituiscono la più frequente soluzione “protettiva” negli intervalli tra due campagne di scavo. L’idea che l’impiego di un geotessile senza alcuna cautela aggiuntiva possa assicurare automaticamente la protezione di un’area archeologica è illusoria. Osservazioni attente ai problemi conservativi possono evidenziare che, pur a fronte di risultati positivi, quelli negativi sono prevalenti perché i geotessili possono provocare, comunque non impedire, danneggiamenti a sviluppo subdolo che si renderanno evidenti soltanto in fasi avanzate quando i rimedi saranno più difficili e costosi.

1 Il TNT è un termine generico che indica un prodotto industriale ottenuto con procedimenti diversi dalla  tessitura, con fibre che presentano un andamento casuale, senza una struttura ordinata. Le sperimentazioni in atto su nuovi materiali naturali, per esempio diversi tipi di foglie di palma, potrebbero facilitare la sostituzione di quelli sintetici con vantaggi e incoraggiamenti verso pratiche più sostenibili.

La casistica di danneggiamenti a causa di teli di plastica e geotessili è ampia e solitamente poco considerata.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 98 •
geotessili 99

Sacchi riempiti di terra sono impiegati a contrasto di una parete di scavo e protezione delle creste delle pareti di risparmio.

Sacchetti di juta o similari (in ogni caso non di plastica1) riempiti di sabbia, terra (meglio se vagliata proveniente dallo scavo2) o argilla espansa possono essere utilmente impiegati per proteggere le creste dei muri e dei fronti di scavo. Allo stesso tempo possono assicurare un “efficace ricarico” delle murature e dei fronti di terra soprattutto nel caso di scavi eseguiti soltanto su un lato del muro. Sacchi di maggiore taglia e peso vengono utilizzati per allestire barriere e contromuri di maggiore capacità di contrasto a strutture verticali. Talvolta i sacchetti sono posti a coprire superfici ampie; in tali casi risulta utile sovrapporre allo strato di sacchetti della terra costipata ed eventualmente seminata. In ambienti particolarmente inclementi si possono utilizzare due strati sovrapposti di sacchetti. L’uso di sacchetti risulta efficace in particolar modo nel caso di interventi protettivi stagionali; per tempi più lunghi e nel caso di ambienti molto umidi presenta il difetto di un facile logoramento nelle aree di contatto a causa del ristagno di acqua. Per questo è opportuno “rovesciare” periodicamente i singoli sacchetti in maniera da facilitarne la naturale asciugatura.

1 Sacchi di plastica possono però essere utilizzati a formare provvisorie barriere contro l’azione dell’acqua soprattutto in condizioni di emergenza.

2 La terra contenuta nei sacchetti potrebbe costituire una provvista di materiale scelto che si potrà utilizzare per riempimenti e/o completamenti successivi.

sacchi

Completamento di murature e protezione delle creste con architetture vegetali.

zolle erbose

Un cuscino di terra seminata con piante a radici a trama fitta crea uno strato protettivo fornendo, allo stesso tempo, una buona coibentazione della parte sommitale del muro. La cresta può essere tenuta staccata dalla zolla erbosa interponendo uno strato isolante (fogli di bitume, per esempio o un leggero strato di malta) e una guaina antiradice. Alcune esperienze stanno dimostrando che l’impiego di zolle e piante tendenzialmente grasse in aree aride può contribuire a ridurre i rischi di locali variazioni termoigrometriche molto brusche e assicurare l’umidità necessaria perché la terra/malta non secchi, “slegando” gli elementi di apparecchio e provocando l’espulsione di parti. La soluzione che si basa sull’impiego di zolle erbose può essere vantaggiosa anche per trattamenti protettivi periodici utilizzando zolle di vivaio opportunamente preparate. L’impiego di elementi vegetali poste a suggerire parti mancanti di murature, proposto da G.Boni, seguendo il modello che A.D’Andrade aveva adottato in Piemonte, non sembra aver avuto il successo che avrebbe meritato1

1 “È un rimboscamento in piccola scala che giudiziosamente applicato giova a mantenere quelle strutture che più facilmente si sgretolano col periodico denudamento” (G.Boni).

Nuovi elementi lapidei completano la pavimentazione e rendono possibile il passaggio.

impronte allusive sul terreno

Frequenti sono interventi che si basano sull’allestimento delle “impronte” di un edificio i cui resti materiali restano interrati. Tali allusioni possono essere realizzate lasciando in vista le creste originali a livello del terreno circostante (o leggermente rialzate) oppure, più frequentemente, collocando lastre di pietra, laterizi o siepi/tessuti erbosi1 per suggerire la planimetria semplificata dell’edificio. Allo stesso modo è possibile offrire suggestioni su alcuni volumi murari scomparsi e organizzare un sistema efficiente di percorsi per i visitatori.

1 “… esplorato il sepulcretum […] ne furono colmate di terra le fosse; e spianato il terreno fino al livello della Via Sacra, vi fu tracciata la planimetria delle tombe, segnandone la cavità con verde tappeto di lippia repens” (Boni 1913).

Le murature non più esistenti sono rievocate con nuovi volumi realizzati con reti metalliche o segnalazioni a terra.

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 106 •

Segnalazione di muri scomparsi con un nuovo volume neutro o con un signacolo pavimentale.

impronte allusive sul terreno 107 •

Il consolidamento precauzionale ha lo scopo di contribuire a contenere le sollecitazioni più pericolose a cui un muro o un fronte di scavo possono essere soggetti nelle diverse fasi di cantiere. Gli interventi conservativi, e quelli di protezione delle creste in particolare, d’abitudine vengono eseguiti a conclusione degli scavi, ad esclusione di quelli che pericolosi rischi di crolli rendono inderogabili. È noto che lo scavo può essere una delle cause di degrado e dissesto e che lo stesso restauro può attivare nuovi cicli degenerativi. Per questo è opportuno che un reale interesse per gli aspetti conservativi trovi spazio con un giusto anticipo (prevenzione) in maniera da attivare atteggiamenti di cautela e provvedimenti di preallarme. Una raccolta dei diversi tipi di intervento e le indicazioni per i probabili adeguamenti a nuove condizioni costituiscono il riferimento (manuale di pratica costantemente aggiornabile) per la preparazione e la successiva conduzione del cantiere.

I sintomi dei danni che potrebbero presentarsi in seguito sono quasi sempre avvertibili già nelle prime fasi di scavo e, in particolare, nelle parti che per prime emergono e che sono destinate, in tempi successivi, a manifestare le vulnerabilità più gravi.

• Azione dell’acqua di infiltrazione da terra: è necessario regimare le acque superficiali facilitandone un corretto defluire ed evitando fenomeni di ruscellamento. La formazione di canalette può essere realizzata provvisoriamente (cercando di assicurare il massimo rispetto delle caratteristiche delle sezioni di scavo) tramite teli di plastica e localizzati riporti di terra o altro materiale.

• Azione dell’acqua dall’alto: lo scopo principale è quello di proteggere gli elementi di apparecchio della cresta del muro per il tempo sufficiente a completare lo scavo e predisporre interventi più adeguati. Sarà necessario realizzare strategici volumi di sacrificio sulle creste nel rispetto delle caratteristiche della muratura prevedendo la reversibilità totale. Bisognerà tener conto della destinazione futura del muro, in particolare se sarà o meno calpestabile. Una copertina provvisoria può essere facilmente confezionata con assi di legno o pannelli appoggiati direttamente sulle murature, meglio se da queste distanziate di

interventi in condizioni di emergenza

La capacità di prevedere i futuri sviluppi dello stato di salute di un sito è la base indispensabile per la sua tutela.

qualche centimetro, oppure retti da un telaio autonomo poggiato a terra. In condizioni di emergenza è sufficiente utilizzare anche solo teli di plastica ben posizionati a condizione che vengano tolti appena possibile per evitare condense.

Gli interventi d’emergenza devono risolvere esigenze immediate ma devono essere seguite da interventi ordinari.

• Spinte orizzontali: l’eliminazione del terreno può provocare danneggiamenti nei muri. Le irregolarità delle creste, in molti casi, sono un sintomo significativo di cedimenti avvenuti in altre parti della struttura e tali da confondere la situazione attuale. Fondamentale risulta, in tali casi, una preventiva campagna di documentazione di emergenza. Il comportamento dei muri può variare in maniera sensibile a seconda che la cresta sia a livello del terreno (muro non ancora scavato), parzialmente rilevata (muro scavato solo in parte) oppure risulti emergente (muro scavato oppure da tempo fuori terra). Diverse possono essere le evidenze nelle creste di muri scavati su tutti i lati da quelle presenti invece su un muro scavato solo su un lato. In questi casi è necessario puntellare il muro lasciando, se possibile, un po’ di spessore del terreno a ridosso del muro. Uno scavo “a cantieri” (con saggi di sicurezza discontinui da ricomporre in seguito) potrebbe essere una buona soluzione perché permette il controllo delle operazioni di scavo e di consolidamento ma non è ben visto da molti archeologi che preferiscono operare in open area. Una opera di sbadacchiatura preventiva o quando lo scavo è profondo solo un paio di decimetri è sufficiente per contenere facilmente possibili cedimenti ed espulsioni di parti in futuro. Il più delle volte sono sufficienti un paio di assi contrastate da sergenti di metallo (strettoi, morsetti) o di legno (listelli, moraletti). È opportuno che le sponde di legno non tocchino direttamente il muro ma il contatto sia ammortizzato (per esempio con una tela di sacco più volte piegata o pezzi di gomma).

Una utile soluzione, soprattutto in condizioni di emergenza, può essere l’impiego di pallets che bene si prestano all’allestimento di efficaci strutture protettive provvisorie.

La struttura di legno può essere protetta all’occasione da un telo impermeabile per il

interventi di restauro sui ruderi • luigi marino 110

tempo necessario. In alcuni casi si può utilizzare una rete metallica (per esempio una rete elettrosaldata di sezione e maglia adeguate) sagomata sulle caratteristiche del muro da contenere. Un’altra soluzione (certo poco ortodossa ma comunque efficace e meno invasiva di quanto non si creda) prevede che gli elementi di apparecchio vengano legati tra loro in una rete a maglia triangolare. Nel baricentro di alcune pietre si esegue un forellino nel quale trova posto un tassello a espansione di plastica. Le teste delle vite infisse vengono legate con un filo metallico a formare tanti triangoli tendenzialmente equilateri. Tutta la superfice può essere coperta da un telo1 a sua volta protetto da zolle di terra possibilmente argillosa, malta o con altro sistema. Copertina e maglia, esaurita la loro funzione, possono essere facilmente eliminate così come i tasselli mentre i forellini possono essere fatti scomparire riempiendoli con malta.

1 Per un intervento a tempo - protezione stagionale si può utilizzare uno strato di sabbia oppure di argilla espansa, facilmente reversibile e riutilizzabile.

interventi in condizioni di emergenza 111

Le motivazioni che più frequentemente vengono portate a giustificazione di una mancata azione conservativa sono legate a mancanza di fondi, anche quando per gli scavi si è reso disponibile un budget di tutto rispetto. Nel campo del restauro, in analogia con quanto avviene ormai da qualche decennio nella nuova edilizia, si possono utilizzare materiali di rifiuto che oltre ad assicurare buoni risultati hanno il vantaggio di avere costi molto ridotti. Nell’architettura antica è frequente che edifici diventino cave di materiali da costruzione. Dopo alcuni cataclismi i “restauri di necessità” hanno dimostrato l’importanza del “costruire la prevenzione” a cataclismi successivi. Recentemente una maggiore sensibilità provoca forti prese di posizione nei confronti del reimpiego dei rifiuti in quel delicato equilibrio che sta diventando uno dei principali problemi mondiali. Sempre più frequentemente si rendono note esperienze di interventi nei quali un ruolo importante, talvolta determinante, è svolto proprio da materiali di riciclo. In un cantiere di restauro si possono utilizzare materiali edili provenienti da demolizioni selettive1 (laterizi, pietrame lavorato o meno, legnami e metalli) ma anche materiali non edili. Nei Programmi Europei per la competitività e l’innovazione, sia pure con non poche resistenze, il materiale di scarto può essere considerato una nuova e conveniente materia prima seconda con un sensibile ampliamento dei campi di applicazione e riduzione dei costi. Alcuni interventi con materiali riciclati non di rado geniali (ma per molti solo follie da architetti) sono diventati prototipi destinati a essere riprodotti. Il restauro archeologico rappresenta un promettente campo di ricerca e di intervento anche da questo punto di vista. Il caso più frequente è costituito da sacchetti riempiti con terra di scavo e cassette con i relitti murari posti a protezione delle creste e a contrasto di pareti spingenti oppure come ricarico di strutture. I materiali recuperati possono essere stivati in un luogo non distante per essere reimmessi in un nuovo ciclo produttivo. Nel cantiere di restauro, soprattutto

1 Nelle voci di capitolato l’indicazione “demolizione andante” va evidentemente sostituita da quella di “cauto smontaggio” con indicazioni conseguenti relative allo stivaggio e la preparazione per ulteriori usi. Il materiale può essere trattato, in ordine decrescente: riduzione alla fonte, riutilizzo, reimpiego, riciclo in situ, riciclo della materia, riciclo organico, valorizzazione, abbandono.

materiali di recupero

quando si interviene in condizioni di emergenza, si possono utilizzare materiali non specifici dell’edilizia ma che, a certe condizioni, possono essere riutilizzati con vantaggi pratici e a costi irrisori: elementi di legno (pali, assi e bambù possono servire per puntellare e allestire tettoie provvisorie2); avvolgibili di legno (diventano efficaci passerelle in terreni dissestati o fangosi); cassette di plastica per bottiglie (impilate e legate tra loro costituiscono strutture drenanti e gabbionate, contenitori di vegetazione -architettura vegetale- per proteggere le creste o suggerire murature scomparse); tappi di plastica e sughero (possono diventare l’aggregato al posto di argilla espansa per sottofondi e strati protettivi); bancali di legno (strutture per protezioni stagionali, elementi protettivi); pneumatici (strutture drenanti, contenimento di scarpate, microfrane e fenomeni erosivi. Tagliati a metà e legati in verticale diventano efficaci gattaiolati per protezioni stagionali); tubi di cartone (protetti da due mani di bitume possono essere impiegati come sostegni); coperte (protezione contro le variazioni termiche e controllo dell’umidità di condensa). Queste soluzioni sono una possibile alternativa al non fare niente e alle improvvisazioni (comunque costose) a cui spesso si fa ricorso.

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2 Il modello proposto da Leonardo per un ponte (Cod. Atl. f. 69) può costituire una pratica soluzione per un supporto alla copertura di emergenza di una piccola area/struttura.

protezione delle creste e didattica

Una caratteristica che sembra ricorrente della protezione delle creste, indipendentemente dalla soluzione protettiva adottata, è la tendenza a omogeneizzare le sommità dei muri. Di solito il trattamento deciso viene esteso a gran parte delle creste senza tener conto delle caratteristiche d’apparecchio dei muri, delle diverse datazioni delle stratigrafie superstiti, delle tracce di crolli e/o demolizioni, rifacimenti antichi e interventi recenti che diventano strumento di interpretazione e di informazione. La conoscenza consapevole dello sviluppo nel tempo di un monumento si basa anche, e soprattutto, sulla capacità di analisi delle tracce superstiti ma anche la possibilità che altri, in tempi successivi possano svolgere nuove e aggiornate indagini. La “ricostruzione” è frutto di una interpretazione, sempre correggibile, e costituisce uno strumento di comunicazione di grande efficacia che può essere sfruttato a fini educativi soprattutto per fasce di utenza meno preparate1. Le creste scoperte dei muri e le copertine che le sostituiscono possono svolgere una buona funzione informativa se presentano le differenze tra le parti con chiarezza facilitando le osservazioni2. In pratica differenziare le creste, e quindi renderle “leggibili”, non è difficile. Scelta una soluzione basterebbe utilizzare inerti di colori differenti. Si possono bordare i singoli tratti di copertine con nastri colorati oppure impiegare dei signacoli facilmente riconoscibili. La chiave di lettura è costituita da rilievi o modelli in scala, opportunamente posizionati, nei quali le singole murature sono segnalate con gli stessi colori3.

1 “… Le date e la cronologia oggi non sono affascinanti […] la natura lineare della narrativa limita la comprensione della storia […] mentre la narrazione storica è unidirezionale, il passato è multiforme, molto più complesso di qualsiasi linea storica sequenziale” (L.Lowenthal, 1985).

2 “Per intrattenere, informare, educare il presente, il passato deve essere presentato in un modo accessibile” (M.ShanksCh.Tilley,1996)

3 A queste soluzioni che si possono ormai ritenere tradizionali si sono aggiunte, nei tempi più recenti, proposte nuove basate prevalentemente sull’informatica. Di grande interesse sono i volumi “suggeriti” da proiezioni video direttamente sulle murature originali oppure da giochi di luci opportunamente direzionate. Non si può non riconoscere a queste soluzioni una grande efficacia e una totale reversibilità ma, allo stesso tempo, va evidenziato il rischio che la suggestione che ne deriva possa prendere il sopravvento. Soprattutto negli utenti meno preparati e, perciò, potenzialmente più vulnerabili.

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didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze marzo 2023

La protezione delle creste e dei colli dei muri ha lo scopo di impedire infiltrazioni di acque e la proliferazione di vegetazione infestante. L’area di applicazione può riguardare azioni locali (costituiscono l’innesco di meccanismi destinati ad estendersi ad aree vicine) oppure azioni estese che possono creare difficoltà proprio a causa dell’ampiezza dei fenomeni. I criteri di intervento sono essenzialmente quelli sperimentati negli anni ’20 e ’30. Le formulazioni teoriche e le indicazioni operative più importanti sono ancora quelle di G.Giovannoni e soprattutto G.Boni e le raccomandazioni della Carta Italiana del Restauro (1972). L’adozione di malte di cemento, più recentemente le resine, condizionerà la maggior parte degli interventi caratterizzati, di volta in volta, dalla minima distinguibilità, dalla massima differenziazione e la rivalutazione del criterio minimale. L’errore più ricorrente, qualunque sia la soluzione adottata, sembra essere quello di credere in un intervento definitivo che non ha bisogno di manutenzione.

Luigi Marino, già professore associato di Restauro Architettonico presso l’Università di Firenze, attualmente insegna Restauro Archeologico alla Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio (DIDA) e alla Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici (SAGAS). È stato direttore del Corso di Perfezionamento in Restauro Archeologico. Si occupa di tecniche costruttive tradizionali e restauro di edifici allo stato di rudere e aree archeologiche, in particolare quando si è costretti a intervenire in condizioni di emergenza. Su questi temi ha messo a punto metodi e strumentazioni originali collaudati e applicati in cantieri in Italia e nel Vicino Oriente.

ISBN 978-88-3338-179-4 € 15,00

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