2021 LABOR 4
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
4
luglio-agosto 2021
Rivista bimestrale
D iretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA Il contratto a termine nella fase post pandemica: archiviato o arricchito il Decreto Dignità? Arturo Maresca
Subordinazione e autonomia: che cosa ha da dire l’Unione europea? Mariapaola Aimo
Flessibilità e work-life balance: un percorso tra realtà e retorica Giovanni Calvellini
Giurisprudenza commentata Caterina Mazzanti, Carlo Cester, Claudio De Martino, Maria Luisa Vallauri
Pacini
Indici
Saggi Arturo Maresca, Il contratto a termine nella fase post pandemica: archiviato o arricchito il Decreto Dignità? (prime osservazioni sull’art. 41-bis, l. n. 106/2021)..........................................p. 375 Mariapaola Aimo, Subordinazione e autonomia: che cosa ha da dire l’Unione europea?...................» 389 Giovanni Calvellini, Flessibilità e work-life balance: un percorso tra realtà e retorica........................» 409
Giurisprudenza commentata Caterina Mazzanti, La successione dei contratti collettivi nel tempo quando la clausola di ultrattività è a tempo indeterminato..............................................................................................» 433 Carlo Cester, Attività di lavoro durante la Cassa integrazione fra regole previdenziali e rapporto di lavoro...........................................................................................................................» 445 Claudio de Martino, L’impugnativa di licenziamento dell’era digitale al vaglio della giurisprudenza di merito..........................................................................................................» 457 Maria Luisa Vallauri, Quando l’assegnazione al lavoro agile è un diritto..........................................» 479
Indice analitico delle sentenze Contratto collettivo Successione dei CCNL – clausola di ultrattività – termine certus an e incertus quando – recesso – illegittimità (Cass., 12 febbraio 2021, n. 3671, con nota di Mazzanti) Lavoro (rapporto) – lavoro agile – esigenze di cura – astratta eseguibilità della prestazione in modalità agile – diritto alla assegnazione – sussistenza (Trib. Roma, 21 gennaio 2021, n. 5691, con nota di Vallauri) – retribuzione – cassa integrazione guadagni – integrazione salariale – svolgimento di attività lavorativa – nozione – omessa comunicazione all’INPS – conseguenze – decadenza dal diritto – fattispecie (Cass., 9 febbraio 2021, n. 3116, con nota di Cester) Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità (neretto unico per Trib. Brescia, 17 aprile 2018, Trib. Monza, 29 gennaio 2020, Trib. Roma, 20 ottobre 2020, Trib. Palermo, 28 ottobre 2020, Trib. Monza, 8 aprile 2021, tutte con nota di de Martino)
Indice cronologico delle sentenze Giorno
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29 20 28
21 9 12 8
Autorità 2018 Aprile Trib. Brescia 2020 Gennaio Trib. Monza Ottobre Trib. Roma Trib. Palermo 2021 Gennaio Trib. Roma, n. 5961 Febbraio Cass., n. 3116 Cass., n. 3671 Aprile Trib. Monza
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479 445 433 465
Notizie sugli autori
Mariapaola Aimo – professoressa ordinaria nell’Università degli Studi di Torino Giovanni Calvellini – assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Siena Carlo Cester – professore emerito nell’Università degli Studi di Padova Claudio de Martino – assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Foggia Arturo Maresca – professore ordinario nell’Università di Roma “La Sapienza” Caterina Mazzanti – assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Udine Maria Luisa Vallauri – professoressa associata nell’Università degli Studi di Firenze
Saggi
Arturo Maresca
Il contratto a termine nella fase post pandemica: archiviato o arricchito il Decreto Dignità? (prime osservazioni sull’art. 41-bis, l. n. 106/2021)* Sommario :
1. Le nuove misure sul lavoro a termine nel periodo post Covid: le scelte politiche di promozione dell’occupazione temporanea. – 2. Il valore dell’autonomia collettiva: le contrapposte impostazioni ed i loro riflessi sull’efficacia temporale delle nuove norme. – 3. Le tecniche utilizzate dal legislatore: un ritorno al passato? – 4. Proroghe e rinnovi (ma non solo): causali legali, ma anche collettive. – 5. La disciplina del nuovo contratto a termine a durata minima garantita (CTD-DMG) per l’occupazione di qualità (la sola oggi effettivamente incentivabile). – 5.1. Il CTD-DMG ambito di applicazione. – 5.2. Il CTD-DMG per i lavoratori già assunti a termine dallo stesso datore di lavoro (anche per più di 24 mesi). – 5.3. La proroga del CTD-DMG. – 5.4. La reiterazione del CTD-DMG tra le stesse parti: esclusione. – 5.5. Il termine ultimo (30 settembre 2022) per il perfezionamento del CTD-DMG. – 5.6 Il regime sanzionatorio applicabile al CTD-DMG.
Sinossi. La legge di conversione del d.l. Sostegni-bis ha modificato significativamente la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato prevedendo: a) che le causali introdotte dal Decreto Dignità potranno essere individuate anche dai contrati collettivi di cui all’art. 51, d. lgs. n. 81/2015; b) uno speciale rapporto di lavoro a tempo determinato che si caratterizza per la sua durata minima garantita (CTD-DMG) di almeno 12 mesi ed un giorno (e non superiore a 24), anche in questo caso saranno i contratti collettivi a predeterminare le “specifiche esigenze” a fronte delle quali questo contratto potrà essere stipulato. Queste due innovazioni hanno in comune la matrice collettiva che ne consente la realizzazione, divergono invece per la loro efficacia temporale. Infatti il CTD-DMG potrà essere stipulato fino al 30 settembre 2022, mentre
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Il presente scritto è destinato al Liber Amicorum per Maurizio Cinelli
Arturo Maresca
le causali collettive sono inserite stabilmente nel nostro sistema. Le finalità che il legislatore persegue con il CTD-DMG sono chiare, si intende mettere in campo una misura di sostegno all’occupazione temporanea, ma di qualità in quanto si caratterizza per la stabilità di almeno un anno che dovrebbe consentire al lavoratore di attraversare questa fase di uscita dalla crisi pandemica in vista del ritorno alla normalità. Abstract. The law converting the Sostegni-bis Decree significantly amended the discipline of fixedterm employment contracts by providing: a) that the reasons introduced by the Dignity Decree may also be identified by collective agreements pursuant to Article 51, Legislative Decree no. 81/2015; b) a special fixed-term employment relationship that is characterized by its guaranteed minimum duration (CTD-DMG) of at least 12 months and one day (and no more than 24), also in this case it will be the collective agreements that will predetermine the “specific reasons” which allow the stipulation of this contract. These two innovations share the collective matrix allowing their implementation but differ in their temporal effectiveness: the CTD-DMG can be concluded until 30 September 2022, whereas the collective “causali” (i.e., the reasons justifying the fixed-term contract) are permanently included in our system. The aims pursued by the legislator with the CTD-DMG are clear: it is intended to put in place a measure to support temporary employment, but of quality as it is characterized by the stability of at least one year which should allow the worker to pass through this phase of exit from the pandemic crisis towards the return to normality. Parole
chiave:
Termine – Rinnovi – Proroghe – Causali
1. Le nuove misure sul lavoro a termine nel periodo post
Covid: le scelte politiche di promozione dell’occupazione temporanea. Con l’art. 41-bis – inserito nel d.l., 25 maggio 2021, n. 73 c.d. Sostegni-bis dalla legge di conversione 23 luglio 2021, n. 106 – il legislatore ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina del contratto a tempo determinato (CTD) con la finalità di promuovere e sostenere l’occupazione temporanea nella fase di uscita dalla pandemia che si dischiude, almeno così tutti speriamo, davanti a noi. L’art. 41-bis (rubricato “Modifica all’articolo 19 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in materia di lavoro a tempo determinato”) dispone che “all’articolo 19 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, sono apportate le seguenti modificazioni”. Con la prima modifica contenuta nella lett. a) dell’art. 41-bis si prevede che “al comma 1 [dell’art. 19] è aggiunta, in fine, la seguente lettera: «b-bis) specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51»”. Con la seconda (lett. b) dello stesso art. 41-bis) si stabilisce che “dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1.1. Il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai
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contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022»”. Quindi il nuovo testo dell’art. 19, comma 1, 1.1. e 1-bis, d.lgs. n. 81/2015 risulta oggi così formulato (in grassetto le norme aggiunte dall’art. 41-bis): “Art. 19. Apposizione del termine e durata massima 1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. b-bis) specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51. 1.1. Il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022. 1-bis. In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a dodici mesi in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”. In estrema sintesi, quindi, le modifiche apportate dal legislatore con l’art. 41-bis riguardano due aspetti diversi. Da una parte, i rinnovi e le proroghe del CTD nella correlazione (di cui all’art. 21, comma 01, d.lgs. n. 81/2015) con le famose causali (utilizzando il linguaggio comune, ma per il legislatore “condizioni”) introdotte dal Decreto Dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87 convertito con l. 9 agosto 2018, n. 96) che non viene archiviato, ma arricchito in quanto alle causali legali che restano invariate, si potranno aggiungere anche quelle previste dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale). Dall’altra parte, con la seconda modifica, il legislatore ha introdotto nella disciplina del lavoro a termine una nuova ipotesi di lavoro, del tutto speciale, che consente l’assunzione temporanea nei casi previsti dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale), ponendo però un limite di qualità occupazionale. Limite consistente nella durata minima garantita del contratto di lavoro (CTD-DMG) di almeno dodici mesi ed un giorno (il termine deve avere una “durata superiore ai dodici mesi”), affinché il lavoratore possa contare, nella fase post pandemica, cioè fino al 30 settembre 2022, su un periodo di occupazione sufficiente (almeno, ci si augura) per attraversare questa fase nell’auspicata attesa del ritorno alla normalità. Quindi il legislatore si è mosso in queste due diverse direzioni: a) la prima affida alla contrattazione collettiva in via strutturale e definitiva (la norma non prevede, infatti, alcun limite alla sua efficacia temporale, come si dirà dopo) il controllo della reiterazione del CTD liberata dalle maglie strette delle causali legali del Decreto Dignità che sostanzialmente impedivano proroghe e rinnovi, salvo quelli con finalità sostitutiva; b) la seconda utilizza il CTD-DMG, governato dalla contrattazione collettiva, come strumento di promo-
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zione dell’occupazione temporanea sì, ma di non breve durata (almeno un anno), quindi una misura di politica attiva del lavoro destinata ad operare nella fase di uscita dall’emergenza. Si tratta di innovazioni importanti con le quali il legislatore supera l’impostazione degli interventi difensivi e contingenti in materia di CTD varati durante il periodo acuto dell’emergenza pandemica1 per dare impulso al lavoro a termine muovendo dal presupposto che nella situazione attuale le perduranti incertezze dei mercati scoraggiano le assunzioni a tempo indeterminato, mentre per dare fiato all’occupazione si palesa necessario ricorrere ai CTD, anche in vista dell’attuazione del PNRR e dell’occupazione che auspicabilmente ne deriverà. L’impulso al lavoro a termine evidenzia anche l’acquisita consapevolezza del legislatore della scarsa efficacia delle altre iniziative intraprese al fine di stimolare l’occupazione, come quella del contratto (a tempo indeterminato) di rioccupazione che, nella situazione attuale, appare destinato ad un probabile insuccesso per la sua insignificante attrattività. Il comun denominatore dei due interventi è il riconoscimento dell’autonomia collettiva, riportata dal legislatore al centro della disciplina del CTD, dopo essere stata neutralizzata dal Decreto Dignità. Invece la differenza significativa riguarda l’efficacia temporale delle nuove norme dettate dal legislatore che: a) per il CTD-DMG si protrae fino al 30 settembre 2022; b) mentre l’innovazione delle causali collettive si inserisce stabilmente nella preesistente disciplina legale del CTD divenendo così una norma di sistema.
2. Il valore dell’autonomia collettiva: le contrapposte
impostazioni ed i loro riflessi sull’efficacia temporale delle nuove norme. Questi ultimi aspetti meritano un cenno ulteriore che muove dai due emendamenti al d.l. n. 73/2021 approvati in sede di conversione e che hanno dato vita alle due disposizioni oggetto di esame in questa sede. In ordine cronologico il primo emendamento, approvato il 7 luglio (il c.d. emendamento Viscomi, deputato del PD), prevede la possibilità dei contratti collettivi di stabilire
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In particolare l’art. 19-bis, d.l., 17 marzo 2020, n. 18, convertito con l. 24 aprile 2020, n. 47 dispone “considerata l’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati, è consentita la possibilità, in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione”. E l’art. 93, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con l. 17 luglio 2020, n. 77 e più volte modificato (da ultimo dall’art. 17, co. 1, d.l. 22 marzo 2021, n. 41, convertito con l. 21 maggio 2021, n. 69) per il quale “in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2021, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.
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causali ulteriori a quelle legali2. Il secondo emendamento, approvato il 9 luglio (presentato dai relatori al ddl di conversione, deputati del M5S), introduce il CTD-DMG. Gli emendamenti si ispirano a filosofie diverse, anzi contrapposte quanto allo spazio che il legislatore può attribuire o negare all’autonomia collettiva nella disciplina del CTD. La prima linea di pensiero si affida all’autonomia collettiva nella convinzione che essa possa valutare a livello nazionale, territoriale o aziendale l’opportunità di integrare la disciplina legale (nel caso di specie, quella delle causali) consentendo CTD di durata superiore ai dodici mesi, ma prevalentemente proroghe e rinnovi anche in casi diversi da quelli predeterminati dal legislatore, ritenendo troppo rigida, perché inderogabile collettivamente, la norma sulle causali (che, comunque, restava) pur sempre esposta alle deroghe, assai frequenti, dei contratti collettivi di prossimità, come si dirà nel prosieguo) e, perciò, inidonea ad apprezzare situazioni che a livello di categoria, territoriale o aziendale si possono palesare ed essere considerate meritevoli di una reiterazione del CTD, sempre collettivamente controllata. La seconda opinione, invece, tende a contenere l’intervento della contrattazione collettiva, ritenendo esaustive le causali previste dal legislatore, al di fuori delle quali si reputa che non debba esservi spazio per ulteriori proroghe e rinnovi del CTD, per la preoccupazione degli effetti espansivi prodotti dall’autonomia collettiva. Seguendo questa prospettiva l’intervento dell’autonomia collettiva nella disciplina del CTD deve essere limitato e circoscritto temporalmente solo alla fase emergenziale o post emergenziale, come appunto il legislatore ha fatto con il CTD-DMG. Partendo da queste divergenti impostazioni, attraverso l’emendamento avente ad oggetto il CTD-DMG si è consumato il tentativo di interferire sull’efficacia temporale del diverso emendamento sulle causali collettive, inserendo soltanto nel primo il termine di efficacia “fino al 30 settembre 2022”, ma cercando di estendere l’operatività di questo stesso termine anche all’emendamento sulle causali collettive con l’obiettivo di trasformare in transitoria la norma che non era/è tale3. Come si dirà anche nel prosieguo, si tratta di un tentativo destinato all’insuccesso, in quanto: 1) l’emendamento sul CTD-DMG non assorbe e sostituisce quello sulle causali, ma si aggiunge ad esso, avendo il legislatore dato vita a due diverse disposizioni inserite in due commi distinti dell’art. 19, uno dei quali creato appositamente dall’art. 41-bis, lett. b) per la disciplina del CTD-DMG; 2) il termine di efficacia temporale (“fino al 30 settembre
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Altri emendamenti successivi a quello dell’On. Viscomi (n. 41.05), ma di analogo contenuto, sono stati presentati dagli On.li Cestari della Lega (n. 41.07), Lucaselli di FdI (n. 41.023) e On. Pella di FI (n. 41.028). 3 L’evidenza di questo tentativo e la sua importanza nella dialettica tra i partiti della maggioranza di Governo è resa palesa dal seguente comunicato stampa: “DL SOSTEGNI BIS: DA COMM. BILANCIO OK CONTRATTI A TERMINE DI 24 MESI FINO A 9/22 Roma, 9 lug. (Adnkronos) – Con un emendamento presentato dai relatori al decreto Sostegni-bis e approvato questo pomeriggio in commissione Bilancio alla Camera, su impulso del Movimento 5 Stelle, è stata modificata la norma sui contratti a termine licenziata mercoledì scorso dalla stessa commissione. Norma sulla quale, al momento del voto, non era ancora pervenuto il parere del ministero del Lavoro. L’emendamento, passato all’unanimità, prevede dunque che «fino al 30 settembre 2022, qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro, al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata superiore ai 12 mesi ma comunque non eccedente i 24 mesi». In questo modo, superata la fase emergenziale il decreto DIGNITÀ tornerà alla sua formulazione originaria”.
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2022”) è collocato all’interno del comma 1.1. dell’art. 19 e non nella lett. b-bis) inserita nel comma 1 dello stesso art. 19; 3) se il legislatore avesse voluto consapevolmente praticare la soluzione, senza dubbio bizzarra, di infilare il limite dell’efficacia temporale della lett. b-bis) in un comma diverso da quello nel quale è stata inserita, avrebbe dovuto farlo in termini espressi (“… fino al 30 settembre 2022, termine che si applica anche alla lett. bbis)”); 4) il riferimento alla lett. b-bis) del comma 1 riportato nel comma 1.1. si spiega nel modo che sarà di seguito esplicitato, cioè nel senso che quando la conclusione del CTDDMG costituisce un rinnovo di un precedente CTD intercorso tra le stesse parti o nel caso di una sua proroga, dovrà essere stipulato nel rispetto delle sole causali collettive (ma non di quelle legali). Se, poi, si guarda alla stessa questione dell’operatività del termine di efficacia temporale previsto nel comma 1.1. dell’art 19 con specifico riguardo ai rinnovi ed alle proroghe del CTD è agevole osservare che la disciplina generale li subordina alle causali contemplate nel comma 1 dell’art. 19 (secondo l’art. 21, comma 01, d.lgs. n. 81/2015, infatti, “il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1. Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1”) all’interno del quale oggi l’art. 41-bis ha, però, collocato anche quelle collettive. Appare, quindi, chiaro che per i rinnovi e le proroghe del CTD non può assumere alcun rilievo la questione relativa all’operatività del termine di efficacia temporale fino al 30 settembre 2022, essendo esso previsto nella diversa disposizione inserita dall’art. 41-bis nello stesso art. 19 al nuovo comma 1.1. dedicato al CTD-DMG.
3. Le tecniche utilizzate dal legislatore: un ritorno al passato?
Le modifiche apportate dalle norme in esame alla disciplina del CTD ricordano, per alcuni versi, quanto avvenne nel 1987 quando l’art. 23, l. 28 febbraio 1987, n. 56 aprì la strada ad un diffuso (e provvidenziale) intervento della contrattazione collettiva in materia di assunzioni a termine, a partire dall’accordo interconfederale 18 dicembre 1988 che costituisce ancor oggi uno degli esempi più significativi di promozione da parte dell’autonomia collettiva dell’occupazione nel mercato del lavoro realizzato tramite il CTD. Sul piano generale sono note le tecniche e le tipologie dei rinvii della legge alla contrattazione collettiva, per quanto riguarda il caso in esame in questa sede si deve partire dai criteri selettivi che individuano i soggetti sindacali legittimati. Su questo punto non si registra nulla di nuovo, il legislatore infatti ha scelto la strada più sicura e sperimentata, cioè quella di richiamarsi espressamente all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, norma ormai paradigmatica in materia di rinvii della legge al contratto collettivo. Un richiamo, peraltro, del tutto inutile in quanto le nuove norme sono state collocate dal legislatore all’interno del d.lgs. n. 81/2015 nel quale l’operatività dell’art. 51 ha una portata generale e, quindi, si sarebbe comunque applicato anche ai rinvii alla contrattazione collettiva effettuati dalle norme di nuovo inserimento.
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Appare opportuno ricordare ed evidenziare che l’applicazione dell’art. 51 legittima tutti i “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” e, aggiungerei, anche un accordo interconfederale. Con la conseguenza che la legittimazione del contratto collettivo, ai vari livelli e per lo specifico ambito applicativo di ciascuno di essi, deriva a titolo originario dal rinvio operato dalla legge4. Quindi, cercando di esplicitare con un esempio le conseguenze di quanto appena detto, se al rinvio legale viene dato seguito in modo concorrente e differenziato nei contenuti sia dal contratto nazionale sia da quello aziendale, la disciplina applicabile al datore di lavoro per le assunzioni a termine sarà quella dettata dal contratto aziendale, senza che emerga il tema dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello che si pone quando l’esercizio dell’autonomia collettiva si esplica in assenza di rinvii legali. L’ulteriore questione riguarda il contenuto del contratto collettivo attuativo del rinvio legale per verificare se nella formulazione di tale rinvio si rinvengano o meno vincoli posti dal legislatore all’autonomia sindacale. La prima osservazione è che la formulazione del rinvio è identica nelle due disposizioni qui analizzate, facendo riferimento entrambe all’individuazione delle “specifiche esigenze” rimessa ai contratti collettivi di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015. Le nuove norme non pongono alcuna precisazione quanto al tipo o al contenuto di queste “esigenze”, evocando, ad esempio, la natura di esse (temporanee, occasionali, straordinarie, non ripetitive) oppure condizioni oggettive riconducibili all’azienda o soggettive del lavoratore (magari per favorire l’assunzione di giovani lavoratori finalizzata al ricambio generazionale). Conseguentemente le esigenze devono soltanto essere formulate in modo specifico, predeterminando le casistiche e non si possono limitare ad un mero rinvio all’autonomia negoziale delle parti del contratto individuale di lavoro, rimettendo ad esse, sostanzialmente, l’identificazione di tali “esigenze”. Quindi “qualora si verifichino” le “esigenze” individuate dal contratto collettivo, quali che siano, il CTD potrà essere prorogato, rinnovato o stipulato per oltre 12 mesi. Si deve precisare che, come accennato, i rinvii del legislatore alla autonomia collettiva sono a contenuto libero e non vincolato, naturalmente i contratti collettivi declineranno le “esigenze” con specifico riferimento sia alle finalità che si intendono perseguire sia alla diversa funzione autorizzatoria che esse sono destinate ad assolvere: da una parte, per quanto riguarda le causali per rinnovare o prorogare un CTD e, dall’altra, la conclusione del CTD-DMG. È opportuno aggiungere che, come si motiverà più diffusamente nel prosieguo, il tema delle causali relative ai rinnovi ed alle proroghe si può porre anche nella peculiare ipotesi
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Anche nel Testo Unico sulla Rappresentanza firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 10 gennaio 2014 nella parte terza sulla “titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e aziendale” si legge che “la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge”. Quindi sono sia il CCNL sia la legge ad individuare in modo concorrente gli ambiti di intervento della contrattazione aziendale.
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in cui un CTD-DMG si configuri come un rinnovo rispetto ad un CTD precedentemente intercorso tra le stesse parti oppure la proroga riguardi un CTD-DMG inizialmente stipulato per 12 mesi e poi prorogato fino al 24 ° mese. Anche in questo caso le “esigenze” che i contratti collettivi dovranno specificare sono a contenuto libero, mancando una diversa indicazione del legislatore. Ma potrà accadere che i contratti collettivi nel formulare le causali autorizzatorie delle proroghe e dei rinnovi destinate ad operare in via generale, valuteranno se differenziarle con riferimento alle peculiari vicende che, come si è appena detto, potrebbero interessare il CTD-DMG. Non si tratta, però, di un’opzione obbligata, ma se fosse perseguita dai contratti collettivi avallerebbe la tesi che il rinvio contenuto nel comma 1.1. alla lett. b-b) del comma 1 dell’art. 19 riguarda il CTD-DMG (come nel prosieguo si tornerà a dire). I contratti collettivi, invece, non potranno esimersi dallo specificare le “esigenze”, anche distinguendo tra quelle che autorizzano i rinnovi e le proroghe del CTD e le altre che consentono di stipulare il CTD-DMG. A conforto di quanto si è detto, si può infine osservare che la formulazione del rinvio al contratto collettivo utilizzata dalle norme oggetto di esame appare, quanto al suo contenuto, simile a quella che si legge nell’art. 23, comma 1, l. n. 56/1987 (“l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro … è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”). Su questa norma, com’è noto, si sono pronunziate anche le Sezioni Unite della Cassazione (2 marzo 2006 n. 4588 e la successiva giurisprudenza adesiva di legittimità v., da ultimo, Cass., 22 giugno 2012, n. 10468 e Cass., 19 marzo 2013, n. 6787) affermando che il legislatore ha operato una sorta di delega in bianco al contratto collettivo, quindi senza vincoli di conformazione alle previsioni della legge (nel caso in esame in questa sede l’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 sulle causali) tanto da consentire la stipulazione di CTD anche per speciali categorie di lavoratori. In conclusione, si può dire che il legislatore coinvolge la contrattazione collettiva (ad ogni livello) nella responsabilità di promuovere l’occupazione temporanea in un momento così difficile come quello attuale; una responsabilità alla quale dovranno corrispondere iniziative incisive ai vari ambiti della contrattazione (non escluso quello interconfederale, ancorché in via cedevole)5.
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L’ampiezza del rinvio operato all’autonomia collettiva dall’art. 41-bis è testimoniata dal tenore dell’ordine del giorno che, su iniziativa del M5S, è stato approvato a seguito della legge di conversione n. 106/2021; ordine del giorno che con riferimento all’art. 41bis “impegna il Governo a valutare l’opportunità di adottare appositi provvedimenti di carattere normativo volti a modificare la normativa di cui in premessa e/o a definire ulteriori stringenti limiti all’applicazione della stessa al fine di evitare abusi in danno dei lavoratori”.
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Il contratto a termine nella fase post pandemica: archiviato o arricchito il Decreto Dignità?
4. Proroghe e rinnovi (ma non solo): causali legali, ma anche collettive.
Com’è noto le causali previste dall’art. 19, comma 1, sono necessarie per qualsiasi rinnovo del CTD o per prorogarlo dopo il 12° mese come prescrive l’art. 21, comma 01, d.lgs. n. 81/2015, ma anche (sebbene il caso sia stato finora poco praticato) per stipulare un CTD di durata (continuativa) superiore a 12 mesi, ma non eccedete i 24 (art. 19, comma 1). Se è pur vero che le causali introdotte dal Decreto Dignità erano mirate a limitare i rinnovi e le proroghe del CTD, è anche vero che le causali collettive introdotte dall’art. 41-bis, con la lett. b-bis) potrebbero anche dar vita, come si è detto, ad un CTD che, senza soluzione di continuità, si sviluppi per una durata massima di 24 mesi. Non si tratterebbe di un’ipotesi del tutto coincidente con quella del CTD-DMG, ma che si aggiunge ad essa. Infatti, il CTD-DMG, come si dirà nel prosieguo, ha una durata minima di 12 mesi e non è assoggettato ai limiti legali previsti per la generalità dei CTD. È pur vero, però, che i contratti collettivi potranno, attraverso le causali della nuova lett. b-bis), individuare “specifiche esigenze” che autorizzano la conclusione di CTD di lunga durata (fino a 24 mesi) in funzione del sostegno all’occupazione nella fase di uscita dalla emergenza pandemica. Per quanto concerne, invece, le causali necessarie per concludere una proroga (dopo i primi dodici mesi liberi) o un qualsiasi rinnovo del CTD si deve inizialmente ricordare che, com’è noto, per esse opera la specifica disposizione dell’art. 21, comma 01, d.lgs. n 81/2015 (“il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1. Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1”) che rinvia al comma 1 dell’art. 19 e, quindi, anche alla lett. b-bis), ma non al nuovo comma 1.1. aggiunto dall’art. 41-bis che, quindi, è del tutto estraneo alle vicende del CTD che hanno ad oggetto proroghe e rinnovi. Con riferimento, poi, al rapporto tra le causali legali e quelle eventualmente previste in sede collettiva si deve osservare che hanno pari dignità, nel senso che queste ultime operano non in deroga alle prime, ma concorrono con esse per ampliare, laddove le parti sociali riterranno di farlo, la reiterazione dei CTD; reiterazione che, come accennato, era sostanzialmente confinata dal Decreto Dignità alle sole ragioni sostitutive del personale assente. Il combinato disposto della nuova disposizione (lett. b-bis del comma 1 art. 19) con l’art. 21, comma 01, quindi, produce l’effetto di inserire stabilmente le causali collettive nel sistema di controllo della reiterazione (conseguente a proroghe o rinnovi) dei CTD in coerenza con il compito che la Direttiva 99/70/CE affida ai legislatori nazionali. È agevole anche cogliere la differenza tra questo intervento e quelli emergenziali sul CTD innestati dal legislatore nell’art. 93, d.l. n. 34/2020 più volte modificato e prorogato. In quest’ultimo caso, infatti, il legislatore accorda la facoltà di rinnovare o prorogare il CTD delimitandone il numero (“per una sola volta”), fissandone “la durata massima complessiva di ventiquattro mesi” ed il “periodo massimo di dodici mesi” con la finalità di favorire la tenuta dell’occupazione temporanea a fronte della drastica contrazione dovuta alle conseguenze economiche dell’emergenza pandemica.
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Quanto agli effetti della nuova norma il primo sarà quello di normalizzare nell’ambito delle relazioni collettive ciò che prima si realizzava con il frequente ricorso ai contratti collettivi di prossimità dell’art. 8, d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che avevano tratto dal Decreto Dignità un notevole impulso. Già questo risultato appare di indubbia importanza. Se l’effetto diretto del nuovo art. 41-bis è quello di consentire alle causali collettive di legittimare rinnovi e proroghe del CTD, questa norma potrà anche riattivare la dinamica di altri e diversi rinvii alla contrattazione collettiva che, seppur già presenti nella disciplina generale del CTD, di fatto non erano più utilizzabili a causa del Decreto Dignità. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 che pone il limite dei 24 mesi ai rinnovi dei CTD “intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore”, consentendone però la deroga da parte dei contratti collettivi; deroga, tuttavia, paralizzata in concreto dalle causali del Decreto Dignità che impedivano i rinnovi del CTD (salvo quelli per ragioni sostitutive). Infatti, a seguito dell’art. 41-bis, i contratti collettivi potranno non solo individuare le specifiche causali a fronte delle quali sarà possibile rinnovare un CTD, ma anche valutare di derogare al limite legale dei 24 mesi fissandone uno diverso. Il rinvio del legislatore alla contrattazione collettiva riguarda solo ed esclusivamente l’individuazione delle nuove causali e non anche la deroga alla disciplina legale relativa ai divieti, alla durata massima dei rinnovi e delle proroghe, al numero di queste ultime, nonché agli intervalli temporali tra un contratto a termine e quello successivo. Limiti, quindi, che continuano ad essere applicabili secondo quanto previsto dalla disciplina generale degli artt. 19, comma 2, e 21, d.lgs. n. 81/2015. Come si dirà nel prosieguo ad una diversa conclusione sembra debba pervenirsi per il nuovo CTD-DMG del comma 1.1. dell’art. 19. Un’ultima notazione riguarda la formulazione delle causali collettive riferite ai rinnovi ed alle proroghe che saranno nella loro configurazione diverse, almeno in parte, da quelle che in un passato ormai lontano (fino al d.lgs. n. 368/2001) si utilizzavano per l’apposizione del termine al momento della prima assunzione.
5. La disciplina del nuovo contratto a termine a durata
minima garantita (CTD-DMG) per l’occupazione di qualità (la sola oggi effettivamente incentivabile). Tutto da scoprire è il CTD-DMG che appare un’opportunità one shot immessa dal legislatore nel mercato del lavoro ed affidata alla contrattazione collettiva per dare fiato all’occupazione in una situazione di marcata incertezza che disincentiva le assunzioni a tempo indeterminato, sia pure nella prospettiva di attuazione del PNRR e delle occasioni di lavoro che, direttamente o indirettamente, ne deriveranno. Quindi la finalità perseguita dal legislatore è quella di favorire fino al 30 settembre 2022 l’occupazione temporanea, ma di qualità perché durevole nel medio tempo (superiore a 12 mesi, ma non eccedente i 24) consentendo, anzi incentivando le assunzioni a termine nei casi previsti dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale), per garantire così al lavoratore un periodo limitato, ma stabile di occupazione nella fase di uscita dalla pandemia.
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Il nuovo CTD-DMG pone una serie di problemi interpretativi che in questa sede vengono soltanto segnalati. Problemi che ruotano intorno alla domanda iniziale in ordine all’applicazione al CTDDMG dei limiti e regole previsti in generale per il CTD dal d.lgs. n. 81/2015. Applicazione che sembra debba escludersi proprio in considerazione della natura e delle finalità dello speciale contratto a termine di promozione ed incentivazione dell’occupazione temporanea di qualità che il legislatore si propone di sviluppare, rimettendone le ipotesi di utilizzo alla contrattazione collettiva, senza ulteriori vincoli (salvo quello delle causali collettive, come si dirà). Un’osservazione aiuta, forse, a chiarire quanto si è appena detto. Il CTD-DMG deve essere necessariamente stipulato per una durata “superiore a dodici mesi” (art. 19, comma 1.1.), quindi già nella fase genetica di questo contratto si coglie il capovolgimento della prospettiva nella quale si è mosso il legislatore dell’art. 41-bis rispetto a quella su cui si fonda la norma generale dell’art. 19, comma 1, per la quale “al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi”.
5.1. Il CTD-DMG ambito di applicazione. Il primo quesito riguarda la possibilità del datore di lavoro di assumere con il CTDDMG lavoratori che in precedenza aveva già utilizzato a termine, senza dover ricorrere alle causali. Sembra possibile escludere la necessità delle causali legali (diversamente si deve dire per quelle collettive) nell’ipotesi di rinnovo, cioè quando il nuovo CTD-DMG viene attivato dalle stesse parti tra le quali era intercorso un precedente CTD, a prescindere dalle mansioni nel passato già svolte. Infatti, se il legislatore avesse voluto circoscrivere il CTD-DMG ai soli lavoratori assunti dal datore di lavoro per la prima volta, lo avrebbe detto espressamente definendo l’ambito applicativo della nuova disposizione. A questa prima risposta parziale si deve, però, aggiungere che, secondo quanto si legge nel comma 1.1. inserito dal legislatore nell’art. 19, al nuovo CTD-DMG “il termine … può essere apposto … qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1”. Il criptico riferimento alla lett. b-bis), cioè alle sole causali collettive ma non anche a quelle legali, sembra formulato proprio con riferimento alla possibilità che il CTD-DMG si configuri come un rinnovo rispetto ad un CTD intercorso tra le stesse parti che, in questo caso, vengono vincolate al rispetto delle causali collettive, ma solo se siano state previste e quando lo saranno (ciò vale, come si dirà dopo, anche per l’eventuale proroga del CTDDMG dal 12° fino al 24 ° mese). Rinnovo che, quindi, si palesa ammissibile nonostante le precedenti assunzioni a termine tra le stesse parti. Seguendo questa ipotesi ricostruttiva, si può quindi dire che lo speciale CTD-DMG può essere stipulato laddove ricorrano le “esigenze” specificate dai contratti collettivi dell’art. 51, d.lgs. n. 81/2015 anche con lavoratori già assunti a termine dallo stesso datore di lavoro senza la necessità delle causali legali, ma, quando interverranno le causali collettive, questi rinnovi dovranno avvenire nel rispetto di esse.
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5.2. Il CTD-DMG per i lavoratori già assunti a termine dallo stesso datore di lavoro (anche per più di 24 mesi).
In coerenza con l’affermazione di partenza – circa l’inapplicabilità al nuovo CTD-DMG dei limiti legali posti alle assunzioni a termine – nonché con la natura e le finalità dello speciale contratto a termine di promozione ed incentivazione dell’occupazione temporanea, si ritiene che per esso non operino i limiti né quelli quantitativi (art. 23, d.lgs. n. 81/2015) né quelli di durata massima (art. 19, comma 2) previsti per la generalità dei CTD. Peraltro, i limiti legali ora richiamati sono derogabili dalle stesse fonti collettive legittimate a prevedere il CTD-DMG, con la conseguenza che quando i contratti collettivi individueranno le “specifiche esigenze” che consentono di stipulare il CTD-DMG, potranno anche chiarire ed esplicitare se le assunzioni così effettuate dovranno essere considerate al di fuori di tali limiti. A quanto accennato consegue che il datore di lavoro potrà concludere il nuovo CTDDMG non solo – come si è detto – con i lavoratori da lui in passato assunti a tempo determinato, ma anche quando questi lavoratori abbiano già raggiunto il limite dei 24 mesi di cui all’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 (o il diverso limite previsto dai contratti collettivi), infatti le precedenti assunzioni a tempo determinato e la loro durata non sembrano precludere l’utilizzo del nuovo strumento di politica attiva del lavoro voluto dal legislatore.
5.3. La proroga del CTD-DMG. Altro problema riguarda la possibilità di prorogare lo speciale CTD-DMG. Mentre si deve escludere che si possa dare vita al CTD-DMG prorogando un normale contratto a termine in corso di svolgimento, il tema della proroga si pone quando il CTDDMG sia stato inizialmente stipulato per la durata minima di 12 mesi (ed un giorno) e le parti intendano differire il termine originario fino al limite massimo dei 24 mesi specificamente ed inderogabilmente previsto dal legislatore per questo contratto. Non è agevole dare una risposta univoca a questa domanda, ma sembrerebbe che, pur non applicandosi per le ragioni accennate la disciplina generale della proroga (art. 21 comma 1, d.lgs. n. 81/2015), questa non sia preclusa (non c’è, infatti, bisogno di una norma che autorizzi la proroga che, generalmente, viene presa in considerazione dal legislatore per limitarla), anche se ovviamente dovrà essere contenuta nella durata massima dei 24 mesi espressamente prevista per il CTD-DMG ed essere perfezionata dalle parti entro il 30 settembre 2022. Infatti, si può senz’altro immaginare che il legislatore auspichi l’utilizzo della durata massima del CTD-DMG, anziché di quella minima (12 mesi ed un giorno) e ciò dovrebbe indurre ad ammettere anche la proroga. Inoltre, la proroga del CTD-DMG (che supera i primi dodici mesi) potrà avvenire senza la necessità delle causali legali del comma 1 dell’art. 19, ma, quando interverranno le causali collettive, la proroga dovrà invece essere convenuta dalle parti (datore e lavoratore) nel rispetto di esse, come prima detto per i rinnovi interpretando in tal senso il riferimento del comma 1.1. dell’art. 19 alla lett. b-bis), comma 1.
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5.4. La reiterazione del CTD-DMG tra le stesse parti: esclusione. Si deve, invece, escludere la possibilità di reiterazione del CTD-DMG tra le stesse parti, proprio perché questo contratto costituisce un’opportunità che il legislatore mette a disposizione del datore e del prestatore di lavoro per un’unica ed esaustiva utilizzazione. L’ipotesi è più astratta che reale, ma sarebbe possibile se il lavoratore fosse assunto con un CTD-DMG per dodici mesi ed un giorno il 1° agosto 2021 e, quindi, fino al 1° settembre 2022. In questo caso, anche applicando (ove lo fosse) l’intervallo di 20 giorni di cui all’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, l’assunzione con il secondo CTD-DMG potrebbe avvenire tra il 22 ed il 30 settembre 2022 ed avere una durata di 24 mesi.
5.5. Il termine ultimo (30 settembre 2022) per il perfezionamento del CTD-DMG.
Quanto appena detto solleva l’ulteriore quesito in ordine al funzionamento del termine di efficacia temporale della norma contenuta nel comma 1.1. dell’art. 19 fissato dal legislatore al 30 settembre 2022. Questo termine riguarda il momento in cui il CTD-DMG viene stipulato e non quello in cui il contratto si estinguerà per scadenza del termine, in quanto finché la norma è in vigore è consentita la stipulazione di un CTD-DMG e lo è per tutta l’estensione temporale contemplata dal legislatore. Quindi sarà possibile assumere il lavoratore con lo speciale CTD-DMG (anche per 24 mesi) entro il 30 settembre 2022, il termine di 24 mesi, quindi, inizierà a decorrere da tale data.
5.6. Il regime sanzionatorio applicabile al CTD-DMG. Ultima questione, ma non meno delicata, è quella del regime sanzionatorio da adottare nel caso in cui sia stato stipulato un CTD-DMG in modo non conforme a quanto previsto dal legislatore. La prima osservazione è che nella disciplina generale del lavoro a termine (d.lgs n. 81/2015) la c.d. conversione a tempo indeterminato del contratto illegittimo è di volta in volta specificamente circoscritta dal legislatore ai casi nei quali essa debba applicarsi, quindi con esclusione degli altri. Con riferimento al nuovo CTD-DMG il legislatore non prevede esplicitamente l’applicabilità della conversione nell’ipotesi di violazione delle norme che lo disciplinano. Partendo da questa premessa, si deve notare ulteriormente che il legislatore dell’art. 41bis non ha modificato il comma 1-bis dell’art. 19 (“in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a dodici mesi in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”). Norma quest’ultima che dispone sì la conversione del CTD, ma solo quando sia stata violata la disciplina delle causali – pure di quelle collettive – e non anche nel caso di un CTD-DMG non conforme al comma 1.1. dello stesso art. 19 per il quale il legislatore dell’art. 41-bis nulla ha detto al riguardo.
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Si deve aggiungere, però, che l’art. 21, comma 01, d.lgs. n. 81/2015 prescrive che “il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1. Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1. In caso di violazione di quanto disposto dal primo e dal secondo periodo, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato”. Con la conseguente applicabilità di questa norma per le proroghe ed i rinnovi.
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Mariapaola Aimo
Subordinazione e autonomia: che cosa ha da dire l’Unione europea?* Sommario : Premessa – 1. Lo status di lavoratore nella giurisprudenza della Corte
di giustizia: la formula Lawrie-Blum – 2. Le espansioni della formula – 3. Il “rinvio condizionato” al diritto nazionale – 4. Il lavoratore “falsamente autonomo” nel sistema binario subordinazione-autonomia – 5. Il work on demand via apps: dai casi Uber all’ordinanza Yodel – 6. Verso una coerenza complessiva del campo di applicazione dell’acquis social?
Sinossi. L’A. ripercorre e analizza il processo di progressivo rafforzamento compiuto dalla Corte di Giustizia in relazione alla nozione unieuropea di lavoratore subordinato, che ha trovato spazio con riferimento sia a fonti dell’Unione che non contengono una definizione di lavoratore, sia a direttive che adottano una nozione sussidiaria, rimessa agli ordinamenti nazionali. Anche alla luce delle scelte compiute dalle più recenti direttive sociali, il compito della Corte di contribuire alla coerenza complessiva del campo di applicazione dell’acquis social rimane centrale. Abstract. The essay analyzes the progressive strengthening process carried out by the CJEU related to the EU notion of subordinate worker, which has found place with reference both to Union sources that do not contain a definition of worker and to directives that adopt a subsidiary notion, remitted to the Member States. Even in the light of the choices of the most recent social directives, the Court’s task of contributing to the overall consistency of the scope of the social acquis remains central. Parole chiave: Subordinazione – Nozione unieuropea – Lavoratore falso autonomo – Effetto utile – Acquis social
*
Il saggio è destinato agli Studi in memoria di Massimo Roccella.
Mariapaola Aimo
Premessa. Nel saggio intitolato Lavoro subordinato e lavoro autonomo oggi, Massimo Roccella – dopo aver rivisitato il dibattito giuslavoristico sulla prospettiva del cd. tertium genus e aver argomentato i suoi rilievi critici – dedica qualche riflessione a «ciò che l’Europa (non) ci dice», prendendo in particolare in esame il Libro verde della Commissione Europea del 2006 e concludendo che l’Europa «non ci dice nulla di conclusivo a proposito della questione in esame, né, men che meno, obbliga i legislatori nazionali ad introdurre, nei rispettivi ordinamenti giuridici, una categoria intermedia di rapporti di lavoro da insediarsi nella zona grigia fra autonomia e subordinazione»1. Da un diverso ma connesso punto di vista – quello della portata della cd. nozione comunitaria di lavoratore – nel Libro verde si è anche letto un «timido auspicio a ridimensionare l’ampio margine di manovra»2 affidato ai diritti interni per definire, in virtù del principio “costituzionale” di sussidiarietà, l’ambito di applicazione ratione personae delle direttive sociali. Nei molti anni trascorsi da allora, caratterizzati da profonde trasformazioni del lavoro, in primis legate al massiccio utilizzo delle tecnologie digitali, il dibattito giuslavoristico nostrano sui concetti-base di subordinazione e autonomia non si è mai sopito ed è anzi stato rilanciato, in un vero e proprio crescendo, a seguito dell’ingresso nell’ordinamento delle collaborazioni etero-organizzate e di tutto ciò che ne è seguito nel diritto vivente, soprattutto (ma certamente non solo) in collegamento con le note vicende – giudiziarie, legislative e contrattual-collettive – dei riders. Quel dibattito non si esaurisce, oggi più che mai, dentro i confini nazionali: seppur con le dovute differenze, le preoccupazioni e le sfide sono simili su scala globale e in particolare negli Stati membri dell’Unione, come testimoniano sia le soluzioni legislative e giurisprudenziali nazionali adottate in questi ultimi anni con specifico riferimento al lavoro tramite piattaforma, sia le prospettive di regolazione che si stanno affacciando in sede europea. Per queste ragioni vale la pena tornare ora a chiedersi se in questo dibattito allargato l’Unione europea abbia “qualcosa da dire”, analizzando in particolare se e come quel diritto e i suoi giudici hanno affrontato la delicata questione della nozione di lavoratore subordinato. L’interrogativo da cui è opportuno partire investe il «significato comunitario»3 (oggi unieuropeo) del termine “lavoratore subordinato”. L’approccio definitorio di tipo casistico che, in mancanza di una fattispecie generale e unitaria di riferimento4, caratterizza sul punto l’ordinamento dell’Unione si distingue da quello dei sistemi nazionali di diritto del lavoro per una «diversità originaria di impostazione»5. Com’è noto, alla base dell’ampia
1
Roccella, Lavoro subordinato e lavoro autonomo, oggi, in Q. soc., 2008, n. 46, 71 ss. e in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 65/2008 (da cui le citazioni, rispettivamente 20 e 22). 2 Santagata, Qualificazione del lavoro dipendente e mobilità in ambito comunitario, in DLM, 2007, 548. 3 È nel caso Unger (C. giust., 19 marzo 1964, 75/63) che la Corte affermò per la prima volta che il Trattato, ai fini di cui si dirà fra breve nel testo, conferisce all’espressione “lavoratore subordinato” un «significato comunitario». 4 Su cui v. Coursier, La notion de travailleur salarié en droit social communautaire, in DS, 2003, 305 ss. 5 Giubboni, Diritto del lavoro europeo, Cedam, 2017, 122.
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nozione di lavoratore subordinato compiutamente elaborata dalla Corte di giustizia sin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso ai fini dell’accesso alla garanzia della libera circolazione, ai sensi dell’art. 48 del Trattato istitutivo (oggi art. 45 TFUE), vi sono la logica del mercato unificato del lavoro e del lavoratore migrante come operatore economico6 e i connessi obiettivi di garanzia e di promozione del diritto fondamentale di libera circolazione nel mercato comune fondato sulla libera concorrenza. E in tale contesto è necessario e sufficiente il profilo della parità di accesso alle occasioni di lavoro disponibili7. Questa peculiare connotazione risulta geneticamente diversa da quella propria degli ordinamenti nazionali, incentrati invece su nozioni (legali o meno) di subordinazione sempre funzionali a «immettere nel contratto di lavoro uno statuto protettivo»8 capace di correggere l’asimmetria di poteri fra le sue parti9. Questa differenza di impostazione certamente ha segnato le scelte compiute dalla Corte nelle sue decisioni, ma non ha impedito ai frutti di quel percorso, come si dirà, di influenzare via via campi diversi da quelli di origine, soprattutto (ma non solo) in una prospettiva di valorizzazione dei diritti fondamentali dei lavoratori.
1. Lo status di lavoratore nella giurisprudenza della Corte di giustizia: la formula Lawrie-Blum.
La Corte di giustizia, più di vent’anni fa, ha affermato che «la nozione di lavoratore nel diritto comunitario non è univoca, ma varia a seconda del settore di applicazione considerato»10: benché da allora lo scenario sia in parte cambiato e si possa concordare, come si vedrà, con chi ha osservato che oggi più che la nozione stessa di lavoratore è «l’intensità della sua europeizzazione» che cambia in base al settore considerato11, è ancora vero che «le diversità nell’estensione delle definizioni di “lavoratore” sono difficilmente conciliabili con gli obiettivi di politica sociale della Comunità»12 e pongono un problema di coerenza del sistema.
6
Si v. Supiot, Les notions de contrat de travail et de relations de travail en Europe, Office des publications officielles des Communautés Européennes, 1992, 17. 7 Roccella, L’Europa e l’Italia: libera circolazione dei lavoratori e parità di trattamento trent’anni dopo, in RGL, 1997, I, 276, sottolinea come sia questo l’unico significato di “diritto al lavoro” che può emergere nel contesto in esame. 8 Giubboni, op. cit., 124. 9 Come ben esprime Mancini, Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento delle Comunità europee, in Aa. Vv., Il lavoro nel diritto comunitario e nell’ordinamento italiano, Cedam, 1988, 24, quando afferma che il diritto del lavoro comunitario «non nasce dalla critica di un rapporto diseguale e generatore di grandi conflitti nel cuore del sistema capitalistico». 10 C. giust., 12 maggio 1998, C-85/96, Martinez Sala, punto 8. 11 Robin-Olivier, Chronique Politique sociale de l’Union européenne. Le droit social de l’Union est-il capable de réduire la fragmentation de la catégorie des travailleurs?, in RTDE, 2012, 480. 12 Commissione europea, Libro verde. Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo, 22 novembre 2006, COM(2006) 708 definitivo, 15. Sulla frammentazione della nozione v. Kountouris, The Concept of “Worker” in European Labour Law: Fragmentation, Autonomy and Scope, in ILJ, 2018, vol. 47, 2, 193.
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La questione si è anzitutto posta, com’è noto, a metà degli anni ’60 del secolo scorso quando si è trattato di determinare la sfera di applicazione dell’art. 48 del Trattato ed è subito emerso il bisogno di dare un «significato comunitario» all’espressione “lavoratore” per evitare che ogni Stato col suo diritto interno, come affermato nel caso Unger, potesse unilateralmente «modificare la portata della nozione di “lavoratore migrante” ed escludere a suo piacimento determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal Trattato»13. A fronte della mancanza di una definizione di tale concetto cardine nel diritto sia primario che derivato, la Corte è prima giunta ad affermare, nel caso Levin, la necessità di avvalersi «dei principi interpretativi generalmente ammessi, assumendo come base il senso che correntemente si attribuisce»14 all’espressione “lavoratore” nel diritto degli Stati membri e alla luce delle finalità del Trattato, e poi, con «un ulteriore passo avanti» rappresentato dalla celebre sentenza Lawrie-Blum, ha per la prima volta esplicitato il senso del richiamo ai principi generali isolando una “formula” composta di «tre criteri idonei ad identificare in tutti gli Stati membri il rapporto di lavoro dipendente: svolgimento di una prestazione lavorativa, in condizione di subordinazione, dietro pagamento di una retribuzione»15. In questo leading case la Corte, una volta ribadito che le norme sulla libera circolazione si applicano solo in caso di «esercizio di attività reali ed effettive», ha infatti individuato come caratteristica oggettiva essenziale del rapporto di lavoro «la circostanza che una persona fornisca prestazioni di indiscusso valore economico ad un’altra persona e sotto la direzione della stessa, ricevendo come contropartita una retribuzione»16. La necessità – esplicitata in Lawrie-Blum e ripetuta innumerevoli volte – di fare riferimento ai «criteri oggettivi» che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei concreti diritti e obblighi delle parti esclude inoltre che queste ultime «abbiano qualunque potere sulla qualificazione giuridica della loro relazione»17, così come determina l’irrilevanza, ai fini del riconoscimento dello status di lavoratore, della qualificazione operata dal legislatore nazionale18: il cd. principio del primato dei fatti è costantemente affermato dai giudici di Lussemburgo – in linea con la maggior parte degli ordinamenti nazionali19 e con quanto raccomandato dall’Oil20 – e deve sempre guidare la valutazione dei giudici domestici21.
13
C. giust., Unger, cit. C. giust., 23 marzo 1982, 53/81, Levin, punto 9. 15 Roccella, Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea, Cedam, 1992, 76. Sul punto v. almeno Nogler, The Concept of «Subordination» in European and Comparative Law, Università di Trento, 2009. 16 C. giust., 3 luglio 1986, 66/85, Lawrie-Blum, punto 17. 17 Supiot, op. cit., 46. 18 V. ad es. C. giust., 31 maggio 1989, 344/87, Bettray, punto 16. 19 Tra cui il nostro, ove tale principio (cd. di “indisponibilità” del tipo) è garantito a livello costituzionale in nome del carattere imperativo e inderogabile della normativa a tutela del lavoro subordinato (v. Corte cost., 23 marzo 1994, n. 115). Cfr. Waas, van Voss (ed. by), Restatement of Labour law in Europe. The concept of employee, Hart Publishing, 2017, li ss. 20 Ai sensi del par. 9 della Raccomandazione n. 198/2006, «the determination of the existence of (an employment) relationship should be guided primarily by the facts relating to the performance of work and the remuneration of the worker, notwithstanding how the relationship is characterised in any contrary arrangement, contractual or otherwise, that may have been agreed between the parties». 21 V. ad es. C. giust., 6 novembre 2003, C-413/01, Ninni-Orasche, punto 27. 14
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Dei tre criteri distintivi individuati nel citato leading case quelli che nel corso dell’evoluzione della giurisprudenza in tema di libera circolazione hanno avuto maggior «peso specifico» sono il criterio del carattere oneroso del rapporto (letto dalla Corte «alla stregua d’un concetto molto elastico di retribuzione») e soprattutto quello della reale ed effettiva natura economica delle prestazioni svolte, mentre minore interesse ha rivestito il criterio dell’assoggettamento al potere di direzione del destinatario della prestazione; è principalmente grazie all’interpretazione estensiva dei primi due criteri che la Corte ha infatti potuto ricomprendere «nel raggio applicativo dell’art. 45 TFUE i lavoratori a tempo parziale, a chiamata, occasionali e intermittenti, temporanei o stagionali, impegnati in attività formative o solo di stage»22 e altre figure sui generis. I criteri interpretativi utilizzati in tale contesto «possono apparire un po’ troppo semplificati», ma si spiegano in ragione del fatto che la preoccupazione principale «non è tanto quella di tracciare una linea di discrimine fra subordinazione e autonomia, quanto piuttosto di distinguere, al fine di delimitare la sfera operativa delle norme comunitarie in materia di libera circolazione, fra lavoratori (subordinati) e soggetti economicamente non attivi»23, questi ultimi potenzialmente destinati a gravare sui regimi di welfare del paese ospitante. D’altronde, com’è noto, sia ai lavoratori subordinati che a quelli autonomi è garantita la libertà di circolazione nel mercato comune e per entrambi «vale una disciplina largamente omogenea»24, mentre è ai fini dell’applicazione del diritto unieuropeo della concorrenza che la distinzione tra i due tipi normativi torna invece ad assumere rilevanza, come si dirà, visto che i lavoratori autonomi costituiscono imprese e come tali sono soggetti alle regole antitrust. Tornando al componente “minore” della formula, quello dell’eterodirezione, la Corte non ha fornito sul punto – comprensibilmente visto il diverso focus – indicazioni precise, facendone però emergere negli anni un concetto ampio ed elastico, tale da avvicinarsi, come è stato sostenuto, all’etero-organizzazione25, sebbene rischi di essere fuorviante utilizzare espressioni riassuntive di questo tipo che rimandano a tipizzazioni legislative nazionali aventi finalità loro proprie. La Corte, tra i tanti esempi che si possono fare, ha ritenuto che – per decidere se un pescatore retribuito “in partecipazione” (ossia in base al ricavato della vendita delle sue catture) fosse un prestatore di servizi ovvero un lavoratore – si dovesse tener conto di elementi quali la partecipazione ai rischi d’impresa, la libera scelta del proprio orario di lavoro o la libertà di assumere i propri collaboratori26,
22
Tutte le citazioni sono di Giubboni, op. cit., 136. Come ci ricorda la Commissione nella sua Comunicazione Un’agenda europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016, COM(2016)356 final, facendo riferimento a specifiche pronunce della Corte, «la breve durata, l’orario di lavoro ridotto, il lavoro discontinuo o la bassa produttività non possono di per sé escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro»; v. anche Risak, Dullinger, The concept of “worker” in EU law, ETUI, 2018, 28 ss. 23 Roccella, Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea, Cedam, 2007, 80. 24 Consistente in primis nella dir. n. 2004/38 e nel reg. n. 883/2004; v. Giubboni, op. cit., 138. 25 Sul carattere “sfumato” del concetto di potere direttivo vi è concordanza di opinioni: v., ad es., Aloisi, ‘Time Is Running Out’. The Yodel Order and Its Implications for Platform Work in the EU, in ILLEJ, 2020, vol. 13, n. 2, 73; Giubboni, op. cit., 133 (che fa espresso riferimento all’etero-organizzazione); Perrone, Sitzia, Lavoro autonomo e indicatori di subordinazione nel diritto europeo: l’integrazione del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa, in Basenghi e al. (a cura di), Le politiche del lavoro della XVIII Legislatura, Giappichelli, 2020, 154 ss.; Menegatti, Taking EU labour law beyond the employment contract: The role played by the European Court of Justice, in ELLJ, 2020, 46. 26 C. giust., 14 dicembre 1989, C-3/87, Agegate.
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mentre, con riferimento all’incarico di presidente di un’autorità portuale, ha dato rilievo alla sussistenza di «poteri di direzione, controllo e, ove opportuno, sanzionatori» da parte dell’autorità ministeriale27. Non sono però mancate occasioni, come si vedrà, in cui la distinzione fra lavoro subordinato e autonomo è stata oggetto di specifica attenzione: e, «allorché il nodo da sciogliere ha riguardato tale distinzione, il ragionamento della Corte si è fatto significativamente più articolato»28.
2. Le espansioni della formula. La nozione propriamente unieuropea di lavoratore subordinato ai fini dell’attuazione della libera circolazione è esportabile al di fuori di quel contesto, vale a dire nel corpus normativo delle direttive sociali? La domanda, più in particolare, verte sul se tale nozione autonoma possa essere utilizzata per demarcare il campo di applicazione soggettivo delle norme protettive del diritto del lavoro europeo che si collocano nella cd. ottica dell’armonizzazione «coesiva»29. Lasciando da parte, in ragione delle sue peculiarità, la nozione previdenziale di lavoratore ai fini della disciplina sul coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale (centrata sullo status di “persona coperta da assicurazione”), si può cominciare col rispondere che la formula Lawrie-Blum non è rimasta confinata nell’originario terreno di selezione dei beneficiari della libera circolazione, ma si è espansa in ambiti regolativi diversi e in funzione dell’applicazione di vari statuti protettivi, in primo luogo quando ad entrare in gioco è un diritto fondamentale garantito dall’ordinamento dell’Unione. Ciò è vero, anzitutto, nel campo della tutela antidiscriminatoria, a fronte, anche in questo caso, della mancanza di una definizione di lavoratore: già a partire dal caso Nolte30 quella formula è stata ritenuta operante anche ai fini del principio di parità di trattamento, con la palese «volontà di evitare che le regole comunitarie possano essere eluse dai legislatori nazionali attraverso la manipolazione della nozione di subordinazione» e a conferma della «tendenza della Corte a disegnare, nel campo delle discriminazioni di sesso e di cittadinanza, un modello di tutela antidiscriminatoria sostanzialmente unitario»31. Sia l’art. 45 che l’art. 157 TFUE esprimono infatti un diritto sociale fondamentale di parità di trattamento e non discriminazione, tutelato come principio generale nell’ordinamento dell’Unione, e ciò – in un’ottica di sistema – «giustifica il ricorso alla stessa ampia definizione euro-unitaria e
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C. giust., 10 settembre 2014, C‑270/13, Iraklis Haralambidis, punto 30; per differenza rispetto alle «caratteristiche tipicamente associate alle funzioni di un fornitore di servizi indipendente, ossia una maggiore flessibilità riguardo alla scelta del tipo di lavoro e dei compiti da svolgere, alla maniera in cui tale lavoro o tali compiti debbano essere svolti nonché all’orario e al luogo di lavoro, e una maggiore libertà nella selezione dei propri collaboratori» (punto 32). 28 Roccella, Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea, cit., 80. 29 Cfr. D’Antona, Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell’Unione europea, in RTDPC, 1994, 700 ss. 30 C. giust., 14 dicembre 1995, C-317/93, Nolte, in relazione all’applicazione ratione personae della dir. n. 79/7, relativa alla graduale attuazione del principio della parità uomo-donna in materia di sicurezza sociale. 31 Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, Giappichelli, 1997, 134.
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funzionale di lavoratore»32, vale a dire quella elaborata in relazione alla libera circolazione dei lavoratori. A chiare lettere nella sentenza Allonby del 2004 si sottolinea che il termine “lavoratore” di cui all’attuale art. 157 TFUE «non può definirsi mediante rinvio al diritto degli Stati membri, bensì ha una portata comunitaria (…) e non può essere interpretato restrittivamente», appunto precisando che dev’essere assunta a riferimento l’ormai classica formula Lawrie-Blum33. Ancora in funzione dell’applicazione di un fondamentale statuto protettivo la formula ha messo radici nella materia della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Con riferimento, in primo luogo, alla direttiva “madre” n. 89/391 il legislatore ha compiuto una scelta definitoria che, per quanto ampia e generica34, manca nelle altre direttive sociali e «implica che il significato dell’espressione lavoratore non possa essere desunto da ciascun ordinamento nazionale»35 ma debba avere portata comunitaria; e pure in questo caso – nuovamente in un’ottica di sistema – la chiave di lettura è quella della nozione elaborata ai fini dell’art. 45 TFUE36. Con riguardo in particolare alla direttiva “figlia” n. 92/85 sulla tutela delle lavoratrici gestanti e puerpere, la Corte di giustizia ha chiaramente affermato che il legislatore «ha inteso fornire una definizione comunitaria della nozione di lavoratrice gestante»37, con rinvio alle legislazioni e/o prassi nazionali solo per uno degli aspetti di tale definizione (quello relativo alle modalità secondo cui la lavoratrice informa del suo stato di gravidanza il datore di lavoro), sottolineando di conseguenza – per la prima volta nel caso Kiiski e poi nel caso Danosa – la portata comunitaria della nozione di lavoratore e richiamando per analogia la consueta “formula-base”. Nel caso Danosa, però, la Corte ha compiuto un passo in più e ha prestato specifica attenzione al significato da attribuire al vincolo di subordinazione compreso nella formula. Dovendo in quel caso pronunciarsi sull’applicabilità o meno del divieto di licenziamento nel cd. periodo protetto nei confronti di una lavoratrice gestante componente di un consiglio di amministrazione di una società di capitali, la Corte ha adottato un approccio “inclusivo-espansivo”38: dopo aver individuato vari elementi di fatto del rapporto da prendere in considerazione – quali le funzioni assegnate al membro del consiglio, «il contesto in cui queste ultime sono svolte, la portata dei poteri dell’interessato e il controllo cui è soggetto all’interno della società, così come le circostanze in cui può essere revocato» –, la Corte ha affermato che un soggetto che è parte integrante della società, esercita la propria attività sotto la direzione e il controllo di un organo della società
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Giubboni, op. cit., 145 ss. C. giust., 13 gennaio 2004, C256/01, Allonby, punti 64-67. Va peraltro ricordato che di buona parte del diritto antidiscriminatorio derivato dell’Unione beneficiano da tempo anche i lavoratori autonomi, secondo una prospettiva in progress di tutela del lavoro senza aggettivi. 34 L’art. 3, lett. a), della dir. n. 89/391 qualifica come lavoratore qualsiasi persona impiegata da un datore di lavoro, compresi i tirocinanti e gli apprendisti, ad esclusione dei domestici. 35 Maretti, L’incorporazione del diritto comunitario del lavoro, Giappichelli, 2003, 150. 36 Anche in relazione a quest’ambito regolativo e a quello dell’orario va tenuta presente la tendenza «a varcare i confini della subordinazione in considerazione della natura dei beni protetti»: così Giubboni, op. cit., 158. 37 C. giust., 20 settembre 2007, C116/06, Kiiski, punto 24. 38 L’importanza della pronuncia è messa in risalto da molti, tra cui Fevrier, The Concept of ‘Worker’ in the Free Movement of Workers and the Social Policy Directives: Perspectives from the Case Law of the Court of Justice, in ELLJ, 2020, 7, e Kountouris, op. cit., 203. 33
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stessa e, «in qualsiasi momento, può essere revocato dalle sue funzioni senza limitazioni, soddisfa, a prima vista, le condizioni per essere qualificato lavoratore»39 a sensi del diritto dell’Unione. Con analoghi intenti di uniformità applicativa “allargata” delle tutele, la formula LawrieBlum è comunemente utilizzata dalla Corte al fine di determinare, ancora «per analogia», l’ambito di applicazione della disciplina in materia di orario di lavoro, sulla base della premessa che la nozione di lavoratore, anche qui in mancanza di definizioni ma anche di espressi rinvii agli ordinamenti interni, debba rivestire «una portata autonoma propria del diritto dell’Unione» ed essere dunque indipendente dalla normativa nazionale40. Fornisce un’interpretazione estensiva della formula la pronuncia resa nel caso Fenoll con cui la Corte, con riguardo alla sfera di applicazione soggettiva del diritto fondamentale a ferie annuali retribuite – garantito sia dalla direttiva n. 2003/88 che dall’art. 31.2 CDFUE e invocato nella fattispecie da persone con disabilità collocate in un centro di aiuto attraverso il lavoro41 – «pushes the boundaries of the “worker” concept further, partly on the back of the fundamental nature of the right in question»42. Va rimarcato, infatti, che in questo come in altri casi la Corte ha applicato ed espanso la formula anche per interpretare l’espressione “lavoratore” utilizzata dalla Carta di Nizza43: un segnale ulteriore a conferma della propensione della giurisprudenza a «estendere la nozione uniforme di lavoratore a tutti gli ambiti in cui sia in gioco un diritto fondamentale dell’Unione»44. Sull’ambito di applicazione ratione personae della direttiva n. 2003/88 la Corte è peraltro tornata a pronunciarsi in diverse occasioni in questi ultimi anni45: lasciando per il momento da parte l’ordinanza Yodel, che per la prima volta ha messo la Corte a confronto con il mondo dei riders (e di cui si tratterà infra), vale qui la pena ricordare il caso UX relativo alle rivendicazioni avanzate, non solo in materia di tempi di lavoro e riposi, dai giudici di pace onorari italiani46. Ancora una volta la Corte, prendendo le mosse dal le-
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C. giust., 11 novembre 2010, C‑232/09, Danosa, punti 47 e 51. L’Avvocato generale Bot ha anche sottolineato che la diversa posizione assunta dalla Corte nel precedente Asscher (C. giust., 27 giugno 1996, C‑107/94) – in cui si è ritenuto che il direttore e unico azionista di una società non esercitasse la sua attività nell’ambito di un vincolo di subordinazione ai sensi dell’art. 39 CE – si giustificava proprio col fatto che tale dirigente non fosse sottoposto alla direzione di un’altra persona né di alcun organo da lui stesso non controllato (Conclusioni, punto 74). A favore di questa estensione della nozione ha anche contato la posta in gioco, cioè, oltre al tema della salute, il principio di parità uomo-donna. 40 C. giust., 14 ottobre 2010, C-428/09, Union syndicale Solidaires Isére, punti 28 e 30 (in relazione al diritto ad un periodo minimo di riposo giornaliero non concesso a lavoratori occasionali e stagionali). Nello stesso senso si è pronunciata la copiosa giurisprudenza successiva, tra cui ad es. C. giust., 7 aprile 2011, C519/09, Dieter May, punti 21-22 (ove la Corte precisa che la formula Lawrie-Blum «vale anche per la medesima nozione utilizzata negli atti normativi considerati dall’art. 288 TFUE»). 41 C. giust., 26 marzo 2015, C‑316/13, Fenoll. 42 Kountouris, op. cit., 216; nello stesso senso Menegatti, op. cit., 41. 43 V. C. giust., 20 novembre 2018, C‑147/17, Sindicatul Familia Constanţa. 44 Perrone, Sitzia, op. cit., 170. V. anche Santagata, op. cit., 555; a questo proposito v. le osservazioni di Unterschütz, The concept of the employment relationship, in Dorssemont et a. (ed. by), The Charter of Fundamental Rights of the European Union and the Employment Relation, Hart Publishing, 2019, 92 s., che sottolinea la necessità di un’interpretazione la più ampia possibile del termine worker, anche in considerazione delle fonti internazionali che hanno ispirato la Carta. 45 Cfr. la Comunicazione interpretativa della Commissione europea sulla dir. n. 2003/88 (2017/C-165/01), 9. 46 C. giust., 16 luglio 2020, C-658/18, UX. Sulla compatibilità col diritto dell’UE della normativa italiana sul trattamento economico e giuridico dei magistrati onorari è al momento pendente un’altra domanda pregiudiziale (causa C-236/20), mentre la domanda proposta dal Tribunale di Vicenza nella causa C-834/19 è stata cancellata dal ruolo a seguito della sentenza UX e il giudice remittente
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ading case Lawrie-Blum, ha ribadito che «l’esistenza del vincolo di subordinazione deve essere valutata caso per caso, in considerazione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti», con riferimento anche alle modalità di organizzazione del lavoro, e, sulla scorta del precedente caso O’Brien47 (su cui si tornerà infra), ha messo in risalto il fatto che i giudici di pace, nonostante possano organizzare il loro lavoro in modo più flessibile rispetto a chi esercita altre professioni, sono tenuti a rispettare le tabelle di composizione dell’ufficio, di assegnazione dei fascicoli e di fissazione delle udienze e hanno obblighi disciplinari simili a quelli dei magistrati ordinari, e pertanto «svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo»48. Al di fuori delle sfere elettive d’influenza della formula Lawrie-Blum sin qui esaminate, quella nozione è stata anche utilizzata per stabilire chi debba essere considerato lavoratore ai sensi della direttiva n. 98/59 sui licenziamenti collettivi, in assenza di indicazioni specifiche al riguardo: nella sentenza Balkaya la Corte ha infatti abbracciato la nozione “leggera” di subordinazione del già ricordato caso Danosa (entro cui ha collocato il membro di un organo direttivo di una società di capitali), dopo aver significativamente sottolineato che la definizione di lavoratore «deve trovare autonoma ed uniforme interpretazione nell’ordinamento giuridico dell’Unione» poiché, alla luce dell’obiettivo perseguito di rafforzamento della tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, rimetterla alla discrezione degli Stati consentirebbe «di alterare l’ambito di applicazione della direttiva, privandola in tal modo della sua piena efficacia»49. Nei contesti citati, dunque, il diritto vivente europeo non permette agli ordinamenti interni di escludere dallo statuto protettivo di volta in volta garantito i lavoratori che rientrano nell’ampia formula, producendosi di conseguenza un vincolo conformativo allargato in capo agli Stati50; nonostante l’accorgimento tecnico di prenderla in prestito per semplice analogia, senza un’esplicita generalizzazione, la formula Lawrie-Blum, via via evoluta, «sembra comunque affermarsi come un riferimento trasversale, suscettibile di imporsi in tutto il campo del diritto dell’Unione, salva specifica precisazione delle norme»51. In quest’ultimo caso – a fronte cioè di direttive contenenti un espresso rinvio definitorio al diritto nazionale di cui si dirà nel prossimo paragrafo – è attorno al cd. argomento dell’effetto utile del diritto dell’Unione (già ricordato in relazione al caso Balkaya) che si è sviluppato il ragionamento della Corte sul cd. «rinvio condizionato»52.
si è pronunciato sul punto il 29 dicembre 2020 (in wikilabour.it). C. giust., 1° marzo 2012, C-393/10, O’Brien. 48 C. giust., UX, cit., spec. punti 103, 109 e 112. Non potendo essere sviluppate in questa sede le articolate e complesse questioni legate a tale figura, ci si limita a ricordare la rilevante pronuncia con cui Corte cost., 9 dicembre 2020, n. 267, anche sulla base della sentenza UX, ha riconosciuto ai giudici onorari il rimborso delle spese di difesa nei giudizi di responsabilità connessi alla funzione. 49 C. giust., 9 luglio 2015, C-229/14, Balkaya, punto 33. 50 V. Perrone, Sitzia, op. cit., 170. 51 Robin-Olivier, op. cit., 480. 52 È l’Avvocato generale Poiares Maduro che, a proposito della clausola 2.1 dell’accordo sul lavoro a tempo determinato allegato alla dir. n. 1999/70, parla di «rinvio condizionato» al diritto nazionale (Conclusioni alla causa C-307/05, Del Cerro Alonso, punto 15). 47
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3. Il “rinvio condizionato” al diritto nazionale. Il migliore esempio di norma che fa uso della tecnica del rinvio al diritto nazionale per la definizione della nozione di lavoratore subordinato è rappresentato dalla direttiva sul trasferimento d’impresa (n. 87/187, poi sostituita dalla direttiva n. 2001/23), rispetto alla cui interpretazione – sotto il profilo del campo di applicazione ratione personae – si è efficacemente parlato di una “ortodossia Danmols”53, dal nome della sentenza con cui per la prima volta, nel 1985, la Corte di Lussemburgo mise in evidenza, alla luce dell’obiettivo di armonizzazione solo parziale della direttiva in questione, che la nozione di lavoratore «va intesa nel senso che essa comprende chiunque, nello Stato membro interessato, sia tutelato in quanto lavoratore dal diritto nazionale del lavoro»54. In tale pronuncia, come in altre successive55, il rinvio al diritto interno – espressamente codificato con la direttiva di revisione n. 98/50 – è letto come incondizionato e pertanto tale da comportare il rischio, emergente dalle forti riserve sollevate in varie occasioni dagli Avvocati generali, che «situazioni identiche siano trattate in modo diverso, unicamente in ragione della qualificazione del rapporto di lavoro»56 secondo il diritto nazionale. Una discrezionalità che in quest’ambito è rimasta tale ed è stata solo controbilanciata dalla disposizione – aggiunta in sede di revisione nel 1998 – che ricomprende espressamente nel campo di applicazione della direttiva i part-timers, i lavoratori a termine e gli interinali, circoscrivendo di conseguenza sul punto la sovranità nazionale. Analogo disposto limitativo è stato introdotto, anch’esso in sede di revisione, nella direttiva sulla tutela dei crediti in caso d’insolvenza (n. 80/987, poi sostituita dalla direttiva n. 2008/94), in relazione alla quale però – nonostante il suo art. 2 affermi che la direttiva «non pregiudica il diritto nazionale» per quanto riguarda la definizione di “lavoratore subordinato” e il contesto regolativo rimanga quello delle implicazioni delle crisi e ristrutturazioni d’impresa sulla condizione dei lavoratori, già proprio della richiamata disciplina sul trasferimento – la linea interpretativa della Corte non ha seguito l’ortodossia Danmols. Nel caso Tümer, ad esempio, si è affermato che il potere discrezionale di cui dispongono gli Stati nel definire tale termine non è illimitato, bensì «circoscritto dal fine sociale della direttiva n. 80/987, che gli Stati membri sono tenuti a rispettare»57. Questo ragionamento – che consente al diritto unieuropeo di recuperare spazio «in termini sostanzialmente negativi nella veste di limiti esterni»58 diretti a evitare che la discrezionalità applicativa dei legislatori nazionali pregiudichi le finalità dell’Unione – è
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L’espressione «Danmols orthodoxy» si deve a Kountouris, op. cit., 201. C. giust., 11 luglio 1985, 105/84, Danmols, punto 28. V. anche C. giust., 14 settembre 2000, C-343/98, Collino e Chiappero, punto 36. 55 V. C. giust., 20 luglio 2017, C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 48 e 13 giugno 2019, C-317/18, Correia Moreira, punto 42. 56 Così l’Avvocato generale Poiares Maduro che, nelle conclusioni alla causa Celtec (C-478/03), giudica «deplorevole» la mancanza di una definizione della nozione di lavoratore nel diritto sociale comunitario, sottolineando che il rinvio al diritto nazionale «ha ripercussioni particolarmente pesanti nei confronti dei lavoratori del pubblico impiego» qualora siano assoggettati ad uno status di diritto pubblico che esclude la qualificazione di lavoratore secondo il diritto interno (punto 27); nel senso della necessità di un’interpretazione conforme v. già l’Avvocato generale Alber nelle conclusioni alla causa Collino e Chiappero, cit., punto 80. 57 C. giust., 5 novembre 2014, C-311/13, Tümer, punti 35 e 43. 58 Perrone, Sitzia, op. cit., 169. 54
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stato più compiutamente sviluppato dai giudici in un diverso ambito regolativo, quello rappresentato dalle direttive sui lavoratori non standard, anch’esse contenenti una definizione sussidiaria di lavoratore subordinato59. Alcune pronunce sul punto, ove risultano più evidenti le potenzialità della tecnica del cd. rinvio condizionato, possono considerarsi paradigmatiche. Degno di nota è anzitutto il percorso iniziato nel caso O’Brien60 (riguardante i giudici inglesi non togati, i cd. recorders, esclusi dalla maggior parte delle tutele lavoristiche e previdenziali) e proseguito nel citato caso UX. In O’Brien si afferma che, benché nella direttiva n. 1997/80 sul part-time la nozione di lavoratore sia espressamente lasciata ai diritti nazionali, il potere discrezionale concesso agli Stati non va affatto considerato illimitato, bensì risulta condizionato al rispetto dell’effetto utile della direttiva e dei principi generali del diritto dell’Unione61. La Corte non ha qui ravvisato una definizione autonoma e uniforme, ai sensi del diritto europeo, di lavoratore subordinato, ma ha significativamente affermato che un’esclusione a livello interno dal campo di applicazione della direttiva può essere ammessa solo se non «arbitraria», cioè solo qualora la natura del rapporto di lavoro dei recorders sia «sostanzialmente diversa» da quella dei lavoratori rientranti nella sfera della direttiva secondo il diritto nazionale; e ha precisato che il giudice domestico dovrà tener conto, conformemente alla ratio e alla finalità della direttiva, della distinzione tra tale categoria di lavoratori e quella delle professioni autonome, fornendogli principi e criteri guida da usare in concreto nella sua valutazione, tra cui il monito a considerare le «modalità di designazione e di revoca dei giudici, ma anche quelle di organizzazione del loro lavoro»62. L’abilità che esprime la Corte in O’Brien consiste, a ben vedere, «nell’operare un controllo all’interno stesso del diritto nazionale, sulla scorta di un’esigenza di coerenza interna a tale diritto», compiendo di fatto «un’europeizzazione parziale (ma non senza efficacia)» del concetto di lavoratore63.
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Non si possono qui esaminare, sotto il profilo indagato, tutte le direttive sociali; con riferimento alla dir. n. 96/71 sul distacco transnazionale e alle diverse questioni che si pongono, si rinvia almeno alle considerazioni di Santagata, op. cit., 550 ss. e Giubboni, op. cit., 163 s. 60 C. giust., 1° marzo 2012, C-393/10; cfr. anche quanto già osservato, seppur con molta cautela, dall’Avvocato generale Kokott nelle conclusioni alla causa Wippel, ove – dopo aver ricordato l’ampio potere discrezionale degli Stati in punto definitorio secondo l’ortodossia Danmols (poi seguita da C. giust., 12 ottobre 2004, C-312/02, Wippel, punto 40) – si afferma che dal diritto comunitario si possono «desumere limiti esterni», poiché «potrebbe emergere un contrasto con l’obbligo di leale collaborazione» qualora uno Stato definisse la nozione di lavoratore «in termini a tal punto restrittivi da privare di qualsiasi efficacia pratica l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e da rendere eccessivamente difficile la realizzazione degli obiettivi» (punto 45); in relazione all’interpretazione della dir. n. 1999/70 sul lavoro a termine la Corte aveva già rimarcato che l’efficacia pratica e l’applicazione uniforme di tale direttiva sarebbero messe a repentaglio se si riservasse agli Stati la possibilità di escludere a discrezione talune categorie dal beneficio della tutela (v. C. giust., 13 settembre 2007, C-307/05, Del Cerro Alonso, punto 29). 61 V. O’Brien, cit., punti 34 e 35. 62 V. ancora O’Brien, cit., punti 42, 44-46; v. anche le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, punto 48. Un’analoga lettura estensiva del campo di applicazione, questa volta della dir. n. 1999/70, si ritrova in C. giust., 15 marzo 2012, C157/11, Sibilio e in C. giust., 9 luglio 2015, C-177/14, Regojo Dans; sia consentito rinviare a quanto già detto in Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, 60 ss. 63 Robin-Olivier, op. cit., 480.
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Sulla stessa linea si è mossa la Corte nel caso UX del 2020, in cui la nozione autonoma e uniforme di lavoratore è stata ancora una volta valorizzata – ai fini dell’applicazione, in questo caso, della direttiva n. 1999/70 sul lavoro a termine – per il tramite di un analogo «passaggio intermedio»64, cioè invocando come limite esterno il dovere degli Stati di rispettare l’«effetto utile di tale direttiva e i principi generali del diritto dell’Unione»65 nell’esercizio del potere discrezionale conferito loro dalla direttiva per definire la nozione di lavoratore66. Anche in relazione alla terza direttiva sul lavoro non standard, quella sul lavoro temporaneo tramite agenzia (n. 2008/104), che ripropone il ricorso alla sussidiarietà proprio delle altre direttive, la Corte ha seguito la stessa tecnica: affermando, nella sentenza Betriebsrat der Ruhrlandklinik del 2016, che limitare la nozione di lavoratore alle persone che vi rientrino secondo il diritto nazionale rischierebbe di pregiudicare la realizzazione degli obiettivi perseguiti «compromettendo, pertanto, l’effetto utile di tale direttiva, restringendone in modo eccessivo ed ingiustificato l’ambito di applicazione»67. V’è però un aspetto in più da considerare nel ragionamento sviluppato dalla Corte laddove, in una sorta di antitesi, riconosce sì l’esistenza di un rinvio definitorio espresso al diritto nazionale ma sostiene subito dopo che quel rinvio non può essere inteso «quale rinuncia del legislatore dell’Unione a definire egli stesso la portata» di tale nozione ai sensi della direttiva, aggiungendo che deve esservi ricompresa ogni persona che – a prescindere dal nomen juris del suo rapporto lavorativo nel diritto nazionale e dalla natura del nesso giuridico che la lega all’altra parte – abbia un rapporto di lavoro secondo la formula Lawrie-Blum arricchita dalla giurisprudenza Danosa (espressamente richiamata) e goda di tutela, nello Stato membro interessato, a titolo della prestazione di lavoro svolta68. Il messaggio che qui la Corte intende mandare – pur utilizzando nella trama delle sue argomentazioni, come si è detto, affermazioni «antagoniste»69 – è quello per cui il campo di applicazione soggettivo della direttiva, alla luce delle sue finalità, dovrebbe essere, in ultima analisi, una questione da definirsi in autonomia dal diritto dell’Unione70. Neanche la giurisprudenza della Corte, però, riesce «a riportare la definizione sotto il pieno controllo dell’ordinamento sovranazionale»71, in virtù della logica di armonizzazione solo parziale
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Del Frate, Giudici di pace e nozione “comunitaria” di lavoratore, in DRI, 2020, 1204. C. giust., UX, cit., punto 117. 66 Cfr. Trib. Vicenza, 29 dicembre 2020, cit., che, alla luce della sentenza UX, ha riconosciuto la qualifica di lavoratore, ai fini della disciplina dell’Unione in materia di non discriminazione dei lavoratori part-time e a termine, al giudice onorario, ritenendolo comparabile al magistrato ordinario. 67 C. giust., 17 novembre 2016, C-216/15, Betriebsrat der Ruhrlandklinik, punto 36 (relativa a un’infermiera, non titolare di un contratto di lavoro, messa a disposizione di una struttura sanitaria pubblica da un’associazione di infermiere della Croce Rossa tedesca a cui la prima è associata). 68 C. giust., Betriebsrat, cit., punti 32 e 33. Come osserva Donini, Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, BUP, 2019, 55, la Corte «ambisce ad una nozione inclusiva» ma non abbandona completamente il riferimento ai lavoratori che siano tutelati a tale titolo dall’ordinamento interno. 69 Fevrier, op. cit., 12. 70 Kountouris, op. cit., 207, parla di una forte pretesa di autonomia che va ben oltre il più cauto approccio O’Brien. 71 S. Giubboni, op. cit., 130. 65
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della disciplina in questione e del sottostante principio ordinatore di sussidiarietà72. Proprio per questo il percorso argomentativo non è lineare, ma resta comunque ben distante dall’ortodossia Danmols73 e conduce o potrebbe condurre, nella maggior parte degli ambiti regolativi, a un’importante limitazione dei margini di discrezionalità lasciati agli Stati in sede di trasposizione delle direttive sociali. Si tratta in sostanza per questi ultimi di interpretare il proprio concetto nazionale in conformità con gli obiettivi perseguiti dalla normazione europea, prendendo come guida la formula Lawrie-Blum con le sue evoluzioni, che si imporrà a fronte di una limitazione arbitraria a livello domestico del campo di applicazione della direttiva di volta in volta in questione, in nome – come si è già detto parlando dell’“abilità” della pronuncia O’Brien – di un principio di coerenza dell’ordinamento nazionale, al proprio interno e nei suoi rapporti con l’ordinamento dell’Unione74. V’è inoltre da osservare che a favore di questa più marcata apertura della Corte verso un concetto comune e inclusivo ha certamente influito l’obiettivo di garantire l’effetto utile di una fondamentale garanzia come quella della parità di trattamento tra lavoratori standard e non, che costituisce principio cardine e baricentro condiviso delle direttive in questione75.
4. Il lavoratore “falsamente autonomo” nel sistema binario subordinazione-autonomia.
Dell’evoluzione quasi sessantennale della nozione unieuropea di lavoratore e delle sue sfere di influenza, diretta o indiretta, va infine ricostruito un ultimo “pezzo”, a cui si è sinora solo accennato: vale a dire un profilo legato all’impostazione binaria propria del legislatore dell’Unione, e mantenuta ferma dalla Corte, che vede contrapposti il lavoratore da un lato e l’impresa – alla quale è equiparato il lavoratore autonomo – dall’altro76. Sulla scorta di questa alternativa dicotomica tra subordinazione e autonomia si comprende una doppia operazione di “aggiustamento” svolta da parte della Corte nel corso degli anni con la finalità di dilatare la prima nozione, e dunque il raggio di applicazione delle tutele sociali: da un canto attraverso la già ricordata costruzione di una nozione leggera del vincolo di subordinazione (per intenderci la definizione Danosa); dall’altro grazie
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Sulla sua natura di criterio politico più che di principio giuridico in senso proprio v. Roccella, Izzi, Lavoro e diritto nell’Unione europea, Cedam, 2010, 37 s. 73 In questo senso v. Kountouris, op. cit., 205 ss. 74 Cfr. Sánchez-Urán Azaña, Concepto de trabajador en el derecho de la Unión Europea, in Foro, Nueva época, vol. 20, n. 1, 2018, 304, e Fevrier, op. cit., 12 s. 75 Si rinvia sul punto a Aimo, op. cit., spec. 63 ss. e si v. Roccella, L’evoluzione dei diritti sociali dai Trattati alla Carta di Nizza, in Aa. Vv., Il Libro bianco e la carta di Nizza, Ediesse, 2002, 26 ss. 76 Kontouris, op. cit., 199. V. in merito C. giust., 20 novembre 2001, C-268/99, Jany, punti 34, 37 e 70, secondo cui «si deve qualificare come attività autonoma ai sensi dell’art. 52 del Trattato l’attività che una persona esercita senza vincolo di subordinazione» per quanto riguarda «la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità, e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente».
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all’utilizzo, con riguardo a fattispecie «ove veniva in rilievo la necessità di distinguere fra lavoro subordinato e (falso) lavoro autonomo, di criteri di giudizio assai più stringenti di quelli usuali in materia di libera circolazione e attenti alla sostanza effettiva del rapporto economico-sociale sottostante»77. Nella già citata sentenza Allonby la Corte non ha infatti avuto esitazioni a «smascherare l’utilizzo abusivo dello status di lavoratore autonomo»78 comportante l’elusione del principio di parità retributiva di genere, affermando che «la qualificazione formale di lavoratore autonomo ai sensi del diritto nazionale non esclude che una persona debba essere qualificata come lavoratore ai sensi dell’art. 141, n. 1, TCE se la sua indipendenza è solamente fittizia»79. Se con pronunce come Allonby (e O’Brien) la Corte si è dotata di un sistema capace di consentirle, tramite i giudici interni, di riclassificare gli status lavorativi nazionali che privano arbitrariamente i lavoratori dei diritti loro garantiti dall’Unione80, la successiva sentenza FNV ha segnato un ulteriore passaggio, individuando espressamente la “categoria” dei lavoratori “falsi autonomi”, da ricondurre, nell’ottica binaria di cui sopra, alla nozione di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione: quello status «non può essere pregiudicato dal fatto che una persona è stata assunta come prestatore autonomo di servizi ai sensi del diritto nazionale, per ragioni fiscali, amministrative o burocratiche»81, quando tale persona agisca sotto la direzione del suo datore di lavoro – per quanto riguarda in particolare, come già detto in Allonby, la sua «libertà di scegliere l’orario, il luogo e il contenuto del suo lavoro»82 –, non partecipi ai rischi commerciali di tale datore di lavoro e sia integrata nell’impresa per la durata del rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica83. Sebbene gli “indici rivelatori” della subordinazione siano qui diversificati, anche in considerazione delle specificità del caso, «l’archiviazione dell’elemento distintivo dell’“eterodirezione” non sembra esserci stata»84. La posta in gioco nel caso FNV è peculiare e rilevante: si discute dell’eccezionale immunità dall’applicazione delle regole antitrust (la cd. eccezione Albany85) goduta dalla contrattazione collettiva e di quali lavoratori possano beneficiarne, domandandosi in particolare se la Corte abbia qui contemplato solo il caso del lavoratore dipendente erroneamente inquadrato come autonomo (il “falso” lavoratore
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Roccella, Spigolature in tema di subordinazione, cit., 138. Santagata, op. cit., 556. 79 C. giust., Allonby, cit., punto 71 (relativa a una lavoratrice inglese prima docente part-time a termine alle dipendenze di un college e poi lavoratrice autonoma messa a disposizione della stessa scuola, per le medesime prestazioni, con l’intermediazione di un’impresa di lavoro temporaneo). 80 Così Kountouris, op. cit., 212. 81 C. giust., 4 dicembre 2014, C-413/13, FNV, punto 36, ove si è affermata l’esenzione dalle regole antitrust di un contratto collettivo contenente tariffe minime per orchestrali qualificati come lavoratori autonomi (e dunque imprese per il diritto dell’UE) laddove riguardi “falsi autonomi”. 82 C. giust., Allonby, cit., punto 72. 83 V., rispettivamente, C. giust., Agegate, cit., punto 36 e 16 settembre 1999, C-22/98, Becu, punto 26 (entrambe riprese dalla sentenza FNV, punto 36). 84 Bronzini, Il futuro (giuridico) del lavoro autonomo nell’era della share-economy, in RIDL, 2016, III, 79 s. 85 L’eccezione è stata infatti elaborata nel leading case Albany considerando che gli accordi conclusi nell’ambito di trattative collettive tra parti sociali conseguono obiettivi di politica sociale che «sarebbero gravemente compromessi se le parti sociali fossero soggette all’art. 85, n. 1, del Trattato» (C. giust., 21 settembre 1999, C-67/96, punto 59). 78
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autonomo in senso abusivo86) o anche la situazione più ampia in cui il prestatore di servizi perda la qualità di operatore economico indipendente, «e dunque d’impresa, qualora non determini in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato, ma dipenda interamente dal suo committente»87 (usando le parole dell’Avvocato generale Whal, il «lavoratore autonomo economicamente dipendente da un solo cliente o da un cliente principale»). La portata della sentenza e le complesse questioni sottese meriterebbero un approfondimento che qui non è possibile svolgere, anche considerati gli articolati profili di collegamento e conflitto con altre fonti sovranazionali88; in ogni caso la soluzione del problema andrebbe più propriamente ricercata a livello legislativo grazie a una «modifica del diritto europeo della concorrenza in senso derogatorio rispetto al divieto di intese anticoncorrenziali ex art. 101 TFUE, onde far sì che quest’ultima norma cessi di costituire una barriera per la contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi»89, o di alcuni di essi, nella direzione peraltro già intrapresa dalla Commissione in quest’ultimo periodo90. Il focus in FNV, inoltre, è ben posizionato sulla già ricordata e fondamentale tecnica interpretativa del primato dei fatti, di prevalenza della sostanza sulla forma (e sul formalismo contrattuale). Ciò non toglie che si ponga con evidenza una questione più generale: quella dell’adeguatezza, rispetto alla complessità ed eterogeneità delle forme di lavoro deboli, di una nozione giurisprudenziale che, a prescindere dai limiti del suo ambito di applicazione, presuppone comunque la presenza degli indici richiesti dalla consolidata formula LawrieBlum, e solleva di conseguenza più di un dubbio sulla sua reale capacità inclusiva delle variegate forme di lavoro vulnerabili sotto il profilo economico e sociale. Il riferimento è in particolare al lavoro tramite piattaforma, su cui si tornerà fra breve ma solo dopo aver sottolineato che una conferma dell’approccio binario del diritto dell’Unione si ritrova nella direttiva n. 2019/1152 sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, il cui considerando n. 8, con riguardo all’ambito di applicazione, distingue tra «lavoratori effettivamente autonomi», che non rientrano in tale ambito poiché non soddisfano i criteri della formula, e il falso lavoro autonomo, che vi rientra in quanto «ricorre quando il lavoratore, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro»91.
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L’Avvocato generale Whal nelle sue conclusioni parla di «lavoratori subordinati mascherati da lavoratori autonomi al fine di evitare l’applicazione di una specifica normativa» (punto 52). 87 C. giust., FNV, cit., punto 33. Sul dibattito scaturito dalla pronuncia v. almeno Perulli, Oltre la subordinazione, Giappichelli, 2021, 106 ss., e De Stefano, Aloisi, La libertà sindacale e il diritto alla contrattazione collettiva dei lavoratori non standard e dei lavoratori su piattaforma, in Baylos Grau, Zoppoli (a cura di), La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi, ES, 2019, 158 ss. 88 Si pensi all’art. 6 CSE e all’art. 11 CEDU, oltre alle convenzioni OIL n. 87 sulla libertà sindacale e n. 98 sul diritto di organizzazione e negoziazione collettiva; su questi temi v. il contributo di Borelli, Diritti sindacali, concorrenza e democraticità del processo integrazione europea, in corso di pubblicazione negli Studi in memoria di Massimo Roccella. 89 Perulli, op. cit., 109. 90 Si v. la consultazione pubblica Contratti collettivi per lavoratori autonomi. Campo di applicazione delle norme dell’UE in materia di concorrenza lanciata dalla Commissione il 5 marzo 2021. 91 Il considerando aggiunge inoltre, tornando al primato dei fatti, che «è opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non sul modo in cui le parti descrivono il rapporto».
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5. Il work on demand via apps: dai casi Uber all’ordinanza Yodel.
Anche nell’Agenda europea per l’economia collaborativa del 2016 l’Unione – nel «fornire alcuni orientamenti su come la tradizionale distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati trov(i) applicazione» con riguardo al particolare contesto del lavoro su piattaforma92 – si è dimostrata «poco ambiziosa»93: la Commissione ha infatti riproposto gli elementi della classica formula senza adattamenti, fatto salvo l’inciso ove ha espressamente sottolineato, richiamando il precedente Danosa, che «l’esistenza della subordinazione non dipende necessariamente dall’effettivo esercizio di una continua gestione o supervisione»94. Il tema del potere di direzione e controllo della piattaforma sui “prestatori di servizi/ lavoratori” è stato per la prima volta affrontato dalla Corte nel 2017 nelle pronunce con cui – decidendo i noti casi Uber allo specifico fine di assicurare il corretto svolgimento della concorrenza nel mercato comune95 – il servizio della piattaforma è stato qualificato come servizio di trasporto anziché come di mera intermediazione tecnologica: è soltanto in tale ottica, però, che la Corte si è occupata dei drivers, riconoscendo, in linea con le conclusioni dell’Avvocato generale Spuznar, che Uber «esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione»96 degli autisti. Essendo dunque un’altra la materia del contendere, né la Corte, né l’Avvocato generale «si spingono ad affermare che gli autisti Uber sono lavoratori subordinati»97, benché il secondo, mettendo il dito nella piaga, non esiti a sottolineare che «non ci si deve far ingannare dalle apparenze» perché un «controllo indiretto, come quello esercitato da Uber (…), permette una gestione altrettanto, se non addirittura più efficace, di quella fondata su direttive formali impartite da un datore di lavoro ai suoi dipendenti e sul controllo diretto»98. Nel caso Yodel, deciso con ordinanza nel 2020, la Corte è stata invece investita direttamente della questione dello statuto protettivo (derivante dalla direttiva sull’orario di lavoro) di un lavoratore della gig economy, nella specie un fattorino impiegato da una società di consegne a domicilio in base a un contratto di servizi99. La scelta dei giudici di procedere con ordinanza anziché con sentenza, avendo valutato di poter fare riferimento per la soluzione del caso ai propri precedenti, conferma, quasi per definizione, il carattere non innovativo della pronuncia, collocandola nel solco della giurisprudenza sin qui esaminata. Probabilmente la fattispecie concreta – caratterizzata sulla carta da un elevato grado di au-
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Comunicazione del 2 giugno 2016, cit., 12. V. anche Study to gather evidence on the working conditions of platform workers, VT/2018/032, Final Report, Brussels, 13 March 2020. 93 Borelli, La prospettiva europea, in Somma (a cura di), Lavoro alla spina, welfare à la carte, Meltemi, 2019, 104. 94 Comunicazione del 2 giugno 2016, cit., 13. 95 V. C. giust., 20 dicembre 2017, C-434/15, Uber Systems Spain e 10 aprile 2018, C-320/16, Uber France. 96 C. giust., Uber Systems Spain, cit., punto 39, ove si precisa che Uber fissa il prezzo massimo della corsa (che riceve dal cliente versandone una parte all’autista) ed esercita un controllo sulla qualità dei veicoli e sul comportamento dei conducenti, fino alla loro esclusione dalla piattaforma. 97 Borelli, La prospettiva europea, cit., 103; v. anche Perrone, Sitzia, op. cit., 165. 98 Conclusioni, punto 52. 99 C. giust., 22 aprile 2020, C-692/19, Yodel.
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tonomia del corriere, che, non vincolato da un obbligo di esclusività, godeva della facoltà di avvalersi di sostituti, di accettare o meno gli incarichi e di stabilire il proprio orario di lavoro – non costituiva «il migliore esempio di subordinazione giuridica e/o economica»100 da sottoporre alla Corte come prima occasione per esprimere una posizione innovativa. Dei fatti di causa e del rango della decisione va senz’altro tenuto conto nel valutarne la portata, ma vale comunque la pena svolgere qualche osservazione su una pronuncia con cui la Corte, pur in presenza di un “assist”, ha in sostanza preferito farsi da parte, compiendo una scelta di cautela e di temporeggiamento in attesa dell’evolversi della situazione negli ordinamenti interni. Sebbene su alcuni profili peculiari relativi a modalità flessibili dell’organizzazione del lavoro la Corte si fosse già pronunciata in passato – affermando, ad esempio nel caso Allonby, che il giudice interno, ai fini della qualificazione del contratto, deve considerare irrilevante il fatto che sul lavoratore «non gravi alcun obbligo di accettare un incarico»101 –, in Yodel tali precedenti, pur pertinenti, non vengono richiamati, né soprattutto si dà risposta a una connessa domanda di fondo, che è stata avanzata nell’articolato quesito pregiudiziale del giudice remittente britannico ma che poi è stata tralasciata sin dalla riformulazione dello stesso ad opera della Corte: ai fini dell’accertamento dello status di lavoratore nel diritto dell’Unione «conta la fase negoziale o la fase esecutiva del rapporto di lavoro?»102. Se infatti, da un canto, la Corte ha ribadito il fondamentale approccio pragmatico che il giudice nazionale deve seguire per rilevare eventuali incongruenze tra il dato formale e quello di realtà – mettendolo espressamente sull’avviso rispetto alla necessità di verificare che l’indipendenza del corriere, malgrado le ampie facoltà di autonomia riconosciutegli, non sia fittizia103 –, d’altro canto non si è essa stessa attenuta fino in fondo a questo insegnamento metodologico quando, nel suggerire la mancanza nella fattispecie di un vincolo di subordinazione, si è basata sulle sole facoltà contrattuali e non sul loro effettivo utilizzo da parte del fattorino o sulla concreta possibilità di esercitarle104. In ciò sta il vero «punto debole» della pronuncia, che, «troppo concentrata sul dato cartolare dell’accordo, (ha omesso) un’indagine approfondita sulla sostanza del rapporto» e non è stata pronta a indicare al giudice del rinvio su quali elementi indagare nel suo procedimento di qualificazione, alla luce del fatto che nella realtà delle piattaforme, come ben emerge da varie controversie giurisprudenziali decise negli Stati membri, è abituale avvalersi di «clausole standard che contemplano margini di flessibilità e autonomia destinati a restare sulla carta»105.
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Lhernould, Robin-Olivier, Travailleurs des plateformes, état des lieux et perspectives du droit social de l’Union européenne, in RJS, 7/20, 479. 101 C. giust., Allonby, cit., punto 72; v. anche C. giust., 19 luglio 2017, C143/16, Abercrombie, riguardante un lavoratore intermittente “senza obbligo di risposta” ai sensi del diritto del lavoro nostrano (entrambe le sentenze sono richiamate nella circ. INL n. 7/2020). Nel caso Raulin (26 febbraio 1992, C-357/89, punto 14) la Corte aveva già sottolineato che il giudice nazionale può tener conto «del fatto che la persona sia tenuta a mantenersi a disposizione per lavorare su richiesta del datore di lavoro». 102 Pacella, La nozione euro-unitaria di lavoratore dipendente alla prova della gig-economy: si pronuncia la Corte di Giustizia europea, in LLI, 2020, vol. 6, n. 1, 21. 103 C. giust., Yodel, punti 28 e 36. 104 Cfr. Gomes, Les travailleurs des plateformes sont-ils des travailleurs au sens du droit de l’Union?, in SSL, n. 1907, 11 mai 2020, 14. 105 Le citazioni sono tratte da Adams-Prassl, Aloisi, De Stefano, Kountouris, La Corte di giustizia dell’UE prende tempo? L’ordinanza Yodel e le sue (scarse) implicazioni per il lavoro tramite piattaforma, in RGL, 2020, II, 408 s., che parlano di «pratiche falsamente
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V’è peraltro da sottolineare che in quelle controversie nazionali – che negli ultimi tempi si ritrovano a dialogare tra loro tramite reciproci richiami – un punto di contatto può essere proprio rappresentato dai riferimenti alla giurisprudenza espansiva della Corte sul campo di applicazione soggettivo delle direttive sociali che sempre più di frequente sono presenti, con implicazioni diverse a seconda dei casi, nelle argomentazioni dei giudici domestici106.
6. Verso una coerenza complessiva del campo di applicazione dell’acquis social?
La giurisprudenza espansiva consolidatasi soprattutto in relazione all’ambito di applicazione ratione personae del diritto antidiscriminatorio e della disciplina sui tempi di lavoro ha progressivamente condotto, come si è visto, a un rafforzamento della nozione unieuropea di lavoratore subordinato, comportando al contempo effetti di contrasto rispetto a pratiche elusive di fuga dalla subordinazione e dalle corrispondenti tutele di rango europeo. Oltre a trovare spazio in relazione a fonti dell’Unione, primarie e secondarie, che non contengono una precisa definizione di lavoratore, la formula Lawrie-Blum – grazie all’argomento dell’effetto utile – ha via via guadagnato «terreno, venendo in rilievo pure in relazione alle direttive che adottano espressamente una nozione “sussidiaria” di lavoratore, rimessa agli ordinamenti nazionali»107. A questo proposito si è parlato di tecniche interpretative «di resistenza»108, utili a contrastare per quanto possibile il modello del rinvio alle legislazioni interne proprio di molte direttive sociali. Un parziale riconoscimento della forza espansiva di quella formula si è anche avuto con uno dei primi frutti legislativi del Social Pillar, la già citata direttiva n. 2019/1152, che – nata sotto gli auspici di fornire una risposta alle questioni irrisolte del lavoro non standard, discontinuo, precario e vulnerabile a cui in primis si rivolge109 – ha peraltro compiuto una scelta (inedita) sostanzialmente compromissoria: dopo aver adottato la consueta tecnica del rinvio al diritto nazionale per la definizione del suo campo di applicazione
emancipatorie» alla luce dei meccanismi sanzionatori impliciti in caso di rifiuto dell’ordine e della frequente impraticabilità delle clausole di sostituzione; nello stesso senso Pacella, op. cit., 30. Più severo è il giudizio di Todolí Signes, El concepto de trabajador en el Derecho de la Unión Europea y su aplicación a las nuevas realidades económicas, in TD, 2020, 70, 4 s., sia sulla mancanza di coerenza interna nel ragionamento della Corte, sia sulla scelta di pronunciarsi con ordinanza, in ragione del contenuto considerato non in linea con i precedenti. 106 Si v. Cour de cass., 4 mars 2020, n. 19-13.316 (in Riv. giur. lav., 2020, II, 389 ss.); Trib. Supremo, Sala de lo Social Pleno, 25 septiembre 2020, n. 4746/2019 (in funzione nomofilattica); High C. of Just., Queen’s Bench Division, Adm. C., 13 november 2020, n. CO/1887/2020; Trib. Palermo, 24 novembre 2020, in RIDL, 2020, II, 802. Sulla ricerca di questo dialogo v. l’intervista a Huglo, Doyen de la Chambre sociale de la Cour de cassation, in SSL, n. 1899, 16 mars 2020, 3 ss. 107 M. Del Frate, op. cit., 1208. 108 Michéa, Les catégories juridiques en droit social de l’Union européenne, in Brunessen (sous la direction de), Les catégories juridiques du droit de l’Union européenne, Bruylant, 2016, 268. 109 Nel considerando n. 8 sono menzionati come potenziali destinatari (se rientranti nella formula Lawrie-Blum) i lavoratori domestici, a chiamata, intermittenti, a voucher, tramite piattaforma digitale, tirocinanti e apprendisti.
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soggettivo, ha previsto che gli Stati dovranno «tener conto della giurisprudenza della Corte di giustizia»110, quasi appunto a suggellare il compromesso raggiunto dalla Corte in questi anni. Il legislatore ha dunque deciso di non introdurre una definizione comune di lavoratore, a differenza di quanto previsto nella proposta originaria di direttiva, accontentandosi di una «formula “addomesticata” che riflette la difficoltà a coagulare il consenso attorno a una definizione maggiormente inclusiva e autonoma»111 di lavoratore: cionondimeno non va sottovalutata la presenza di quell’espresso riferimento alla giurisprudenza unieuropea, che dovrà guidare e allineare l’attività interna legislativa e giudiziaria di recepimento della direttiva in questione e di altre che lo contengano112. Bisognerà anzitutto vedere come la Corte interpreterà questa nuova formulazione nel dialogo con gli Stati membri, in un difficile equilibrio – che la vede due volte protagonista – tra necessità di uniformazione e coesione e rispetto del principio di sussidiarietà. Se più di trent’anni fa Giuseppe Federico Mancini – per rispondere all’esigenza evidenziata dalla Corte di assumere come base per una definizione unitaria di “lavoratore” il senso che correntemente le si attribuisce nel diritto degli Stati – sottolineava che «il minimo comune denominatore dell’istituto “lavoro subordinato” nei dodici sistemi è senza dubbio la soggezione di chi presta le opere al potere direttivo di chi offre il posto»113, oggi il quadro di cui va tenuto conto è ben più articolato e complesso. Vista la scelta del legislatore europeo del 2019 di non codificare la formula Lawrie-Blum, bisognerà anche verificare se la Corte leggerà e svilupperà la nuova espressione come «confine interpretativo mobile, suscettibile di adattamento progressivo»114 ai cambiamenti e alle nuove dinamiche organizzative (in relazione al lavoro tramite piattaforma ma non solo), con l’effetto di dare nuova linfa a quella formula, seppur nei limiti di ciò che è consentito dall’impostazione binaria di cui si è detto115. In questo processo di costruzione di una nozione evolutiva, il più possibile “inclusivoespansiva”, di lavoratore subordinato, il ruolo della Corte rimane centrale, con l’obiettivo di contribuire alla coerenza complessiva del campo di applicazione dell’acquis social116, in linea con la preoccupazione dell’Unione di applicare in modo efficace e uniforme il
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V. l’art. 1.2. dir. n. 2019/1152; va anche considerato, con riguardo al campo di applicazione ratione personae, che le possibilità di deroga degli Stati sono più limitate rispetto a quelle previste dall’abrogata dir. n. 1991/533 e che si stabilisce in particolare che non possano esclusi i contratti in cui l’orario di lavoro è indeterminato. Più in generale ai lavoratori impegnati nelle forme di lavoro on demand la dir. 2019/1152 garantisce diritti specifici, per quanto minimi, tra cui – “ripensando” al caso Yodel – il diritto del lavoratore «di rifiutare un incarico di lavoro senza conseguenze negative» e il divieto di clausole di esclusività (sia consentito rinviare a Aimo, Lavoro a tempo, on demand, “imprevedibile”: alla ricerca di una ragionevole flessibilità del lavoro non standard, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 431/2020). 111 Adams-Prassl, Aloisi, De Stefano, Kountouris, op. cit., 412. 112 Così è per la dir. n. 2019/1158 sul work-life balance e per la proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. 113 Mancini, L’incidenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro degli Stati membri, in RDE, 1989, 27. 114 Perrone, Sitzia, op. cit., 158. 115 Come si è già sottolineato, infatti, l’esclusione dei lavoratori “effettivamente” autonomi dal campo di applicazione della dir. n. 2019/1152 non potrà che lasciare fuori dalle tutele una parte del lavoro debole. 116 Robin-Olivier, op. cit., 480.
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suo diritto117. La Corte ha nell’insieme «giuocato la sua parte»118 e ha le carte in regola per seguitare a farlo e con maggiore coraggio, anche come sprone per un’azione legislativa a livello dell’Unione a tutela della crescente moltitudine di lavoratori precari che di quell’acquis ancora non gode119.
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Garben, Kilpatrick, Muir, Towards a European Pillar of Social Rights: upgrading the EU social acquis, CEPB series, January 2017, 3. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, cit., 21. 119 Almeno un accenno merita, a questo proposito, l’avvio da parte della Commissione, ai sensi dell’art. 154.2 TFUE, della prima fase di consultazione delle parti sociali europee sulla questione di come migliorare le condizioni di lavoro delle persone che lavorano tramite piattaforme di lavoro digitali, C(2021)1127 final del 24 febbraio 2021; v. anche la risposta data da ETUC alla consultazione con la risoluzione adottata il 22 e 23 marzo 2021. 118
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Flessibilità e work-life balance: un percorso tra realtà e retorica* Sommario :
1. La flessibilità nel modello eurounitario di equilibrio vita-lavoro. – 2. Flessibilità e conciliazione: il valore della programmabilità del tempo nell’ordinamento italiano. – 3. La programmabilità nel tempo pieno: fotografia dell’oblio delle esigenze familiari. – 4. La retorica delle forme di lavoro flessibili finalizzate al work-life balance… – 5. …e la cruda realtà normativa.
Sinossi. L’Autore, dopo aver brevemente ricostruito quello che è lo schema di equilibrio vitalavoro attualmente promosso dall’Unione europea, definisce il ruolo che la flessibilità delle modalità di lavoro è chiamata a svolgere all’interno di quel modello. Constatato che, affinché gli istituti della flessibilità possano effettivamente considerarsi funzionali al work-life balance, è necessario che essi consentano alla lavoratrice e al lavoratore di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività attinenti alla sfera privata, nel saggio viene assunta la programmabilità del tempo come chiave di lettura del grado di attenzione che nel nostro ordinamento è riservato ai bisogni della persona che lavora con responsabilità familiari. Secondo questo paradigma sono prese in esame la disciplina domestica dell’orario di lavoro nel tempo pieno, quella del part-time e quella del lavoro da remoto nelle forme del telelavoro e del lavoro agile. I risultati mettono in luce una profonda incoerenza della disciplina sostanziale di quegli istituti con la finalità conciliativa cui apparentemente essi sono ispirati. Abstract. After briefly piecing together the work-life balance scheme currently promoted by EU, the Author defines the role that flexibility of working arrangements is called to carry out inside that model. Having verified that the flexibility institutions, in order to be really functional to work-life balance, shall allow the employee to plan private life activities in a given segment of time, time programmability is assumed as the reading-key of the attention degree paid by Italian legal system to the need of the person who works with family responsibilities. In the light of this paradigm, the Italian regulatory regime of working time in full-time work as well as the regulations of part-time work and remote working arrangements in the form of smart-working and telework are examined. The results of such analysis reveal the deep inconsistency of the substantive discipline of those institutions with the work-life balance objective to which apparently they are inspired.
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Il testo rielabora la relazione che l’A. ha tenuto in occasione del webinar “La famiglia nel prisma giuslavoristico: valori, rapporti, tutele” organizzato dall’Università di Siena e tenutosi il 27 maggio 2021. Una versione ridotta dello stesso è destinata alla pubblicazione negli atti del convegno.
Giovanni Calvellini
Parole chiave: Equilibrio vita-lavoro – Direttiva 2019/1158/UE – Dual earner / dual carer – Modalità di lavoro flessibili – Ordinamento giuridico italiano – Programmabilità del tempo – Flessibilità oraria nel lavoro a tempo pieno – Lavoro a tempo parziale – Lavoro agile – Telelavoro.
1. La flessibilità nel modello eurounitario di equilibrio vitalavoro.
La dir. 2019/1158/UE ha confermato il cambio di approccio dell’Unione europea al tema della conciliazione tra attività professionale e vita familiare1. Con essa, infatti, si è compiuto un ulteriore passo avanti nel percorso – iniziato oramai un quarto di secolo fa con la dir. 96/34/CE che recepiva l’accordo quadro in materia di congedi parentali2 – per l’affermazione di un preciso schema di sviluppo del rapporto famiglia-lavoro: quello dual earner / dual carer, in base al quale i genitori, e, più in generale, entrambi i membri della coppia, sono ugualmente impegnati nel lavoro retribuito e condividono equamente le responsabilità di cura dei/delle figli/figlie e degli altri familiari bisognosi di assistenza3. È evidente, in questo senso, l’enfasi nella fonte derivata europea sul ruolo del padre e del c.d. “secondo genitore equivalente”4, ai quali vengono riservate specifiche misure di conciliazione5 proprio allo scopo di incoraggiarne il coinvolgimento nell’assolvimento delle funzioni di assistenza all’interno della famiglia. Tutto ciò in una duplice prospettiva: quella – di basilare importanza per l’ordinamento eurounitario (e non solo, ovviamente) – della parità di genere per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro e quella – meno qualificante il diritto dell’Unione europea, ma altrettanto centrale sul piano della politica sociale e del rispetto dei diritti fondamentali della persona6 – dell’interesse del/della figlio/a a instaurare precocemente un legame solido con entrambi i genitori.
1
Le espressioni “conciliazione” ed “equilibrio” (tra lavoro e vita privata), sebbene, a rigore, non possano essere considerate del tutto equivalenti (sul punto, v. Militello, Conciliare vita e lavoro. Strategie e tecniche di regolazione, Giappichelli, 2020, 35), saranno qui utilizzate come sinonimi. D’altronde, così fa anche il legislatore europeo nella dir. 2019/1158/UE. 2 Chieregato, A Work-Life Balance for All? Assessing the Inclusiveness of EU Directive 2019/1158, in IJCLLIR, 2020, 68 ss. 3 Va detto che i fondamenti teorici e la validità universale del modello sono oggetto di discussione in sociologia. In proposito v. Orloff, Should feminists aim for gender symmetry? Why a dual-earner/dual-caregiver society is not every feminist’s utopia, in Gornick, Meyer (a cura di), Gender equality. Transforming family divisions of labor, Verso, 2009, 129 ss., Saraceno, Keck, Towards an integrated approach for the analysis of gender equity in policies supporting paid work and care responsibilities, in Demographic Research, 2011, vol. 25, 371 ss. e Gaiaschi, Oltre il modello dual earner-dual carer: dalla conciliazione condivisa per tutt* alla conciliazione condivisa fra tutt*, in AG About Gender, 2014, n. 6, 1 ss. 4 L’utilizzo di questa espressione nel testo della direttiva testimonia la presa di coscienza da parte del legislatore europeo dell’esistenza di famiglie diverse da quella “tradizionale”. Non si può però tacere il fatto che appartiene comunque agli Stati membri la competenza a decidere se estendere i diritti previsti dalla direttiva anche a questa diversa figura (considerando 18). 5 Cfr. Izzi, Il work-life balance al maschile: a proposito di congedi dei padri, in LD, 2020, 333 ss. 6 Cfr. l’art. 18 della Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’Onu (1989), non a caso richiamato al considerando 5 della direttiva.
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Certo, non si può tacere il fatto che le misure concretamente messe in campo dal legislatore europeo per l’attuazione di quel modello sono ancora insufficienti. È evidente lo scarto tra gli obiettivi inizialmente perseguiti (in parte riflessi in un’ambiziosa proposta originaria della Commissione) e il contenuto precettivo del provvedimento approvato7. A dire il vero, un tale esito, conseguenza di un compromesso al ribasso resosi necessario durante l’iter normativo perché vi fosse un sufficiente consenso da parte dei Paesi membri, non può sorprendere neppure lo studioso occasionale del diritto del lavoro dell’Unione europea. Nonostante la proclamazione del Pilastro dei diritti sociali8 abbia senza dubbio dato nuovo impulso all’azione delle istituzioni eurounitarie in questo settore9, resta confermato quel “deficit sociale”10 che costituisce uno degli elementi caratterizzanti l’evoluzione dell’Unione europea sin dalle sue origini. Di questo “motivo di fondo”, allora, l’erosione per volere degli Stati membri del livello di tutela previsto dalla proposta presentata nel 2017 dalla Commissione Juncker rappresenta nient’altro che l’ennesima manifestazione; una nuova testimonianza delle difficoltà delle istituzioni eurounitarie di portare a compimento iniziative legislative che promuovano un significativo progresso sociale. La dir. 2019/1158/UE ha quindi in parte deluso le aspettative di chi si attendeva un testo normativo capace di contribuire in modo decisivo al graduale affermarsi del modello dual earner / dual carer. Certo, il contenuto prescrittivo della fonte in esame punta in quella direzione con più convinzione di quanto abbia fatto la dir. 2010/18/UE; basti pensare all’introduzione di un congedo di paternità autonomo (art. 4) e al raddoppio dei mesi di congedo parentale non trasferibile (art. 5, par. 2). Queste e tutte le altre misure hard previste11, però, sono evidentemente ancora troppo poco per riuscire nell’attuazione degli obiettivi che lo stesso legislatore europeo si è posto12. Durata contenuta del congedo di paternità, mancata indicazione di un livello minimo della retribuzione/indennità spettante in caso di esercizio del diritto al congedo parentale e rinuncia a intervenire in materia di orario di lavoro sono solo alcuni dei limiti di una disciplina che risente del deficit sociale eurounitario e riporta le ferite di un travagliato iter di approvazione. Detto questo sul contenuto precettivo della dir. 2019/1158/UE, deve comunque apprezzarsi il fatto che in essa è chiara come non mai la spinta soft verso lo schema dual earner / dual carer. L’importanza della fonte in esame è insomma rilevabile più sul piano delle politiche che su quello dei diritti. Essa, in altre parole, non può soddisfare dal punto di vista dell’armonizzazione legislativa, ma ribadisce con più forza e nettezza che in passato
7
I “passi indietro” fatti durante il percorso che ha condotto dalla proposta iniziale all’approvazione della direttiva sono segnalati da Chieregato, A Work-Life Balance for All?, cit., 67 ed Ead., Conciliazione vita-lavoro: la nuova Direttiva UE sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, in LG, 2020, 131. 8 Il Pilastro è stato proclamato solennemente il 17 novembre 2017 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione nell’ambito del vertice sociale di Göteborg. 9 L. Zoppoli, Valori, diritti e lavori flessibili: storicità, bilanciamento, declinabilità, negoziabilità, in WP D’Antona, It., n. 400/2019, 10. 10 Per tutti Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, il Mulino, 2012, 47. 11 Altra importante novità rispetto alla dir. 2010/18/UE è la previsione di un congedo per i prestatori di assistenza (art. 6), che va ad affiancare il preesistente diritto di assentarsi dal lavoro per cause di forza maggiore derivanti da ragioni familiari urgenti (art. 7; già clausola 7 dell’accordo quadro allegato alla dir. 2010/18/UE). 12 Chieregato, Conciliazione vita-lavoro, cit., 130 ss.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 40 ss.
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l’orizzonte normativo cui la legislazione nazionale in materia di work-life balance deve tendere. In questa direzione dovrebbero dunque essere declinati nei Paesi membri gli strumenti di conciliazione, ancora oggi riconducibili a tre tradizionali categorie: quella dei congedi e delle altre forme di astensione (indennizzata o meno) dal lavoro, quella dei servizi di cura alla persona e quella della flessibilità dei tempi e del luogo della prestazione. Sebbene a rigore una puntuale misurazione della propensione di un ordinamento giuridico alla promozione del work-life balance nel senso indicato dalla direttiva debba tener conto di tutte quante le misure a ciò funzionali senza partizioni convenzionali tra classi di strumenti, nell’economia del presente scritto è necessario limitare il campo di osservazione a soltanto una delle categorie rammentate: quella della flessibilità delle modalità di lavoro13. Sotto questo profilo, le politiche incoraggiate dalla fonte derivata europea sono quelle che vanno nella direzione di consentire alle lavoratrici e ai lavoratori che siano anche genitori o prestatori di assistenza di adeguare le modalità di lavoro (cioè tempi e luogo della prestazione) alle proprie esigenze familiari (considerando 34). Questo orientamento è poi temperato dall’affermazione secondo la quale il datore di lavoro dovrebbe poter decidere se approvare o respingere la richiesta di modalità di lavoro flessibili presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore (considerando 36); tuttavia, non si può non apprezzare lo spostamento del baricentro verso i bisogni di chi lavora. Questi ultimi dovrebbero poter entrare nel rapporto di lavoro determinandone una modifica e favorendo quel processo di adeguamento del lavoro all’essere umano cui – a dispetto delle affermazioni di principio14 – è rimasta insensibile la disciplina europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Che questa nuova inclinazione sia annoverabile tra gli elementi ispiratori della dir. 2019/1158/UE è provato dal suo art. 9 e dal diritto di richiedere modalità di lavoro flessibili che esso riconosce alla lavoratrice e al lavoratore che siano genitori o prestatori di assistenza ad altro familiare. La norma rappresenta indubbiamente un miglioramento del disposto della dir. 2010/18/UE, che prevede la possibilità di richiedere modifiche alle modalità di lavoro soltanto al rientro dal congedo parentale15 (clausola 6, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla direttiva). È altrettanto chiaro però che – come da molti condivisibilmente osservato16 – il contenuto precettivo dell’art. 9 è di incerta definizione
13
In materia di congedi e altre specie di astensioni si possono leggere – solo per citare le più recenti opere monografiche – Militello, Conciliare vita e lavoro, cit. e Vallauri, Genitorialità e lavoro. Interessi protetti e tecniche di tutela, Giappichelli, 2020. Sui servizi di cura alla persona (e sul lavoro prestato in quel settore) si rinvia invece a Borelli, Who cares? Il lavoro nell’ambito dei servizi di cura alla persona, Jovene, 2020. 14 V. la dir. 2003/88/CE al considerando 11 e all’art. 13. 15 Le conseguenze di una siffatta delimitazione del campo di applicazione della previsione possono essere osservate in C. giust., 18 settembre 2019, causa C-366/18, Ortiz Mesonero c. UTE Luz Madrid Centro, in www.curia.europa.eu. In quella pronuncia, infatti, il Giudice europeo ha ritenuto la dir. 2010/18/UE inapplicabile al caso del lavoratore turnista che, al fine di prendersi direttamente cura dei figli piccoli, chiedeva di poter beneficiare di un orario di lavoro fisso, senza trovarsi, però, in una situazione di rientro dal congedo parentale. 16 Caracciolo di Torella, An emerging right to care in the EU: a “New Start to Support Work-Life Balance for Parents and Carers”, in ERA Forum, 2017, 193 s.; Chieregato, A Work-Life Balance for All?, cit., 68; Ead., Conciliazione vita-lavoro, cit., 132; Hiessl, Caring for Balance? Legal Approaches to Those Who Struggle to Juggle Work and Adult Care, in IJCLLIR, 2020, 129 s. Meno critici Bell, Work-Life Balance and the Right to Request Flexible Working, in Regulatingforglobalization.com, 21 giugno 2019 e Izzi, op. cit., 347, secondo
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e, comunque, poco soddisfacente. Tuttavia, se dall’analisi dei diritti si passa alla ricostruzione in chiave evolutiva delle politiche, ci si avvede del fatto che la disposizione in parola è espressione proprio di quella maggiore attenzione nei confronti della persona che lavora, alla quale i considerando vorrebbero che fosse funzionale la flessibilità delle modalità di lavoro. È dunque guardando all’orizzonte normativo di cui si incoraggia il perseguimento, più che alle vere e proprie prescrizioni dettate, che è possibile apprezzare appieno il contributo innovativo della direttiva. Insomma, una trasposizione che partisse dai considerando e che sugli indirizzi in essi espressi impostasse una riforma complessiva della disciplina nazionale in materia di conciliazione implicherebbe, in relazione al tema della flessibilità delle modalità di lavoro (e non solo), quel cambio di approccio in senso personalista di cui molto si è discusso negli anni17, ma che ancora non si è inverato nella legislazione dei Paesi membri.
2. Flessibilità e conciliazione: il valore della
programmabilità del tempo nell’ordinamento italiano. A chi scrive pare che assumere una tale prospettiva evolutiva implichi necessariamente una maggiore garanzia della programmabilità del tempo, ovvero della facoltà di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività attinenti alla sfera privata. Se nell’ambito del rapporto di lavoro si vogliono valorizzare le esigenze familiari dei genitori e dei prestatori di assistenza, occorre assicurare che la lavoratrice e il lavoratore possano effettivamente impiegare un certo lasso di tempo per far fronte alle vicissitudini della propria vita privata; e precondizione perché ciò avvenga è che quel periodo della giornata o della settimana sia libero o liberabile da impegni lavorativi e quindi programmabile con attività legate alla famiglia. In questo senso, su di un piano teorico, la tutela della programmabilità del tempo si compone di due dimensioni. Una prima, minimale o difensiva, richiede che la collocazione temporale e la durata della prestazione concordate dalle parti non siano modificabili unilateralmente dal datore di lavoro, scongiurando così il rischio che, per volere di quest’ultimo, il periodo di riposo sia trasformato in orario di lavoro; eventualità, questa, che limiterebbe, rendendola precaria, la pianificazione di attività di cura nel tempo corrispondente. Quanto alla seconda dimensione, massimale o espansiva, la garanzia della programmabilità si realizza, oltre che escludendo lo ius variandi temporale del datore, riconoscendo alla lavoratrice e al lavoratore con responsabilità di cura un potere di modifica delle coordinate di tempo della prestazione lavorativa che permetta di adattare la stessa ai bisogni familiari. Si tratterebbe, insomma, di procedere nella direzione del “tem-
i quali la tutela procedurale introdotta dall’art. 9 può indurre una maggiore attenzione da parte del datore ai bisogni del proprio dipendente. 17 Cfr. per tutti Supiot (a cura di), Il futuro del lavoro, Carocci, 2003, 93 ss. (ed. or. Au-delà de l’emploi: Transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe, Flammarion, 1999).
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po scelto”18, di dare finalmente spazio a quella flessibilità nell’interesse di chi lavora di cui tanto si è parlato negli ultimi decenni19 e alla quale allude – con tutte le cautele del caso – il considerando 34 della dir. 2019/1158/UE. In questa seconda dimensione, l’intera temporalità della persona – e non soltanto quella fascia oraria che contrattualmente è individuata come periodo di riposo – diverrebbe programmabile e dunque potenzialmente impiegabile per soddisfare le esigenze familiari. La questione della garanzia della programmabilità del tempo, peraltro, non si pone solo in sociologia o in una prospettiva di politica del diritto. Essa infatti, come si sta per vedere, trova dei riscontri nel nostro ordinamento giuridico positivo e può pertanto rappresentare la perfetta chiave di lettura del grado di attenzione che nella legislazione domestica è riservato ai bisogni della lavoratrice e del lavoratore con responsabilità familiari. In una storica sentenza della Corte costituzionale del 199220 l’affermazione dell’illegittimità di una clausola che, nel lavoro a tempo parziale, rimette alla discrezionalità del datore la collocazione temporale della prestazione lavorativa21 è fondata principalmente sulla necessità costituzionale che alla lavoratrice e al lavoratore a orario ridotto sia garantita la possibilità di programmare liberamente nel tempo che resta dall’orario di lavoro altre attività che costituiscono esercizio di diritti costituzionalmente rilevanti. La pronuncia, a dire il vero, si riferisce esplicitamente soltanto al diritto alla retribuzione sufficiente, per la garanzia del quale è ritenuto necessario poter programmare (in quello che contrattualmente è periodo di riposo) ulteriori e diverse attività lavorative che consentano di integrare il reddito ricavato dal singolo contratto a tempo parziale. Nonostante tale espresso richiamo dell’art. 36, comma 1, Cost. (in relazione al quale era stata formulata dal giudice a quo la questione di legittimità costituzionale), si può ragionevolmente sostenere, secondo la medesima logica, che la tutela della programmabilità sia egualmente strumentale alla difesa di altri beni costituzionalmente rilevanti. E questo è ancor più vero oggi che, nella scala dei valori sociali, certe esigenze personali e familiari di chi lavora occupano una posizione sicuramente più avanzata di quella che ricoprivano al tempo in cui la Consulta si è espressa; tanto che oramai è comune il rilievo del fondamento costituzionale e del radicamento nel diritto (anche primario) dell’Unione europea delle politiche di conciliazione22. Una rilettura della sentenza in chiave evolutiva suggerisce allora che
18
Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Cedam, 2004, 47 ss.; Daugareilh, Iriart, La conciliazione dei tempi nelle riforme dell’orario di lavoro in Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda), in LD, 2005, 223 ss.; Bano, “Tempo scelto” e diritto del lavoro: definizioni e problemi, in Bavaro, Veneziani (a cura di), Le dimensioni giuridiche dei tempi del lavoro, Cacucci, 2009, 241 ss. 19 I primi studi che prendono in considerazione questo aspetto della disciplina del tempo di lavoro sono della metà degli anni Ottanta: Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Vol. I, Giuffrè, 1984, Id., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Vol. II, Giuffrè, 1985; De Luca Tamajo, Il tempo di lavoro (il rapporto individuale di lavoro), in Aa.Vv., Il tempo di lavoro. Atti delle Giornate di studio di diritto del lavoro. Genova, 4-5 aprile 1986, Giuffrè, 1987, 3 ss. 20 C. cost., 11 maggio 1992, n. 210, in RIDL, 1992, II, 731 ss., con nota di Ichino. Per dei commenti v. ex multis Ichino, Limitate, non drasticamente vietate, le clausole di elasticità nel part-time ad opera della Corte costituzionale, in RIDL, 1992, II, 731 ss., Alaimo, La nullità della clausola sulla distribuzione dell’orario nel «part-time»: la Corte costituzionale volta pagina?, in FI, 1992, I, 3233 ss. e Brollo, Part-time: la Corte costituzionale detta le istruzioni per l’uso e le sanzioni per l’abuso, in GI, 1993, I, 277 ss. 21 Si tratta di quelle clausole di variabilità sulla cui ammissibilità nel contesto della normativa del 1984 si era sviluppato un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza. Cfr. Brollo, Il lavoro subordinato a tempo parziale, Jovene, 1991, 161 ss. 22 Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, cit., 246 ss.; Caponetti, La conciliazione vita/lavoro nel sistema italiano: azioni positive nazionali
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alla retribuzione sufficiente siano affiancati quantomeno lo studio, la salute e la famiglia, quali ulteriori beni giuridici da proteggere garantendo la programmabilità del tempo nel part-time. Una logica di fondo non molto dissimile ha ispirato anche l’indirizzo maturato in seno alla giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato un’esigenza di programmabilità anche nel lavoro full-time. Segnatamente, nella sentenza che per prima si è espressa in questo senso23, la necessità di assicurare al prestatore d’opera la possibilità di pianificare una quota di tempo è stata ricollegata alla circostanza che «anche per i rapporti a tempo pieno […] il tempo libero ha una sua specifica importanza, stante il rilievo sociale che assume lo svolgimento, anche per il lavoratore a tempo pieno, di attività sportive, ricreative, sociali, politiche, scolastiche, etc., o anche di un secondo lavoro, nel caso in cui non sia prevista una clausola di esclusiva»24. L’estensione della tutela delle esigenze di programmabilità al full-time è stata poi ribadita anche in alcune pronunce successive, tutte concernenti, come la prima, il diritto della lavoratrice e del lavoratore a conoscere i turni di servizio con un ragionevole anticipo25. Certo, in tutte quante queste sentenze della Corte di legittimità è puntualizzato che la tutela della programmabilità non può essere declinata allo stesso modo nel part-time e nel full-time. Nel primo tipo di rapporto essa, in ragione della finalità conciliativa cui – quantomeno in teoria26 – risponde il sacrificio da parte della lavoratrice o del lavoratore di una parte della propria retribuzione, dovrebbe tradursi in una tendenziale immodificabilità per mano del datore dell’orario di lavoro pattuito; peraltro, è stata proprio questa conclusione, logica conseguenza delle argomentazioni della Consulta nella pronuncia del 1992, a fondare le critiche che la dottrina ha fatto piovere sulla disciplina delle clausole elastiche e flessibili, la quale, sin dal 2000, ha aperto la strada – con limiti di diverso tenore nel corso del tempo – alla previsione nel contratto individuale di un potere datoriale di modificare le coordinate temporali della prestazione del part-timer27. Per quanto riguarda il rappor-
e sistemi regionali, in Faioli, Rebuzzini (a cura di), Conciliare vita e lavoro: verso un welfare plurale, in WP Fondazione Brodolini, 2015, n. 7, 49 ss.; Santucci, La conciliazione tra cura, vita e lavoro (il work life balance), in Santoni, M. Ricci, Santucci (a cura di), Il diritto del lavoro all’epoca del Jobs Act, Esi, 2016, 183 ss.; D’Onghia, Ritmi di lavoro e vita familiare, in Occhino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, Vita e Pensiero, 2018, 49 ss.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 29 ss.; Vallauri, op. cit., 28 ss. 23 Cass., 23 maggio 2008, n. 12962, in RIDL, 2008, II, 825 ss., con nota di Bolego. 24 L’espressione “tempo libero” sembra essere stata utilizzata per riferirsi al tempo completamente liberato dal lavoro, ovvero all’insieme dei periodi nei quali la lavoratrice e il lavoratore non sono soggetti ad alcun obbligo contrattuale finalizzato all’organizzazione della produzione. Sulla tutela del tempo libero come tempo funzionale all’esercizio delle libertà e dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost. v. Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010. 25 Cass., 28 maggio 2008, n. 13967, in RIDL, 2009, II, 347 ss., con nota di Putaturo Donati; Cass., 3 settembre 2018, n. 21562, in DeJure; Cass., 6 dicembre 2019, n. 31957, in DeJure. È giusto precisare, però, che la tutela della programmabilità è stata poi variamente declinata in quei giudizi, nei quali gli accertamenti circa la tempestività delle comunicazioni datoriali dei turni sono giunti a esiti piuttosto differenti. 26 La precisazione è dovuta al fatto che quella per il part-time spesso non è una scelta “volontaria”, ma piuttosto il frutto di una mancanza di alternative a tempo pieno (cfr. Calvellini, La funzione del part-time: tempi della persona e vincoli di sistema, Esi, 2020, 155 ss.). Questa circostanza, però, non smentisce quanto affermato nel testo. Anzi, si può rilevare che, in caso di part-time involontario, la garanzia di programmabilità è ancora più sentita, perché – come detto – indispensabile a consentire di svolgere una seconda attività lavorativa utile a conseguire un salario complessivamente sufficiente. 27 Le maggiori criticità sono emerse in relazione all’art. 3, d.lgs. n. 61/2000 come modificato dall’art. 46, d.lgs. n. 276/2003. V. per tutti Maresca, Limiti costituzionali alla flessibilità del lavoro a tempo parziale, in Scognamiglio (a cura di), Diritto del lavoro e Corte
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to a tempo pieno, invece, i bisogni della sfera privata della persona che lavora debbono confrontarsi con il diritto del creditore della prestazione di organizzare la produzione, non potendosi pertanto interpretare il diritto alla programmabilità nel senso della stabilità dell’orario normale. Nonostante queste innegabili differenze, però, anche nel lavoro a tempo pieno, per un’effettiva protezione di beni giuridici quali la salute, lo studio, la famiglia, la fede religiosa, l’associazionismo, l’equa retribuzione, etc., è necessario che certi periodi di tempo della persona siano interdetti al potere di chiamata del datore e che, in talune circostanze, sia consentito alla lavoratrice e al lavoratore di poter modificare loro stessi le coordinate temporali della prestazione inizialmente concordate. In quest’ultimo senso, come si è visto, depongono – sia per il full-time che per il parttime, così come per il passaggio dall’una all’altra forma di lavoro – il considerando 34 della dir. 2019/1158/UE e, più in generale, il modello di work-life balance che la fonte derivata mira a promuovere. Invece, a favore dell’insostenibilità (anche) nel lavoro a tempo pieno di un illimitato ius variandi temporale del datore militano, tra l’altro, un inciso della citata sentenza della Consulta e il disposto di un’altra delle direttive approvate sulla scia del Pilastro dei diritti sociali. Il primo è contenuto in un passaggio delle motivazioni riferibile – secondo una lettura minoritaria, ma, ad avviso di chi scrive, preferibile28 – soprattutto al lavoro a tempo pieno: «sarebbe […] certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall’attività lavorativa». Questo principio, ricavato dal diritto civile, conferma la necessità che una parte di tempo resti nella «libera disponibilità» della persona e, pertanto, sia da essa utilizzabile per la programmazione di altre attività. Inoltre, come si è anticipato, l’esigenza di sottrarre una quota di tempo al potere datoriale di collocazione/estensione della prestazione ha recentemente trovato un riconoscimento anche nel diritto dell’Unione europea con l’emanazione della dir. 2019/1152/ UE, finalizzata a promuovere, tra le altre cose, una regolamentazione nazionale che renda prevedibile il tempo che può essere interessato dalla prestazione e, conseguentemente, quello che ne deve restare affrancato29.
costituzionale, Esi, 2006, 159 ss. V. amplius Ferrante, Il tempo di lavoro fra persona e produttività, Giappichelli, 2008, 281 ss. e Calvellini, op. cit., 274 ss. 29 Per dei commenti si rinvia a Borelli, Orlandini, Appunti sulla nuova legislazione sociale europea. La direttiva sul distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza, in Questione giustizia, 2019, n. 4, 61 ss., Bednarowicz, Delivering on the European Pillar of Social Rights: The New Directive on Transparent and Predictable Working Conditions in the European Union, in ILJ, 2019, 604 ss. e Cairoli, Tempi e luoghi di lavoro nell’era del capitalismo cognitivo e dell’impresa digitale, Jovene, 2020, 121 ss. 28
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Ciò detto, gli elementi raccolti suggeriscono allora che – come già osservato in dottrina , ancorché con riferimento alla sola dimensione minimale – il valore della programmabilità del tempo interessa tutti i rapporti di lavoro subordinato, anche se con una diversa intensità di tutela per tempo pieno e tempo parziale. Questo suo carattere trasversale lo rende, pertanto, il parametro perfetto attraverso il quale misurare l’effettiva funzionalità di un determinato istituto della flessibilità rispetto alla soddisfazione delle esigenze familiari della persona che lavora. In altri termini, non si intende ora intraprendere un’indagine circa il rispetto nel nostro ordinamento dei vincoli di sistema in materia di garanzia della programmabilità del tempo (tema al quale, comunque, si farà qualche accenno). Piuttosto si vuole cercare di comprendere se e con quale vigore quel valore – nel suo significato ideal-tipico, descritto in apertura di questo § – è stato assimilato dalla disciplina italiana della flessibilità temporale; ciò per avere restituita, a fini meramente descrittivi, una fotografia della ricettività di quella medesima normativa ai bisogni familiari di chi lavora. Se dunque – come si è cercato di chiarire – non può esserci vero equilibrio tra lavoro e vita privata senza che la lavoratrice e il lavoratore possano contare su coordinate temporali certe della prestazione e quindi senza che abbiano la possibilità di pianificare liberamente attività extra-professionali, per capire quanto la legge effettivamente persegue l’obiettivo della conciliazione occorre focalizzare l’attenzione sui limiti posti allo ius variandi temporale del datore di lavoro (tutela minimale della programmabilità) e sugli strumenti eventualmente previsti per consentire a chi lavora di modificare i tempi della prestazione in base alle proprie esigenze familiari (tutela massimale). Per ragioni di spazio, l’indagine dovrà però limitarsi a quelli che possono ritenersi i punti nevralgici della flessibilità conciliativa. Pertanto, nella consapevolezza di non poter trattare esaustivamente l’argomento, in questa sede il discorso sulla programmabilità del tempo sarà circoscritto alla disciplina dell’orario di lavoro nel tempo pieno, al part-time e al lavoro da remoto nelle forme del telelavoro e del lavoro agile. 30
3. La programmabilità nel tempo pieno: fotografia dell’oblio delle esigenze familiari.
Se si escludono dal campo d’indagine quegli istituti (come – solo per citarne alcuni – il congedo parentale a ore, i riposi giornalieri della madre e del padre durante il primo anno di vita del/della bambino/a, i congedi per malattia del/della figlio/a, i permessi ex art. 33, l. n. 104/1992) che, sebbene di fatto si risolvano in strumenti di cui il genitore e il prestatore di assistenza possono avvalersi per flessibilizzare i riferimenti temporali della
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Brollo, Part-time, cit., 280; Topo, Spunti per una disciplina unitaria del tempo di lavoro (tempo pieno e tempo parziale a confronto), in LG, 2005, 221; Delfino, Il lavoro part-time nella prospettiva comunitaria. Studio sul principio volontaristico, Jovene, 2008, 213; Bolego, Sul potere del datore di lavoro di variare la collocazione dell’orario di lavoro nel full-time, in RIDL, 2008, II, 827; Putaturo Donati, Sulla «turnazione in disponibilità» e sulla precostituzione dei relativi criteri di riparto, in RIDL, 2009, II, 350 s.; Occhino, op. cit., 202; Buoso, Orario di lavoro: potenzialità espresse e inespresse, in LD, 2017, 118.
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prestazione lavorativa, vanno correttamente fatti rientrare nella categoria delle forme di astensione dal lavoro (e non in quella – qui oggetto di approfondimento – delle modalità di lavoro flessibili), si realizza che la tutela espansiva della programmabilità non è presa in considerazione nella disciplina dell’orario di lavoro per chi presta opera a tempo pieno. In questa prospettiva, allora, l’implementazione della dir. 2019/1158/UE, e segnatamente del suo art. 9, non potrà che rappresentare un significativo progresso per il nostro ordinamento; soprattutto se, come auspicabile, il legislatore domestico, più che attenersi strettamente al contenuto precettivo della disposizione, procedesse a un recepimento ispirato a quell’approccio personalista che è alla base della fonte europea. Per il momento, il tempo scelto resta un modello la cui promozione può eventualmente avvenire ad opera della contrattazione collettiva, dalla quale, però, come ha dimostrato l’esperienza sulle azioni positive ex art. 9, l. n. 53/200031, non è lecito attendersi progressi in quella direzione che vadano molto oltre la banca delle ore, l’orario concentrato o la flessibilità degli orari di entrata e uscita. Alla luce di quanto sin qui detto, pertanto, di tutela della programmabilità del tempo – in relazione alla disciplina dell’orario di lavoro del full-timer – può casomai parlarsi soltanto nella dimensione difensiva o minimale. Ciò implicherebbe che le esigenze familiari della lavoratrice e del lavoratore venissero valorizzate in funzione limitativa dello ius variandi temporale del datore, ovvero del potere del creditore della prestazione di trasformare in orario di lavoro una quota di periodo di riposo. Si iscrivono in questa logica i vincoli previsti espressamente dalla legge o dalla contrattazione collettiva con riguardo alle diverse forme giuridiche che quella facoltà datoriale può assumere (potere generale di modifica della collocazione temporale della prestazione32, calendario multiperiodale, lavoro straordinario, reperibilità). Le tecniche impiegate sono varie: si va dalla previsione di un preavviso, alla necessità di prestabilire fasce orarie e giornate completamente libere dal lavoro; dal riconoscimento alla lavoratrice e al lavoratore di un diritto di rifiuto in presenza di certe causali attinenti alla sfera privata, all’imposizione di una rispondenza dell’esercizio del potere a determinate esigenze aziendali, passando per la fissazione di vincoli procedimentali di informazione e/o consultazione delle rappresentanze sindacali. È però opinione comune che, nel lavoro full-time, il sistema integrato dei limiti legali e negoziali permetta un esercizio dello ius variandi temporale entro margini piuttosto ampi33. Volendo segnalare alcune delle criticità più evidenti nella prospettiva qui adottata, può
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Lo scarso successo della misura sul piano applicativo è rilevato, tra gli altri, da Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, cit., 245 s., Ferrante, op. cit., 36, Di Stasi, La flessibilità positiva nella contrattazione collettiva, in Bavaro, Veneziani (a cura di), op. cit., 220, Magnani, La famiglia nel diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., n. 146/2012, 11 e Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 164 ss. Molte di quelle difficoltà, peraltro, sono riemerse con riferimento all’art. 25, d.lgs. n. 80/2015 (cfr. Calafà, Contrattare incentivi per la conciliazione tra vita professionale e vita privata, in LG, 2018, 33 ss.). 32 È noto che l’opinione prevalente – tanto in dottrina (per tutti, Ferrante, op. cit., 272 ss.), quanto in giurisprudenza (da ultimo, Cass., 6 dicembre 2019, n. 31957, cit.) – ammette l’esistenza di una siffatta facoltà come espressione del potere direttivo riconosciuto dagli artt. 2086, 2094 e 2104 c.c. 33 Putaturo Donati, Flessibilità oraria e lavoro subordinato, Giappichelli, 2005, 247 ss.; Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato. Critica sulla de-oggettivazione del tempo-lavoro, Cacucci, 2008, 237; Bano, “Tempo scelto”, cit., 247 s.; Niccolai, Orario di lavoro e resto della vita, in LD, 2009, 251 s.; Fenoglio, L’orario di lavoro tra legge e autonomia privata, Esi, 2012, 122 s.; Voza, Le misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act, in LG, 2015, 15; D’Onghia, op. cit., 64; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 147.
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rilevarsi, anzitutto, che nello scenario del d.lgs. n. 66/2003 i limiti alla variazione da parte del datore del quando della prestazione a tempo pieno sono solamente quelli derivanti dalla disciplina su collocazione e durata dei riposi, dal preavviso minimo richiesto dalla giurisprudenza rammentata supra, dalla procedimentalizzazione dell’esercizio del potere talvolta prevista dai contratti collettivi e dalla regolamentazione del lavoro notturno. Con riguardo alla variazione in aumento del quantum della prestazione, inoltre, la disciplina limitativa del lavoro straordinario34 rischia di rivelarsi del tutto ineffettiva per via del fatto che, in caso di adozione di un calendario multiperiodale, diviene complicato riconoscere in anticipo il lavoro eccedente l’orario normale (potendo le ore aggiuntive di una settimana essere compensate con un orario inferiore in una diversa settimana dell’arco temporale di riferimento) e quindi far valere le garanzie previste a tutela della volontà di chi lavora35. Ma se – come si è appena detto – nel quadro normativo di riferimento per il full-time la programmabilità del tempo è scarsamente tutelata, si è naturalmente portati a chiedersi se esistano ulteriori e più incisivi limiti di carattere generale; e cioè se, all’interno del perimetro costituito dai vincoli legali e contrattuali esplicitamente previsti per il tempo pieno, il datore di lavoro possa liberamente avvalersi delle proprie prerogative in punto di variabilità temporale o se, al contrario, l’ordinamento sottoponga l’esercizio del potere a ulteriori condizioni di legittimità. Quest’ultima opzione è sicuramente prevalsa nella dottrina e nella giurisprudenza che negli anni si sono confrontate con questa materia. Diverse – ma non antinomiche tra di loro – sono le strategie limitative ipotizzate e, talvolta, messe in atto per circoscrivere lo ius variandi temporale del datore oltre quanto la legge e il contratto collettivo espressamente fanno. Così, alcuni hanno posto l’accento sulla necessità di bilanciamento tra interessi contrapposti36; in altri casi è stato valorizzato il diritto anti-discriminatorio37; di frequente,
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L’art. 5, d.lgs. n. 66/2003 delega alle parti sociali la disciplina dello straordinario. La contrattazione collettiva nazionale, anche quando prevede l’obbligo di svolgere la prestazione di lavoro straordinario, perlopiù ammette che la lavoratrice e il lavoratore possano legittimamente rifiutarsi di dar seguito alla richiesta datoriale a fronte di comprovati impedimenti personali. In difetto di disciplina collettiva applicabile, poi, la regolamentazione legale suppletiva prevede che il ricorso allo straordinario sia possibile solo previo accordo tra le parti. 35 Cfr. G. Ricci, Tempi di lavoro e tempi sociali. Profili di regolazione giuridica nel diritto interno e dell’UE, Giuffrè, 2005, 325 s.; Fenoglio, L’orario di lavoro, cit., 155 s. 36 Ichino, Il tempo della prestazione, Vol. I, cit., 168 ss.; Allamprese, Tempo della prestazione e poteri del datore di lavoro, in ADL, 2007, I, 344 ss.; Niccolai, op. cit., 249. 37 V. Trib. Ferrara, 25 marzo 2019, in RGL, 2019, II, 497, con nota di Russo e Trib. Roma, 27 febbraio 2021, decr., in Newsletter Wikilabour, 2021, n. 6. In Trib. Firenze, 22 ottobre 2019, decr., in RGL., 2020, II, 309, con nota di Santos Fernández, è stata ritenuta sussistente una potenziale discriminazione collettiva indiretta a danno dei lavoratori-genitori e, in particolare, delle lavoratrici-madri (soggetti che cumulano il fattore di rischio costituito dal sesso femminile e quello della genitorialità), con riferimento a due ordini di servizio che avevano introdotto una disciplina dell’orario di lavoro e delle giustificazioni per ritardi peggiorativa rispetto alla regolamentazione del contratto collettivo nazionale. Si legge nel testo del decreto: «poiché è notorio che i genitori (e, a maggior ragione, le lavoratricimadri) […] si trovino frequentemente a dover far fronte a impellenti e imprevedibili esigenze connesse all’accudimento della prole, le quali possono anche comportare l’improvvisa necessità di ritardare l’ingresso al lavoro o anticiparne l’uscita, è prevedibile […] che il complesso delle disposizioni di cui ai due ordini di servizio […] possa svantaggiare i suddetti gruppi tipizzati rispetto ai dipendenti non genitori, in quanto risulta ostacolare o, comunque, rendere difficoltosa la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Nel caso di specie, allora, il ricorso alla tutela anti-discriminatoria non è avvenuto per limitare lo ius variandi temporale del datore, ma semmai per salvaguardare un diritto alla flessibilità in entrata e in uscita riconosciuto ai lavoratori dalla disciplina contrattual-collettiva. La pronuncia non è quindi del tutto pertinente allo specifico tema qui oggetto di analisi. Ciononostante essa merita di essere segnalata perché dimostra una crescente consapevolezza giurisprudenziale del legame esistente tra promozione della conciliazione e tutela
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inoltre, sono stati invocati i canoni di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) quale limite generale alla modificabilità dell’orario38. Nel valutare queste strategie limitative, però, occorre tenere bene a mente che non si può pretendere di trarre dal sistema meccanismi eccessivamente condizionanti o addirittura inibitori di un potere per l’esercizio del quale la legge (integrata dalla contrattazione collettiva) già stabilisce in modo espresso dei limiti, per quanto blandi. In altre parole, la ricerca di vincoli di carattere generale non può spingersi fino al punto di dissolvere o comprimere oltremodo quei margini di flessibilità che scientemente l’ordinamento concede al datore39. Ciò implica che, nel full-time, la tutela dei bisogni cui è funzionale la programmabilità del tempo avviene mediante i pochi limiti alla variabilità datoriale espressamente previsti e per il tramite di principi generali (in ispecie, buona fede e divieto di discriminazione) che, però, hanno la sola funzione di impedire che nell’esercizio del potere privato si perpetuino derive abusive quali ritorsioni, arbitri, condotte discriminatorie, mancata concessione di un preavviso minimo, etc.
4. La retorica delle forme di lavoro flessibili finalizzate al work-life balance…
Quando si parla di equilibrio tra vita privata e professionale non può sorprendere che si tiri in ballo il part-time. Sin dalle sue prime apparizioni nel dibattito pubblico, questo istituto è infatti stato annoverato tra gli strumenti che avrebbero potuto avvicinare al lavoro chi fino ad allora era rimasto inattivo in quanto gravato da responsabilità familiari40. Dapprima legato strettamente all’incentivazione dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, più di recente, quando si è iniziato a maturare la convinzione che si debba parlare di
contro le discriminazioni quale via per una minima valorizzazione delle istanze personaliste nella disciplina in concreto dell’orario di lavoro. 38 Cfr. Allamprese, op. cit., 349 ss.; Bavaro, op. cit., 268 s.; Ferrante, op. cit., 286 ss.; Di Stasi, op. cit., 220; Buoso, op. cit., 118.; Russo, Discriminazione per handicap e orario di lavoro, in RGL, 2019, II, 504 s. V. anche la risposta del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali all’interpello n. 68/2009. In Cass., 3 settembre 2018, n. 21562, cit., a proposito dello ius variandi temporale del datore, è stato affermato che «la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extra-contrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite principale unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico». 39 Similmente Bavaro, op. cit., 268 s. a proposito dell’incisività del controllo di razionalità ex fide bona sull’esercizio dello ius variandi temporale. 40 Le aspettative e le perplessità che caratterizzavano il dibattito originario su questa forma di lavoro possono essere saggiate leggendo Loy, La disciplina giuridica del rapporto di lavoro a tempo parziale, in RGL, 1980, I, 333 ss. e Borgogelli, Il lavoro a tempo parziale (con particolare riferimento al lavoro femminile), in RGL, 1980, I, 379 ss.
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conciliazione alla stregua di una questione sociale e non più come di una questione femminile41, il lavoro a tempo parziale ha finito per acquisire un’accezione gender neutral42. Ad ogni modo, come si diceva, non vi è dubbio che il part-time sia da sempre rappresentato come un tipo di rapporto potenzialmente in grado di svolgere, oltre al ruolo di strumento per la flessibilizzazione pro employer dei tempi della prestazione, anche una funzione di work-life balance43, e dunque come una forma di lavoro astrattamente declinabile secondo una logica win-win. Indicazioni inequivocabili in questo senso si rivengono, innanzitutto, nell’accordo quadro allegato alla dir. 97/81/CE, ispirato dalla volontà delle parti firmatarie di facilitare «l’accesso al tempo parziale per uomini e donne […] che vogliono conciliare vita professionale e familiare […] nell’interesse reciproco di datori di lavoro e lavoratori e secondo modalità che favoriscano lo sviluppo delle imprese» (considerando 5). Ma la considerazione del part-time quale misura di flessibilità employee friendly è evidente pure nel nostro ordinamento, dove la stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale o l’accordo per la riduzione dell’orario del full-timer – diversamente, ad esempio, dall’apposizione del termine – non conoscono nessun tipo di restrizione44. Insomma, in apparenza, il part-time è un sotto-tipo contrattuale pensato per chi vuole un impegno lavorativo ridotto per poter far fronte ai bisogni della propria vita privata. La medesima finalità conciliativa sembra alla base della disciplina delle forme tipiche di lavoro subordinato a distanza a mezzo ICT: telelavoro e lavoro agile45. In generale, della digitalizzazione del lavoro vengono spesso esaltati i vantaggi che comporterebbe per la lavoratrice e il lavoratore. In particolare, la «retorica del futuro digitale»46 fonda l’auspicio della massima diffusione del lavoro da remoto tramite mezzi
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Cfr. D’Onghia, op. cit., 50 s., Alessi, Lavoro e conciliazione nella legislazione recente, in DRI, 2018, 805 ss. e De Marco, Work-life balance: lo stato dell’arte e la sua applicazione nell’emergenza epidemiologica, in DML, 2020, 620 s. Come afferma Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 203, «l’obiettivo […] non è più soltanto quello di aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro consentendo loro, frattanto, di non sottrarre tempo alla cura; ma è quello di intervenire sui problemi strutturali legati alla ripartizione del lavoro produttivo e riproduttivo, attraverso un tipo di flessibilità che garantisca realmente un adattamento dell’organizzazione del lavoro all’essere umano». 42 Se questo vale in linea di principio, occorre poi constatare che, nella realtà del mercato del lavoro, esiste una sproporzione tra l’incidenza del lavoro a tempo parziale sulla popolazione maschile occupata e quella sul lavoro femminile e che ciò, sebbene possa spiegarsi in parte con il diffuso desiderio delle lavoratrici-madri di ridurre – magari temporaneamente – il proprio orario (cfr. Aa.Vv. (a cura di), Il doppio sì. Lavoro e maternità, Libreria delle donne, 2008), è più che altro dovuto alle persistenti difficoltà che la logica della condivisione dei compiti di cura trova nell’affermarsi. Come rilevato dall’Eurostat (i dati sono reperibili al sito http://appsso. eurostat.ec.europa.eu/nui/submitViewTableAction.do), nel 2020, se più di un terzo (37,6%) delle donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni occupate nell’Unione europea lavorava a tempo parziale, per gli uomini nella stessa fascia di età l’incidenza media era molto inferiore (7,9%). 43 V., ad esempio, International Labour Organization, General Survey concerning working-time instruments - International Labour Conference, 107th Session, International Labour Office, 2018, 201. In dottrina v. ex multis Scarponi, Rapporti ad orario ridotto e promozione dell’eguaglianza. Introduzione, in LD, 2005, 192; Daugareilh, Iriart, op. cit., 224, Santucci, Flexicurity e conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, in DLM, 2007, 588 s. e Fenoglio, L’orario di lavoro, cit., 199. 44 Cfr. gli artt. 4 e 8, comma 2, d.lgs. n. 81/2015. Il part-time, inoltre, è stato annoverato tra gli strumenti di cui viene incentivato economicamente l’utilizzo per finalità conciliative. In questo senso v. l’art. 9, l. n. 53/2000 e il d.m. 12 settembre 2017 (di attuazione dell’art. 25, d.lgs. n. 80/2015). 45 Nel lavoro agile, a dire il vero, l’utilizzo di strumenti tecnologici per l’attività lavorativa è soltanto «possibile» (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). In questo scritto, però, si prenderà in considerazione esclusivamente l’ipotesi, di gran lunga preponderante a livello pratico, in cui quella forma di lavoro è svolta per il tramite delle ICT. 46 Bano, Il lavoro povero nell’economia digitale, in LD, 2019, 132.
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tecnologici sull’autonomia organizzativa di cui quella strumentazione doterebbe la persona che lavora e sul conseguente miglioramento della qualità di vita che ne deriverebbe47. Si prospetterebbe, insomma, un futuro liberato dalla schiavitù dell’orario di lavoro in cui la lavoratrice e il lavoratore, vincolati solo a determinati risultati produttivi, godrebbero di grande libertà nello stabilire il quando della prestazione. Il modello proprio della società industriale e post-industriale, nel quale, in linea di massima, si identifica il tempo di lavoro con quello passato in fabbrica/ufficio e il tempo libero con quello trascorso fuori dalle mura aziendali, si rivelerebbe del tutto inefficiente per entrambe le parti del rapporto se paragonato a un sistema in cui, sfruttando al massimo le opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche, la prestazione lavorativa può essere svolta ovunque e in qualunque momento. Uno tra i sociologi che per primi si sono confrontati con il tema della digitalizzazione del lavoro di recente ha scritto che «nella Società cablata in cui viviamo, perdere ore nel traffico per recarsi tutti i giorni a svolgere in ufficio un lavoro che possiamo fare altrettanto bene, se non meglio, da casa è uno spreco evidente. Di tempo, di vita, di produttività […]. Per non parlare della possibilità di ritagliarsi un lavoro a propria misura, che tenga conto delle esigenze di conciliazione tra tempi produttivi e riproduttivi»48. Questo tipo di riflessioni sono, quantomeno in apparenza, alla base della disciplina nazionale del telelavoro e del lavoro agile. Per entrambi, di nuovo, sono esaltate le potenzialità win-win. Nell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004, infatti, le parti sociali evidenziano che il telelavoro «costituisce per le imprese una modalità di svolgimento della prestazione che consente di modernizzare l’organizzazione del lavoro e per i lavoratori una modalità di svolgimento della prestazione che permette di conciliare l’attività lavorativa con la vita sociale offrendo loro maggiore autonomia nell’assolvimento dei compiti loro affidati»49. La l. n. 81/2017, dal canto suo, individua quale obiettivo della regolamentazione del lavoro agile quello «di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» (art. 18, comma 1). Il quadro di massima della celebrazione dell’astratta strumentalità del lavoro a distanza tramite ICT rispetto al migliore assolvimento dei compiti di cura da parte di chi lavora va poi completato con il richiamo di quel passaggio della dir. 2019/1158/UE nel quale proprio il lavoro da remoto – insieme ai calendari di lavoro flessibili e alla riduzione dell’orario di lavoro – è indicato quale modalità di lavoro che può dare una risposta alle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori che siano genitori o prestatori di assistenza (considerando 34). Allora, stando a quanto si è potuto sin qui osservare, sulle tre forme di lavoro in esame (part-time, telelavoro e lavoro agile) sembrerebbero convergere tanto l’esigenza di fles-
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Su tutti, Aa.Vv., Smart working, in Lavoro Welfare, 2016, n. 21, con riferimento allo smart-working. In Commissione UE, Un’iniziativa per sostenere l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare di genitori e prestatori di assistenza, COM (2017) 252 def., l’Esecutivo europeo sostiene che «la trasformazione digitale dell’economia sta ridefinendo le modalità secondo cui le persone lavorano o svolgono attività imprenditoriali dando vita a nuove opportunità di lavoro a distanza, di maggiore autonomia e di flessibilità che possono essere utilizzate per conciliare meglio il lavoro e gli impegni familiari». 48 Di Nicola, Dal telelavoro allo smart work, in Lavoro Welfare, 2016, n. 21, 7. 49 Le potenzialità conciliative del telelavoro giustificano pure la normativa (scarsamente) incentivante di cui all’art. 23, d.lgs. n. 80/2015 e l’espressa menzione di questa forma di lavoro tra quelle promosse dall’art. 9, l. n. 53/2000.
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sibilità organizzativa del datore, quanto l’interesse al work-life balance della lavoratrice e del lavoratore. Tuttavia, la rilevanza degli interessi in gioco per questi ultimi spinge a non accontentarsi delle dichiarazioni di principio e sollecita, pertanto, una verifica del punto di equilibrio individuato dalla legge tra le istanze contrapposte. Occorre accertare, in altri termini, se l’ordinamento giuridico tenga effettivamente conto dei bisogni familiari della persona che lavora o se quegli istituti siano configurati piuttosto come dei Giani bifronte, che, dietro l’apparenza di vantaggi per tutti, celano una precarizzazione temporale della lavoratrice e del lavoratore nell’interesse dell’impresa. Con questo obiettivo, pertanto, si procede ora alla verifica del grado di assimilazione del valore della programmabilità del tempo nella disciplina normativa di quelle tre forme di lavoro flessibili. L’esito di questo accertamento – come si è cercato di spiegare supra – ci chiarirà se esse rappresentano realmente un’opportunità per chi lavora di conseguire quell’equilibrio tra vita privata e professionale sul quale, condivisibilmente, tanto si insiste nel dibattito politico, sindacale e giuridico.
5. …e la cruda realtà normativa. Per il part-time l’indagine sulla programmabilità assicurata dalla legge assume un valore notevolmente diverso rispetto al tempo pieno. Secondo l’insegnamento della Consulta nella citata sentenza del 199250, infatti, la circostanza che nel regime orario ridotto la lavoratrice e il lavoratore percepiscano una retribuzione inferiore a quella sufficiente ex art. 36, comma 1, Cost. è ammissibile nei limiti in cui è garantita loro la possibilità di programmare ulteriori attività con le quali integrare il reddito ricavato da quel singolo rapporto di lavoro o – come si può ritenere sulla base di quella lettura evolutiva del decisum di cui si è detto supra – curare gli altri interessi della persona che abbiano un rilievo costituzionale. Tra questi, naturalmente, va annoverata la famiglia, alla quale, non a caso, la Corte fa un fugace richiamo quando, nel sottolineare – secondo un’impostazione comune in quell’epoca – l’importanza del part-time per il lavoro femminile, rileva il potenziale pregiudizievole dello ius variandi temporale del datore per la «necessaria salvaguardia» delle esigenze di assistenza familiare. Se così è, dalla verifica della garanzia minimale della programmabilità del tempo dipende la legittimità costituzionale della disciplina del lavoro a tempo parziale51. Questo
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C. cost., 11 maggio 1992, n. 210, cit. Va detto però che la dottrina prevalente – valorizzando l’inciso della sentenza già richiamato nel § 2, che, invece, secondo chi scrive, è riferito principalmente al tempo pieno – ritiene che, nel lavoro a tempo parziale, a essere vietata è soltanto la variabilità ad libitum, rimessa cioè al mero arbitrio del datore di lavoro, riconoscendo, invece, la legittimità di clausole che colleghino la variazione unilaterale a coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili. In questo senso, Ichino, Limitate, non drasticamente vietate, cit., 732; Brollo, Part-time, cit., 281 ss., Alessi, Part-time e job-sharing, in QDLRI, 1995, n. 17, 122 s. e Scarponi, Profili problematici della riforma del rapporto di lavoro a tempo parziale in relazione alla giurisprudenza in tema di art. 36, primo comma, della Costituzione, in DL, 2003, 788. Addirittura, Alaimo, op. cit., 3237 s. ritiene che la pronuncia della Consulta abbia aperto la strada a uno scambio tra maggiore disponibilità del part-timer e retribuzione adeguata. Per una più ampia
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accertamento deve quindi riguardare le modalità eventualmente previste per la modifica da parte del datore delle coordinate temporali della prestazione e deve essere finalizzato a comprendere se esse permettono comunque alla lavoratrice e al lavoratore di gestire altri rapporti di lavoro per conseguire una retribuzione sufficiente o di conciliare la propria vita lavorativa con gli impegni di quella extra-professionale. In questa sede non è possibile esaminare nel dettaglio la disciplina dettata dall’art. 6, d.lgs. n. 81/2015 per la flessibilità funzionale nel part-time52. Tuttavia, può essere sufficiente rilevare che le regole stabilite per il prolungamento della durata e per la modifica della collocazione temporale della prestazione concedono al datore ampi margini di adattamento del tempo di lavoro alle esigenze dell’organizzazione. Troppo spesso la regolamentazione legale e contrattual-collettiva del lavoro supplementare, del lavoro straordinario e delle clausole elastiche configura in capo alla lavoratrice e al lavoratore un obbligo contrattuale senza eccezioni di adempiere alla richiesta (rectius, ordine) di modifica dei riferimenti temporali della prestazione avanzata dal datore. Quest’ultimo può insomma esigere che l’attività lavorativa sia eseguita in un lasso temporale che, secondo le determinazioni contrattuali, sarebbe da considerarsi periodo di riposo. Questi pochi rilievi fanno emergere come la disciplina vigente del part-time non solo rivela diverse criticità sotto il profilo del rispetto del dettato costituzionale, ma si presenta anche ostile alla creazione di un equilibrio tra vita privata e lavoro. Gli ampi margini di variabilità dei tempi della prestazione concessi al datore e, dunque, le difficoltà per chi lavora di programmare nel tempo diverso dall’orario di lavoro contrattuale le attività corrispondenti ai propri bisogni familiari, sconfessano la vulgata del part-time come strumento di work-life balance. Nella normativa in esame, un regime di immodificabilità dei tempi della prestazione vige solo per la persona che lavora, la quale, in effetti, non ha nessuna possibilità di variare unilateralmente l’orario di lavoro sulla base delle sue esigenze familiari. Circostanza, quest’ultima, che rende palese come, nel nostro ordinamento, il lavoro a tempo parziale sia soprattutto un’ulteriore forma di flessibilità messa a disposizione del datore e non una freccia nella faretra degli strumenti di conciliazione per la lavoratrice e il lavoratore53. Conferma di questa conclusione è data, peraltro, dagli insoddisfacenti tassi di volontarietà del part-time, cioè dalla limitata incidenza sul numero degli occupati a tempo parziale di coloro che optano per questo regime orario per conseguire un miglioramento delle proprie condizioni di vita54, ovverosia una transizione verso una ripartizione del tempo
argomentazione delle ragioni a supporto della tesi qui sostenuta v. Ferrante, op. cit., 281 ss. e Calvellini, op. cit., 274 ss. Si rinvia, senza pretesa di completezza, a Leccese, Il lavoro a tempo parziale, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 50 ss., Bellomo, La riscrittura della disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo parziale: semplificazione, unificazione e ricalibratura dell’equilibrio tra autonomia collettiva ed individuale, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Wolters Kluwer, 2016, 506 ss., Spinelli, Il part-time nella declinazione del d.lgs. n. 81 del 2015, in Santoni, M. Ricci, Santucci (a cura di), op. cit., 222 ss., Altimari, Il lavoro a tempo parziale tra influssi europei e ordinamento interno, Esi, 2016, 117 ss., Santucci, Il contratto di lavoro part-time tra Jobs Act (decreto legislativo n. 81/2015) e diritto giurisprudenziale, in DRI, 2018, 25 ss. e Calvellini, op. cit., 265 ss. 53 In questo senso anche Alessi, Lavoro e conciliazione, cit., 815. 54 Cfr. Borgogelli, op. cit., 398. 52
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tra lavoro e sfera privata più confacente al valore che il singolo individuo assegna ai due ambiti della propria esistenza55. Si inserisce qui, inoltre, l’ulteriore tema dell’eccessiva concentrazione di donne nei lavori a tempo parziale; problematica che trova la propria origine nella persistente cultura della ripartizione stereotipata dei compiti di cura nella famiglia56, ma che è aggravata da una disciplina normativa che troppo spesso intrappola la lavoratrice (e anche il lavoratore) in un impiego a orario ridotto57. È anche per questi motivi che è in atto nelle istituzioni europee un ripensamento del ruolo del part-time nell’ambito delle politiche di promozione dell’equilibrio tra lavoro e vita privata. Riflessione di cui si trovano tracce anche nella dir. 2019/1158/UE, laddove, al considerando 35, si afferma che, «benché il lavoro a tempo parziale si sia rivelato utile per consentire ad alcune donne di restare nel mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio o l’assistenza a familiari che necessitano di cure o sostegno, lunghi periodi di riduzione dell’orario di lavoro possono determinare una riduzione dei contributi di sicurezza sociale e, quindi, la riduzione o l’annullamento dei diritti pensionistici». Naturalmente, è riduttivo pensare che il problema si esaurisca sul piano della tutela previdenziale e assistenziale; la questione ha tra l’altro riflessi sugli aspetti retributivi, sulle prospettive di carriera, sulla tutela della professionalità e, quindi, in fondo, sulla parità di genere. Ciononostante, va dato atto alle istituzioni eurounitarie di quella presa di coscienza del problema che ancora non sembra esserci stata a livello nazionale. Va anche detto, però, che a quella constatazione non ha fatto seguito un sensibile cambio di atteggiamento. La conseguenza sul piano normativo della maturata consapevolezza del problema, infatti, non va oltre (a) la previsione della possibilità per le parti del rapporto di assoggettare a una limitazione ragionevole la durata delle modalità di lavoro flessibili (dunque, anche della riduzione dell’orario) richieste dalla lavoratrice o dal lavoratore e (b) il riconoscimento del diritto di questi ultimi a presentare in qualsiasi momento una domanda di ritorno all’organizzazione originaria. Discorso non molto diverso può essere fatto per il lavoro digitale a distanza. Anche in relazione a questa modalità di lavoro flessibile sembra che le istituzioni eurounitarie inizino ad avere contezza dei rischi, che possono andare da quello dell’emarginazione professionale di chi lavora da remoto (specie se donna) fino a quello, in un certo senso opposto, del formarsi di una cultura dell’always on. Sta insomma svanendo l’illusione già vissuta per il part-time: quella di essere al cospetto di una forma di lavoro che per sua stessa natura – e dunque indipendentemente dal dato normativo – è funzionale al work-life balance58.
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De Luca Tamajo, op. cit., 8 osserva che il tema della riduzione dell’orario di lavoro a costo di sacrificare una parte della retribuzione è «strettamente legato, per un verso, alla minore identificazione dell’individuo rispetto al lavoro e, per un altro, ad un arricchimento e diversificazione dei bisogni connessi al tempo libero». 56 V. il considerando S della risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale. 57 Il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno spetta solo alla lavoratrice e al lavoratore il cui rapporto sia stato già trasformato da full-time a part-time (art. 8, comma 6, d.lgs. n. 81/2015). Nulla è invece previsto per chi è stato assunto direttamente a tempo parziale. 58 Sono condivisibilmente critiche verso questo assunto Spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Cacucci, 2018, 159 ss., Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP D’Antona, It., n. 419/2020 e Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 181 ss.
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Pure per il lavoro a distanza, però, questo disincanto non ha ancora prodotto un granché. A parte la citata previsione che riconosce la facoltà di concordare la temporaneità di questa forma di lavoro e il diritto a richiedere il ripristino delle condizioni originarie (art. 9, dir. 2019/1158/UE), sono poche le misure con cui si prova a intervenire sul problema. Tra queste vale la pena richiamare uno degli obblighi di informazione che la dir. 2019/1152/ UE ha posto in capo al datore di lavoro. Questi è infatti tenuto a rendere noti alla lavoratrice e al lavoratore i tempi della prestazione, essendo peraltro il contenuto dell’obbligo differente a seconda che l’organizzazione dell’orario di lavoro sia prevedibile o imprevedibile (art. 4, par. 2, lett. l e m). La medesima direttiva stabilisce, inoltre, che, in quest’ultima ipotesi, la prestazione possa essere pretesa dal datore soltanto se è stato previamente determinato il periodo del giorno e della settimana in cui al prestatore può essere richiesto di lavorare e se è rispettato un preavviso di durata ragionevole (art. 10). Ecco, nonostante alcune ambiguità59, si tratta certamente di prescrizioni con le quali si cerca di abbozzare una tutela (davvero minima) contro il fenomeno dilagante della disponibilità permanente cui può dar luogo l’(ab)uso delle ICT per l’esecuzione a distanza della prestazione. Con questo stesso obiettivo, poi, il Parlamento europeo ha elaborato una proposta di direttiva sul diritto alla disconnessione60 dai contenuti piuttosto interessanti e certamente innovativi del quadro giuridico in materia di molti Paesi membri61. Nonostante le condivisibili preoccupazioni che accompagnano la promozione del lavoro digitale a distanza, è indubbio che la dir. 2019/1158/UE individui in quella modalità di esecuzione della prestazione una delle forme di flessibilità da privilegiarsi nella prospettiva del work-life balance62. Tuttavia, se è vero che il lavoro da remoto non implica – a differenza del part-time – una riduzione del reddito (e a questo dato è probabilmente legata la preferenza per esso del legislatore europeo), è altrettanto innegabile che i rischi tipici di questa modalità di lavoro possono pregiudicarne l’effettiva funzionalità conciliativa. In assenza di efficaci contro-misure, infatti, l’isolamento, la costante raggiungibilità, l’iper-connessione e l’intensificazione dei carichi di lavoro possono vaporizzare i confini tra lavoro e vita privata (c.d. work-life blending) e provocare un soffocamento di quest’ultima ad opera del primo63. In questo senso, l’esasperata commistione tra ambiti della vita sperimentata durante la fase acuta dell’emergenza pandemica da Covid-19 dovrebbe insegnare. Se si legge quell’esperienza come una sorta di stress-test sull’utilizzo delle strumentazioni digitali per svol-
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Ad esempio, come osserva anche Bednarowicz, op. cit., 617, non è definito con chiarezza quando l’organizzazione dell’orario di lavoro sia da considerarsi «interamente o in gran parte (im)prevedibile». L’unica indicazione (certamente non esaustiva) in questo senso si ha quando la direttiva precisa che «i contratti di lavoro a chiamata o analoghi, compresi i contratti a zero ore […] sono particolarmente imprevedibili per il lavoratore» (considerando 35). 60 Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione. 61 La tematica era già stata affrontata nell’accordo quadro europeo sulla digitalizzazione del lavoro del 22 giugno 2020; intesa che, tuttavia, sconta non pochi limiti legati alla natura stessa della fonte e ai suoi contenuti essenziali. In proposito v. Rota, Sull’Accordo quadro europeo in tema di digitalizzazione del lavoro, in LLI, 2020, n. 2, C, 23 ss. 62 Tinti, op. cit., 23 s.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 181 s. 63 Similmente Weiss, Digitalizzazione: sfide e prospettive per il diritto del lavoro, in DRI, 2016, 659 s., Dagnino, Dalla fisica all’algoritmo: una prospettiva di analisi giuslavoristica, Adapt University Press, 2019, 126, Militello, Il work-life blending nell’era della on demand economy, in RGL, 2019, I, 60 ss., Ead., Conciliare vita e lavoro, cit., 68 ss. e Cairoli, op. cit., 199 ss.
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gere la prestazione a distanza, i risultati, dal punto di vista di chi lavora, non sono molto incoraggianti64. Di quelle contro-misure, infatti, nel nostro ordinamento non vi è traccia. Si rinvengono, al più, regole a tutela della salute della lavoratrice e del lavoratore. In questo orizzonte va letto il riferimento ai limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale per il lavoro agile (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017); o il richiamo al parametro della ragionevolezza per l’individuazione di un tetto massimo alla durata della prestazione lavorativa per le fattispecie, tra le quali rientra il telelavoro, in cui opera la deroga ex art. 17, comma 5, d.lgs. n. 66/200365; oppure, ancora, il riconoscimento al videoterminalista di un diritto di interrompere mediante pause l’attività allo schermo (art. 175, d.lgs. n. 81/2008). Entro questi confini, e salvo il rispetto della clausola di buona fede e del divieto di discriminazione, il potere del datore di lavoro di richiedere l’esecuzione della prestazione appare sostanzialmente illimitato. Il che, evidentemente, preclude alla lavoratrice e al lavoratore di programmare lo svolgimento delle attività di cura. È vero che, quantomeno nel lavoro agile, l’accordo individuale deve prevedere i tempi di riposo (art. 19, comma 1, l. n. 81/2017). Tuttavia, niente esclude che le parti si limitino a individuare la collocazione dei 10 minuti di pausa, delle 11 ore di riposo giornaliero e delle 24 ore di riposo settimanale66, lasciando i restanti lassi di tempo (fino a un massimo di 12:50 ore giornaliere e 77 ore settimanali) occupabili dal lavoro a discrezione del datore67. A ciò, poi, vanno aggiunte le difficoltà di rendere effettivo qualsiasi limite, vuoi perché la durata della prestazione svolta fuori dai locali aziendali non è facilmente misurabile68,
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Si avverte però che nel presente scritto si farà pressoché esclusivo riferimento alla disciplina “ordinaria” del lavoro a distanza. Sarà dunque intenzionalmente evitato l’esame del regime normativo vigente in costanza di emergenza pandemica, ispirato in via principale a esigenze ben diverse (tutela della salute di chi lavora e prevenzione della diffusione del contagio) da quelle “tradizionali”. Sul lavoro agile emergenziale si può rinviare a Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, in RIDL, 2020, I, 215 ss., Tinti, op. cit., 40 ss., Brollo, Smart o emergency work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in LG, 2020, 553 ss., Alessi, Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, 131 ss., Albi, Il lavoro agile tra emergenza e transizione, in WP D’Antona, It., n. 430/2020 e Tufo, Il lavoro agile emergenziale: un mosaico difficile da ricomporre tra poteri datoriali e diritti dei lavoratori, in RGL, 2021, I, 41 ss. 65 Cfr. Leccese, La disciplina dell’orario di lavoro nel d.lgs. n. 66/2003, come modificato dal d.lgs. n. 213/2004, in WP D’Antona, It., n. 40/2006, 53 s.; Peruzzi, Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in DSL, 2017, n. 1, 16; Calvellini, Tufo, Lavoro e vita privata nel lavoro digitale: il tempo come elemento distintivo, in Labor, 2018, 411. Peraltro, a ben vedere, occorre attenersi fedelmente alla lettera della disposizione citata e, di conseguenza, lasciare fuori dall’ambito di applicazione della deroga tutte quelle fattispecie che, in concreto, implicano solo la possibilità di organizzare il proprio tempo e non la facoltà di autodeterminare la durata dell’orario di lavoro (G. Ricci, op. cit., 457 ss.; Leccese, La disciplina dell’orario, cit., 55; Spinelli, Tecnologie digitali, cit., 152). Per questo motivo, anche lo stesso telelavoro, espressamente richiamato alla lett. d della disposizione in parola, non necessariamente resta escluso dalla disciplina standard dell’orario di lavoro. 66 Si tratta di periodi di riposo che, sebbene non citati espressamente dall’art. 18, comma 1, l. n. 81/2017, possono ritenersi indirettamente richiamati per il lavoro agile in quanto – a contrario – contribuiscono a definire la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale. 67 Come afferma Spinelli, Tecnologie digitali, cit., 118, «non può non destare perplessità la fiducia “incondizionata” che il legislatore ripone nella capacità delle parti di addivenire ad un bilanciato componimento dei rispettivi interessi». 68 Sotto questo profilo, però, spunti suggestivi si possono ricavare dalla recente C. giust., 14 maggio 2019, causa C-55/18, Federación de Servicios de Comisiones obreras c. Deutsche Bank SAE, in RIDL, 2019, II, 688 ss., con nota di Siotto, in cui il Giudice di Lussemburgo ha affermato la contrarietà al diritto eurounitario di una normativa nazionale che non impone ai datori di lavoro di istituire un sistema che, per garantire l’effetto utile dei diritti riconosciuti a livello sovranazionale, consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascuna lavoratrice e ciascun lavoratore. La pronuncia non riguarda specificamente il lavoro digitale a distanza, ma, in considerazione della validità generale delle affermazioni della Corte, non possono escludersi sviluppi interpretativi che
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vuoi per il rischio di un auto-sfruttamento da parte della lavoratrice e del lavoratore (che possono sempre eseguire la prestazione offline). Perfino il diritto alla disconnessione69, autentica condicio sine qua non della tutela della programmabilità, è negato (nel caso del telelavoro) o è riconosciuto secondo modalità che debbono essere definite tra le parti del rapporto (di lavoro agile)70. Certo, non è escluso che l’autonomia individuale produca un accordo confacente alle esigenze familiari della persona che lavora; così come è ben possibile che la contrattazione collettiva supplisca alle carenze dell’accordo interconfederale sul telelavoro e della l. n. 81/201771, come ad esempio è avvenuto recentemente con il riconoscimento alle lavoratrici e ai lavoratori agili di Autostrade per l’Italia del diritto di disconnettersi fino a un’ora e mezza al giorno per assistere i/le figli/figlie in didattica a distanza72. Tuttavia, resta il fatto che tali esiti non sono in alcun modo favoriti dalla disciplina in materia di lavoro agile e telelavoro, che, al contrario, si preoccupa di concedere maggiore flessibilità al datore di lavoro svincolando dalla presenza in azienda l’esigibilità della prestazione. A conferma delle difficoltà di inquadrare il lavoro agile tra gli strumenti autenticamente conciliativi militano poi altri elementi ancora, da segnalarsi perché, a loro volta, minano alle fondamenta la facoltà della lavoratrice e del lavoratore di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività extra-professionali.
interessino anche questa modalità di esecuzione della prestazione. Su questo specifico aspetto v. Leccese, Lavoro agile e misurazione della durata dell’orario per finalità di tutela della salute, in RGL, 2021, II, 428 ss. 69 La letteratura in materia è vastissima. Si segnalano, senza alcuna pretesa di esaustività, Mathieu, Péretié, Picault, Le droit à la déconnexion: une chimère?, in Revue de droit du travail, 2016, 592 ss., Ray, Grande accélération et droit à la déconnexion, in DS, 2016, 912 ss., Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, in DRI, 2017, 1024 ss., Fenoglio, Il diritto alla disconnessione del lavoratore agile, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro digitale, Wolters Kluwer, 2018, 547 ss., Calvellini, Tufo, op. cit., 404 ss., Altimari, Tempi di lavoro (e non lavoro) e economia digitale: tra diritto alla disconnessione e ineffettività dell’impianto normativo-garantista, in Alessi, Barbera, Guaglianone (a cura di), Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale, Cacucci, 2019, 57 ss., Di Meo, Il diritto alla disconnessione nella prospettiva italiana e comparata, in Alessi, Barbera, Guaglianone (a cura di), op. cit., 111 ss. e Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili profili di tutela, in LLI, 2019, n. 2, 214 ss. 70 Occorre precisare però che – come si è argomentato in Calvellini, Tufo, op. cit., 409 ss. – dall’art. 2087 c.c. può ricavarsi un obbligo datoriale di disconnettere chi lavora da remoto per quel periodo minimo che è necessario ad assicurare, attraverso il riposo, la tutela dell’integrità psico-fisica. Cfr. anche Casillo, Competitività e conciliazione nel lavoro agile, in RGL, 2018, I, 122 s. 71 Ma come segnalano per il diritto alla disconnessione nel lavoro agile Aimo, Fenoglio, Alla ricerca di un bilanciamento tra autonomia organizzativa del lavoratore e poteri datoriali nel lavoro agile, in Labor, 2021, 46 ss., «la maggior parte dei contratti di categoria […] non si occupa di tale questione» e nei contratti decentrati «la regolamentazione del diritto […] si traduce in alcuni casi in una mera enunciazione, talvolta accompagnata dall’elencazione di buone prassi». 72 Nell’ambito dell’emergenza pandemica, al genitore con figli/figlie in didattica a distanza (o in altre situazioni analoghe) che decida di svolgere la prestazione in modalità agile è stato da ultimo riconosciuto «[…] il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati […]» (art. 2, comma 1-ter, d.l. n. 30/2021, conv. l. n. 61/2021). La portata innovativa della previsione non è chiarissima e oscilla tra la quasi impercettibilità e il rivoluzionario. In particolare, la novella aggiungerebbe poco a quanto già ricavabile dall’art. 19, l. n. 81/2017 (fatta eccezione per l’espressa qualificazione della disconnessione come diritto) se la si intendesse come attributiva di una posizione giuridica di vantaggio condizionata alla specificazione in un accordo tra le parti delle relative modalità di esercizio. Assai rilevante (sul piano teorico, più che su quello pratico) sarebbe invece l’impatto della disposizione se si ritenesse – valorizzando l’aggettivo “eventuale” utilizzato in relazione all’intervento dell’autonomia individuale – che la lavoratrice e il lavoratore godano di un diritto che, in assenza di un accordo tra le parti sul punto, è esercitabile in maniera del tutto libera e incondizionata.
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Rileva in primo luogo la disciplina dei carichi di lavoro. Com’è noto, la legge ammette che l’organizzazione del lavoro in modalità agile sia stabilita anche per obiettivi. È chiaro, allora, che la fissazione dell’asticella da raggiungere nell’unità di tempo è essenziale per determinare l’impegno lavorativo richiesto in quel dato periodo. E mentre l’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 prescrive l’equivalenza dei carichi di lavoro della telelavoratrice e del telelavoratore con quelli degli altri dipendenti comparabili che svolgono la loro attività nei locali aziendali, niente di tutto questo è stabilito in relazione al lavoro agile, con l’effetto che, anche sotto questo profilo, l’autonomia individuale potrà muoversi senza un limite che non sia quello della ragionevolezza. Altra evidente lacuna nella legge è quella consistente nella mancata regolamentazione dell’ipotesi in cui è richiesta la presenza della lavoratrice e del lavoratore presso i locali aziendali o in altro luogo determinato dal datore. Il fatto che luogo e orario di lavoro non siano prestabiliti non significa che il creditore della prestazione non possa esigere dal debitore la sua presenza in un certo posto a una certa ora. L’assenza nella legge di indicazioni circa il preavviso con cui ciò può avvenire rappresenta un ulteriore elemento di incertezza che espone la persona che lavora al rischio di vedere stravolta l’organizzazione della propria temporalità da una richiesta datoriale. Lo stesso pericolo si configura poi ben più drammaticamente se si guarda alla regolamentazione del recesso dal patto di lavoro agile. La circostanza che dall’accordo a tempo indeterminato il datore possa recedere ad nutum concedendo un preavviso di trenta giorni «espone l’equilibrio conciliativo eventualmente raggiunto a un rischio permanente»; e il fatto che il preavviso sia addirittura escluso qualora il recesso dal patto (a tempo determinato o indeterminato) avvenga a fronte di «un “giustificato motivo” dal contorno evanescente» appare ancor più destabilizzante per chi intorno a quella modalità di lavoro flessibile ha programmato la propria esistenza73. Dunque, pure nella disciplina del telelavoro e – assai di più – in quella del lavoro agile, come già nella normativa sul part-time, la flessibilità è declinata a favore dell’impresa. La finalità conciliativa a cui in linea di principio queste forme di lavoro dovrebbero ispirarsi viene nei fatti frustrata dal riconoscimento al datore di un potere di modifica dei tempi (e, in certi casi, anche del luogo) della prestazione soggetto a pochi limiti. Dall’altro lato, poi, la possibilità per chi ha responsabilità di cura di modellare le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa secondo i propri bisogni familiari dipende da una disponibilità in questo senso della controparte datoriale. Insomma, se si guarda al tempo della persona che lavora dal punto di osservazione delle possibilità concesse dall’ordinamento giuridico di organizzarlo in funzione delle esigenze familiari si realizza che l’equilibrio tra lavoro e vita privata è lungi dall’essere raggiungibile.
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Tinti, op. cit., 34. Nello stesso senso, anche Pasqualetto, Il recesso dall’accordo sul lavoro agile, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto, cit., 531 ss., Spinelli, Tecnologie digitali, cit., 159 s., Fenoglio, Il tempo di lavoro nella New Automation Age: un quadro in trasformazione, in RIDL, 2018, I, 640 e Vallauri, op. cit., 144.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 12 febbraio 2021, n. 3671; Pres. Tria – Est. Blasutto – S.V., B.I., C.A., C.B.M., D.A., D.C.C., D.F.P., L.K., M.M.A., M.A. (avv. Massimo Pistilli) c. L. (avv.ti Sabatino Alessio Marrama e Valentina Ferrara). Cassa con rinvio App. Roma, sent. n. 710/2018 Contratto collettivo – successione dei CCNL – clausola di ultrattività – termine certus an e incertus quando – recesso – illegittimità
Poiché la “scadenza” del contratto non può che essere quella fissata specificamente e chiaramente dalle parti collettive, la previsione della perdurante vigenza fino alla nuova stipulazione ha il significato della statuizione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata, benché indeterminato nel “quando”, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti.
(Omissis) Fatti di causa – 1. Le parti odierne ricorrenti adivano il Giudice del lavoro del Tribunale di Viterbo per chiedere l’accertamento, nei confronti della L. s.r.l. – quale titolare della residenza sanitaria assistenziale (RSA) denominata “V.B.”-, dell’inapplicabilità del CCNL sottoscritto in data 22 marzo 2012 tra AIOP e FISMIC Confsal, Si-CEL, FSE FIALS, UGL, nonché dell’ulteriore accordo integrativo sull’inquadramento del personale sottoscritto in data 11 giugno 2012, ciò in quanto tali accordi contrattuali non erano stati firmati dal sindacato UIL FPL al quale i lavoratori erano iscritti. Rivendicavano l’applicazione del precedente CCNL del 23.11.2004, che espressamente prevedeva la propria vigenza sino alla stipulazione di un nuovo contratto, circostanza non verificatasi nella specie. 2. Il Tribunale di Viterbo dichiarava l’inammissibilità del ricorso nei confronti della UIL FPL per difetto di valida procura e rigettava il ricorso nei confronti dei lavoratori. Tale sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Roma, con sentenza n. 710/2018, sulla base dei seguenti argomenti: a) è pacifico – e comunque documentalmente dimostrato – che la società L. fino al 30.6.2012 ha applicato, al proprio personale in servizio presso la residenza sanitaria assistenziale (RSA), il CCNL del 23.11.2004 per il personale dipendente delle strutture sanitarie private associate all’AIOP, ARIS e alla Fondazione D.G. (sottoscritto da numerose sigle sindacali, tra cui anche la UIL FPL) e il successivo accordo stipulato, ai soli fini economici, in data 15.9.2010; b) parimenti pacifico è che, a decorrere dal 1.7.2012, a seguito di espressa comunicazione in tal senso effettuata dalla società il 29.6.2012, quest’ultima ha applicato ai propri dipendenti il CCNL per il personale dipendente delle RSA e delle altre strutture residenziali e socio assistenziali associate AIOP, sottoscritto in data 22.3.2012 dalla suddetta associazione
datoriale con altre sigle sindacali, ma non dalla UIL FPL (contratto al quale detta sigla sindacale, unitamente ai lavoratori ricorrenti, avevano dichiarato di non aderire) e del successivo accordo di armonizzazione dell’11.6.2012; c) come già ritenuto dal primo giudice, è legittima la disdetta del CCNL 23.11.2004: il comma 1 dell’art. 4 di tale contratto prevedeva espressamente la sua applicabilità sino al 31.12.2005 per la parte normativa e sino al 31.12.2003 per la parte economica; la vigenza del CCNL 23.11.2004 era pertanto, alla data del 1.7.2012, ormai da tempo venuta meno, con conseguente venir meno di ogni vincolo temporale al mantenimento dei suoi effetti e conseguente applicabilità del principio di libera recedibilità previsto in materia contrattuale dall’art. 1373 c.c., comma 2; alla disposizione dell’art. 4, comma 2 secondo cui il contratto avrebbe conservato la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo, va riconosciuto il limitato effetto di stabilire l’ultravigenza del CCNL, anche successivamente alla scadenza del termine contrattualmente previsto, sino alla stipulazione ad opera di una delle parti di un qualsivoglia nuovo contratto collettivo, non necessariamente con le stesse parti originariamente contraenti; una volta venuta meno la vigenza del precedente CCNL 23.11.2004, è legittima l’applicabilità del nuovo CCNL del 2012, contratto collettivo vigente a livello nazionale e al quale la società datrice aveva espressamente aderito; d) neppure è fondata la censura della violazione del principio di irriducibilità della retribuzione sancito dall’art. 2103 c.c.: non sussiste un diritto al mantenimento del trattamento economico e normativo stabilito da un precedente CCNL, essendo invece legittima, in caso di successione di contratti collettivi, anche una modifica in peius del trattamento economico e normativo, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto del contratto individuale, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma
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di regolamento, sicchè esse non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), con il limite del diritto quesito; e) è qualificabile diritto quesito, insuscettibile di essere pregiudicato da successive disposizioni contrattuali, solo il diritto perfetto già entrato definitivamente nella sfera patrimoniale del lavoratore, come il corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita e non invece la pretesa riferita a situazioni future o in via di consolidamento; f) neppure si è verificata nel caso di specie la violazione del principio di irriducibilità della retribuzione sancito dall’art. 2103 c.c. e dall’art. 36 Cost., ove si consideri la clausola di salvaguardia, successivamente pattuita con l’accordo dell’11.6.2012, alla cui stregua il livello retributivo precedente è stato garantito dall’introduzione di un superminimo riassorbibile; g) la garanzia di irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti estrinseche della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa; ne consegue che il principio invocato dai reclamanti non è di per sè applicabile a quegli istituti (di cui all’atto di impugnazione) quali l’estensione dell’orario di lavoro settimanale, il numero di giorni di ferie o l’indennità di turno, in quanto istituti diretti a regolamentare le modalità della prestazione lavorativa ed estranei alle qualità professionali intrinseche della prestazione stessa; h) neppure è condivisile la doglianza di parte appellante relativa alla diminuzione della retribuzione oraria conseguente alla modifica, a parità di retribuzione, dell’orario di lavoro settimanale, che il nuovo contratto ha portato da 36 a 38 ore settimanali, estensione comunque rientrante nell’ambito della nozione legale di orario di lavoro di 40 ore settimanali, così come individuata dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 3, comma 1; la questione è estranea all’ambito di tutela dell’art. 2103 c.c. in quanto attinente al profilo della articolazione oraria della prestazione lavorativa, ossia alle modalità del suo svolgimento, sulla quale può incidere la volontà delle parti sociali introducendo modifiche anche in peius. 3. Per la cassazione di tale sentenza i lavoratori indicati in epigrafe hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito la soc. LOB con controricorso. (Omissis) Ragioni della decisione –1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia omesso esame (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) dell’eccezione di inapplicabilità del CCNL ai lavoratori non iscritti ad associazioni sindacali firmatarie. Assume che la sentenza si era limitata ad enunciare il principio per cui “l’applicazione del CCNL 22.3.2012 agli appellanti, anche se non iscritti ad una
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delle associazioni sindacali firmatarie di tale contratto collettivo non può ritenersi avvenuta in violazione dei noti e consolidati principi giurisprudenziali in materia di applicazione su base volontaria della contrattazione collettiva di diritto comune”. È assente qualsiasi argomento a sostegno dell’assunto per cui un contratto collettivo (di diritto comune) possa trovare applicazione anche nei confronti dei lavoratori non iscritti alle organizzazioni firmatarie. 2. Con il secondo motivo denuncia violazione o errata ricognizione di legge e accordi collettivi in punto di inapplicabilità del CCNL a lavoratori iscritti ad associazioni sindacali non firmatarie (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Oltre al vizio di motivazione radicalmente carente, il giudizio espresso dalla Corte di appello non è conforme alla regola per cui il contratto, quale atto di autonomia negoziale, può vincolare solo i lavoratori iscritti al sindacato stipulante. Nè potrebbe affermarsi l’assenza di un dissenso circa l’applicazione della nuova fonte contrattuale, posto che i lavoratori firmarono un atto di diffida alla struttura a non applicare il nuovo contratto collettivo peggiorativo, lesivo dei propri diritti. 3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 2103 c.c. e art. 36 Cost. e del principio di irriducibilità della retribuzione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Il passaggio da 36 a 38 ore settimanali, incidendo sull’ammontare della retribuzione oraria, costituisce violazione del suddetto principio. Nè il datore, in difetto di accordo, può aumentare l’orario di lavoro. 4. Con il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 4, comma 2, CCNL 23.11.2004 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) con riguardo alla dichiarazione di sopravvenuta perdita di efficacia del CCNL del 2004, in quanto la clausola di ultravigenza contenuta nel comma 2 del predetto articolo prevedeva come termine finale del contratto soltanto la stipula di un nuovo contratto tra le parti. Richiama, a sostegno del motivo, altra pronuncia del giudice di merito (Tribunale di Viterbo chiamato a pronunciare sulla medesima questione) secondo cui la disdetta del CCNL Sanità privata 2002-2005, peraltro relativa alla sola parte RSA, comunicata da AIOP con lettera del 17 aprile 2012 alle OO.SS. originariamente firmatarie, e la conclusione, tra parti diverse dalle prime stipulanti e non rappresentative, del CCNL per le RSA, nel vigore del contratto unitario rimasto efficace per il personale ordinario, appare integrare un esercizio della facoltà di recesso unilaterale del contratto collettivo non consentito e non legittimo, anche per violazione dell’obbligo giuridico di buona fede, e che assume una particolare consistenza ove la controparte originaria sia costituita, come nel caso di specie, dai sindacati maggiormente rappresentativi. Specificamente, quanto al recesso unilaterale operato dalla parte datoriale, la Corte di appello ha citato principi normativi e giurisprudenziali che non si at-
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tagliano alla fattispecie, in quanto relativi a contratti collettivi privi della previsione di un termine di durata. Nel caso in esame, le parti non hanno omesso di stabilire un termine, nè hanno espresso la volontà che il contratto avrebbe avuto una durata indeterminata, ma hanno previsto un termine di durata. 5. È fondato il quarto motivo, con assorbimento dei restanti. 6. In merito alla questione della durata e dell’efficacia del contratto collettivo del 2004, occorre premettere, in via generale, il principio più volte affermato da questa Corte, sin da Sezioni Unite n. 11325 del 2005, secondo cui i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l’opposto principio di ultrattività sino ad uno nuovo regolamento collettivo secondo la disposizione dell’art. 2074 c.c. – in contrasto con l’intento espresso dagli stipulanti, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, violerebbe la garanzia prevista dall’art. 39 Cost.. 7. Con tale pronuncia le S.U., nel risolvere un contrasto di giurisprudenza, hanno confermato l’orientamento prevalente secondo cui la disposizione dell’art. 2074 c.c. – sulla perdurante efficacia del contratto collettivo scaduto, fino a che non sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo non si applica ai contratti collettivi post-corporativi che, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale privata, sono regolati dalla libera volontà delle parti cui soltanto spetta stabilire se l’efficacia di un accordo possa sopravvivere alla sua scadenza; la cessazione dell’efficacia dei contratti collettivi, coerentemente con la loro natura pattizia, dipende quindi dalla scadenza del termine ivi stabilito. 8. Il contratto collettivo del 23.11.2004 aveva previsto, al comma 1 dell’art. 4, che “il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dall’1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dall’1.1.2002 al 31.12.2003 (salvo che nel testo contrattuale non siano previste decorrenze diverse)” e, al comma 2 dell’art. 4, che “in ogni caso, il presente contratto conserva la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL”. 9. Poiché la “scadenza” del contratto non può che essere quella fissata specificamente e chiaramente dalle parti collettive, la previsione della perdurante vigenza fino alla nuova stipulazione ha il significato della previsione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata, benché indeterminato nel “quando”, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti, che possono in tal modo regolare gli effetti del contratto scaduto quanto al termine di efficacia previsto nella prima parte della stessa norma. 10. La Corte di appello ha invece richiamato principi e precedenti giurisprudenziali che fanno riferimento
a fattispecie diverse, quelle in cui manca un termine di durata o nelle quali le parti abbiano espressamente previsto una durata indeterminata: è noto infatti che, non essendo applicabile la disciplina prevista dal codice civile per i contratti corporativi e, in particolare, la norma dell’art. 2071, ultimo comma, c.c., relativa all’obbligo di determinare la durata del contratto, sussiste la possibilità che un contratto collettivo sia stipulato senza indicazione del termine finale; la mancata indicazione non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, atteso che – in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. ed in coerenza con la naturale temporaneità dell’obbligazione – deve riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di un’espressa previsione legale, non essendo a ciò di ostacolo il disposto dell’art. 1373 c.c., che contempla il recesso unilaterale nei contratti di durata quando tale facoltà è stata introdotta dalle parti, senza nulla disporre per il caso di mancata previsione pattizia al riguardo (Cass. nn. 4507 del 1993, 1694 del 1997, 6427 del 1998, 14827 del 2002, 18508 del 2005, 27198 del 2006, 19351 del 2007; v. pure Cass. 18548 del 2009); 11. è stato pure affermato che, a seguito della naturale scadenza del contratto, collettivo, in difetto di una regola di ultrattività del contratto medesimo, la relativa disciplina non è più applicabile, e il rapporto di lavoro da questo in precedenza regolato resta disciplinato dalle norme di legge, salvo che le parti abbiano inteso, anche solo per facta concludentia, proseguire l’applicazione delle norme precedenti (v. Cass. n. 20784 del 2010; n. 19252 del 2013). 12. Tuttavia, tali principi non possono regolare un’ipotesi, come quella in esame, in cui la clausola di ultrattività ha previsto un termine finale correlato ad una nuova negoziazione, secondo il principio generale nelle obbligazioni da contratto per cui il criterio distintivo tra termine e condizione va ravvisato nella certezza e/o nell’incertezza del verificarsi di un evento futuro che le parti hanno previsto per l’assunzione di un obbligo o per l’adempimento di una prestazione, per cui ricorre l’ipotesi del termine quando detto evento futuro sia certo, anche se privo di una precisa collocazione cronologica, purchè risulti connesso ad un fatto che si verificherà certamente (cfr. Cass. n. 4124 del 1991). La locuzione “fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL” sta a indicare la volontà delle parti originariamente stipulanti a vincolarsi al contenuto del contratto sottoscritto fino alla nuova negoziazione e sottoscrizione. La volontà di esprimere un termine finale è chiaramente enunciata dalle parti contraenti. 13. Ritiene dunque il Collegio che – diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello – la presente fattispecie sia diversa da quella, esaminata di recente da Cass. n. 28456 del 2018 e n. 23105 del 2019, della mancata indicazione di un termine di scadenza del
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contratto collettivo di diritto comune, per la quale vale il principio secondo cui le parti sono libere di recederne unilateralmente, salva la valutazione dell’idoneità del singolo atto ad assumere valore di disdetta. 14. L’accoglimento del quarto motivo ha carattere assorbente di ogni altra questione, poiché gli ulteriori profili postulano la validità della disdetta unilaterale
avvenuta prima del verificarsi del termine finale, questione che spetterà al giudice di rinvio riesaminare alla stregua dei principi sopra indicati. 15. Si designa quale giudice di rinvio la Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio. (Omissis)
La successione dei contratti collettivi nel tempo quando la clausola di ultrattività è a tempo indeterminato Sommario : 1. La vicenda. – 2. La controversa qualificazione della clausola di ul-
trattività tra termine “certus an e incertus quando” e condizione potestativa. – 3. Il diritto di recesso dal contratto collettivo. – 4. L’efficacia del contratto collettivo con clausola di ultrattività. Considerazioni sulla asserita violazione del principio di irriducibilità della retribuzione.
Sinossi. Con la sentenza n. 3671 del 12 febbraio 2021, la Corte di Cassazione torna ad affrontare la questione della successione dei contratti collettivi nel tempo e della perdurante efficacia di un precedente contratto collettivo in forza di una clausola di ultrattività. La vicenda offre l’occasione di analizzare i principali profili connessi a tale tematica, quali, prima fra tutte, la controversa qualificazione della predetta clausola alla stregua di un termine certus an e incertus quando, da cui discende, secondo l’opinabile ricostruzione effettuata dalla Corte di Cassazione, un limite nell’esercizio del diritto di recesso. Abstract. With the ruling no. 3671/2021, the Court of Cassation addresses the issue of the succession of collective agreements and the continuing effectiveness of a previous agreement thanks to a specific clause, which extends its duration. The ruling offers the opportunity to analyze the main profiles connected to this issue, such as the right of withdrawal, the exercise of which is limited by the presence of a term, and the controversial qualification of the clause as a term “certus an and incertus quando”.
1. La vicenda. Il caso in esame riguarda la discussa applicabilità del contratto collettivo nazionale sottoscritto il 22 marzo 2012 da AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata), FISMIC
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Confsal, Si-CEL, FSE FIALS e UGL nei confronti dei lavoratori iscritti ad un sindacato dissenziente e non firmatario, la UIL FPL. In particolare, i citati lavoratori rivendicano l’applicazione del precedente CCNL del 23 novembre 2004 in forza dell’art. 4, secondo comma, in base al quale «in ogni caso, il presente contratto conserva la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL» e, quindi, al di là dei termini sanciti dal primo comma del menzionato art. 4, secondo cui «il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2003 (salvo che nel testo contrattuale non siano previste decorrenze diverse)». La pretesa dei ricorrenti è stata respinta dal Tribunale di Viterbo e dalla Corte d’Appello di Roma sulla base del rilievo secondo cui in assenza di un termine di scadenza del contratto collettivo vige il principio di libera recedibilità (art. 1373, secondo comma, c.c.). È emerso, infatti, che decorsi i termini disposti dall’art. 4, primo comma, la società datrice ha cessato di applicare il contratto collettivo del 23 novembre 2004 a partire dal 30 giugno 2012, dopo aver comunicato la propria disdetta alle parti originariamente firmatarie. La Corte d’Appello fa leva in particolare sulla necessaria applicazione, al caso di specie, dei principi di temporaneità delle obbligazioni e di libera recedibilità previsti in materia di contratti dal Codice civile (art. 1373, secondo comma), che si vedrebbero evidentemente frustrati laddove si imponesse l’ultrattività dell’accordo contrattuale senza limiti di tempo. Da tale soluzione si discosta, invece, la Corte di Cassazione con la sentenza in esame, che muove apoditticamente dal presupposto secondo cui l’inciso contenuto nel citato secondo comma dell’art. 4 costituisce un termine certus an e incertus quando, da ciò deducendo l’illegittimità del recesso esercitato dalla AIOP per assenza di giusta causa e la conseguente necessaria applicazione del contratto collettivo del 23 novembre 2004 nei confronti dei ricorrenti.
2. La controversa qualificazione della clausola di ultrattività tra termine “certus an e incertus quando” e condizione potestativa.
Il cuore del problema è rappresentato dalla presenza, nell’art. 4 del contratto collettivo nazionale del 23 novembre 2004, della clausola in forza della quale «1. Il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2003 (…). 2. In ogni caso, il presente contratto collettivo conserva la sua validità sino alla sottoscrizione del nuovo CCNL». In particolare, si discute in merito alla natura di tale ultima previsione, che, diversamente da quanto affermato dalla Corte di Cassazione, secondo la Corte d’Appello di Roma non costituisce un termine di durata. Ciò non significa che gli effetti dell’accordo perdurino senza limiti di tempo: tutt’altro, applicando il principio di buona fede ex art. 1375 c.c. e quello della necessaria temporaneità delle obbligazioni prive di termine, è necessario garantire alle parti il diritto di recesso. Così, secondo la Corte d’Appello, la vigenza del
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precedente accordo sarebbe venuta meno, posta la disdetta comunicata dalla AIOP ad aprile 2012. Una tale interpretazione non trova, tuttavia, l’avallo della Corte di Cassazione, secondo cui l’inciso «fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL» lascia trasparire la volontà di protrarre la durata del contratto collettivo oltre i termini menzionati al primo comma e sino alla stipula del nuovo accordo: si legge, infatti, che la citata disposizione «ha il significato di un termine di durata, perché indeterminato nel quando, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti». Nello specifico, secondo la Corte di Cassazione, la previsione costituisce un termine “certus an e incertus quando”, da cui consegue l’illegittimità del recesso esercitato dalla società resistente per assenza di giusta causa e la violazione del principio di buona fede. Sebbene a prima vista la soluzione descritta abbia il pregio di giungere ad un risultato che si pone a garanzia dei lavoratori iscritti al sindacato dissenziente, essa rivela evidenti criticità sotto il profilo dell’inquadramento giuridico, che meritano di essere rilevate in questa sede. La circostanza della futura sottoscrizione di un accordo da parte di tutti i precedenti firmatari del contratto collettivo costituisce un evento sì futuro, ma del tutto incerto, la cui verificabilità è rimessa alla volontà di tutte le parti. Non si tratta, a ben vedere, di un semplice evento esterno, secondo la prospettiva civilistica, ma di un fatto rimesso alla loro discrezionalità: non si può trascurare la possibilità che con il mutare delle circostanze future, tale impegno non sia rispettato, con il rischio di giungere al risultato paradossale di un’obbligazione perpetua. Considerati i margini di grande incertezza dell’evento addotto nella clausola, anche sotto il profilo dell’an e non soltanto del quando, si ritiene che la citata previsione possa configurare una condizione potestativa1, più che un termine. Tale ipotesi sussiste, infatti, quando l’evento è costituito dal fatto volontario di una delle parti, potendosi distinguere tra due fattispecie: quella semplice, considerata valida perché riferita a circostanze meritevoli di tutela dall’ordinamento e quella meramente potestativa, rinvenibile laddove l’evento sia frutto dell’arbitrio di una parte2; questo secondo caso è sanzionato dall’art. 1354 c.c. con la nullità, ritenendosi che il compimento o l’omissione del fatto non dipenda da seri o apprezzabili motivi. A parere di chi scrive, la clausola in esame presenta le caratteristiche proprie della condizione potestativa semplice, giacché il suo compimento dipende pur sempre da seri e apprezzabili motivi e, cioè, dalla volontà di sedere al tavolo delle trattative e sottoscrivere un nuovo contratto collettivo; tuttavia, tale evento, incertus an e quando, si proietta in un arco di tempo indeterminato, con la conseguente e necessaria applicazione del principio di libera recedibilità.
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Ferrara, La condizione potestativa, in Scritti giuridici, I, Giuffré, 1954, 423. Cass., 21 maggio 2007, n. 11774, in GC Mass, 2007, 5; Cass., 16 gennaio 2006, n. 728, in GC Mass, 2006, 3; Maiorca, Condizione, in DDP civ, III, 1988, 299; Carresi, Il contratto, Giuffré, 1987, 269.
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3. Il diritto di recesso dal contratto collettivo. Un ulteriore profilo critico della sentenza è rappresentato dalla dichiarazione di illegittimità del recesso dell’AIOP dal contratto collettivo del 23 novembre 2004. Secondo la Corte d’Appello di Roma, tale atto è invece legittimo, in quanto espressione della libera recedibilità delle parti da un accordo senza termine. Il tema del recesso dal contratto collettivo di diritto comune, che fa da cornice al caso in esame, è stato oggetto di un ampio dibattito giurisprudenziale in merito all’interpretazione dell’art. 1373, secondo comma, c.c. Secondo un orientamento oramai prevalente e consolidato nel tempo3, in assenza di un termine finale, ovvero in presenza della previsione di una durata indeterminata, gli effetti del contratto collettivo non perdurano senza limiti temporali, in quanto l’art. 1373, secondo comma, c.c. garantisce la libera recedibilità dall’accordo, previa disdetta4. La soluzione ermeneutica si fonda, innanzitutto, sulla concezione accolta dalla dottrina civilistica5 della temporaneità delle obbligazioni, in virtù della quale il recesso rappresenta una “via di fuga” di fronte al rischio di ricadere in vincoli obbligatori perpetui, «nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto». La regola opera sia in assenza di un termine finale, sia laddove il contratto si rinnovi automaticamente. A ciò si aggiunge la necessità di tener conto della specificità della materia e, in particolare, della circostanza secondo la quale il contratto collettivo reca una disciplina parametrata «su una realtà socio economica in continua evoluzione»6, in cui la temporaneità dell’accordo è intrinseca alla funzione dallo stesso assolta nel nostro ordinamento7. Nel caso in cui, all’opposto, il contratto collettivo è dotato di un termine di durata, non è ammissibile il recesso ante tempus se non in presenza di una giusta causa, che consente di far venire meno il vincolo contrattuale laddove si verifichino circostanze di carattere del tutto “straordinario”, ostative al normale svolgimento del rapporto8, che la Corte di Cassazione non ritiene sussistenti nel caso in esame, con la conseguente illegittimità dell’atto datoriale.
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Da ultimo, Cass., 7 novembre 2018, n. 28456, in GC Mass, 2019, secondo cui «Qualora un contratto collettivo di diritto comune venga stipulato a tempo indeterminato, senza l’indicazione di un termine di scadenza, le parti sono libere di recederne unilateralmente, salva la valutazione dell’idoneità del singolo atto ad assumere valore di disdetta»; Cass., 17 settembre 2019, n. 23105, in GC Mass, 2019. 4 Tiraboschi, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, in DRI, 1994, 91; G. Santoro Passarelli, Efficacia soggettiva del contratto collettivo: accordi separati, dissenso individuale e clausola di rinvio, in RIDL, 2010, I, 497; contra Chiusolo, La disdetta dell’accordo sindacale da parte del datore di lavoro, in L80, 1989, 94 ss.; Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro. Il diritto sindacale, Cedam, 2008, 208. 5 Sotto il profilo civilistico, si segnalano tra tutti Bianca, Diritto civile, Giuffré, 2000, vol. III, 741; Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., IV, 2, Utet, 1980, 297; Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Giuffé, 1965, 183; Oppo, I contratti di durata, in RDComm, 1943, 239; Rescigno, Contratto collettivo senza predeterminazione di durata e libertà di recesso, in MGL, 1993, 576 ss.; Contra G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Giuffré, 1985, 61. 6 Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in RIDL, 1993, II, 684 ss. 7 Cass., 20 agosto 2009, n. 18548, in RIDL, 2010, II, 931 ss. 8 Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro. Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Giuffré, 1962, vol. I; Id. Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro. Il recesso straordinario. Il negozio di recesso, Giuffré, 1965.
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La soluzione adottata nel caso de quo, tuttavia, non sembra condivisibile, in quanto trae origine dalla qualificazione della clausola di ultrattività dell’art. 4, secondo comma, cit., quale termine certus an e incertus quando. Si ritiene, invece, corretta l’interpretazione accolta dalla Corte d’Appello, con la conseguenza che il recesso esercitato dalla AIOP è pienamente legittimo.
4. L’efficacia del contratto collettivo con clausola di
ultrattività. Considerazioni sulla asserita violazione del principio di irriducibilità della retribuzione. Il tema della successione dei contratti collettivi nel tempo e della loro efficacia, ampiamente studiato dalla dottrina9, pone una serie di questioni anche in relazione alla possibile ultrattività delle clausole a contenuto retributivo, potendosi al riguardo prospettare diverse soluzioni interpretative. Un primo approccio ermeneutico, minoritario, giustifica la sopravvivenza delle clausole contrattuali in materia retributiva facendo leva sulla possibile reviviscenza dell’art. 2074 c.c. Nel sistema post-corporativo, la norma assolverebbe alla specifica funzione di assicurare ai lavoratori il mantenimento delle medesime condizioni economico-normative previste dal precedente contratto, scongiurando così il rischio di una compromissione dell’art. 36 Cost., che garantisce il diritto ad una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità di lavoro svolto. La disposizione costituzionale sarebbe riferita non soltanto al rapporto individuale di lavoro, costituendo altresì un’«entità oggettiva sottratta alla disponibilità delle parti collettive»10. In questa prospettiva, l’individuazione di un termine del contratto assolverebbe alla sola funzione di determinare il periodo temporale entro il quale le parti sociali si impegnano a non rivendicare ulteriori pretese sui profili oggetto di contrattazione11. Un secondo indirizzo ermeneutico, più convincente e, del resto, dominante12, fa leva sull’inapplicabilità dell’art. 2074 c.c., che riflette un contesto storico e culturale radicalmente diverso da quello attuale, quello del periodo corporativo, ritenendo, coerentemente con i principi civilistici, che il predetto accordo conservi la sua efficacia unicamente entro
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Giugni, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in Aa.Vv, Il contratto collettivo di lavoro. Atti del III congresso nazionale dell’Aidlass, Giuffrè, 1968, 35; Maresca, Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, I, 50; Tursi, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Giappichelli, 1996, 193 ss.; Scognamiglio, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in Scritti giuridici, Diritto del lavoro, Cedam, 1996, 1713 ss. 10 Cass., 22 aprile 1995, n. 4563 in FI, 1995, I, 2870 ss. 11 Cass., 21 aprile 1987, n. 3899, in FI, 1988, I, 526 ss. 12 Ex multis, Cass., 17 gennaio 2004, n. 668, in MGL, 2004; Cass., 10 novembre 2000, n. 14613, in MGL, 2001, 2; Cass., 10 aprile 2000, n. 4534, in NGL, 2000, 556; Cass., 12 febbraio 2000, n. 1576, in RIDL, 2000, II, 617; Cass., 5 maggio 1998, n. 4534, RIDL, 1999, II, 3; Cass., 24 agosto 1998, n. 7818, in DPL, 1998, 661; Cass., 21 gennaio 1995, n. 679, DPL, 1995, 594; Cass., 26 ottobre 1995, n. 11119, in NGL, 1996, 218; Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in OGL, 1994, 5; Cass., 16 aprile 1993, 322, n. 4507, in MGL, 1993, 322; Cass., 13.2.1990, n. 1050, in NGL, 1990, 478; Cass., 14 luglio 1988, n. 4630, in MGL, 1988; Cass., 29 agosto 1987, n. 7140, MGL, 1987.
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l’ambito temporale definito dalle parti, a meno che non sia stata manifestata una diversa volontà, diretta a riconoscere l’ultrattività delle clausole contrattuali in materia retributiva13. Nel caso de quo, le parti hanno senz’altro riconosciuto, con il loro comportamento concludente, l’ultrattività del contratto collettivo del 23 novembre 2004 sino alla comunicazione della disdetta da parte della AIOP. Nonostante il dissenso del sindacato UIL FPL cui sono iscritti i ricorrenti in sede di stipula del contratto del 22 marzo 2012, appare ragionevole ritenere avverata in ogni caso la clausola contrattuale contenuta nell’art. 4, secondo comma, stante il rilievo secondo cui essa non fa riferimento alla necessaria adesione da parte di tutti i soggetti originariamente firmatari, ma richiami in modo generico l’evento di una successiva stipula, a prescindere dall’identità tra le parti del nuovo accordo rispetto a quelle precedenti. A margine della decisione in esame rimane la questione relativa alla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione ex artt. 2103 c.c. e 36 Cost. Nel caso di specie, infatti, i lavoratori lamentano che il passaggio da 36 a 38 ore settimanali avrebbe inciso negativamente sul loro trattamento retributivo. Il problema è risolto dalla Corte di Cassazione con l’accoglimento, nella sentenza in commento, del motivo relativo all’ultrattività del precedente accordo, che porta a ritenere il previgente contratto ancora applicabile ai lavoratori ricorrenti. In generale, nell’ipotesi di successione di contratti collettivi nel tempo, la giurispruden14 za e la dottrina maggioritarie15 ritengono possibile che il contratto collettivo successivo, anche se di livello inferiore, introduca una disciplina peggiorativa rispetto alla precedente. L’accordo collettivo costituisce, infatti, una fonte eteronoma che interviene dall’esterno in sostituzione di quello precedente, senza incorporarsi nel contratto individuale. Tuttavia, il limite alla predetta facoltà di introdurre discipline peggiorative è rappresentato dai cosiddetti diritti quesiti, per i quali, cioè «si è compiutamente realizzata la fattispecie idonea ad attribuirli al patrimonio del titolare»16. Essi si riferiscono a situazioni soggettive non modificabili ad opera di una disciplina legale o contrattuale collettiva posteriore17, che divengono pertanto intangibili, diversamente dalla mera aspettativa18, sussistente laddove la situazione, in itinere, non si è ancora cristallizzata, restando esposta a possibili modifiche. Tale distinzione, sebbene nitida sotto il profilo definitorio, appare sfuggente sul piano pratico, specie nei casi nei quali la linea di confine tra le due fattispecie è molto labile. Al riguardo, la giurisprudenza ha col tempo chiarito che sono definibili quali diritti quesiti
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Ad avallare tale tesi sono intervenute le Sezioni Unite. Cass., 30 maggio 2005, n. 11325, in NGCC, 2006, 5, 486 ss., con nota di Durante. Ex multis, Cass., 13 novembre 2009, n. 24092, in DL, 2010, I, 237; Cass., 14 maggio 2007, n. 11019, in DRI, 2007, 1189; Cass., 4 novembre 2005, n. 21379, in DRI, 2007, 185; Cass., 19 giugno 2001, n.8296, in NGL, 2001, 706; Cass., 12 febbraio 2000, n. 1576, in FI, 2000, I, 1539; Giugni, Diritto sindacale, Cacucci, 2001, 169. 15 Ballestrero, Osservazioni sul problema delle modificazioni “in pejus” dei contratti collettivi e sui diritti acquisiti degli associati, in Aa.Vv., Il contratto collettivo di lavoro, cit., 265 ss.; G. Santoro Passarelli, Derogabilità del contratto collettivo e livelli di contrattazione, in DLRI, 1980, 637; Sartori, Aspettative e diritti quesiti nella successione tra contratti collettivi: un cammino giurisprudenziale ancora zoppicante, in RIDL, 2010, I, 931 ss. 16 Ferraro, voce Diritti quesiti, II) Diritto del lavoro, in EGT, vol. XI, 1989. 17 Ferraro, op. cit. 18 Occhino, L’aspettativa di diritto nei rapporti di lavoro e previdenziali, Giappichelli, 2004, 55 ss. 14
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quelli «già entrati a far parte del patrimonio dei singoli lavoratori quale corrispettivo di prestazioni rese ed in relazione ad una fase del rapporto già esaurita»19, mentre sono mere aspettative «quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, dal quale scaturisce un rapporto di durata con prestazioni a esecuzione periodica o continuata, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi»20. Tale seconda ipotesi ricomprende anche le «pretese, senza alcun fondamento normativo, alla stabilità o al miglioramento nel tempo del trattamento previsto nella normativa collettiva». Per poter in concreto comprendere in quale delle due ipotesi si ricada occorre avere riguardo all’attività lavorativa e alla caratteristica della sua durata, alla luce della quale essa risulta composta da un complesso di prestazioni fra loro autonome e successive. Ne discende che un contratto collettivo posteriore non può incidere sulle prestazioni già eseguite e sulle dovute controprestazioni, anche se ancora non rese, così come sulle obbligazioni ad esecuzione istantanea, anche differita, sorte in forza del precedente accordo21. Venendo al motivo di doglianza sollevato dai ricorrenti, la lamentata estensione dell’orario di lavoro settimanale che avrebbe inciso negativamente sull’ammontare della retribuzione oraria, integra, ad avviso degli stessi, una violazione del principio di irriducibilità della retribuzione ai sensi dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 36 Cost. Tale ragionamento si fonda sulla teoria dell’incorporazione del contratto collettivo in quello individuale, peraltro minoritaria e accolta dalla giurisprudenza più risalente, sicché nel caso di successione di accordi collettivi troverebbe applicazione l’art. 2077 c.c. La soluzione perviene al risultato di garantire l’immodificabilità del livello retributivo cui i lavoratori hanno goduto in forza della precedente disciplina collettiva22. Secondo tale indirizzo interpretativo, l’art. 2103 c.c. costituirebbe una valida base normativa, essendo possibile ascrivergli rilevanza non soltanto entro il perimetro del singolo rapporto individuale di lavoro, a fronte di modifiche delle mansioni disposte dal datore di lavoro, ma anche sul piano della disciplina collettiva, che non potrebbe introdurre cambiamenti delle condizioni lavorative in senso peggiorativo. Ne discende che sarebbe possibile affermare la legittimità del recesso datoriale dal contratto collettivo, senza però compromettere il livello retributivo goduto dai lavoratori, considerato alla stregua di un diritto quesito. Tuttavia, una simile soluzione non sembra convincente per diverse ragioni. Innanzitutto, essa finisce con l’estendere il principio dell’irriducibilità della retribuzione al di là dei confini dei diritti quesiti fino a ricomprendervi le mere aspettative, quale è quella sulla conservazione del trattamento retributivo23. Come correttamente osservato dalla Corte di Appello nel caso in esame, il cambiamento dell’orario di lavoro attiene al diverso profilo dell’articolazione oraria della prestazione
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Cass., 29 settembre 2009, n. 20838, in GC Mass., 2009, 9, 1370; similmente, Cass., 12 febbraio 2000 n. 1576, in RIDL, II, 2000, 617, con nota di Bano e Cass., 5 novembre 2003, n. 16635, in OGL, 2003, I, 777. 20 Cass., 29 settembre 2009, n. 20838, cit. 21 Pret. Roma, 9 marzo 1999, in RGL, 2000, 1, 66, con nota di Comanducci. 22 Ad una simile soluzione giunge Trib. Venezia, 30 maggio 2014, in RIDL, 2015, II, 247, con nota di Rampazzo. 23 Giugni, Diritto sindacale, op. cit., 171.
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lavorativa, ossia del suo svolgimento, rispetto al quale la modifica introdotta dal contratto collettivo può incidere anche in senso peggiorativo. Il datore di lavoro ha quindi esercitato legittimamente il proprio potere, giacché tale cambiamento è avvenuto entro il limite di legge ex art. 3, comma 1, d.lgs. 66/2003. Inoltre, quanto al fondamento normativo su cui tale soluzione si fonda e, cioè, l’art. 2103 c.c., occorre evidenziare che la citata norma detta una disciplina relativa allo ius variandi del datore di lavoro, riferendo il principio dell’irriducibilità della retribuzione all’ipotesi di mutamento delle mansioni nel singolo rapporto individuale di lavoro24. In altri termini, la norma funge da limite al predetto potere datoriale, ma non alla libertà sindacale che confluisce nella contrattazione collettiva, anche peggiorativa. Le medesime considerazioni svolte rispetto all’art. 2103 c.c. possono essere adottate anche con riferimento all’art. 36 Cost., del pari richiamato dai ricorrenti a sostegno della propria pretesa. La citata disposizione costituzionale opera, infatti, sul piano del singolo rapporto di lavoro25 e consente di sanzionare con la nullità le clausole retributive dei contratti individuali di lavoro contrastanti con i principi di proporzionalità della retribuzione in relazione alla quantità e qualità del lavoro e di adeguatezza al mantenimento di una esistenza libera e dignitosa per il lavoratore e per la sua famiglia. Sicché, qualora le clausole retributive vengano meno, la mancanza di un accordo tra le parti viene colmata dall’intervento del giudice ex art. 2099 c.c., che determina la prestazione retributiva dovuta secondo equità. Tuttavia, tale giudizio, come ben noto, comporta nella maggioranza delle ipotesi, un riferimento ai minimi retributivi previsti proprio dalla contrattazione collettiva, che funge in questo senso da criterio di valutazione. Nel caso di specie, è proprio la contrattazione collettiva ad aver creato un “nuovo parametro”. Caterina Mazzanti
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M. Brollo, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103, in P. Schlesinger, Il Codice civile. Commentario, Giuffré, 1997, 178 ss. 25 Tiraboschi, Gli accordi sindacali separati tra formalismo giuridico e dinamiche intersindacali, in DRI, 2011, 2, 351.
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Giurisprudenza Corte di C assazione , sentenza 9 febbraio 2021, n. 3116; Pres. Balestrieri – Est. Cinque – Air Italy Spa (avv.ti C. B. Niutta, E. B. Niutta, A. Armentano) c. R. R. (avv.ti M. Giovannini e A. Bordone). Cassa con rinvio App. Milano, sent. n. 400/2018 Lavoro (rapporto) – Retribuzione – Cassa integrazione guadagni – Integrazione salariale – Svolgimento di attività lavorativa – Nozione – Omessa comunicazione all’INPS – Conseguenze – Decadenza dal diritto – Fattispecie.
In tema di decadenza dal diritto al trattamento di integrazione salariale, l’art. 8, comma 5, del d.l. n. 86 del 1988, conv. dalla l. n. 160 del 1988, ratione temporis vigente, che individua le attività lavorative soggette a comunicazione preventiva (o ad autocertificazione in caso di personale di volo) all’INPS, va inteso nel suo significato più ampio, come riferito all’insieme di condotte umane caratterizzate dall’utilizzo di cognizioni tecniche, del più vario genere, senza che assuma alcun rilievo la loro effettiva remunerazione, rilevando la sola potenziale redditività, perché lo scopo della norma è quello di consentire all’Inps la verifica circa la compatibilità dell’attività da svolgere con il perdurare del lavoro presupposto dell’integrazione salariale.
(Omissis) Fatti di causa 1. Con lettera del 21.1.2016 la Meridiana Fly spa contestò al proprio dipendente, R.R., Comandante posto in Cassa Integrazione straordinaria a rotazione, il seguente addebito: “Lei, dipendente della nostra azienda con qualifica di Comandante, sospeso dallo svolgimento di attività lavorativa e collocato in Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria ai sensi della L. n. 291 del 2004, art. 1 bis, ha percepito dal 13 aprile 2012 e sino al 31 dicembre 2014 trattamenti di sostegno al reddito erogati dall’INPS, integrati dallo speciale Fondo del trasporto aereo sino all’80% della Sua retribuzione fissa e variabile, trattamenti che Le sono stati anticipati dalla nostra azienda. In data 11 gennaio 2016 ci è stato notificato il verbale di accertamento dell’INPS n. (Omissis), redatto il 26 novembre 2015 (...), dal quale abbiamo appreso che, durante il suddetto periodo di fruizione dei predetti trattamenti di sostegno al reddito, Lei ha svolto attività lavorativa remunerata a favore di altro vettore aereo, la società Saudi Arabia Airlines, dal 14 aprile 2013. Risulta quindi che Lei, in violazione dei più elementari principi di lealtà e correttezza, in assoluto dispregio degli obblighi che Le fanno carico, sia in relazione all’esistente rapporto di lavoro subordinato con la nostra Azienda, sia con riferimento alla Sua posizione di soggetto percettore di indennità di sostegno al reddito, ha omesso di comunicare tempestivamente, sia alla nostra Azienda sia all’istituto previdenziale, di svolgere attività lavorativa regolarmente remunerata ed ha continuato ad incassare, senza nulla rilevare, le somme che mensilmente le sono state erogate a titolo di sostegno al reddito, ponendo in tal modo in essere un comportamento truffaldino chiaramente finalizzato
ad indurci in inganno al chiaro scopo di percepire illegittimamente somme alle quali non aveva diritto, somme tra l’altro poste a carico della collettività allo scopo di garantire il sostentamento di coloro che vengono a trovarsi privati del loro reddito da lavoro. Tale Suo comportamento, anche a prescindere dalla Sua qualificazione in sede penale e dalla idoneità a costituire reato, è di estrema gravità e configura una gravissima ed oggettiva lesione dell’elemento fiduciario posto a base di qualsivoglia rapporto intersoggettivo ed in particolare del Suo rapporto di lavoro, anche in considerazione della natura delle mansioni a lei affidate, alle quali è connesso l’esercizio di rilevanti e delicatissimi poteri e l’assunzione di grandi responsabilità”. 2. Rese le giustificazioni da parte del lavoratore, la società con lettera del 12.2.2016, risolse il rapporto per giusta causa. 3. Impugnato il licenziamento, il Tribunale di Busto Arsizio, in riforma della pregressa ordinanza del 30.1.2017, con sentenza n. 420/2017, annullò il recesso intimato al R. condannò la società a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno subito quantificato nella misura di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre alla regolarizzazione contributiva previdenziale ed assistenziale. Il R. rinunciò alla reintegra e optò per le 15 mensilità di risarcimento. 4. La Corte di appello di Milano rigettò il reclamo, proposto dalla società, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58. 5. I giudici di seconde cure, a fondamento della decisione, rilevarono che le giustificazioni addotte dal R. – il quale aveva sostenuto di non avere mai svolto attività lavorativa in favore della Saudi Arabian Airlines,
Giurisprudenza
nè di avere sottoscritto alcun contratto con la stessa compagnia, ma di avere solo partecipato, su richiesta della compagnia saudita, a “processi di tirocinio teorici in aula, visite mediche, esami di inglese e disbrigo pratiche burocratiche” recandosi più volte a (Omissis) nel periodo compreso tra il (Omissis) e che a tale percorso teorico non aveva fatto seguito alcuna assunzione, non avendo conseguito la licenza di volo araba (Omissis) – avevano trovato pieno riscontro nella documentazione in atti. Specificarono, quindi, che il fatto contestato (l’avere svolto attività lavorativa remunerata) non era stato dimostrato e che il periodo di tempo trascorso presso la Compagnia aerea estera doveva e poteva qualificarsi come “periodo neutro” in quanto unicamente finalizzato al mantenimento delle licenze e abilitazioni al volo, richiamando sul punto le argomentazioni di un precedente, su analoga fattispecie, della Corte di appello di Milano. Precisarono, infine, che proprio la natura di tale periodo consentiva la cumulabilità del trattamento in CIGS con il reddito percepito dal dipendente durante il periodo addestrativo e che questi, in una situazione anche di incertezza nella interpretazione della circolare INPS in materia, non era tenuto ad effettuare alcuna preventiva comunicazione alla società datrice di lavoro in assenza di un “cambiamento di status”. 6. Avverso la decisione della Corte di merito ha proposto ricorso per cassazione Air Italy spa (già Meridiana Fly spa), affidato ad un solo articolato motivo. 7. R.R. ha resistito con controricorso, insistendo per l’inammissibilità e, in subordine, per il rigetto del gravame. 8. Le parti hanno depositato memorie. Ragioni della decisione 1. Con l’unico articolato motivo la ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 86 del 1988, art. 8, commi 4 e 5 (riprodotto integralmente del D.Lgs. n. 148 del 2015, commi 2 e 3) convertito nella L. n. 160 del 1988; la violazione dell’art. 1 delle disposizioni di legge in generale approvate preliminarmente al codice civile con R.D. 16 marzo 1943, n. 262, nonchè degli artt. 1362 e 1363 c.c., nella interpretazione della circolare INPS n. 94 dell’8.7.2011 ed infine dell’art. 2119 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Deduce la società che erroneamente la Corte di appello di Milano aveva ritenuto che il comportamento del dipendente, il quale dal mese di maggio al giugno 2013 (per due mesi) aveva cumulato alla cassa integrazione percepita dall’INPS e dal Fondo speciale per il trasporto aereo, il compenso ricevuto dalla Saudi Arabian Airlines per l’attività svolta, senza avere peraltro proceduto alle comunicazioni relative all’INPS e al datore di lavoro, non costituisse giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.. Sostiene, poi, che la Corte di merito si era attardata ad evidenziare l’inesistenza di un contratto di
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lavoro, ignorando però la circostanza di fatto decisiva tra le parti che il R. aveva comunque percepito un reddito per la sua attività; inoltre, evidenzia che la Corte territoriale aveva violato il disposto dell’art. 1 preleggi, attribuendo alla circolare INPS n. 94 del 2011, il potere di dettare una normativa derogatoria del richiamato art. 8, predetti commi 4 e 5. 2. Il ricorso è fondato per quanto di ragione. 3. La comparazione tra infrazione addebitata dalla compagnia aerea e sanzione espulsiva intimata richiede la preventiva disamina della normativa vigente in materia di attività svolta presso terzi durante il periodo di cassa integrazione guadagni. 4. Il D.L. n. 86 del 1988, art. 8, commi 4 e 5 (convertito in L. n. 160 del 1988) recita: “4. Il lavoratore che svolga attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate. 5. Il lavoratore decade dal diritto al trattamento di integrazione salariale nel caso in cui non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione alla sede provinciale dell’Istituto nazionale della previdenza sociale dello svolgimento della predetta attività”. 5. E’ pacifico, poi, che le circolari non possono contenere disposizioni derogative di norme di legge, nè essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell’ambito della amministrazione all’interno della quale sono emesse (Cass. 23032 del 2007; Cass. n. 6699 del 2014). 6. Orbene, il D.L. n. 86 del 1988, art. 8, commi 4 e 5, sancisce, dunque, il principio della parziale cumulabilità tra integrazione salariale e altre attività remunerate nel senso che lo svolgimento di attività lavorativa remunerata durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all’integrazione salariale comporta non la perdita del diritto all’integrazione per l’intero periodo predetto ma una riduzione dell’integrazione medesima in proporzione ai proventi dell’altra attività lavorativa, sempre che l’ente previdenziale sia informato preventivamente (ovvero, entro 30 giorni dal rinnovo/mancato rinnovo delle abilitazioni, nel caso di cd. “periodo neutro” ossia esclusivamente devoluto all’addestramento, come previsto dalle circolari INPS nella specifica materia) dell’avvio dell’attività lavorativa presso altro datore di lavoro, pena la decadenza dal diritto all’integrazione salariale. 7. Le circolari dell’ente previdenziale (n. 94 del 2011, n. 130 del 2010), poi, nelle parti riportate in ricorso e rilevanti in questa sede, in coerenza con la previsione legislativa, prevedono il divieto di cumulabilità di retribuzione e integrazione salariale, divieto che, per l’appunto, non è assoluto, essendo parametrato a “giornata di lavoro effettuata” e consentendo, quindi, l’integrazione tra le due provvidenze economiche fino alla concorrenza tra le somme integrabili corrisposte dall’Inps, sussistendo una incompatibilità assoluta
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solamente con riguardo a nuove attività lavorative a tempo pieno e senza prefissione di termine di durata. La espressa previsione di comunicazioni preventive è indispensabile per consentire all’Inps di verificare che l’attività di lavoro svolta sia compatibile con il perdurare della riscossione dell’integrazione salariale. 8. Nel caso della categoria peculiare del personale pilota, destinataria di specifici controlli concernenti la validità delle licenze e delle abilitazioni di volo che richiedono la periodica partecipazione a fasi di addestramento, sempre secondo le circolari vigenti in materia, la comunicazione preventiva è sostituita con l’autocertificazione, pur sempre necessaria per verificare la compatibilità con l’integrazione salariale sia sotto il punto di vista della durata (minima) dell’addestramento (che non trasmodi in rapporto di lavoro a tempo indeterminato) sia sotto quello della natura dei proventi ricossi. Invero, posto che l’attività vietata dal D.L. n. 86 del 1988, art. 8, è quella che, fonte di proventi economici, effettivamente si sostituisce alla prestazione di lavoro sospesa, rendendo così ingiustificata la permanenza del trattamento, nel caso dell’attività resa ai fini del rinnovo delle abilitazioni di volo l’obbligo di inoltro dell’autocertificazione consente all’Inps di verificare se l’attività prestata sia stata esclusivamente finalizzata al mantenimento delle predette abilitazioni e se i compensi percepiti avevano natura retributiva. 9. La ratio delle disposizioni, sia di quelli di fonte normativa (del D.L. n. 86 del 1988, art. 8, comma 4) che di quelli di mera attuazione interna all’ente previdenziale, è chiara: poichè la cassa integrazione guadagni costituisce una forma di assicurazione sociale a mezzo della quale il legislatore vuole garantire, in presenza di particolari vicende dell’impresa, un sostegno al reddito dei lavoratori (altrimenti irrimediabilmente compromesso), al contempo lo stesso legislatore vuole evitare indebiti arricchimenti a scapito delle finanze dello Stato. E, infatti, la percezione della c.i.g. da parte del lavoratore che percepisca anche altro reddito può integrare gli estremi del reato di truffa aggravata (cfr. Cass. nn. 6753 e 11186 del 1987, Cass. n. 9773 del 2009). 10. L’istituto è, invero, preordinato, secondo quanto prescritto dall’art. 38 Cost., ad eliminare la situazione di bisogno, socialmente rilevante, in cui si vengano a trovare i lavoratori in ipotesi in cui essi perdano in tutto o in parte il lavoro. E’ in tale prospettiva che, in questa ed in altre discipline analoghe (come l’indennità di disoccupazione e l’indennità di mobilità), si collocano quelle specifiche disposizioni normative che sono dirette a fissare i limiti entro cui i beneficiari di tali forme assistenziali possano svolgere attività di lavoro produttive di reddito, al fine di non sottrarre all’intervento previdenziale la sua giustificazione sociale. 11. In questo contesto si inserisce, dunque, l’obbligo della comunicazione (o della c.d. autocertificazione) di cui del D.L. n. 86 del 1988, art. 8, comma 5: il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione pre-
ventiva per evitare il cumulo delle provvidenze economiche. Nello stesso senso, l’autocertificazione prevista dalla circolare Inps per il personale di volo soggetto a periodici rinnovi delle abilitazioni, persegue lo scopo di consentire all’ente previdenziale la verifica del periodo di attività lavorativa e formativa svolta e la natura dei compensi. 12. La ratio della disposizione normativa è quella di consentire all’Inps la tempestiva verifica della compatibilità tra l’integrazione salariale e la prestazione lavorativa che il lavoratore si appresta a svolgere, ma non va sottaciuta anche l’ulteriore finalità di responsabilizzazione del percipiente, soprattutto nell’attuale momento storico che ha visto, come autorevole dottrina ha segnalato, un progressivo “aumento a pioggia” degli interventi di tipo assistenziale, con conseguente rilevante aggravio per la finanze pubbliche. 13. La suddetta interpretazione trova conferma negli orientamenti giurisprudenziali. 14. Il giudice delle leggi, invero – verificando la questione di legittimità costituzionale della L. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1, comma 118, in relazione al parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost., sollevata per aver trascurato, il legislatore, l’identità di condizioni tra il lavoratore disoccupato e il lavoratore in cassa integrazione guadagni straordinaria – ha precisato (Corte Cost 5.12.2019 n. 256, che richiama, altresì, Corte Cost. 184 del 2000) che anche in caso di fruizione di trattamento straordinario di integrazione salariale “a zero ore”, il rapporto di lavoro, ancorchè sospeso nei suoi principali obblighi sinallagmatici, concernenti la prestazione lavorativa e la retribuzione, sostituita dalla prescritta indennità a carico dell’INPS, continua a produrre altri effetti ed obblighi, quali: la computabilità, ai sensi dell’art. 2120 c.c., comma 3, nella retribuzione utile ai fini della determinazione del trattamento di fine rapporto dell’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro; il riconoscimento della valenza previdenziale del periodo di sospensione dal lavoro tramite l’istituto della contribuzione figurativa, calcolata sulla base della retribuzione globale cui è riferita l’integrazione salariale; il mantenimento degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 5 marzo 2008, n. 5929 e 5 agosto 2004, n. 15129). La Corte Costituzionale ha, inoltre, evidenziato la funzione svolta dalla c.i.g.s., che presuppone la prospettiva della ripresa dell’attività lavorativa, e il mantenimento a questo fine del rapporto di lavoro. 15. Questa Corte (Cass. n. 6712 del 1995) ha affermato che del D.L. n. 86 del 1988, art. 8, comma 4 – letto in combinato disposto con il D.Lgs. n. 788 del 1945, art. 3, comma 2, in virtù del quale la c.i.g. non può essere “ corrisposta a quei lavoratori che durante le giornate di riduzione del lavoro si dedichino ad altre attività remunerate” – consente di affermare che
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il divieto di cumulo tra il beneficio della integrazione salariale e emolumenti retributivi seppur non forma oggetto di espressa statuizione, è desumibile dalla “ratio” della vigente normativa. Tale ratio è stata più volte ribadita da pronunce di questa Corte Suprema (ex multis Cass. n. 4419 del 1993; Cass. n. 12487 del 1992; Cass. n. 3901 del 1991) nel senso del divieto di cumulo fino alla concorrenza tra le somme integrabili corrisposte dall’INPS e proventi di altre attività, in concreto espletate e remunerate, sia subordinate che autonome (con conseguente compatibilità di un rapporto di lavoro a tempo parziale con altri rapporti di lavoro parimenti a tempo parziale; cfr. altresì sul punto Cass. n. 11150 del 1992, dovendosi far riferimento alla “giornata di lavoro effettivo”). 16. Nello stesso senso, Cass. n. 10755 del 1990, ha precisato che dette norme debbono essere interpretate in conformità ai principi dettati dagli artt. 36 e 38 Cost., “nel senso che lo svolgimento di attività lavorativa remunerata, sia essa subordinata od autonoma, durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all’integrazione salariale comporta non la perdita del diritto all’integrazione per l’intero periodo predetto ma solo una riduzione dell’integrazione medesima in proporzione ai proventi di quell’altra attività lavorativa”. 17. Più recentemente, Cass. n. 26520 del 2013 (nonchè Cass. n. 13577 del 2011; Cass. n. 14196 de 2010; Cass. n. 5720 del 2009; Cass. n. 4004 del 2007; Cass. n. 173 del 2006; Cass. n. 11679 del 2005; Cass. nn. 15890 e 5019 del 2004) ha ribadito l’orientamento in materia di decadenza del lavoratore dal trattamento di cassa integrazione, nel caso in cui si ometta di comunicare preventivamente all’Inps lo svolgimento di attività lavorativa, rilevando che il D.L. n. 86 del 1988, art. 8, ammette la possibilità per il lavoratore in cassa integrazione di svolgere attività di lavoro autonomo o subordinato, senza però mantenere per le giornate remunerate il diritto a tale trattamento, ma lo obbliga a comunicare preventivamente all’INPS lo svolgimento di tali attività, pena, appunto, la decadenza dal trattamento stesso. 18. In particolare, questa Corte – ponendo attenzione alla finalità della decadenza, ossia di consentire all’INPS la corretta gestione dell’integrazione salariale prevenendone l’indebita erogazione e favorendo i necessari controlli per ridurre l’area del lavoro nero – ha precisato: che l’obbligo di comunicazione preventiva a carico del lavoratore interessato sussiste anche se la nuova occupazione dia luogo ad un reddito compatibile con il godimento del trattamento di integrazione salariale (Cass. n. 5019, del 2004); che essa riguarda ogni attività di lavoro autonomo (oltre che subordinato), anche non riconducibile allo schema contrattuale di cui agli art. 2222 c.c. e segg. e artt. 2230 c.c. e segg. (Cass. n. 11679 del 2005) e anche se svolta nell’ambito della partecipazione ad un’impresa, e ancora, più in generale, qualunque attività potenzialmente remunerativa,
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pur se in concreto non abbia prodotto alcun reddito e pur se l’ente previdenziale ne abbia avuto comunque tempestiva notizia da parte del nuovo datore di lavoro, o aliunde (Cass. n. 2788 del 2001). 19. L’ulteriore attività svolta non deve avere il carattere della “prevalenza”, in quanto tale requisito non è previsto dalla norma, con la conseguenza che va esclusa la necessità di ogni indagine giudiziale in ordine all’impegno temporale del lavoratore nell’attività svolta nei periodi di cassa integrazione, ovvero all’apporto economico di tale attività rispetto al totale dei redditi percepiti nel periodo (Cass. n. 8490 del 2003; Cass. n. 15890 del 2004), e neppure rileva che essa non sia soggetta a contribuzione (Cass. n. 2788 del 2001). 20. Insomma, l’ambito delle attività soggette alla comunicazione preventiva è individuato da questa Corte nel suo significato più ampio: l’attività lavorativa è intesa come insieme di condotte umane caratterizzate dall’utilizzo di cognizioni tecniche (anche se del genere più vario e della più diversa complessità), che siano obiettivamente idonee a produrre reddito. Vi rientrano, pertanto, tutte le attività qualificabili come lavorative nel senso sopra precisato (implicanti l’impiego di una professionalità, per quanto minima, e potenzialmente redditizie), senza che assuma rilievo la forma negoziale nella quale esse siano svolte (Cass. n. 2788 del 2001, che richiama il generico riferimento della legge all’attività lavorativa, come dato sostanziale, piuttosto che al dato formale del contratto di lavoro) o la loro effettiva remunerazione, rilevandone la sola potenziale “redditività”. 21. Ebbene, così inquadrato il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, nel caso di specie la Corte territoriale ha rilevato che il lavoratore non aveva inoltrato, al datore di lavoro e all’Inps, alcuna comunicazione preventiva nè alcuna autocertificazione. Ha esaminato l’offerta di lavoro ricevuta dal R. e funzionale ad un periodo di addestramento ai fini del conseguimento di una diversa abilitazione di volo (licenza di volo araba (Omissis), rispetto a quella posseduta, cui doveva fare seguito presso la compagnia aerea saudita l’assunzione, che però non era avvenuta per non essere stata conseguita la licenza richiesta; la Corte ha sottolineato, inoltre, che non era stata effettuata alcuna attività di volo; ha concluso che, anche considerando “periodo neutro” l’attività espletata a favore della diversa compagnia aerea, del pari nessuna comunicazione preventiva era dovuta al datore di lavoro, mancando un mutamento di status così come richiesto dalla direttiva aziendale del 16.4.2013, mentre per ciò che concerneva la comunicazione all’INPS, il lavoratore non poteva essere licenziato per una errata interpretazione della circolare. 22. La sentenza impugnata non si è conformata, però, in relazione alla contestazione disciplinare che ha incentrato l’addebito disciplinare (anche) sulla omessa comunicazione tempestiva dello svolgimento di attività
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lavorativa regolarmente remunerata, ai principi espressi da questa Corte, che – come ampiamente riassunto – interpreta in maniera rigorosa gli obblighi informativi previsti dal D.L. n. 86 del 1988, art. 8, comma 5 e individua l’ambito delle attività soggette alla comunicazione preventiva nel suo significato più ampio quale attività lavorativa intesa come insieme di condotte umane caratterizzate dall’utilizzo di cognizioni tecniche (anche se del genere più vario e della più diversa complessità) che siano obiettivamente idonee a produrre reddito. 23. Sotto tale profilo, la Corte territoriale ha dato atto della esecuzione, da parte del lavoratore: a) della proposta contrattuale di lavoro ricevuta dalla compagnia aerea della Saudi Arabian Airlines; b) della riscossione di emolumenti retributivi (di cui non ha approfondito le relative componenti, nonostante questa Corte abbia elaborato precisi criteri di distinzione tra retribuzione e rimborsi spese, cfr. Cass. n. 12138 del 2011 e Cass. n. 15360 del 2002, ove si precisa che quando l’erogazione di denaro è connessa all’espletamento di attività funzionale alla vera e propria prestazione essa ha natura retributiva), senza la sospensione degli strumenti di sostegno al reddito erogati dallo Stato italiano; c) della previsione della necessità di una comunicazione a datore di lavoro ed ente previdenziale (quantomeno in forma di autocertificazione, a sua volta sottoposta ad un preciso termine di inoltro, anche in caso di esito negativo dell’addestramento); d) della espressa previsione, nella disposizione aziendale 16.4.2013, dell’obbligo di comunicazione di cambiamenti di status. Ha, però, poi in sostanza, ritenuto insussistente (nell’accezione di giuridicamente irrilevante) la condotta omissiva tenuta dal lavoratore, con ciò non conformandosi all’orientamento di questa Corte che rinviene la “insussistenza del fatto contestato” solamente ove lo stesso (pur materialmente sussistente) sia privo del carattere di illiceità (cfr. Cass. n. 3655 del 2019, Cass. n. 13383
del 2017, Cass. n. 20540 del 2015), restando estranea alla fattispecie la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, come nel caso di specie, ove – ferma la sussistenza del fatto contestato – è stata ravvisata, per concedere la tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, una errata interpretazione della circolare INPS, in ordine alla eventuale indebita percezione dell’indennità di integrazione salariale in presenza di altri redditi e ove è stato ritenuto assente l’obbligo informativo, nei confronti del datore di lavoro, sulla base di una errata nozione di attività lavorativa, quando, invece, era necessario operare, in ogni caso, anche in assenza di giusta causa, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed il comportamento dimostrato: accertamento che, in caso negativo, avrebbe dovuto indurre a ravvisare, se del caso, le “altre ipotesi” di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria forte (Cass. n. 31529 del 2019). 24. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso va accolto per quanto di ragione in relazione alla denunciata violazione del D.L. n. 86 del 1988, art. 8, commi 4 e 5, convertito nella L. n. 160 del 1988; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Milano, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame, attendendosi ai principi sopra esposti e provvederà altresì alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano (Omissis)
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Attività di lavoro durante la Cassa integrazione fra regole previdenziali e rapporto di lavoro Sommario :
1. Il caso. – 2. Le argomentazioni della sentenza. – 3. Gli obblighi del lavoratore nell’ambito del rapporto previdenziale di integrazione salariale e quelli nell’ambito del rapporto di lavoro. – 4. Le conclusioni sulla (il)legittimità del licenziamento.
Sinossi. La sentenza in commento riguarda la legittimità del licenziamento di un lavoratore (pilota dipendente da compagnia aerea) che aveva omesso di informare sia l’Istituto previdenziale sia il datore di lavoro dello svolgimento, presso altra compagnia aerea, di attività remunerata di tirocinio e addestramento. La sentenza, senza considerare espressamente il problema del rapporto fra obblighi di carattere previdenziale e obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, considera illecita la mancata informazione, e dunque sussistente il fatto contestato, demandando al giudice di rinvio l’accertamento della proporzionalità fra comportamento illecito e sanzione. Abstract. This ruling concerns the legitimacy of the dismissal of an employee (a pilot employed by an airline company) who had failed to inform both the Social Security Institution and the employer of the fact that he was carrying out paid internship and training activities at another airline company. The ruling, without expressly considering the problem of the relationship between social security obligations and obligations deriving from the employment relationship, considers the failure to inform unlawful, and therefore the contested fact existed, leaving it to the referring judge to ascertain the proportionality between the unlawful conduct and the sanction.
1. Il caso. Il caso deciso dalla Corte di Cassazione riguarda un pilota di una compagnia aerea italiana che, nel periodo in cui lo stesso era stato collocato in Cassa integrazione (si trattava di Cassa straordinaria a rotazione) aveva partecipato – senza darne notizia né all’INPS, né al proprio datore di lavoro – ad un processo di addestramento, di carattere esclusivamente teorico e tuttavia remunerato, a favore di una compagnia aerea araba, in vista di una possibile assunzione presso quest’ultima, che peraltro non aveva avuto seguito, non avendo il pilota conseguito la licenza di volo araba. La compagnia datrice di lavoro, venuta a conoscenza del fatto in virtù del verbale di accertamento con il quale l’INPS aveva rilevato la irregolarità ai fini del diritto alla prestazione previdenziale (erogata dall’INPS medesimo e dal Fondo speciale per il trasporto aereo), aveva proceduto ad una contestazione disciplinare, il cui tenore è riportato per intero dalla sentenza in commento. Risulta perciò che
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al pilota era stata contestata – tanto con riferimento al rapporto di lavoro in essere e agli obblighi dallo stesso derivanti, quanto con riferimento alla posizione di soggetto percettore di indennità di sostegno al reddito – da un lato la mancata, tempestiva comunicazione dello svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di Cassa integrazione, e dall’altro lato il continuato incasso del trattamento integrativo di sostegno al reddito, così da porre in essere un comportamento truffaldino finalizzato ad indurre in inganno il datore di lavoro e a percepire somme cui il lavoratore stesso non aveva diritto. La compagnia, respinte le giustificazioni, aveva intimato il licenziamento per giusta causa. Nell’impugnare giudizialmente il licenziamento, il lavoratore aveva posto l’accento: sul fatto che quella da lui svolta non poteva considerarsi come attività lavorativa in senso proprio (tale da far scattare gli obblighi e le preclusioni della disciplina previdenziale), sul fatto che si era trattato di un mero tirocinio teorico, e che nessuna assunzione era poi seguita presso la compagnia aerea araba. Argomenti, questi, che entrambi i giudici di merito avevano in sostanza accolto, da un lato escludendo che fosse stato provato il fatto contestato (cioè lo svolgimento di attività lavorativa preclusa), dall’altro lato qualificando come “neutro” il periodo in questione, in quanto finalizzato esclusivamente al mantenimento delle licenze e dell’abilitazione al volo, donde l’insussistenza di obblighi di preventiva comunicazione e la cumulabilità del trattamento di integrazione con quanto percepito durante il periodo di addestramento. La compagnia aerea ha proposto ricorso per cassazione denunciando essenzialmente la violazione della normativa concernente gli obblighi di comunicazione circa lo svolgimento di attività lavorativa durante la Cassa integrazione, e la violazione dell’art. 2119 c.c., essendo a suo avviso rilevante, ai fini della presenza di giusta causa, la oggettiva percezione, nel periodo di sospensione, di altro reddito, a prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro che quel reddito giustifichi.
2. Le argomentazioni della sentenza. La sentenza in commento accoglie il ricorso della compagnia aerea. Lo fa con una serie di argomentazioni articolate e puntuali circa la disciplina relativa alla Cassa integrazione e agli obblighi di comunicazione circa lo svolgimento di attività lavorative diverse. Meno chiara mi sembra la reciproca relazione fra obblighi sul fronte previdenziale e obblighi concernenti il rapporto di lavoro, questi ultimi decisivi ai fini dell’accertamento della giusta causa di licenziamento. Ma procediamo con ordine. La ricostruzione della disciplina previdenziale è, come detto, articolata e puntuale, e ad essa si può fare rinvio. In sintesi, l’art. 8, commi 4 e 5 del d.l. n. 86/1988, convertito nella l. n. 160/1988 stabilisce il principio della cumulabilità solo parziale tra integrazione salariale e altre attività lavorative remunerate. Non vi è dunque una incompatibilità assoluta fra il trattamento di integrazione e la remunerazione di altre attività, posto che queste ultime determinano – salvo che non siano a tempo pieno e indeterminato – non la perdita del trattamento previdenziale, ma una semplice riduzione dello stesso con riguardo alle giornate di lavoro effettivamente svolte, e fino a concorrenza della relativa remunerazione Anche ove
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vi sia astratta compatibilità, peraltro, è necessaria una preventiva comunicazione all’ente previdenziale circa l’inizio delle diverse attività lavorative, onde consentire all’ente stesso di svolgere i necessari controlli proprio sulla parziale compatibilità. Nella specifica disciplina del personale pilota, poi, occorre tener conto degli obblighi, ben comprensibili, di periodica partecipazione a fasi di addestramento al fine di conservare le prescritte abilitazioni al volo. Partecipazione che, se non richiede la preventiva comunicazione all’INPS, impone tuttavia una specifica autocertificazione (come previsto dalle circolari INPS per il personale di volo n. 94/2011 e n. 130/2010), anch’essa in funzione di una verifica circa la finalizzazione o meno dell’attività prestata al mantenimento delle abilitazioni per il volo o invece circa il suo carattere di vera e propria prestazione corrispettiva. Non è difficile, pertanto, l’individuazione, fatta dalla Cassazione, della ratio di questa disciplina: quella di evitare indebiti arricchimenti a vantaggio di chi goda di trattamenti pubblici di sostegno al reddito, arricchimenti che potrebbero addirittura integrare il reato di truffa. Tanto la preventiva comunicazione, quanto l’autocertificazione propria della disciplina specifica per i piloti, hanno dunque la finalità di consentire i controlli, oltre che, aggiunge la Corte, quella di responsabilizzare il percipiente. La Cassazione, dopo un inciso (il par. 14) sul quale si ritornerà più avanti circa il permanere dell’obbligo di fedeltà durante il periodo di integrazione salariale, ripercorre in modo esaustivo e convincente la propria precedente giurisprudenza sull’ambito di applicazione dell’obbligo di preventiva comunicazione (e, mutatis mutandis, su quello di preventiva autocertificazione). Un ambito individuato in modo assai ampio, avendo esso riguardo ad ogni attività lavorativa – non necessariamente legata ad un contratto di lavoro – che sia produttiva di un reddito, ancorché compatibile con il trattamento di integrazione salariale (secondo quella cumulabilità parziale sopra ricordata); di più: ad ogni attività lavorativa anche solo potenzialmente remunerativa, ancorché in concreto non produttiva di reddito. La conclusione è che sono oggetto di comunicazione preventiva (e di autocertificazione) le «condotte umane caratterizzate dall’utilizzo di cognizioni tecniche (anche se del genere più vario e della più diversa complessità) che siano obiettivamente idonee a produrre reddito». Alla luce di questa condivisibile nozione assai ampia di attività lavorativa con obbligo di comunicazione (e di autocertificazione), la Cassazione giudica irrilevanti le giustificazioni, accolte dal giudice d’appello, circa la insussistenza di un nuovo rapporto di lavoro, sia durante lo svolgimento dell’addestramento, sia in esito ad esso, con conseguente esclusione della rilevanza della disposizione aziendale che prevedeva l’obbligo di comunicazione dei soli cambiamenti di status in senso proprio. Dopodiché, passando – forse un po’ bruscamente – alla questione della legittimità del licenziamento, essa imputa al giudice d’appello di avere erroneamente ritenuto insussistente il fatto contestato, laddove invece, il fatto medesimo (l’omessa comunicazione) era da considerarsi come materialmente sussistente e semmai da valutare sul piano della proporzionalità, con applicazione delle «altre ipotesi» di cui al comma 5 dell’art. 18 St.: ciò anche ove fosse stata accertata, come il lavoratore aveva sostenuto, una erronea interpretazione della circolare INPS (circa i redditi incompatibili con l’integrazione salariale) e una altrettanto erronea interpretazione della disciplina aziendale circa l’ambito di applicazione dell’obbligo di comunicazione.
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Da ciò l’accoglimento del ricorso con rinvio, per la possibile applicazione del comma 5 dell’art. 18 St. e della tutela indennitaria ivi prevista.
3. Gli obblighi del lavoratore nell’ambito del rapporto
previdenziale di integrazione salariale e quelli nell’ambito del rapporto di lavoro. La sentenza in commento, come visto, argomenta in modo esaustivo circa le condizioni alle quali è ammesso il (parziale) cumulo fra integrazione salariale e compensi acquisiti in base ad altre attività lato sensu di lavoro. Lascia invece un po’ in ombra il problema del rapporto fra obblighi del lavoratore nell’ambito del rapporto previdenziale e obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, dando forse per scontata la reciproca interferenza, né sembra tenere nel dovuto conto il tenore della contestazione disciplinare (pur riportata per esteso), cioè dell’atto che, in tema di licenziamento disciplinare, delimita la materia oggetto del contendere, fissando immutabilmente gli addebiti sui quali poi si basa il provvedimento espulsivo e la sua successiva valutazione da parte del giudice. Come sopra anticipato, al par. 14 la sentenza, dopo aver richiamato due pronunce della Corte costituzionale sul significato del permanere del rapporto di lavoro in costanza di sospensione per Cassa integrazione, non manca di precisare che quel rapporto, pur sospeso nei suoi principali obblighi sinallagmatici (di lavorare e di retribuire), continua a produrre effetti, fra i quali, oltre al computo del periodo di integrazione ai fini del trattamento di fine rapporto e all’utilizzazione del parametro retributivo ai fini della contribuzione figurativa, si segnala il permanere dell’obbligo di fedeltà. Una conclusione, questa, assolutamente corretta, che fa giustizia di una espressione – quella della sospensione tout court del rapporto – talora usata in modo improprio, posto che taluni obblighi permangono intatti. Ma al giusto richiamo all’obbligo di fedeltà come ad uno di questi obblighi, che non viene meno in caso di intervento della Cassa integrazione, la Cassazione non sembra far derivare specifiche conseguenze. In particolare, non sembra imputare alla sua violazione la legittimità del licenziamento. Sia chiaro: il giudizio di cassazione è un giudizio che viaggia su binari rigidi, e se certi profili di censura della sentenza impugnata non si traducono in specifici motivi di ricorso, la Corte non se ne può occupare. Ma, con tutte le cautele del caso (legate alla mancata conoscenza degli atti processuali), la possibile rilevanza della violazione dell’art. 2105 c.c., seppure in modo indiretto, avrebbe potuto essere considerata se non altro al fine di perimetrare gli obblighi sul piano previdenziale rispetto a quelli derivanti dal rapporto di lavoro, e al fine di convalidare o meno – nel prisma dell’art. 2119 c.c. – la lettura che i giudici di merito avevano dato della stessa contestazione di addebito. Contestazione nella quale lo svolgimento di «attività lavorativa remunerata a favore di altro vettore aereo» era stato ben dedotto, anche se quasi a premessa dei comportamenti, poi specificatamente descritti, di omessa, tempestiva comunicazione e di perdurante fruizione del trattamento di integrazione salariale nonostante lo svolgimento di altra attività lavorativa remunerata. La precisazione di cui sopra avrebbe potuto portare a separare la sfera dell’illecito previdenziale da quella dell’illecito disciplinare: il primo fondato sullo svolgimento, in
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costanza di trattamento previdenziale, di una attività remunerata, dove quel che conta non è la tipologia contrattuale ma la remunerazione in sé (che non può cumularsi con l’integrazione salariale); il secondo fondato su un’attività anch’essa non specificata quanto a tipologia negoziale, ma avente come caratteristica finalità quella della concorrenza al datore di lavoro, che come tale viene inibita. D’altra parte, non sembra si debbano mobilitare particolari argomenti per rilevare come una cosa è l’obbligo (previdenziale) di non procurarsi, in costanza di trattamento integrativo, altre remunerazioni, altra cosa è il vincolo a non svolgere attività in concorrenza. Il primo è fondato sull’interesse pubblico a destinare risorse per la garanzia di tutele adeguate alle esigenze di vita in caso di bisogno (art, 38 Cost., comma 2). Il secondo soddisfa l’interesse privato del datore di lavoro a non subire attività in concorrenza da parte di chi sia al tempo stesso suo dipendente. Sembra perciò difficile non riconoscere che gli obblighi di preventiva comunicazione (o autocertificazione) siano finalizzati, come sopra visto, ad un meccanismo di controllo a tutela, essenzialmente, dei primi fra gli interessi di cui sopra, cioè a quelli pubblici rappresentati dall’ente previdenziale. Il fatto è, peraltro, che nella controversia specifica, era stato lo stesso datore di lavoro a mescolare i due piani. Pur premettendo, nella contestazione (come visto), il riferimento allo svolgimento di attività lavorativa a favore di altro vettore aereo (donde la possibile, ancorché non dettagliata, violazione dell’art. 2105 c.c.), egli aveva dapprima imputato al lavoratore la mancata comunicazione (anche nei confronti dell’INPS) dello svolgimento di altra attività lavorativa, per poi addirittura atteggiarsi a difensore, in luogo dell’istituto previdenziale, degli interessi pubblici a non corrispondere trattamenti non dovuti. Il richiamo al comportamento truffaldino, infatti, non mi pare potesse avere particolare significato dal punto di vista del datore di lavoro che, anche in caso di anticipo da parte sua del trattamento di integrazione (come sembra fosse nel caso di specie, pur trattandosi di Cassa integrazione straordinaria), non avrebbe subìto danni, almeno in linea di principio, ove il trattamento si fosse in seguito rivelato indebito. E suona un poco strano che il datore di lavoro potesse per suo conto qualificare come illegittime le somme percepite, posto che un tale giudizio sarebbe stato di competenza dell’ente previdenziale (nell’ambito del relativo rapporto giuridico), in esito alla verifica affidata solo a quest’ultimo. Senza contare che nel caso specifico dei piloti di aereo, la disciplina speciale ben ammette lo svolgimento di attività di addestramento (anche retribuita), al fine di mantenere la licenza: il che avrebbe forse spostato la questione sulle caratteristiche dell’attività svolta in concreto, da confermarsi, in ipotesi, come illecita perché indirizzata non a mantenere la licenza nonostante la sospensione dell’attività di lavoro, ma a conseguirne una di nuova, da utilizzare poi con il nuovo vettore aereo, epperò da collocare, proprio per questo, nel cono della violazione dell’obbligo di fedeltà. Se dunque, in astratto, i due profili – quello previdenziale e quello del rapporto – vanno tenuti distinti, non si può negare, tuttavia, che possano profilarsi delle interferenze: in concreto e in astratto. La prima (in concreto) la si può ricavare da un passaggio della sentenza (par. 23) nel quale, riportando un’affermazione della pronuncia di appello, la Cassazione fa cenno ad una «disposizione aziendale 16.4.2013» concernente l’obbligo di comunicazione anche al datore di lavoro dei «cambiamenti di status». Non è dato capire quale rilevanza sia stata
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assegnata nel corso del processo (e in particolare in sede di giudizio di legittimità) a questo obbligo (contrattuale), certamente disatteso dal lavoratore. Ma, al di là dei problemi e delle preclusioni processuali, mi pare si possa affermare che un simile obbligo, se previsto (come nel caso di specie in un regolamento aziendale) costituisce un punto di contatto fra la sfera previdenziale e quella del rapporto. Nel momento in cui all’obbligo di comunicazione all’INPS (a tutela di interessi pubblici) si affianca l’obbligo di comunicazione al datore di lavoro circa lo svolgimento di altra attività lavorativa in corso di integrazione salariale, si deve ammettere che la violazione anche di quest’ultimo possa produrre conseguenze sul piano del rapporto. Nel caso di specie, peraltro, con il limite stabilito dalla stessa disposizione aziendale, e cioè in presenza non di una qualsivoglia attività lavorativa (com’è per l’obbligo informativo nei confronti dell’INPS), ma di quell’attività che comporti un mutamento di status, e dunque con carattere tendenzialmente stabile ed esclusivo. La seconda interferenza (in astratto) è di carattere più generale, anche se, a ben vedere, generica. Mi riferisco a quella risalente, e scarsa, giurisprudenza di merito che ha ritenuto la mancata comunicazione all’INPS circa lo svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di sospensione come elemento sufficiente per compromettere il vincolo fiduciario costituito con il rapporto di lavoro. La tesi mi sembra forzata. Quanto meno è da escludere ogni automatismo fra violazione di obblighi previdenziali e venir meno della fiducia nell’ambito del rapporto, essendo pur sempre necessaria una valutazione specifica circa la rilevanza dell’obbligo previdenziale e circa il peso della sua violazione nell’ambito del rapporto di lavoro: non a caso la stessa Cassazione, in un caso in qualche modo comparabile, ha recentemente escluso la legittimità del licenziamento intimato per mancato, tempestivo invio all’ente previdenziale del certificato di malattia a fronte di una malattia effettiva (Cass. n. 18858/2016). In questa prospettiva la violazione dell’obbligo previdenziale di informazione assume rilevanza preponderante e finisce per assorbire la questione. Né sembra che la stessa trovi una sua spiegazione in un diretto interesse del datore di lavoro alla corretta attuazione del rapporto previdenziale derivante dall’essere egli anticipatario del trattamento di Cassa integrazione (come nel caso di specie). Ed infatti, il suo interesse è meramente eventuale e di fatto, per il caso in cui – accertato l’indebito previdenziale – egli sia costretto a recuperare le somme anticipate indebitamente dal lavoratore.
4. Le conclusioni sulla (il)legittimità del licenziamento. La sentenza in commento non prende espressa posizione sui problemi segnalati circa autonomia e interferenze fra i due piani, previdenziale e del rapporto contrattuale. Ma allorché nelle conclusioni essa rimprovera alla pronuncia d’appello di non aver dato agli obblighi informativi (previdenziali) il più ampio significato possibile – di condotta umana caratterizzata dall’utilizzo di cognizioni tecniche obiettivamente idonee a produrre reddito – sposa la tesi della reciproca interferenza, rectius, la tesi della necessaria ricaduta della violazione dell’obbligo previdenziale sul rapporto di lavoro. La violazione dell’autonomo obbligo (contrattuale) di comunicazione (oltre che all’INPS, anche) al datore di lavoro sfuma del tutto, così come finisce per perdersi la possibile violazione dell’obbligo di fedeltà.
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Ma l’adozione di questa prospettiva – la violazione di un obbligo previdenziale che si traduce in un inadempimento anche contrattuale – non porta la Cassazione a rovesciare la sentenza di merito e a giudicare legittimo il licenziamento (o quanto meno a orientare il giudice di rinvio verso un tale esito). L’argomentazione, sopra analizzata, circa l’ampiezza dell’obbligo informativo (sul piano previdenziale, ma con implicita ricaduta sul rapporto di lavoro) serve alla Corte allo scopo di censurare la valutazione, fatta dal giudice d’appello, circa l’insussistenza del fatto contestato (in base alla quale quest’ultimo aveva disposto la tutela reintegratoria), lasciando aperta la soluzione nel giudizio di rinvio. In effetti, il giudice d’appello – per quel che si può capire dalla sentenza di legittimità – era incorso nell’errore, non infrequente nella giurisprudenza di merito, di sovrapporre il nuovo requisito della insussistenza del fatto contestato al vecchio requisito della mera assenza di giustificazione: un’interpretazione, questa, che si rifiuta di metabolizzare la profonda modifica dell’art. 18 St. e la nuova prospettiva della ingiustificatezza c.d. qualificata che, sola, può garantire ancora la reintegrazione nel posto di lavoro. La Cassazione corregge l’errore, esigendo per l’applicazione della tutela reale non la insussistenza del fatto dal punto di vista materiale (tesi dottrinale orami isolata), ma la insussistenza di profili di illiceità del comportamento. Situazione, quest’ultima, non ricorrente nel caso di specie, per tutto quanto argomentato dalla Corte circa l’ampiezza dell’obbligo di informazione violato dal lavoratore sulla base di una nozione ristretta (e perciò errata) di attività lavorativa soggetta all’obbligo informativo di cui alla disciplina previdenziale dell’integrazione salariale. La questione viene perciò ricondotta al tema della proporzionalità tra il fatto sussistente e la sanzione da applicare, per una illiceità, peraltro, che la Corte si sbilancia a qualificare come «modesta». Non sarà che questa possa essere considerata come una invasione di campo, nel territorio, riservato al giudice di merito, della valutazione di proporzionalità del comportamento inadempiente del lavoratore, ma poco ci manca. D’altra parte, non può non lasciare qualche perplessità la complessa ricostruzione dell’obbligo informativo, fondato sulla tutela di rilevanti interessi pubblici a non erogare trattamenti previdenziali in assenza di reale bisogno (e addirittura con mezzi truffaldini), se poi la lesione di quegli interessi viene degradata a illiceità modesta. A meno che la apparente contraddizione non si spieghi proprio sul piano degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, dove sono in gioco solo interessi privati: è su questo piano, infatti, che la violazione degli obblighi informativi (ove previsti, come nel caso di specie, anche nei confronti del datore di lavoro) potrebbe qualificarsi come illiceità solo modesta. Con il che, però, la sentenza rimarrebbe affetta da una sottile contraddizione interna, con la enfatizzazione dell’obbligo violato e però la minimizzazione delle sue conseguenze sanzionatorie. Non sarà facilissimo il compito del giudice di rinvio, stretto fra l’accertamento non più revocabile della violazione di un obbligo in capo al lavoratore descritto come “pesante” e l’indicazione di una possibile conseguenza sanzionatoria di notevole favore per il lavoratore medesimo, il quale potrebbe comunque acquisire definitivamente l’accertamento della illegittimità del licenziamento. Carlo Cester
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Giurisprudenza Tribunale di Brescia, sentenza 17 aprile 2018; G.L. S. Mossi – V. N. (avv. M. Piccinelli e R. Ferrara) c. Istituti Ospedalieri Bresciani S.p.A. (avv. M. Lascioli). Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità
La trasmissione a mezzo p.e.c. da parte del difensore del lavoratore della copia della impugnativa del licenziamento mediante scansione del documento cartaceo, ricevuta regolarmente dal datore di lavoro, integra il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 6 della legge 604/66.
Svolgimento del processo. Con ricorso depositato il 16 marzo 2017 V. N. ha proposto opposizione avverso l’ordinanza con cui il tribunale decidendo sul ricorso ex art. 1 co 47 legge 92/2012 proposto dallo stesso per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera del 30.05.2015 dalla società convenuta, susseguente a contestazione disciplinare del 27.04.2015, ne aveva dichiarato l’inammissibilità. (Omissis) Motivi della decisione. La convenuta ha eccepito in via preliminare la decadenza dall’impugnativa del licenziamento ex art 6 l.604/1966 per la carenza di una valida impugnazione da parte del lavoratore. In proposito, risulta dalla documentazione in atti che il difensore del lavoratore ha provveduto a inoltrare a mezzo pec la scansione della copia cartacea dell’atto di impugnativa del licenziamento sottoscritta dal lavoratore all’indirizzo di posta elettronica certificata del datore di lavoro. La società convenuta ha sostenuto che l’atto di impugnativa stragiudiziale del licenziamento, quando posto in essere con modalità tradizionali (id est analogiche = cartacee), deve esserlo – a pena di nullità – nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata e che quando, invece, venga posto in essere con modalità digitali, trova applicazione l’art. 21, comma 2-bis, del ca. che prescrive: (Omissis) le scritture private di cui all’articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12, del codice civile, se fatte con documento informatico, sono sottoscritte, a pena di nullità, con firma elettronica qualificata o con firma digitale. Gli atti di cui all’articolo 1350, numero 13), del codice civile soddisfano comunque il requisito della forma scritta se sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale.’ Tale impostazione, peraltro, non è condivisibile.
In primo luogo, va osservato come l’art. 6 della legge 604 del 1966 che stabilisce l’onere della impugnativa del licenziamento entro il termine perentorio di 60 giorni a pena di decadenza preveda che l’impugnativa stragiudiziale possa essere effettuata con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore senza l’adozione di formule sacramentali. Alla luce dei principi generali che regolano l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, dunque, vi è piena libertà di forma nella predisposizione della impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore purché sia osservato il requisito della forma scritta; non è invece previsto da alcuna disposizione normativa che l’impugnazione del licenziamento debba avvenire nella forma solenne dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, forma che richiederebbe, ogni volta che il lavoratore provvede a contestare per iscritto il licenziamento che la sottoscrizione apposta alla lettera di licenziamento sia quantomeno autenticata da un pubblico ufficiale ovvero altro soggetto pubblico autorizzato. Risulta, dunque, non conferente con il caso concreto il richiamo effettuato dalla difesa della parte convenuta alle norme della legge n. 82 del 2005 capo ii in tema di documenti informatici e di firme elettroniche (art. 21 e art. 22), espressamente applicabili anche ai rapporti tra privati, atteso che, come detto, non è affatto necessario che l’impugnazione del licenziamento del lavoratore avvenga a mezzo di un atto avente piena efficacia a norma dell’art. 2702 c.c. e seguenti. Come noto, infatti, il d.lgs. 82 del 2005, nell’operare un distinguo tra la valenza probatoria dei ‘documenti informatici’ e delle ‘copie informatiche di documenti analogici’ (art. 21,22 e 23) detta le condizioni e i presupposti giuridici in presenza dei quali i documenti informatici trasmessi a mezzo pec rivestono piena efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2702 c.c. ovvero le copie informatiche di documenti analogici acquistano piena efficacia ai sensi degli art.li 2714 e 2715 c.c.. Per di più, la norma richiamata dalla difesa della convenuta (art. 21) attiene a fattispecie del tutto dif-
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ferente da quella oggetto del presente giudizio atteso che Essa si riferisce al ‘documento informatico’ che nasce come tale e che è sottoscritto con firma elettronica laddove nel caso in esame è pacifico che di informatico vi è stata soltanto la comunicazione a mezzo pec da parte del difensore della copia informatica della lettera di impugnazione del licenziamento precedentemente emessa in forma cartacea e recante la sottoscrizione del lavoratore. Del resto, nessuna contestazione risulta sollevata da parte della società convenuta in ordine alla ricezione della comunicazione pec del difensore del lavoratore e del relativo allegato mentre la perplessità manifestata in merito alla mancanza di certezza in ordine alla conformità della copia ricevuta della lettera di contestazione del licenziamento all’originale e all’autenticità della firma del lavoratore appare priva di rilievo e superata dal fatto che mai il lavoratore, unico
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di
soggetto che poteva avervi interesse siccome autore di quella dichiarazione, ha effettuato il disconoscimento della propria sottoscrizione o della paternità dell’atto che, anzi, ha provveduto personalmente a produrre in giudizio. In sintesi, è corretto affermare, per quanto esposto, che la trasmissione a pezzo posta elettronica certificata da parte del difensore del lavoratore della copia della impugnativa del licenziamento mediante scansione del documento cartaceo, ricevuta regolarmente dal datore di lavoro, integri pienamente il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 6 della legge 604/’66 con conseguente rigetto della eccezione di parte convenuta. (Omissis)
Monza , ordinanza 29 gennaio 2020; G.L. L. Rotolo – (Omissis)
Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità.
La trasmissione a mezzo p.e.c. dell’impugnativa di licenziamento certifica l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione, ma non può certificare la conformità degli atti allegati, che dovranno necessariamente essere sottoscritti digitalmente per assumere il valore di atto scritto.
Svolgimento del processo 1) Il ricorrente (Omissis) – dipendente della resistente (Omissis) dal 2/4/07 ed addetto all’ufficio logistica – contesta la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato con comunicazione del 15/4/2019, in quanto tra l’altro il fatto è manifestamente insussistente e vi è stata violazione dei criteri di scelta. Conclude il predetto chiedendo dichiararsi l’illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione in via gradata delle sanzioni di cui all’art. 18 L. 300/1970, così come meglio indicato nel ricorso. La resistente (Omissis) contesta le avverse deduzioni e domande, chiedendone il rigetto. In via preliminare la predetta eccepisce tra l’altro la decadenza dal diritto di agire in giudizio a causa della carenza dell’impugnativa di licenziamento. 2) In particolare la resistente evidenzia di aver ricevuto il 14/5/19 a mezzo PEC la scansione dell’impugnativa del licenziamento, sottoscritta solo dal lavoratore.
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Tale comunicazione è priva della sottoscrizione autografa e digitale del lavoratore, nonché della sottoscrizione digitale del difensore (doc. 11 ric.). Evidenzia la convenuta che tale lettera è inidonea a far salvo il termine di decadenza di 60 giorni (art. 6 L. 604/66), perché priva dei requisiti di forma di cui all’art. 2702 c.c., in subordine perché priva della sottoscrizione del lavoratore. Motivi della decisione. L’eccezione di decadenza dall’impugnativa del licenziamento appare fondata. L’art. 6 L. 604/66 conferisce al lavoratore personalmente – o anche per il tramite dell’organizzazione sindacale – la legittimazione ad impugnare il licenziamento. La giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto valida (sin da Cass. n. 2179/87 e fino alla recente sentenza n. 3139/2019) l’impugnativa del licenziamento fatta da un rappresentante del lavoratore investito del relativo potere mediante procura rilasciata in forma
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scritta, avente data certa anteriore alla scadenza del termine di decadenza. L’impugnazione richiesta è atto unilaterale a contenuto patrimoniale, per il quale la forma scritta vincolata è richiesta per mere esigenze di certezza. Naturalmente il soggetto impugnante è tenuto a rispettare la disciplina prevista per la modalità di impugnazione che ritiene liberamente di scegliere. Qualora si avvalga della scrittura privata, quest’ultima deve necessariamente recare la firma autografa prescritta dall’art. 2702 c.c. ai fini dell’efficacia della scrittura privata. La formazione e la trasmissione di documenti informatici e di copie informatiche di documenti analogici è disciplinata, per quanto qui interessa, dal D.L.vo 82/2005 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD, il cui testo vigente è il risultato di numerosi interventi di modifica: D.Lvo 179/16, D.Lvo 217/17). Sulla base della normativa di settore il “documento informatico” è definito dall’art. 1, co. 1, lett. p), del citato decreto, come «il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti», mentre la «copia per immagine su supporto informatico di documento analogico» è definita dalla lett. i-ter) del menzionato comma quale il «documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto». Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per le quali il D.L.vo 82/05 detta regole distinte ai fini dell’efficacia sostanziale e probatoria. Il documento informatico (in senso stretto) soddisfa il requisito della forma scritta e possiede l’efficacia di cui all’art. 2702 c.c. «quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualifica o una firma elettronica avanzata o, comunque, quando è formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AGID … con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore» (art. 20, co. 1-bis, primo periodo). In assenza di tali caratteristiche, invece, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio possono solo essere liberamente valutati in giudizio. Nessun dubbio circa la validità ed efficacia ai sensi dell’art. 6, L. 604/66 della trasmissione via pec della scansione di un’impugnativa cartacea se la scansione sia stata firmata digitalmente dal lavoratore e/o dal legale. In tal caso, infatti, la scansione non ha semplicemente il carattere di copia elettronica di documento analogico, ma presenta i caratteri del documento informatico, contenendo la rappresentazione informatica
dell’impugnazione del licenziamento, che assume tale rilievo in virtù della sottoscrizione digitale. Sulla base della normativa citata è la sottoscrizione digitale che attribuisce ai segni grafici riprodotti nella scansione il significato stesso di dichiarazione, collegando la sua emissione al sottoscrittore digitale. Nell’ipotesi in cui la scansione dell’impugnazione cartacea non sia stata sottoscritta digitalmente, essa conserva la natura di mera «copia per immagine su supporto informatico di documento analogico», la cui efficacia probatoria ex art. 22 D.L.vo 82/05 sussiste solo in due ipotesi: ai sensi del co. 2, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato in virtù della vigente normativa; oppure, ai sensi del co. 3, se siano state formate nel rispetto delle Linee guida AGID (fino all’adozione di quest’ultime nel rispetto delle regole tecniche contenute nel D.P.C.M. 13/11/14 e relativi allegati) e la loro conformità all’originale non sia espressamente disconosciuta. In conclusione la scansione di impugnativa cartacea di licenziamento, che come detto di per sé costituisce una mera copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico, per poter avere la validità e l’efficacia della scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c., sembra necessariamente dover possedere, alternativamente, le seguenti caratteristiche: a) essere sottoscritta dal lavoratore e/o dal difensore con firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata; in tal caso la scansione acquista natura di documento informatico (art. 1, co. 1, lett. p), ed è dotata dell’efficacia della scrittura privata (art. 20, co. 1-bis), b) essere accompagnata da (valida) attestazione di conformità da parte di un notaio o di altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 22, co. 2). Nella fattispecie che ci occupa l’atto cartaceo scansionato contiene la sola sottoscrizione non digitale del legale. La procedura di trasmissione mediante PEC da parte del difensore certifica l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione, con conseguente individuazione con certezza sia del mittente che del destinatario, ma non può certificare la conformità degli atti allegati, i quali necessariamente dovranno essere sottoscritti digitalmente per assumere il valore di atto scritto. In conclusione la trasmissione al datore, tramite la pec del difensore, della scansione di una comunicazione cartacea di impugnativa di licenziamento redatta e sottoscritta in modo non digitale sembra inidonea ad impedire la decadenza ex art. 6, L. 604/66. Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.
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Giurisprudenza
Tribunale di R oma, ordinanza 20 ottobre 2020; G.L. L. Redavid – M. F. (Omissis) c. RTL 102.5 HIT RADIO s.r.l. (Omissis) Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità.
L’impugnativa del licenziamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, sia mediante una copia per immagine su supporto informatico di documento in originale cartaceo. Motivi della decisione. (Omissis) Deve, poi, rigettarsi l’eccezione di invalidità dell’impugnativa del recesso in quanto inviata in allegato alla comunicazione via PEC non sottoscritta digitalmente dalla ricorrente o dal suo difensore con conseguente decadenza ex art. 32 c. 4 lett. d) della L.n. 183/10: nella specie l’impugnazione stragiudiziale è stata trasmessa via PEC dal difensore come allegato contenente la scansione dell’atto cartaceo che risulta sottoscritto dal difensore e dalla parte ma che non sottoscritto digitalmente né dalla ricorrente né dal difensore ed il messaggio della PEC reca l’indicazione “si veda l’allegata comunicazione… Avv. Valerio Mauro”; peraltro la ricevuta di avvenuta consegna reca la locuzione “Il giorno 13/05/2020 alle ore 11:20:54 (+0200) il messaggio “Impugnazione licenziamento Sig.ra (Omissis) diffida di pagamento e messa in mora” proveniente da (Omissis)@pec.legaletributario.net”. In tema di licenziamento individuale, l’art. 6 della Legge n. 604/1966 prevede che l’impugnazione del licenziamento debba essere proposta dal lavoratore, a pena di decadenza, entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione o dalla notifica della lettera di licenziamento. Si tratta, nello specifico, di un termine decadenziale che si differenzia dal più lungo termine prescrizionale di centottanta giorni previsto per l’esercizio in giudizio della relativa azione. Sul punto, il citato art. 6, primo comma, precisa, inoltre, che l’impugnazione può essere compiuta “… con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore …”. In tal contesto si pone il problema del valore ed efficacia della scansione dell’originale cartaceo dell’impugnativa, trasmesso tramite posta elettronica certificata (“PEC”) al datore di lavoro che sarebbe, secondo parte ricorrente, inidonea a contrastare le decadenze di cui all’art. 6 della Legge n. 604/66, poiché priva dei requisiti previsti dall’art. 2702 c.c., tra cui la sottoscrizione autografa e digitale del lavoratore e del difensore. Secondo la giurisprudenza di merito citata da parte ricorrente a sostegno del suo assunto, se l’impugnazione del licenziamento è un atto unilaterale a contenuto patrimoniale, vincolata alla forma scritta
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per mere esigenze di certezza e precisa e se, in ogni caso, “… il soggetto impugnante è tenuto a rispettare la disciplina prevista per la modalità di impugnazione che ritiene liberamente di scegliere”, tale atto, ai fini della sua validità sostanziale e probatoria, deve necessariamente possedere la forma di cui all’art. 2702 c.c., sia che la stessa avvenga con modalità cartacee che con modalità digitali: nel caso in cui, dunque, il lavoratore decida di avvalersi della scrittura privata sarà necessario che quest’ultima rechi la firma autografa del lavoratore e/o del difensore, mentre nel caso del documento informatico (di cui all’art. all’art. 1, c. 1, lett. p, del D.Lgs n. 82/2005 “Codice dell’ Amministrazione Digitale”, di seguito CAD) o della copia informatica di documenti analogici (la cd. “scansione”, di cui all’art. all’art. 1, c. 1, lett. i-ter, CAD) sarà, invece, necessaria la presenza dei requisiti di cui, rispettivamente, agli artt. 20 e 22 CAD. Fattispecie, quest’ultime, tra loro diverse ed in ordine alle quali, ai fini della loro efficacia probatoria e sostanziale, sono previste regole distinte dal CAD: mentre, infatti, il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta di cui all’art. 2702 c.c. solo in presenza di “una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, quando è formato, previa identificazione elettronica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID …”, la copia per immagine su supporto informatico di documento analogico possiede l’efficacia probatoria di cui al citato articolo del codice civile, solo in due occasioni e, nello specifico: – se formata nel rispetto delle linee guida AgID e non espressamente disconosciuta (art. 22, c. 3, CAD) – oppure, in presenza di un’attestazione di conformità resa da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 22, c. 2, CAD). Nell’applicare le sopra riferite disposizioni normative alla fattispecie la giurisprudenza citata da parte ricorrente rileva l’assenza della sottoscrizione digitale del lavoratore e/o del difensore dell’impugnativa trasmessa in allegato al messaggio di PEC e che, in assenza di tale requisito, detto documento non presenterebbe i caratteri del “documento informatico”. Per quanto riguarda, poi, la copia per immagine su supporto informatico la giurisprudenza citata afferma che “… per poter quest’ultima avere la validità ed ef-
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ficacia della scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c. sembra necessariamente dover possedere, alternativamente, le seguenti caratteristiche: a) essere sottoscritta dal lavoratore e/o difensore con firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata; in tal caso la scansione acquista natura di documento informatico (art. 1, co. 1, lett. p) ed è dotato dell’efficacia della scrittura privata (art. 20, co. 1-bis); b) essere accompagnata da (valida) attestazione di conformità da parte di un notaio o di altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 22, co. 2)”. Circa quest’ultima, viene tuttavia rilevato da parte della sentenza citata che il documento trasmesso dal ricorrente “contiene la sola sottoscrizione non digitale del legale” e che, in ogni caso, la procedura di trasmissione mediante PEC “non può certificare la conformità degli atti allegati, i quali necessariamente dovranno essere sottoscritti digitalmente per assumere il valore di atto scritto”: anche in questo caso l’atto sembrerebbe, dunque, privo dei requisiti richiesti dal CAD. In ragione di quanto sopra esposto “la scansione della comunicazione cartacea di impugnativa di licenziamento redatta e sottoscritta in modo non digitale” viene, pertanto, considerata inidonea ad impedire la decadenza di cui all’art. 6 della Legge 604/66 ed il ricorso è stato, conseguentemente, dichiarato inammissibile. Ora, ritiene il Giudice che tale giurisprudenza non sia condivisibile, sulla scorta delle osservazioni svolte da alcuni commentatori, innanzitutto perché limita eccessivamente la libertà di forma dell’atto di impugnazione del recesso stragiudiziale riconosciuta dall’art. 6 Legge n. 604/66, non rinvenendosi alcuna disposizione normativa che prescriva l’adozione di specifiche forme nè che detto atto debba essere redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, quale sarebbe da intendersi la scansione, ovvero, la “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico”, munita di attestazione di conformità resa dal notaio o da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Di contro ciò che risulta previsto è il solo requisito della forma scritta inteso in senso generico e, quindi, non necessariamente riferibile alle sole previsioni di cui agli artt. 2702, 2714 o 2715 c.c.: ne discende che affinché l’impugnativa possa considerarsi valida è sufficiente che il lavoratore manifesti al datore di lavoro, per iscritto, la volontà di contestare la validità ed efficacia del licenziamento e ciò indipendentemente dalla terminologia utilizzata e senza la necessità di formule sacramentali o rituali. Infatti in ragione della genericità della previsione di cui al citato art. 6 deve ritenersi idoneo a tal fine non solo il documento sottoscritto ma anche quello che, pur carente di sottoscrizione, risulta comunque riferibile al lavoratore e con accertata provenienza, come in caso di impugnativa trasmessa tramite telefax o telegramma. E’ noto, a tal proposito, l’orientamento della giurisprudenza che riconosce, ai sensi dell’art. 2705, c. 1, c.c., all’impugnativa trasmessa
tramite telegramma la stessa efficacia probatoria della scrittura privata : “… la forma scritta richiesta per il licenziamento e la sua impugnazione stragiudiziale può essere integrata da un telegramma, nella concorrenza del requisito della sottoscrizione da parte del mittente dell’originale consegnato all’ufficio postale oppure della consegna del medesimo da parte del mittente o per suo incarico, con l’ulteriore precisazione che alle stesse conclusioni deve pervenirsi in caso di telegramma dettato per mezzo dell’apposito servizio telefonico, qualora, in caso di contestazione, sia provato anche per mezzo di testimoni o presunzioni, la effettiva provenienza del telegramma dall’apparente autore della dichiarazione” (cfr. Cass., 23 dicembre 2003, n. 19689, Cass.,18 giugno 2003, n. 9790, Cass., 5 giugno 2001, n. 7620, Cass., 30 ottobre 2000, n. 14297, Cass., 23 ottobre 2000, n. 13959): in assenza di contestazioni, dunque, il telegramma fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni dall’apparente autore. L’impugnazione può, inoltre, avvenire con fax od anche con telefax o telegramma a mezzo telex e, quanto al primo strumento, il documento trasmesso rientra tra le riproduzioni meccaniche disciplinate dall’art. 2712 c.c. che formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti od alle cose medesime. Il lavoratore potrebbe, ancora, utilizzare l’e-mail con l’onere di prova in caso di contestazioni da parte del datore di lavoro: secondo la Cassazione il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) o lo “short message service” (“SMS”) costituiscono documenti elettronici che contengono la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privi di firma, rientrano tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotti non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (Cass. n. 19155/19). Inoltre se il documento trasmesso deve essere qualificato quale “documento informatico” privo del requisito della firma digitale, deve osservarsi che l’art. 20, c. 1 bis, CAD prevede che, in assenza della “firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata” …. “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”. E l’art. 1, c. 1, lett. p) CAD definisce “documento informatico: il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”, mentre la lett. i-ter) del medesimo articolo, nel definire la “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico”, parla di “documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto”.
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Giurisprudenza
Alla luce di tale disciplina l’impugnativa di licenziamento potrebbe avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico (il c.d. “atto nativo digitale”) sia mediante una copia per immagine su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica” o “scansione”), come è avvenuto pacificamente nel caso in esame, ove il difensore del ricorrente ha provveduto ad inserire nel messaggio PEC un documento informatico realizzato in precedenza costituito dalla copia per immagine dell’impugnativa composta e sottoscritta in origine su carta sia dal difensore che dalla parte. E se la giurisprudenza di merito citata da parte ricorrente ha escluso l’idoneità del documento notificato tramite PEC, poiché privo sia della sottoscrizione del lavoratore e/o del difensore con firma digitale o di altro tipo di firma qualificata o firma elettrica avanzata, così come previsto dall’art. 20 CAD, sia dell’attestazione di conformità da parte di un notaio o di un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato come previsto dall’art. 22, c. 1, CAD, deve anche rilevarsi che il “documento informatico” (ex art. 1, c. 1, lett. p, CAD) e la “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” (ex art. 1, c. 1, di cui alla lettera. i-ter del predetto articolo), non sono tra loro equivalenti. Inoltre, come osservato da alcuni commentatori, il “documento informatico” privo del requisito della firma digitale non si tramuta, automaticamente, nella “copia per immagine” atteso che tali documenti differiscono e sono soggetti a regole diverse: mentre il documento informatico (il c.d. “atto nativo digitale”) risulta regolato dall’art. 20 CAD ed è quel documento che viene normalmente generato attraverso il programma di videoscrittura e successivamente trasformato in formato PDF senza scansione, nascendo, quindi, digitale e viene predisposto per essere depositato telematicamente o per essere notificato tramite PEC, la copia per immagine su supporto informatico di documento analogico (o copia informatica di documento analogico o scansione) è prevista dall’art. 22 CAD e consiste nel documento informatico che normalmente viene generato ed ottenuto in formato PDF dopo aver effettuato la scansione di un documento cartaceo (analogico). Nella fattispecie deve dunque essere applicato il solo art. 22 CAD e, nello specifico, il c. 2 e 3, ove viene previsto che: “2. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, secondo le Linee guida. 3. Le copie per immagine su supporto informatico di
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documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle Linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta”. E tale normativa applicabile al caso in esame non impone la sottoscrizione con firma digitale della copia su supporto informatico che risulta, invero, prevista per il solo “documento informatico” all’art. 20 CAD che, tuttavia, non è il documento informatico trasmesso dal lavoratore; inoltre, sulla scorta del c.3 citato, parte convenuta non risulta aver disconosciuto espressamente la conformità della copia informatica dell’impugnazione del licenziamento allegata alla PEC ricevuta dal datore di lavoro. Atteso che l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità, le considerazioni appena svolte unitamente al fatto che appare sufficientemente provata la riferibilità della comunicazione via PEC alla ricorrente ed al suo difensore nonché il suo oggetto (“Impugnazione licenziamento (Omissis) – diffida di pagamento e messa in mora” proveniente da (Omissis)@pec.legaletributario. net) consentono, secondo questo Giudice, di ritenere la validità ed efficacia dell’impugnativa stragiudiziale del recesso. Ne consegue l’inapplicabilità della decadenza eccepita anche perché l’art. 32 c.4 lett. d) della L. n. 183/10 invocato al riguardo da parte convenuta prevede che le disposizioni di cui all’art. 6 della L. n. 604/66, come modificato dal c. 1 dell’art. 32, si applichino “ in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del d.lgs. n. 276/03 si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”, fattispecie che non ricorre nel caso di specie in cui si è impugnato il recesso datoriale previo accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dell’art. 32 c. 3 lett. a), che fa riferimento ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro e, quindi, ad ipotesi in cui l’estinzione del rapporto è connessa strettamente alla fattispecie contrattuale, come nel caso di rapporto formalmente di lavoro autonomo, potendo il lavoratore contestare tale qualificazione allegando la natura subordinata del rapporto e l’intervenuto illegittimo licenziamento; e tale decadenza non risulta, comunque, maturata nella specie atteso che il recesso è del 7/04/20 e l’impugnazione stragiudiziale è del 13/05/20. (Omissis)
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Tribunale di Palermo , ordinanza 28 ottobre 2020; G.L. G. Tango – G. S. M. (avv. L. Romano) c. Servizi Ausiliari Sicilia Società Consortile Per Azioni (avv. M. Marinelli). Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità.
La trasmissione mediante PEC da parte del difensore dell’impugnativa di licenziamento non è idonea ad interrompere il termine decadenziale di cui all’art. 6 l. n. 604/1966, in quanto certifica l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione, con conseguente individuazione sia del mittente che del destinatario, ma non può certificare la conformità degli atti allegati. Svolgimento del processo. Con ricorso depositato in data 13.11.2019 la parte ricorrente in epigrafe – dipendente della società resistente dal 5.11.2012 al 22.7.2019 – ha chiesto dichiararsi la nullità e/o l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole dalla convenuta e, per l’effetto, condannarsi quest’ultima a reintegrarla nel posto di lavoro ed a corrisponderle una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (maggiorata di rivalutazione ed interessi come per legge), oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. La società convenuta, ritualmente costituitasi in giudizio, ha preliminarmente eccepito l’intervenuta decadenza dell’impugnativa di licenziamento e, nel merito, ha variamente contestato l’infondatezza del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto. In particolare, la società resistente ha dedotto di aver ricevuto l’impugnativa di licenziamento in data 12.9.2019 unicamente a mezzo di posta elettronica certificata dall’indirizzo del procuratore della parte ricorrente, alla quale veniva allegata una copia scansionata in pdf della lettera di impugnativa. Tale documento non era firmato digitalmente né dal lavoratore né dal procuratore di parte ricorrente. Inoltre alla suddetta pec non veniva allegata né procura alle liti né un’attestazione di conformità degli atti allegati. In virtù delle superiori considerazioni, la società convenuta ha ritenuto il documento in questione inidoneo a far salvo il termine di decadenza di sessanta giorni, perché privo dei requisiti di forma di cui all’art. 2702 c.c. (Omissis) Motivi della decisione. Merita accoglimento la preliminare eccezione di decadenza formulata dalla parte resistente in memoria di costituzione poiché emerge dalla documentazione in atti che l’impugnativa di licenziamento non è stata effettuata entro il termine di sessanta giorni stabilito
dall’art. 6 della legge n. 604/1966 (così come modificato dall’art. 32 della l. n. 183/2010). Anzitutto, giova ricordare che l’art. 6 l. n. 604/1966 stabilisce al comma 1 che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”. Com’è noto, l’atto di impugnazione di licenziamento, quale negozio giuridico unilaterale recettizio, deve giungere a conoscenza del datore di lavoro per produrre i suoi effetti. Quanto alla forma di tale atto di impugnazione, la Suprema Corte di Cassazione è granitica nel ritenere che il licenziamento può essere impugnato con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, purché idoneo a manifestare al datore di lavoro, indipendentemente dalla terminologia usata e senza necessità di formule sacramentali, la volontà del lavoratore di contestare la validità e l’efficacia del licenziamento (ex plurimis, cfr. Cass. n. 2200/1999; Cass. n. 7405/1994). Facendo applicazione della menzionata disposizione di legge e dei principi giurisprudenziali sopra illustrati, si può osservare che, a ben vedere, ad essere libero è esclusivamente il contenuto dell’atto di impugnativa di licenziamento ma non il mezzo della rappresentazione documentale, che il legislatore richiede expressis verbis essere quello della scrittura. Ma perché un documento redatto per iscritto possa inequivocabilmente manifestare la volontà da parte del lavoratore di contestare la legittimità del recesso, il prius logico è che con sicurezza possa ricondursi quel documento (che detta manifestazione di volontà contiene) al suo autore (sul punto cfr. anche Cass. n. 7610/1991, secondo cui l’atto scritto deve essere incontrovertibilmente riferibile al lavoratore).
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D’altronde, come ebbe ad esprimersi antica e autorevole dottrina, “tutta la teoria del documento è dominata dal problema della sua paternità”. Le modalità mediante cui può essere individuata la provenienza del documento – il mancato rispetto delle quali comporta l’inidoneità del documento a soddisfare il requisito legale richiesto (con la conseguente impossibilità di attribuzione del documento al suo autore) – sono strettamente disciplinate dalla legge e si differenziano a seconda della “materia” del documento stesso: e se per il documento cartaceo soccorrono sul punto (per lo più) le norme contemplate dal codice civile, per il documento informatico e le copie informatiche di documenti analogici le disposizioni di riferimento sono contenute nel d.lgs. n. 82/2005, così come modificato dal d.lgs. 179/2016 e d.lgs. n. 217/2017 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale – c.a.d.). Specificamente, per quel che in tale sede interessa, la copia per immagine su supporto informatico di un documento in originale cartaceo trova la sua disciplina nell’art. 22 d.lgs. n. 82/2005, rubricato per l’appunto “copie informatiche di documenti analogici”, che recita: “1. I documenti informatici contenenti copia di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi di ogni tipo formati in origine su supporto analogico, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai sensi degli articoli 2714 e 2715 del codice civile, se sono formati ai sensi dell’articolo 20, comma 1-bis, primo periodo. La loro esibizione e produzione sostituisce quella dell’originale. 1-bis. La copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico è prodotta mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto, previo raffronto dei documenti o attraverso certificazione di processo nei casi in cui siano adottate tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia. 2. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71. 3. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71 hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta. 4. Le copie formate ai sensi dei commi 1, 1-bis, 2 e 3 sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali formati in origine su supporto analogico, e sono idonee ad assolvere gli obblighi di conservazione previsti dalla legge, salvo quanto stabilito dal comma 5. 5. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari
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tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico.” Alla luce della superiore disposizione, quindi, la scansione dell’impugnazione cartacea può avere la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui è estratta nei seguenti casi: 1) se ad essa è apposta una firma digitale o elettronica qualificata o elettronica avanzata dal lavoratore e/o dal difensore (giusto il richiamo operato dal comma 1 dell’art. 22 d.lgs. n. 82/2005 all’art. 20 comma 1 bis primo periodo d.lgs. cit.); in tale caso, infatti, l’atto scansionato acquista natura di “documento informatico”; 2) se è accompagnata da valida attestazione di conformità di un notaio o di altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, secondo le regole stabilite ai sensi dell’art. 71 d.lgs. n. 82/2005 (art. 22, comma 2, d.lgs. n. 82/2005) ; 3) se è stata formata in origine su supporto analogico nel rispetto delle regole tecniche di cui all’art. 71 d.lgs. 82/2005 e la sua conformità all’originale non è espressamente disconosciuta (art. 22, comma 3, d.lgs. n. 82/2005). Nel caso di specie, l’atto cartaceo scansionato non è sottoscritto dal lavoratore e/o difensore né digitalmente né elettronicamente, così come non è dotato di alcuna attestazione di conformità nei termini richiesti dalla legge né è stato formato nel rispetto delle linee guida AGID (richiamate dal citato art. 71 d.lgs. 82/2005). Non ricorrendo neanche uno dei tre elementi testé indicati, non si può che concludere che la trasmissione al datore di lavoro, tramite la pec del difensore, di una siffatta scansione di una comunicazione cartacea di impugnativa di licenziamento non è idonea ad impedire la decadenza ex art. 6 l. n. 604/1966. Infatti, come correttamente rilevato dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Monza del 29 gennaio 2020), la procedura di trasmissione mediante PEC da parte del difensore si limita a certificare l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione, con conseguente individuazione sia del mittente che del destinatario, ma non può certificare la conformità degli atti allegati. Né contrari argomenti possono desumersi da pronunce (anche di legittimità) formatesi in tema di impugnativa di licenziamento mediante “telegramma” (ex multis, Cass. n. 19689/2003; n. 6749/1996) – come sostenuto in udienza dal procuratore di parte ricorrente – stante che quest’ultima fattispecie è disciplinata dalla particolare previsione dell’art. 2705 c.c., che – in assenza di lacuna legislativa (atteso che, come si è detto, è già previsto il c.a.d.) – non può applicarsi analogicamente anche all’atto di impugnativa in questione. Assorbita ogni altra questione, il ricorso pertanto non può trovare accoglimento. (Omissis)
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Tribunale di M onza , ordinanza 8 aprile 2021; G.L. L. Rotolo – (Omissis) (avv. M. L. Pozzoli, M. Branchetti) c. «(Omissis) (avv. G. Tranchida, A. Repossi). Licenziamenti – impugnativa di licenziamento – trasmissione via pec – validità.
La trasmissione a mezzo posta elettronica certificata da parte del difensore del lavoratore della copia della impugnativa del licenziamento mediante scansione del documento cartaceo, ricevuta regolarmente dal datore di lavoro, integra pienamente il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 6 l. n. 604/1966. Svolgimento del processo. (Omissis) 1) La ricorrente (Omissis) – alle dipendenze della resistente (Omissis) dal 31/12/1996 con contratto a tempo indeterminato dapprima a tempo pieno e poi trasformato in part time (75%), inquadramento 3° livello CCNL Metalmeccanici Industria e mansioni di addetta al confezionamento – contesta la legittimità del licenziamento collettivo del 17/9/2019 per violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 L. 223/91, in subordine per violazione delle norme procedurali di cui all’art. 4 L. 223 citata. In particolare la predetta evidenzia che il licenziamento è privo di indicazioni dei criteri di scelta applicati e soprattutto della ragione per cui è stato indicato il suo nominativo tra la rosa dei dipendenti oggetto del provvedimento espulsivo del 17/9/2019. Conclude la «– Omissis.» chiedendo in via principale l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento con applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, co. 4, L. 300/1970 e in via subordinata l’applicazione del regime sanzionatorio di cui al successivo comma 7, 3° periodo. 2) Motivi della decisione. In via preliminare la resistente eccepisce la decadenza dall’impugnativa del licenziamento, in quanto nella stessa, comunicata mediante PEC, le firme indicate non sono altro che una mera scansione delle relative firme analogiche, con conseguente impossibilità di qualificarle quali firme digitali; non trattandosi di documento informatico l’immagine allegata all’email non può assumere il valore di atto scritto necessario per la corretta impugnazione del licenziamento nei termini previsti dalla legge. All’udienza del 17/3/2021 la parte ricorrente ha riconosciuto la sottoscrizione apposta nella menzionata lettera di impugnativa. Non risulta che la resistente abbia disconosciuto l’atto d’impugnazione del licenziamento. In precedente giudizio lo scrivente ha ritenuto la fondatezza di tale eccezione e, dunque, l’inammissibilità del ricorso. Tuttavia, l’attento esame dell’orien-
tamento espresso da commentatori, nonché da sopraggiunti provvedimenti giudiziari (Trib. Roma ord. n. 86577/2020; Trib. Milano ord. n. 391/2020; Trib. Brescia sent. n. 20/2020 e 352/2008), porta questo giudice a rivedere la propria posizione ed a riconoscere idoneità alla scansione dell’impugnazione trasmessa a mezzo PEC ad impedire la decadenza. L’art. 6 L. 604/66, che stabilisce l’onere dell’impugnativa del licenziamento entro il termine perentorio di 60 giorni a pena di decadenza, prevede che l’impugnativa stragiudiziale possa essere effettuata con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore senza l’adozione di formule sacramentali. Alla luce dei principi generali che regolano l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, dunque, vi è piena libertà di forma nella predisposizione dell’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore purché sia osservato il requisito della forma scritta. Appare, dunque, non conferente il richiamo alle norme della L. 82/05 capo II in tema di documenti informatici e di firme elettroniche (art. 21 e art. 22), espressamente applicabili anche ai rapporti tra privati, atteso che, come detto, non è necessario che l’impugnazione del licenziamento del lavoratore avvenga a mezzo di un atto avente piena efficacia a norma dell’art. 2702 c.c. e seguenti. La normativa citata, infatti, nell’operare un distinguo tra la valenza probatoria dei “documenti informatici” e delle “copie informatiche di documenti analogici” (artt. 21, 22 e 23) detta le condizioni e i presupposti giuridici in presenza dei quali i documenti informatici trasmessi a mezzo PEC rivestono piena efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2702 c.c. ovvero le copie informatiche di documenti analogici acquistano piena efficacia ai sensi degli artt. 2714 e 2715 c.c. Del resto, la società resistente non ha contestato la ricezione della comunicazione PEC e del relativo allegato, mentre la perplessità manifestata in merito alla mancanza di certezza in ordine alla conformità della copia ricevuta della lettera di contestazione del licenziamento all’originale e all’autenticità della firma del lavoratore appare priva di rilievo e superata dal fatto che mai il lavoratore, unico soggetto che poteva avervi interesse siccome autore di quella dichia-
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razione, ha effettuato il disconoscimento della propria sottoscrizione o della paternità dell’atto. In sintesi, è corretto affermare, per quanto esposto, che la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata da parte del difensore del lavoratore della copia della impugnativa
del licenziamento mediante scansione del documento cartaceo, ricevuta regolarmente dal datore di lavoro, integri pienamente il requisito della forma richiesta dall’art. 6 citato.
L’impugnativa di licenziamento dell’era digitale al vaglio della giurisprudenza di merito Sommario :
1. Introduzione. – 2. L’impugnativa dei licenziamenti e l’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione: la giurisprudenza sui telegrammi e i fax. – 3. Le oscillanti pronunce di merito sulla trasmissione via pec – 4. L’impugnativa di licenziamento: questione di sostanza e non di “formalismo telematico”. – 5. Il principio di libertà di forma e i nuovi mezzi di comunicazione digitale.
Sinossi. Dopo un’analisi della giurisprudenza sulla trasmissione dell’impugnativa di licenziamento via pec e via fax, l’A. si sofferma sulle pronunce di merito che, adottando orientamenti contrastanti, hanno deciso la questione relativa alla validità della trasmissione a mezzo pec, per poi soffermarsi sui caratteri dell’impugnativa stragiudiziale del recesso e sulla utilizzabilità dei più recenti mezzi di comunicazione digitale. Abstract. After an analysis of the jurisprudence on the transmission of the dismissal challenge by certified e-mail and fax, the A. focuses on the judgements that, adopting conflicting guidelines, decided the question relating to the validity of the transmission by certified e-mail, and then focuses on the characteristics of the out-of-court dismissal challenge and the usability of the most recent means of digital communication. Parole chiave: Licenziamento – Impugnativa di licenziamento – Trasmissione via pec – Trasmissione via telegramma e via fax – Art. 6 l. n. 604/1966
1. Introduzione. Le cinque pronunce in commento (tutte di merito, emanate tra aprile 2018 e marzo 2021) offrono lo spunto per riflettere sul tema – di rilevante interesse pratico, ma che prende le mosse da un altrettanto importante dibattito teorico – relativo alle modalità di
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trasmissione dell’impugnativa di licenziamento, alla luce del processo di innovazione digitale, che peraltro nel nostro Paese ha subito una indubbia accelerazione a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia da Covid-19. In particolare, la questione affrontata dalla giurisprudenza di merito attiene alla riconducibilità al lavoratore licenziato della missiva di impugnazione del licenziamento che venga scansionata ed inviata a mezzo pec dal procuratore, firmata in modalità autografa dall’avvocato e/o dal lavoratore, ma non sottoscritta digitalmente. In effetti, tutte le pronunce in esame prendono le mosse da un identico fatto storico: la lettera di impugnativa veniva sottoscritta in forma cartacea, poi sottoposta a scansione digitale e infine spedita a mezzo pec al datore di lavoro a cura dell’avvocato, ma senza la firma digitale, né del legale né del lavoratore. Sicché, si è posta la necessità di accertare, in via preliminare rispetto all’esame del merito delle differenti vicende che hanno originato i licenziamenti contestati, la riconducibilità del documento così formato al lavoratore licenziato e, più in generale, di vagliare la validità di questa modalità di impugnazione stragiudiziale, ai fini di cui al comma 1 dell’art. 6, l. 15 luglio 1966, n. 604. La questione riveste particolare interesse in quanto, com’è noto, l’utilizzo di una posta elettronica certificata, che garantisce l’immediatezza della comunicazione oltre che il sostanziale azzeramento dei costi, è equiparato, dall’art. 48 del Codice di amministrazione digitale (d’ora in poi C.A.D.)1, alla notificazione per mezzo della posta, sia pure con la specificazione che l’opponibilità ai terzi della data e dell’ora di trasmissione e ricezione del documento informatico si ha solo se tali attività siano state compiute in conformità alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 68/2005 e alle relative regole tecniche, ovvero alle Linee guida di cui all’art. 71 del C.A.D.
2. L’impugnativa dei licenziamenti e l’evoluzione
tecnologica dei mezzi di comunicazione: la giurisprudenza sui telegrammi e i fax. Prima di approfondire nel dettaglio le pronunce che si sono ritrovate a decidere sulla validità dell’impugnativa trasmessa a mezzo pec e non sottoscritta digitalmente, fornendo risultati altalenanti, appare il caso di ripercorrere gli orientamenti giurisprudenziali formatisi sul tema della validità dell’impugnazione stragiudiziale – e conseguente idoneità ad impedire la decadenza ai sensi dell’art. 6, l. n. 604/1966 – comunicata con mezzi diversi rispetto al tradizionale servizio postale. Come si vedrà meglio in seguito, infatti, nel caso di specie alcuni principi giurisprudenziali elaborati nel passato per strumenti di comunicazione che ormai appaiono obsoleti sono molto utili per affrontare gli odierni dilemmi interpretativi. E questo sebbene l’evoluzione tecnologica ponga questioni sempre diverse e renda talvolta poco attuali le solu-
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D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82.
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zioni rinvenute dal legislatore per porre rimedio ai problemi giuridici posti dalle nuove tecnologie2. La giurisprudenza, infatti, si è dovuta confrontare da tempo, in parallelo con il progredire della tecnica, con problematiche simili a quelle poste dall’utilizzo della posta elettronica certificata, e che sono state risolte, ora facendo uso delle puntuali disposizioni dettate dall’ordinamento per lo specifico mezzo di trasmissione, ora ricorrendo al principio generale di libertà di forma riveniente dall’art. 6, l. n. 604/1966. Seguendo diacronicamente l’evoluzione della tecnologia, si può anzitutto segnalare quella giurisprudenza che si è interrogata sulla validità dell’impugnazione del licenziamento trasmessa a mezzo telegramma, di cui il datore di lavoro abbia contestato la provenienza. In effetti, ai sensi dell’art. 2705 c.c. il telegramma acquista l’efficacia probatoria della scrittura privata se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo. Quid iuris, però, se il telegramma non è sottoscritto, ma dettato telefonicamente? Un primo orientamento3 prendeva le mosse dal principio generale derivante dall’art. 6, l. n. 604/1966 per cui ciò che è necessario, ai fini della validità dell’impugnativa, è l’idoneità dello scritto a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il provvedimento datoriale e la incontrovertibile riferibilità al lavoratore dello scritto medesimo. Secondo tale orientamento, nonostante l’enunciazione di principio della libertà di forma, nel caso di telegramma dettato per telefono, spetta al lavoratore che assume di esserne il mittente dimostrare l’esistenza delle condizioni richieste dall’art. 2705 c.c.4 affinché il documento abbia efficacia probatoria della scrittura privata, che dall’altra parte sia stata contestata. La rigidità di tale posizione è stata smussata da successive pronunce, in cui la Suprema Corte5 ha sostenuto che, in assenza di sottoscrizione del mittente, il giudice di merito debba verificare – ove lo ritenga opportuno, anche ricorrendo alle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c. – la ricorrenza delle ulteriori due ipotesi previste dall’art. 2705 c.c. (aver consegnato personalmente o fatto consegnare l’originale del telegramma all’ufficio postale di partenza), la cui sussistenza comunque legittima l’efficacia probatoria del telegramma ed impedisce la decadenza dall’impugnazione. L’orientamento originario è stato, in realtà, smentito da un’altra pronuncia6 in cui la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto inidoneo il telegramma
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Lo nota Pascuzzi, Il diritto nell’era digitale, Il Mulino, 2020, 8. Cass., 10 luglio 1991, n. 7610, in RIDL, 1992, II, 684, con nota di Bellè. In termini, v. Cass., 26 luglio 1996, n. 6749, in DL, 1997, II, 347, con nota di Ivella. 4 Per i telegrammi, infatti, la norma codicistica espressamente chiarisce che essi assumono l’efficacia probatoria della scrittura privata, se l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo. 5 Cass., 6 ottobre 2008, n. 24660, in RIDL, 2009, 2, II, 355, con nota di Rondo. 6 Cass., 30 ottobre 2000, n. 14297, in RIDL, 2001, II, 371, con nota di Palla. La definisce una vera e propria “svolta giurisprudenziale” Tebano, L’impugnazione del licenziamento, in Bianchi D’Urso, De Luca Tamajo (a cura di), I licenziamenti individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, Giuffrè, 2006, 360. Conforme a questo orientamento, Cass., 5 giugno 2001, n. 7620, in MGL, 2001, 3
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a costituire una valida impugnazione del licenziamento, in assenza delle condizioni letteralmente previste dall’art. 2705, comma 1, c.c., applicando estensivamente al telegramma dettato per telefono la regola secondo cui il telegramma ha l’efficacia probatoria di una scrittura privata se l’originale, che sia privo di sottoscrizione, sia stato consegnato o fatto consegnare all’ufficio postale dal mittente. Il lavoratore, in base a quest’ultima posizione giurisprudenziale, ha sì l’onere di fornire la prova della provenienza della dichiarazione da lui medesimo, ma può farlo anche ricorrendo a presunzioni, tra cui, in particolare: l’indicazione dell’autore della dichiarazione contenuta nel testo stesso del telegramma, il possesso della copia del telegramma inviata in base alle vigenti norme postali, la titolarità o l’uso esclusivo dell’utenza telefonica attraverso cui è avvenuta la dettatura del telegramma, l’eventuale pacificità per il destinatario, prima del giudizio, della provenienza del telegramma da parte dell’apparente autore della dichiarazione. Sulla possibilità, invece, che l’impugnativa stragiudiziale atta ad interrompere il termine decadenziale di cui all’art. 6, comma 1, l. n. 604/1966, possa essere comunicata a mezzo del telex e del telefax non risultano molti precedenti giurisprudenziali7, anche se è stato opportunamente osservato8 che, in linea generale, in giurisprudenza se ne riconosce la natura di scrittura privata ai sensi dell’art. 2712 c.c., il quale assegna alle riproduzioni meccaniche di fatti e cose il valore di piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. Una più recente pronuncia della Suprema Corte attiene, invece, al secondo termine decadenziale previsto dall’art. 6, comma 2, l. n. 604/19669, ossia quello dei 180 giorni entro cui proporre un tentativo di conciliazione, in alternativa al deposito del ricorso giudiziale.
872, con nota di Papaleoni, che ha annullato la sentenza impugnata che aveva attribuito efficacia ostativa, ai fini della imputabilità al lavoratore della dichiarazione a mezzo telegramma, al dato formale dell’invio di quest’ultimo dallo studio del legale dell’interessato; Cass., 18 giugno 2003, n. 9790, in GC Mass., 2003, 6; Cass., 23 dicembre 2003, n. 19689, in RIDL, 2004, 4, 782, con nota di Covi, che ha ritenuto adeguatamente provata la provenienza del telegramma – a norma dell’art. 2705 c.c. – sulla scorta del « possesso, da parte della lavoratrice, della copia conforme del telegramma, che fa presumere univocamente l’avvenuta consegna del telegramma, da parte della stessa o di un suo incaricato, all’ufficio postale». Favorevole all’impugnativa a mezzo telegramma nella giurisprudenza di merito, invece, Trib. Messina, ord. 15 luglio 1999, in RIDL, 2000, 3, 2, 533-538, con nota di Cattani. 7 Trib. Roma, 7 febbraio 1994, in DL, 1994, II, 44, secondo cui non costituisce valido atto di impugnativa del licenziamento l’invio di un telex da parte di una società concessionaria del servizio all’amministrazione postale con testo da inoltrare a cura di questa al datore di lavoro tramite telegramma, nonostante il fatto che in calce sia indicato il nome del lavoratore, in mancanza di prova e della ricezione del telegramma da parte del datore di lavoro e della incontrovertibile riferibilità di esso al lavoratore ai sensi di quanto disposto dall’art. 2705 c.c; Pret. Lucca, 27 maggio 1994, in MGL, 1994, 605, secondo cui l’impugnativa del licenziamento nel termine di 60 giorni non può essere effettuata tramite telefax perché, a differenza del telegramma o del telex, può offrire una prova solo al destinatario del messaggio, mentre il mittente non può dimostrare l’avvenuta trasmissione. Per una rassegna della giurisprudenza di merito, v. Tatarelli, op. cit., 367-368. 8 Timellini, L’impugnazione del licenziamento via pec alla luce della disciplina del codice dell’amministrazione digitale e del requisito della sottoscrizione da parte del lavoratore, in ADL, 5, 2020, 1260. 9 Il secondo termine decadenziale per il deposito del ricorso o l’instaurazione di un tentativo di conciliazione è stato introdotto dall’art. 32, comma 1, l. 4 novembre 2010, n. 183. Sul nuovo assetto di decadenze conseguente all’intervento normativo in oggetto, v. Putaturo Donati, Decadenza e posizione del lavoratore, ESI, 2018, 191 ss.
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Ebbene, a questo proposito, il Supremo Collegio10 ha ritenuto che la spedizione del tentativo di conciliazione a mezzo fax interrompa il termine decadenziale poiché, atteso che la norma non prevede delle specifiche modalità di comunicazione a pena di validità ed efficacia, la ricezione del fax può considerarsi del tutto equipollente alle modalità di consegna, previste dall’art. 410, comma 5, c.p.c., il quale precisa che la richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, vada «consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento». In altri termini, sia pure con riferimento al secondo termine decadenziale previsto dall’art. 6, l. n. 604/1966, è stato riconosciuto che il fax costituisca una modalità di consegna idonea a riferire in maniera incontrovertibile il documento al suo autore. Di conseguenza, non pare che si frappongano ostacoli a ritenere che anche la decadenza dal primo termine di impugnativa stragiudiziale possa essere interrotta con una missiva firmata in modo autografo dal lavoratore ed inviata con questo mezzo. Peraltro, per quanto attiene alla prova della ricezione del fax inviato, i Giudici amministrativi11 (che più di altri si sono confrontati sulla questione) hanno affermato una presunzione relativa di ricezione del documento, in presenza del rapporto di trasmissione positiva da parte dell’apparecchio, ed una sostanziale equiparazione tra il rapporto del fax recante l’indicazione “OK” e la ricevuta di ritorno della raccomandata postale.
3. Le oscillanti pronunce di merito sulla trasmissione via pec.
Operata questa doverosa premessa sui mezzi di trasmissione dell’impugnativa stragiudiziale diversi dal servizio postale, è ora il caso di approfondire gli oscillanti esiti giurisprudenziali in materia di trasmissione mediante posta elettronica certificata, che per la sua diffusione soprattutto tra i professionisti e l’estrema semplicità di utilizzo ha oggi quasi completamente soppiantato i fax e i telegrammi. La possibilità di impugnare il licenziamento a mezzo pec non è disciplinata espressamente da alcuna norma e ciò, se da un lato costituisce dimostrazione delle difficoltà per l’ordinamento di stare al passo dell’evoluzione tecnologica, dall’altro ciò appare giustifi-
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Cass., 23 agosto 2016, n. 17253, in GC Mass., 2016. Tar Lazio, 9 giugno 2008, sez. III-bis, n. 5113, in De jure, che ha chiarito come «non è sufficiente sostenere di non aver ricevuto i documenti via fax», «dal momento che, quando i dati si trasmettono via fax, se il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta correttamente, si presume che il destinatario ne sia venuto a conoscenza, a meno che non provi l’esistenza di un cattivo funzionamento dell’apparecchio ricevente o di una sua rottura che abbia impedito l’effettiva comunicazione, mentre il mittente non deve fornire alcuna ulteriore prova sull’invio». In un’altra pronuncia (Cons. Stato, 18 agosto 2010, n. 5845, in FA, 2010, 7-8, 1518), è stato ribadito che il rapporto di trasmissione fa presumere la prova dell’avvenuta ricezione, mentre spetta al destinatario la prova contraria concernente la mancata funzionalità dell’apparecchio, in quanto «il fax utilizza un sistema di linee di trasmissione e dati e di apparecchiature che consente di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il rapporto di trasmissione, la ricezione da parte di quello ricevente, dando altrettanta certezza rispetto all’avviso di ricevimento della raccomandata della ricezione del messaggio».
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cato dalla presenza di una compiuta disciplina dei documenti informatici nel C.A.D., oltre che dall’ampiezza della lettera dell’art. 6 l. n. 604/1966 che, nel dettare le modalità dell’impugnazione, si riferisce a «qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore». Il coordinamento tra i due testi normativi in questione ha determinato, però, non poche aporie interpretative nelle prime pronunce di merito che si sono occupate della questione. La validità e l’efficacia probatoria del documento informatico formato digitalmente è regolato dal già citato C.A.D., agli artt. 20 e seguenti, a mente dei quali l’apposizione della firma digitale o di altra firma elettronica avanzata le attribuisce l’efficacia della scrittura privata di cui all’art. 2702 c.c. In particolare, da una prima lettura del dettato normativo12, emerge che la scansione della missiva non sottoscritta digitalmente conservi la natura di mera «copia per immagine su supporto informatico di documento analogico», la cui efficacia probatoria sussiste unicamente in due ipotesi: ai sensi del comma 2, se la conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, secondo le Linee guida, ed ai sensi del comma 3, se la conformità all’originale non sia stata espressamente disconosciuta. A partire da questa osservazione, il Tribunale di Monza13, nell’ordinanza del 29 gennaio 2020 ha ritenuto inidonea la comunicazione tramite pec della semplice scansione dell’impugnativa ad interrompere il termine decadenziale (con firma autografa, peraltro, del solo legale) ed ha giudicato inammissibile il ricorso del lavoratore. Secondo il Tribunale brianzolo, infatti, la trasmissione a mezzo pec certifica l’avvenuta consegna della missiva, con conseguente individuazione con certezza del mittente e del destinatario, «ma non può certificare la conformità degli allegati, i quali necessariamente dovranno essere sottoscritti digitalmente per assumere il valore di atto scritto». Sulla scia di tale orientamento, il Tribunale di Palermo14, nell’ordinanza del 28 ottobre 2020, conclude nel senso della inutilizzabilità della missiva di impugnativa stragiudiziale non sottoscritta digitalmente, in assenza degli elementi previsti dal C.A.D. affinché la scansione abbia la stessa efficacia probatoria dell’originale. Non volendo ribadire in questa sede i rilievi già formulati da diversi autori, che hanno sottolineato la scarsa attenzione con la quale sono state interpretate le disposizioni del C.A.D.15, non si può non rilevare un’ulteriore contraddizione in cui è incorso il tribunale
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Art. 22 d.lgs. n. 82/2005. La sentenza è stata ampiamente criticata dai commentatori: cfr. Timellini, L’impugnazione del licenziamento via pec alla luce della disciplina del codice dell’amministrazione digitale e del requisito della sottoscrizione da parte del lavoratore, in ADL, 5, 2020, 1255 ss.; Evola, Sull’efficacia probatoria della “scansione” nell’impugnazione del licenziamento, 11 maggio 2020, in www. processotelematico.it; Mengali, L’impugnazione del licenziamento mediante invio a mezzo pec di copia per immagine della lettera sottoscritta analogicamente dal lavoratore, in www.judicium.it; Ricuperati, Decade dall’impugnazione del licenziamento il lavoratore che trasmetta via PEC una copia informatica senza firma digitale della lettera di contestazione?, in www.ilprocessotelematico.it. Per una nota non critica, v. Lavizzari, Impugnazione di licenziamento a mezzo pec inidonea se manca la firma digitale, in GLav, 10, 28 febbraio 2020, 17 ss. 14 Dopo aver richiamato il noto motto «tutta la teoria del documento è dominata dal problema della sua paternità», di Carnelutti, Studi sulla sottoscrizione, in RDComm, 1929, I, 509 ss. 15 Ad esempio, opportunamente, Ricuperati, op. cit., ha posto in rilievo che la sentenza del Tribunale di Palermo ha negato, in modo apodittico e irragionevole, che la missiva di impugnazione fosse stata confezionata nell’osservanza delle Linee Guida dell’AGID e 13
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siciliano. Per un verso, infatti, la pronuncia richiama l’orientamento più risalente della giurisprudenza di legittimità sull’impugnativa stragiudiziale a mezzo telefax per sottolineare che «l’atto scritto deve essere incontrovertibilmente riferibile al lavoratore»; per l’altro, però, ritiene che non sarebbe possibile desumere dai precedenti formatisi proprio sulle impugnative mediante telegramma argomenti contrari a quelli derivanti dall’analisi del d.lgs. n. 82/2005, «stante che quest’ultima fattispecie è disciplinata dalla particolare previsione dell’art. 2705 c.c., che – in assenza di lacuna legislativa (…) – non può applicarsi analogicamente anche all’atto di impugnativa in questione». Contrapposto rispetto a quello a cui aderiscono le pronunce sino ad ora passate in rassegna, è invece il diverso orientamento sposato dal Tribunale di Brescia16 (già con sentenza del 17 aprile 2018), dal Tribunale di Roma (con l’ordinanza del 20 ottobre 2020) e, ancora più recentemente, dallo stesso giudice monzese che, nell’arco di pochi mesi, si è reso protagonista di un rapido quanto inaspettato revirement rispetto alla sua precedente posizione. Il Tribunale lombardo risolve il busillis, anzitutto alla luce dei principi generali che governano l’impugnazione del licenziamento, ricordando la piena libertà di forma nella predisposizione della impugnazione del licenziamento, purché sia osservato il requisito della forma scritta. Al contrario, invece, non è «previsto da alcuna disposizione normativa che l’impugnazione del licenziamento debba avvenire nella forma solenne dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata»: diversamente opinando – continua l’ordinanza in commento – l’impugnazione del licenziamento necessiterebbe sempre della sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale o da un altro soggetto pubblico autorizzato. In conseguenza di ciò, il Giudice bresciano ritiene inconferente il richiamo alle norme del d.lgs. n. 82/2005 in tema di documenti informatici e di firme elettroniche (art. 21 e art. 22), e, quanto alle perplessità manifestate dal datore di lavoro in merito alla mancanza di certezza in ordine alla conformità della copia ricevuta della lettera di contestazione del licenziamento all’originale e all’autenticità della firma del lavoratore, rileva che solo il lavoratore poteva avere interesse ad effettuare il disconoscimento di quella sottoscrizione, ma ciò non era mai avvenuto (ed anzi era stato lo stesso ricorrente a produrre personalmente in giudizio il documento contestato). Ancora più articolata è la motivazione fornita dal Tribunale di Roma che, nel discostarsi dall’orientamento restrittivo citato dalla parte datoriale, fa proprie le critiche svolte da alcuni commentatori, in quanto eccessivamente limitativo della libertà di forma all’impugnativa stragiudiziale riconosciuta dall’art. 6, l. n. 604/1966 «non rinvenendosi alcuna disposizione normativa che prescriva l’adozione di specifiche forme né che detto atto debba essere redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata». Infatti, il Tribunale di Roma rileva che la disposizione richiede il solo requisito della forma scritta, inteso in senso generico e, quindi, affinché l’impugnativa possa ritenersi valida,
che, in ogni caso, l’apposizione della firma digitale o elettronica qualificata, attribuita a chi estrae la copia per immagine, costituisce una mera facoltà (ai sensi dell’art. 4 del d.p.c.m. 13 novembre 2014), che non incide sul principio dell’equivalenza all’originale della copia per immagine non disconosciuta, sancito dal comma 3 dell’art. 22 C.A.D. e ribadito dal quarto alinea della stessa disposizione. 16 La pronuncia è stata annotata, unitamente alla predetta pronuncia brianzola, da Timellini, op. cit., 1255 ss.
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è sufficiente che il lavoratore manifesti per iscritto la volontà di contestare l’efficacia e la validità del licenziamento, senza la necessità di formule sacramentali o rituali17. Il giudice romano, dunque, richiama la giurisprudenza più recente sull’impugnativa a mezzo fonodettatura del telegramma, e ribadisce che va ritenuto idoneo ad interrompere il termine decadenziale anche il documento non sottoscritto, ma comunque riferibile al lavoratore e di cui sia accertata la provenienza, come nel caso dell’impugnativa trasmessa tramite telefax o telegramma. Peraltro, la pronuncia in commento si spinge anche a ritenere che «il lavoratore potrebbe (…) utilizzare l’e-mail con l’onere di prova in caso di contestazioni da parte del datore di lavoro», visto che «secondo la Cassazione il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) o lo “short message service” (“SMS”) costituiscono documenti elettronici che contengono la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privi di firma, rientrano tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c.» 18 che ne regolamenta il valore probatorio. La sentenza in commento osserva, inoltre, che se anche il documento scansionato e non firmato digitalmente fosse da qualificarsi come “documento informatico”, andrebbe applicato l’art. 20, c. 1 bis del C.A.D., secondo cui in assenza della «firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata», «l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità». Pertanto, tale sentenza ritiene che l’impugnativa di licenziamento possa avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico (il c.d. “atto nativo digitale”) sia mediante una copia per immagine su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica” o “scansione”). La copia per immagine, però – evidenzia il giudice romano – è regolata dall’art. 22 C.A.D., che non impone la sottoscrizione con firma digitale della copia su supporto informatico che risulta prevista per il solo “documento informatico” dall’art. 20 C.A.D. Infatti, il “documento informatico” e la “copia per immagine” sono soggetti a regole diverse: mentre il primo (il c.d. “atto nativo digitale”) è regolato dall’art. 20 C.A.D. ed è quel documento che viene normalmente generato attraverso il programma di videoscrittura e successivamente trasformato in formato “PDF” senza scansione, la copia per immagine su supporto informatico di documento analogico (o copia informatica di documento analogico o scansione) è prevista dall’art. 22 C.A.D. e consiste nel documento informatico che normalmente viene generato ed ottenuto in formato PDF dopo aver effettuato la scansione di un documento cartaceo (analogico). Ma – conclude il giudice di Roma – la normativa applicabile alla copia informatica di documento analogico non impone la sottoscrizione
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Del resto, in questo senso si è più volte espressa la giurisprudenza: cfr. ex multis Cass., 30 maggio 1991, n. 6102, in NGL, 1991, 845; Cass., 12 agosto 1994, n. 7405, in DPL, 1995, 4, 309; Cass., 27 febbraio 1998, n. 2200, in GC Mass., 1998, 457. 18 Così, Cass., 17 luglio 2019, n. 19155, in Gdir, 2019, 33, 104. Per un commento, v. Guarriello, Email e SMS come prova in giudizio: Cassazione sull’efficacia probatoria, in Giuricivile, 2020, 4, reperibile all’indirizzo https://giuricivile.it/email-sms-prova-in-giudizio/; Galluzzo, Sms e mail: piena prova in sede giudiziale, in www.ilfamiliarista.it.
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con firma digitale della copia su supporto informatico, che risulta prevista solo per il “documento informatico” dall’art. 20 C.A.D. Come anticipato, l’orientamento in questione è stato, infine, recepito dallo stesso giudice di Monza che aveva inaugurato la tesi formalistica. E così, nella pronuncia dell’aprile 2021, il Tribunale brianzolo fa una sintesi delle argomentazioni fornite dal Tribunale di Brescia, dal Tribunale di Roma e dai primi commentatori della sua prima sentenza, accogliendo la differenza sostanziale, quanto alla valenza probatoria, tra “documenti informatici” e “copie informatiche dei documenti analogici” e valorizzando, altresì, il principio di libertà di forma di cui all’art. 6, l. n. 604/1966.
4. L’impugnativa di licenziamento: questione di sostanza e non di “formalismo telematico”.
La repentina resipiscenza del Tribunale di Monza, che aveva inaugurato l’orientamento restrittivo testé descritto, favorisce il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale di merito più attento al significato letterale delle disposizioni del C.A.D. e, al contempo, capace di cogliere lo spirito dell’art. 6, l. n. 604/1966. Appare dirimente, infatti, la considerazione (fatta propria dal Tribunale di Brescia e dalla dottrina più attenta19) che l’impugnazione del licenziamento non deve necessariamente avvenire nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata20. Da ciò discende che non è corretto rintracciare il fondamento normativo nel capo II del d.lgs. n. 82 del 2005, il quale, a ben vedere, non disciplina la forma del documento, bensì unicamente la sua efficacia probatoria in giudizio, mentre il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 6, l. n. 604/1966 è assolto dal documento analogico di cui la pec costituisce solo il mezzo di trasmissione della relativa copia21. Infatti, la nozione di “atto scritto”, ai sensi dell’art. 6, l. n. 604/1966, è ben diversa (ed ha contorni molto più vaghi) rispetto a quella di atto pubblico o di scrittura privata autenticata e, dunque, appare corretto affermare che la mancata sottoscrizione digitale dell’atto allegato alla pec non ne infici in alcun modo la validità. Tale conclusione appare coerente, del resto, con quanto previsto dall’art. 46 del Regolamento (UE) n. 910/2014, secondo cui la forma elettronica di un documento non può costituire l’unico motivo per negarne gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali22.
19
Mengali, op. cit., 2. Così anche Timellini, op. cit., 1264. Contra Mutarelli, È valida l’impugnativa di licenziamento inviata come allegato dalla P.e.c. dell’avvocato?, in Il diritto dei lavori, Anno XII, n. 3, dicembre 2018, 21, secondo cui: «Ove si avvalga (…) dello strumento della scrittura privata, tale scrittura deve necessariamente recare la firma autografa prescritta dall’art. 2702 c.c., il quale impone tale requisito ai fini dell’efficacia della scrittura privata». 21 Così, Mengali, op. cit., 2. 22 Il Regolamento abroga la Direttiva 99/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche che, per quanto di qui interesse, già escludeva, all’art. 1, dal proprio campo d’applicazione quegli «aspetti relativi alla conclusione e alla validità dei contratti o altri obblighi giuridici quando esistono requisiti relativi alla forma prescritti dal diritto nazionale o comunitario». 20
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Nel diritto italiano, l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento è un «negozio giuridico unilaterale dispositivo diretto a manifestare la volontà di togliere efficacia e validità al recesso»23 che soggiace, come già più volte ricordato, al principio di libertà di forma. La dottrina24 ha chiarito che, a differenza della comunicazione di licenziamento, l’onere formale «non è previsto a tutela del destinatario dell’atto unilaterale, ma per una maggiore garanzia del contraente a carico del quale è posto» e l’ampiezza della formula legislativa utilizzata (“qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore”) costituisce un indice del favor nei confronti del lavoratore e del riconoscimento della sua debolezza contrattuale25. L’atto scritto, richiesto ad substantiam26, consente al lavoratore di poter provare di aver interrotto il termine decadenziale, il quale, a sua volta, risponde all’esigenza datoriale di certezza giuridica sulla persistenza del rapporto e sulla strutturazione ed organizzazione dell’organico, ed alla necessità di evitare il rischio di riammissioni in servizio di dipendenti licenziati in epoca remota27. In effetti, nell’interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale28, la forma richiesta dalla disposizione garantisce il controllo sull’osservanza del termine stabilito, e la genericità della previsione consente che l’impugnativa sia ricondotta alla parte interessata, non solo per il tramite della sottoscrizione, «ma anche con ogni altro scritto a questa riferibile, con la condizione esplicitamente posta, dell’idoneità a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento». L’estrema genericità della norma, dunque, non consente di predeterminare delle ipotesi di mezzi di trasmissione dell’impugnativa sicuramente validi a priori, «dovendosi far riferimento alla volontà che sottostà all’atto, piuttosto che al mezzo utilizzato»29. E, coerentemente con quanto affermato dalla Consulta, è stato rilevato30 che la sottoscrizione non costituisce un requisito necessario della validità dell’impugnazione, purché il lavoratore riesca a fornire una prova inequivocabile della provenienza dell’atto da sé medesimo, a differenza della “scrittura privata” di cui all’art. 2702 c.c., per cui la sottoscrizione è, come noto, requisito indefettibile31.
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Cass., sez. un., 2 marzo 1987, n. 2180, in GC, 1987, I, 1055. D’Onghia, La forma vincolata nel diritto del lavoro, Giuffrè ed., 2005, 319. 25 V. in tal senso, D’Onghia, op. cit., 320. 26 Trattandosi di atto non negoziale, l’eventuale assenza di forma scritta produce inesistenza dell’atto e non nullità. Così, D’Onghia, op. cit., 322. 27 Cfr. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, Cedam, 2000, 351. Secondo Napoletano, Il licenziamento dei lavoratori alla stregua della nuova disciplina legislativa, U.T.E.T., 1966, 55, il termine «è giustificato dalla necessità di garantire una rapida soluzione della controversia relativa al licenziamento e di facilitare il ripristino del rapporto ove il licenziamento risulti ingiustificato». 28 C. cost., ord. 13 maggio 1987, n. 161, in MGL, 1987, 319, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della norma, con riferimento agli artt. 3, 24 e 101 Cost. 29 Così Mazzotta, I licenziamenti. Commentario, Giuffré, 1999, 432. 30 Mazziotti, Forma e procedura dei licenziamenti, in F. Carinci (a cura di), La disciplina dei licenziamenti. Dopo le leggi 108/1990 e 223/1991, Jovene, 1991, 92; Tatarelli, op. cit., 364-365; Timellini, op. cit., 1260-1261. 31 Cfr. la copiosa giurisprudenza di legittimità sul punto, tra cui ex plurimis Cass., 7 gennaio 1997, n. 34, in GC Mass., 1997, 6; Cass., 9 luglio 2001, n. 9289, in GC Mass., 2001, 1359. 24
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Dunque, l’eccessivo formalismo a cui può condurre una lettura non coordinata e disattenta dei ricordati testi normativi rischia di contraddire la ratio dell’art. 6, l. n. 604/1966, e di produrre, per giunta, un irragionevole disallineamento tra l’estrema libertà di forma, che la giurisprudenza sempre più spesso riconosce all’intimazione del licenziamento, e le rigidità che, invece, si tenta di imporre alla contestazione del recesso. Appare paradossale, infatti, che secondo i più recenti arresti giurisprudenziali sia considerato legittimo il licenziamento intimato con una lettera allegata ad una e-mail non certificata, o addirittura con un semplice messaggio Whatsapp32, ed invece per la contestazione stragiudiziale di quel licenziamento non basti neanche la posta elettronica certificata, ma si richieda la firma digitale del documento allegato, già sottoscritto in forma autografa.
5. Il principio di libertà di forma e i nuovi mezzi di comunicazione digitale
La sentenza del Tribunale di Roma offre lo spunto, infine, per una breve riflessione sulla possibilità che i più moderni e diffusi mezzi di comunicazione digitale siano considerati “atti scritti” idonei ad interrompere il termine decadenziale per l’impugnativa del licenziamento. Il riferimento è agli SMS (“short message service”), alle e-mail non certificate, ai messaggi inviati mediante Whatsapp, Telegram e gli altri applicativi di messaggistica istantanea dei social network (Facebook, Instagram, Linkedin, etc.), sul cui valore probatorio si è già esercitata la giurisprudenza, seppure in casi dissimili. In primo luogo, la giurisprudenza di legittimità33 ha affermato che l’ SMS, di cui va riconosciuta la natura di scrittura privata ai sensi dell’art. 2712 c.c., fa piena prova in sede giudiziale dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime34, mentre una nota pronuncia di merito35 ha riconosciuto la validità del licenziamento intimato a mezzo SMS, nel presupposto della assimilabilità dello strumento al telegramma dettato per telefono.
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Per un esame della questione, v. Lazzari, La comunicazione del licenziamento alla prova delle nuove tecnologie, in ADL, 2017, 179; Rota, L’intimazione del licenziamento nell’era digitale: dalla notificazione a mezzo raccomandata all’invio tramite WhatsApp, in LLI, 3, 2, 2017, 27 ss.; Avondola, Il licenziamento nella digital society: la nuova frontiera della forma scritta, in VTDL, 1, 2018, 281 ss. 33 Cass., 17 luglio 2019, n. 19155, in GDir, 2019, 33, 104. 34 Tuttavia – chiarisce la Suprema Corte – «il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali, anche di documenti informatici aventi efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2712 c.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta». L’eventuale disconoscimento, dunque, non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata previsto dall’art. 215, comma 2, c.p.c., poiché, mentre, in questo caso, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata, per i documenti informatici non può escludersi che il giudice accerti la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. 35 App. Firenze, 5 luglio 2016, in ADL, 1, 2017, 189 ss., con nota di Lazzari. In precedenza, ritenne l’SMS inidoneo a costituire una valida forma di licenziamento «in quanto non garantisce con certezza l’autore dell’atto, né la data di invio e ricezione» Trib. Monza, 10 giugno 2013, in De jure.
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Inoltre, sempre a riguardo dell’intimazione di licenziamento, la Cassazione36 ha valutato che anche il documento allegato alla e-mail, di cui, però, risulti provata in ogni modo la ricezione da parte del datore di lavoro, costituisca un valido “atto scritto”, ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. n. 604/1966. Analogamente, poi, la giurisprudenza di merito37 è giunta a riconoscere la legittimità del recesso intimato per il tramite dell’applicazione Whatsapp, in quanto ha ritenuto che detto strumento garantisca la inequivocità, la chiarezza e la facile intellegibilità della volontà estintiva del rapporto. Ciò premesso, però, quanto all’impugnativa del licenziamento, questi strumenti di comunicazione pongono tutti un duplice problema, di ordine non solo pratico, consistente nella inequivocabile individuazione della paternità dei messaggi e nella prova della loro effettiva ricezione. Infatti, se l’impugnativa del recesso può essere comunicata “con qualsiasi atto scritto”, tale può configurarsi anche il messaggio inviato con uno dei predetti strumenti digitali, anche perché, come anticipato, la sottoscrizione dell’impugnativa non costituisce elemento essenziale per l’esistenza dell’atto38, a condizione che, diversamente, ed anche per presunzioni (come chiarito in giurisprudenza per il caso del telegramma fonodettato), si possa giungere ad associare con certezza il mittente alla persona del lavoratore. In tal senso, non v’è dubbio che la univoca riconducibilità dell’utenza telefonica al soggetto titolare consenta di assolvere a questa esigenza39. Più dubbia, invece, appare la riconducibilità dei messaggi inviati mediante gli applicativi di messaggistica istantanea dei social network che non prevedano una previa registrazione dell’utente tale da impedire l’utilizzo di profili “fake”, a meno che il mittente non riesca a provare di avere un utilizzo esclusivo e personale del profilo40. Quanto, invece, alla e-mail non certificata che rechi in allegato un documento scansionato, il rischio per il lavoratore che abbia contestato la legittimità e la validità del recesso con questo mezzo è che di non riuscire a provare l’effettiva ricezione da parte del datore di lavoro. A meno che (come sostenuto in giurisprudenza per i telefax) non si voglia riconoscere alla notifica di lettura che alcuni servizi di posta elettronica assicurano il significato di una presunzione relativa di ricezione, e sempre che il lavoratore riesca a fornire la prova che l’indirizzo e-mail non certificato a cui l’atto viene inviato costituisce il domicilio informatico del datore. Analogamente a quanto accade per la trasmissione a mezzo pec41, però, resta fermo che, in caso di specifica contestazione, il lavoratore avrà l’onere di produrre l’originale del documento, affinché si possa verificare la conformità della copia scansionata e trasmessa via e-mail all’originale.
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Cass., 12 dicembre 2017, n. 29753, in LG, 6, 2018, 565 ss., con nota di Zilli. Trib. Catania, 27 giugno 2017, in Labor, 2017, 2, con nota di Pistore. 38 Così, C. cost., ord. 13 maggio 1987, n. 161, cit. 39 In tal senso, v. Pistore, Legittimo il licenziamento intimato mediante Whatsapp, in Labor, 2017, 2. 40 Meno dubbiosa in ordine all’ammissibilità del licenziamento a mezzo messaggio privato su Facebook, Rota, op. cit., 41, secondo cui lo strumento risulta assimilabile all’ SMS o ad una e-mail non certificata. 41 Così, Mengali, op. cit., 3. 37
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In definitiva, in attesa di un auspicabile intervento normativo che possa fugare ogni dubbio, il principio di libertà di forma imposto dall’art. 6, l. n. 604/1966 consente di considerare legittimo l’utilizzo di pressoché tutti i moderni mezzi di comunicazione digitale, con l’esclusione unicamente di quelli che sicuramente non formano un “atto scritto”, come i “messaggi vocali” trasmessi su Whatsapp42, su Telegram o su altro strumento di messaggistica istantanea. Claudio
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Analogamente, ritengono che i messaggi vocali su Whatsapp non possano costituire atto scritto ai fini dell’intimazione del licenziamento Rota, op. cit., 40 e Zili, La comunicazione “scritta” del licenziamento nell’era digitale, in LG, 2018, 6, 570.
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Roma ordinanza 21 gennaio 2021 n. 5961; Est. Vincenzi – S.D.F. c. L. S.p.a.
Lavoro (rapporto) – lavoro agile – esigenze di cura – astratta eseguibilità della prestazione in modalità agile – diritto alla assegnazione – sussistenza
A fronte del ricorrere di esigenze di cura, un diritto alla assegnazione al lavoro agile sorge, così come previsto dalla normativa emergenziale, quando le caratteristiche della prestazione di lavoro dedotta nel contratto siano anche solo astrattamente compatibili con siffatta modalità di svolgimento del lavoro.
(Omissis) Con ricorso ex 700 c.p.c. depositato telematicamente il 4.12.2020 ed iscritto a ruolo il 7.12.2020 la sig.ra S.D.F., laureata in giurisprudenza ed iscritta nell’Albo dei Giornalisti del Lazio, esponeva: di essere stata assunta nel 2005 dall’allora Alenia Aeronautica S.p.A., società soggetta al controllo e coordinamento di Finmeccanica spa, con inquadramento nel livello VII del CCNL dipendenti industria metalmeccanica e mansioni di “Addetta alle Relazioni Esterne”, con sede di lavoro in Roma; che nel 2011, a seguito di fusione, la ricorrente passava alle dipendenze della Società Alenia Aermacchi ex art. 2112 c.c., mantenendo identici inquadramento, funzione e sede di lavoro; che nel mese di dicembre 2012 la ricorrente riceveva due lettere dal datore di lavoro: con la prima le veniva comunicato il distacco presso Finmeccanica S.p.A. in Roma, presso la direzione Group Security Office, dal 1.1.2013 al 31.12.2013, con lo stesso inquadramento originario, con la seconda le veniva comunicato il trasferimento presso la sede Alenia Aermacchi di Torino Caselle al termine del periodo di distacco in Finmeccanica; che nell’agosto del 2014 alla madre della ricorrente, sig.ra M.M. veniva riconosciuto lo stato di persona “portatore di handicap in situazione di gravità” ai sensi dell’art. 4 L.104/92; che, non avendo alcun altro familiare che potesse assisterla, la sig.ra M.M. si trasferiva presso la ricorrente in Roma, in via OMISSIS; che la ricorrente, avendo necessità di assistere la madre in via continuativa, presentava richiesta di congedo straordinario; che il congedo le veniva concesso dall’INPS con decorrenza 5.1.2015 e con scadenza al 3.1.2017; che a decorrere dal 1.1.2016 Alenia Aermacchi S.p.A. veniva incorporata a seguito di scissione parziale in Finmeccanica S.p.A. (ora Leonardo S.p.A.) con conseguente passaggio della ricorrente alle dipendenze della società resistente ex art. 2112 c.c.; che in vista della scadenza del periodo di congedo con lettera del 25.2.2016 la ricorrente, che era assegnata presso la sede di Torino Caselle, esercitava il diritto ad essere trasferita presso l’unità produttiva più vicina alla residenza della madre (omissis) ai sensi dell’art. 33, l. n. 104 del 1992, ovvero presso
la sede aziendale di Piazza Monte Grappa n. 4; che la Società convenuta non rispondeva; che la richiesta veniva reiterata dopo qualche mese, anche mediante trasmissione con posta elettronica certificata, non ricevendo alcuna risposta; che seguiva una terza richiesta in data 7.12.2017, parimenti rimasta senza risposta; che la ricorrente, nel frattempo, veniva colpita da una sindrome ansioso depressiva reattiva legata alle vicende lavorative, e, tra l’altro, da una “accentuata claustroagora fobia che non consente alla paziente l’utilizzo di mezzi di trasporto pubblici e privati per la propria ed altrui incolumità” con conseguente “impossibilità all’uso di mezzi privati e pubblici” e necessità di effettuare “spostamenti unicamente a piedi”, come comprovato dalle certificazioni mediche allegate al ricorso; che, considerata la suddetta condizione psico-fisica, la ricorrente era costretta ad assentarsi per malattia nei periodi dal 4.1.2017 al 9.2.2017; che in data 23.1.2017 chiedeva che le venisse concessa l’aspettativa non retribuita per malattia, poi prorogata sino al 28.2.2019; che la ricorrente proponeva quindi, in vista del superamento del periodo di comporto, un ricorso ex art. 700 c.p.c. per ottenere l’assegnazione in una unità produttiva all’interno del Comune di Roma, azionando il diritto di cui all’art.33 comma 5 della L. 104/92; che nel corso del giudizio cautelare la società proponeva in via transattiva l’assegnazione alla sede aziendale di Via Tiburtina, in regime di distacco presso una distinta società del gruppo; che la ricorrente dichiarava di non poter accettare la proposta in ragione dei certificati disturbi che le impedivano, e le impediscono tuttora, di fare uso di mezzi pubblici e privati tragitti anche brevi; che con ordinanza del 4.9.2019 il Tribunale di Roma, in accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato dalla ricorrente così disponeva: “Accogliendo il ricorso cautelare promosso da nei confronti di Leonardo SpA, ordina alla datrice di lavoro, ai sensi all’art. 33, comma 5, L. 104/1992, di assegnare la ricorrente ad una sede di lavoro all’interno del territorio di Roma Capitale”; che a fronte della decisione, la società disponeva il trasferimento della Dott.ssa S.D.F. presso la sede di Via Tiburtina Km.12,400; che la lavoratrice contestava la
Giurisprudenza
nuova assegnazione, deducendone la natura ritorsiva e, comunque, evidenziando come si presentasse inidonea ad integrare una corretta ottemperanza all’ordine del Tribunale; che la ricorrente prendeva comunque regolarmente servizio presso la sede di Via Tiburtina in data 5.11.2019; che in occasione dell’accesso apprendeva che si sarebbe dovuta occupare di monitorare, redigere e rielaborare documenti di pertinenza della struttura “Compliance” della società, facente capo alla Dott.ssa P.A.; che successivamente era costretta ad assentarsi nuovamente per la medesima patologia che già in precedenza la affliggeva, aggravata dall’assegnazione presso la sede più distante possibile all’interno del territorio di Roma Capitale; che proponeva quindi ricorso ex art. 669 duodecies c.p.c. per ottenere l’esatto adempimento dell’ordinanza cautelare ottenuta; che il Tribunale rigettava il ricorso ritenendo l’ordinanza emessa all’esito dell’art. 700 c.p.c. pienamente satisfattiva delle domande proposte in sede cautelare; che in ragione della situazione di emergenza dovuta alla pandemia per Covid 19, vista anche la propria impossibilità di fare ricorso a mezzi di trasporto pubblici o privati, in data 8.7.2020 la ricorrente formulava una prima richiesta di collocamento in “lavoro agile” ai sensi dell’art 39, D.L. n. 18/2020, così come modificato in sede di conversione dalla Legge n. 27/2020, senza ottenere alcuna risposta; di avere riproposto l’istanza in data 1.9.2020, rimasta parimenti senza risposta; che la gran parte dei lavoratori di Leonardo S.p.A., con particolare riferimento a quelli addetti alla sede di Via Tiburtina ed al settore “Compliance”, attualmente fruiscono del lavoro agile; che permanendo l’attuale condizione di malattia, la ricorrente giungerà a concorrenza del periodo di comporto per malattia alla data del 9.1.2021; che l’impossibilità di utilizzare mezzi di trasporto pubblici e privati, anche a prescindere dall’attuale condizione di rischio legato alla pandemia da Covid 19, è stata nuovamente attestata dall’Unità Operativa di Neurologia dell’Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli in data 6.7.2020. In punto di diritto la parte ricorrente deduceva: che risulta ingiustificato, discriminatorio e ritorsivo il tacito diniego opposto dalla società convenuta alle richieste della ricorrente di poter rendere la prestazione in modalità “agile”; che l’art. 39 D.L. 17 marzo 2020 n.18, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, dispone che “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile ai sensi dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”; che
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si tratta di un vero e proprio diritto soggettivo che sussisterà quantomeno fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, fissato ad oggi per il 31.1.2021; che le mansioni della ricorrente risultano del tutto compatibili con lo svolgimento di una prestazione in modalità agile, poiché attività di natura squisitamente intellettuale; che, con riferimento al periculum in mora, la mancata concessione del lavoro agile alla ricorrente è idonea ad arrecarle un danno grave ed irreparabile sotto molteplici profili; che il collocamento in lavoro agile, salvaguardando la prestazione lavorativa della ricorrente, le permetterebbe di evitare qualsiasi rischio di contagio collegato allo spostamento con mezzi pubblici ed alla fruizione di spazi comuni sul luogo di lavoro, riducendo altresì il rischio di contagio ai danni della madre, ultraottantenne invalida affetta da molteplici patologie e “vulnerabile” al virus Covid 19; che l’obbligo di esporsi al rischio di contagio nel percorso per raggiungere il luogo di lavoro e sul luogo di lavoro, conseguente al mancato riconoscimento del diritto al lavoro agile, integra un rischio di danno grave ed irreparabile in riferimento alla salute ed all’integrità fisica della ricorrente e della di lei madre; che il Tribunale di Roma ha già affrontato un caso analogo, riconoscendo in via cautelare il diritto al collocamento in lavoro agile in favore di una lavoratrice ammessa ai benefici di cui alla L.104/92 per l’assistenza di un familiare disabile, ed a sua volta affetta da una sindrome ansioso depressiva. Tanto esposto la ricorrente concludeva chiedendo di volere: “accertare e dichiarare il diritto della ricorrente a svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità “agile”, anche ai sensi dell’art. 39 comma 1 del D.L.18/2020, a tempo indeterminato e, in ogni caso, sino al perdurare dell’emergenza epidemiologica attualmente prevista sino al 31 gennaio 2021 e per l’effetto ordinare alla società resistente di consentire alla Dott.ssa S.D.F. lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile”. La Leonardo spa si costituiva in giudizio depositando memoria difensiva telematica ed allegato fascicolo chiedendo di volere:” respingere il ricorso proposto dalla Dott.sa S.D.F., in quanto infondato in fatto ed in diritto, stante l’insussistenza di entrambi i requisiti richiesti ex lege del periculum in mora e del fumus boni iuris. Con vittoria di spese, competenze ed onorari”. In particolare la società resistente deduceva: che il ricorso cautelare è inammissibile per carenza dei presupposti necessari per la pronuncia di un provvedimento d’urgenza; che difetta un pregiudizio imminente ed irreparabile in capo alla ricorrente; che dalla data di emissione dell’ultimo provvedimento cautelare e anche in precedenza e sino a tutt’oggi la ricorrente è stata ininterrottamente assente per malattia, congedo e ferie; che pertanto non sussiste il rischio attuale di un grave ed irreparabile pregiudizio; che l’urgenza non potrebbe essere rinvenibile nel rischio del superamen-
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to del comporto, posto che una tale evenienza potrebbe essere evitata dalla ricorrente medesima se questa è in grado di rendere la prestazione lavorativa, a prescindere dalle modalità in cui essa è resa; che la Società non ha mai negato alla ricorrente la possibilità di rendere la prestazione lavorativa in modalità agile; che tuttavia la perdurante assenza della medesima dal lavoro sin dal 5.11.2019 ed a tutt’oggi, in uno con la mancata accettazione del distacco presso Leonardo International S.p.A., seppur per svolgere attività compatibili con il suo inquadramento e profilo, ha reso impossibile assegnare la ricorrente ad una specifica funzione ed attività, con la conseguenza che il contenuto della prestazione da svolgere in modalità agile sarebbe di difficile individuazione; che la dottoressa S.D.F. è stata assunta il 3.10.2005 in Alenia Aeronautica S.p.A. come Impiegata di 7° livello e le mansioni di Addetta Ufficio Stampa presso la Funzione Relazioni Esterne, a Roma alla Via Campania; che a seguito della fusione tra Alenia Aeronautica S.p.A. e Aermacchi S.p.A., che ha dato vita ad Alenia Aermacchi, l’azienda ha, tra l’altro, proceduto ad una graduale chiusura degli uffici di Roma con ricollocazione di gran parte delle Direzioni sul sito di Torino Caselle; che anche la Direzione di appartenenza della ricorrente (Relazioni Esterne) è stata ricollocata a Torino Caselle per ragioni organizzative; che a dicembre 2012, avendo Alenia ormai chiuso tutte le sedi di Roma, alla ricorrente è stato comunicato che al termine del distacco presso FGSE (disposto dall’1.1.2013 al 31.12.2013), la sua sede lavorativa sarebbe stata lo stabilimento di Torino Caselle (Ufficio Relazioni Esterne); che di fatto, però, la ricorrente non ha mai iniziato il lavoro nella sua nuova sede, stante il protrarsi delle sue assenze a vario titolo (malattia, congedo parentale, ferie, permessi ed altro); che dal 1° aprile 2017 al 31 marzo 2019, la ricorrente è stata in aspettativa non retribuita per malattia; che nel corso di un processo organizzativo e riorganizzativo della resistente si è inserito il primo procedimento cautelare avviato dalla ricorrente con il quale la stessa ha chiesto di essere trasferita presso una delle sedi di Roma Capitale considerato che, ex art. 33 l. 104/1992, assisteva la madre affetta da grave disabilità; che a fronte del predetto procedimento cautelare la ricorrente ha ottenuto il diritto ad essere assegnata, “ad una sede di lavoro all’interno del territorio di Roma Capitale”; che la Società ha ottemperato al disposto giudiziale e con decorrenza da novembre 2019 ha assegnato la ricorrente presso la sede di Roma, sita in via Tiburtina km 12,400; che la scelta organizzativa della sede indicata è stata determinata dall’impossibilità di assegnare la ricorrente ad altra Divisione della Società; che, considerato il curriculum della S.D.F., non è stato possibile assegnare la medesima ad alcuna posizione in quanto non esistevano all’epoca, e non esistono oggi, posizioni vacanti; che anche su Roma, sia nei siti delle varie Divisioni che a livello centrale di Corporate, anche
presso le sedi di Pastrengo, Flaminia, Faustiniana, oltre che P.zza Monte Grappa non vi erano, né vi sono, posizioni vacanti equivalenti; che il 4.11.2019 la ricorrente si è recata presso gli uffici della convenuta siti in via Tiburtina km 12,400 ed in tale occasione alla medesima è stato rappresentato che per assecondare le sue aspettative professionali e le sue attitudini sarebbe stata distaccata presso la Società Leonardo International S.p.A. così da poter continuare a svolgere attività compatibili ed in linea a quelle svolte in precedenza; che in tale occasione la ricorrente, pur essendosi verbalmente dichiarata soddisfatta della nuova assegnazione, ha dichiarato di non essere disponibile a recarsi presso la sede di via Tiburtina km12.400 in quanto, seppur tra quelle di Roma Capitale richieste, era troppo distante dalla sua abitazione e non avrebbe agevolmente potuto raggiungerla stante la sua difficoltà psicologica ad utilizzare mezzi pubblici e privati; che dal 5.11.2019 la ricorrente non si è più recata al lavoro e risulta a tutt’oggi assente e, in conseguenza di ciò, non è stato possibile assegnarle ad oggi nessuna effettiva attività; che con ricorso ex art. 669 duodecies c.p.c. la sig.ra S.D.F. ha richiesto al Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, di “Accertare e dichiarare il diritto della ricorrente alla scelta ed all’assegnazione alla sede di lavoro più vicina al proprio domicilio anche ai sensi dell’art 33 comma 5 L.104/92, e per l’effetto ordinare alla resistente di disporre il trasferimento comunque adibire immediatamente la ricorrente alla sede di Roma, Piazza Monte Grappa n. 4 o in altra sede all’interno del territorio di Roma Capitale”; che con provvedimento del 23.6.2020 il Tribunale di Roma, Sezione ha rigettato la nuova richiesta cautelare della ricorrente, ritenendo corretta ed in linea con il disposto giudiziale l’assegnazione della ricorrente presso la sede di via Tiburtina km. 12.400; che non avendo la ricorrente mai preso servizio, di fatto, presso la sua sede di assegnazione in via Tiburtina, né avendo mai accettato il distacco presso Leonardo International, non è stato possibile assegnarle strumenti aziendali, account di posta elettronica e credenziali di accesso ad essi, nonché attività; che inoltre non è mai stato possibile erogarle la formazione tanto in materia di attività quanto di sicurezza; che ai sensi della L. 81/2017 il 18.12.2019 è stato firmato un accordo sindacale di ricorso al lavoro agile che ha previsto che per i lavoratori che rispondevano ai requisiti richiesti era possibile fare ricorso al lavoro agile nei limiti e termini pattuiti, previa adesione individuale all’accordo; che tale accordo è poi stato prorogato sino a giungo 2020; che ad inizio pandemia la Società ha tuttavia deciso di fare ricorso massiccio al lavoro in modalità agile, anche in deroga a quanto previsto dal predetto accordo, ed in attuazione alle previsioni governative; che il ricorso alla modalità agile era tuttavia possibile solo per il personale munito di strumentazione aziendale informatica idonea e che svolgesse le funzioni descritte in memoria; che la ricorrente non ha
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mai assunto il nuovo incarico, dunque non è mai stata formata, anche in materia di sicurezza, né ha mai fatto attività di affiancamento per le nuove funzioni; che inoltre, la ricorrente, sempre per tali ragioni, non era e non è in possesso di strumenti informatici aziendali che sono indispensabili, per policy aziendale, per lo svolgimento di attività lavorative in modalità agile; che nell’attuale contesto pandemico il legislatore ha previsto la facoltà e potestà del datore di lavoro di disporre la modalità del lavoro agile anche senza l’accordo del lavoratore; che tuttavia la possibilità, per il lavoratore, di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile è condizionata e limitata dal fatto che essa sia compatibile con le esigenze organizzative aziendali, tenuto conto della prestazione lavorativa assegnata al dipendente richiedente; che parimenti è accaduto con l’art. 90 del d.l. n. 34/2020 ove è previsto in capo ai lavoratori del settore privato che abbiano almeno un figlio minore di anni 14 il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile “a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore…. ed a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”; che dunque il diritto del lavoratore è sempre temperato dalla possibilità di esplicare la prestazione lavorativa in modalità agile, circostanza quest’ultima ribadita anche in un caso deciso da una recente ordinanza del Tribunale di Mantova che ha rigettato la domanda di un lavoratore di vedersi assegnato alla modalità agile ex art. 90 d.l. n. 34/2020; che la rivendica l’adibizione al lavoro agile sebbene non abbia mai preso, di fatto, servizio presso la sede di assegnazione di via Tiburtina e non abbia mai accettato ed espletato una prestazione lavorativa, per cui la valutazione di una sua compatibilità con l’espletamento di essa in modalità agile è impossibile; che il lavoro agile è attività lavorativa che presuppone che il rapporto di lavoro tra le parti sia in atto (e non sospeso come ad esempio nel caso della malattia e/o di permessi); che attualmente il rapporto tra le parti è sospeso perché la ricorrente è assente per malattia e ciò preclude alla convenuta di esercitare il potere direttivo ed organizzativo nei suoi confronti. All’udienza del 18.1.2021, sentite le parti liberamente, dopo la discussione il Giudice si riservava. Il ricorso è fondato. Con riferimento al fumus boni iuris, presupposto indispensabile della tutela cautelare unitamente al periculum in mora si osserva quanto segue. Dalla documentazione versata in atti emerge che: -la ricorrente, trasferita dalla precedente datrice di lavoro, Alenia Aermacchi SpA, presso la sede di Torino Caselle, dopo aver chiesto un periodo di congedo straordinario, per poter assistere la madre, riconosciuta portatrice di handicap in situazione di gravità,
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transitata nelle more alle dipendenze della resistente Leonardo SpA, alla scadenza del suddetto periodo di congedo, ha chiesto alla nuova datrice di lavoro di essere trasferita presso l’unità produttiva più vicina alla madre, sita all’interno del territorio di Roma Capitale; - respinta dalla resistente la richiesta di trasferimento, con ricorso ex art. 700 cpc la ricorrente ha chiesto di volere” accertare e dichiarare il diritto della ricorrente alla scelta ed all’assegnazione alla sede di lavoro più vicina al proprio domicilio anche ai sensi dell’art. 33 comma 5 L.104/92, e per l’effetto ordinare alla resistente di disporre il trasferimento o comunque adibire immediatamente la ricorrente alla sede di Roma, Piazza Monte Grappa n. 4, o in altra sede all’interno del territorio di Roma Capitale”; - con ordinanza n. 85270/2019 del 4.9.2019 il Tribunale di Roma sezione lavoro, in accoglimento del ricorso cautelare, ha ordinato alla datrice di lavoro Leonardo spa, ai sensi dell’art. 33 comma 5 L. 104/92, “di assegnare la ricorrente ad una sede di lavoro all’interno del territorio di Roma Capitale”; - con lettera del 21.10.2019 la società resistente ha disposto, in esecuzione dell’ordinanza cautelare del 4.9.2019 del Tribunale di Roma, il trasferimento della ricorrente, con decorrenza 1.11.2019, presso la sede di Roma, Via Tiburtina km 12,400; - con lettera del 30.10.2019 la società resistente ha l’intenzione di Leonardo spa di distaccare la sig.ra Compliance; alla Leonardo International spa presso l’Unità Organizzativa - con lettera del 30.11.2019 la società resistente ha confermato alla ricorrente il distacco presso la società Leonardo International spa via Tiburtina km 12,400 dal 1.11.2019 al 31.12.2019; - con ordinanza n. 51384 del 23.6.2020 il Tribunale di Roma sezione lavoro ha respinto il ricorso ex art. 669 duodecies c.p.c. depositato dalla ricorrente inteso ad ottenere “l’adozione del provvedimento ex art. 700 c.p.c., con l’adozione dei provvedimenti necessari e/o opportuni, la specifica sede di destinazione onde rendere effettiva la tutela giurisdizionale concessa, ed in particolare ordinare l’assegnazione della Dott. ssa S.D.F. alla sede di Piazza Monte Grappa, o ad altra sede presente nel territorio urbano, quali quelle di via Pastrengo o di via Flaminia”. Si osserva che la resistente ha affermato nella memoria di costituzione che la ricorrente il 4.11.2019 si è recata presso gli uffici della convenuta siti in via Tiburtina km 12.400, rappresentando in tale occasione alla S.D.F. che “sarebbe stata distaccata presso la Società Leonardo International S.p.A. così da poter continuare a svolgere attività compatibili ed in linea a quelle svolte in precedenza” e che “In tale occasione la ricorrente, pur essendosi verbalmente dichiarata soddisfatta della nuova assegnazione, ha dichiarato di non essere disponibile a recarsi presso la sede di via Tiburtina km12.400...” (pag. 9).
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La ricorrente, al contrario, nel ricorso ha allegato che, pur contestando la nuova assegnazione (tanto da presentare poi ricorso ex art. 669 duodecies c.p.c.), “prendeva comunque regolarmente servizio presso la sede di Via Tiburtina in data 5 novembre 2019” e che “In occasione dell’accesso, apprendeva che si sarebbe dovuta occupare di monitorare, redigere e rielaborare documenti di pertinenza della struttura “Compliance” della società, facente capo alla Dott.ssa P.A.”. Risulta pacifico e documentato (omissis) che la ricorrente ha preso servizio il 4.11.2019 (per evidente mero errore materiale indicato in ricorso come 5.11.2019) presso la sede assegnata di via Tiburtina km 12,44, lavorando dalle 8:42 alle 17:31. Successivamente, nel periodo tra il 5.11.2019 e il 15.1.2021 la ricorrente è stata assente dal lavoro per malattia, permessi ex L. 104/92 e ferie (cfr. dettagliato ed incontestato prospetto indicato al cap.21 della memoria della resistente). Attualmente la malattia è cessata e la ricorrente si trova in ferie (cfr. interrogatorio libero della lavoratrice). La ricorrente ha chiesto alla datrice di lavoro con istanza dell’8.7.2020, reiterata il 1.9.2020, la collocazione in lavoro agile, “a decorrere dalla cessazione dell’attuale stato di malattia” ai sensi dell’art 39 D.L. n. 18/2020, così come modificato in sede di conversione dalla Legge n. 27/2020, il quale stabilisce che “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile ai sensi dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”. Nel caso di specie sussistono tutti i requisiti richiesti dal citato art. 39 per l’esercizio della prestazione di lavoro in modalità agile atteso che: - la ricorrente, dipendente della resistente, assiste la propria madre disabile ex art. 3 comma 3 L. 104/92 (cfr. doc. 8 allegato al ricorso); - lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 è stato prorogato dapprima sino al 31.10.2020, successivamente al 31.1.2021 e da ultimo sino al 30.4.2021 ex art. 1 D.L. n.2 del 14.1.2021; - la qualifica di impiegato e l’inquadramento della ricorrente nella 7° categoria del ccnl per le aziende metalmeccaniche private (cfr. contratto del 26.7.2005 di assunzione alle dipendenze di Alenia Aeronautica spa oggi Leonardo spa) comportano pacificamente lo svolgimento di mansioni di natura intellettuale, quali quelle relative al settore “Compliance”, che ben si prestano ad essere svolte in modalità agile.
L’art. 39 richiede esclusivamente che il lavoro agile “sia compatibile con le caratteristiche della prestazione” e certamente la prestazione lavorativa richiesta alla ricorrente, di natura intellettuale, risulta compatibile con la modalità agile, che ha lo scopo di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 18 comma 1 L. n.81/2017). Non sussiste alcun attuale impedimento al lavoro agile, considerata la cessazione della malattia della ricorrente, che attualmente si trova in ferie. Nè può fondatamente sostenersi che “l’assenza di qualsiasi prestazione da parte della ricorrente anche a tutt’oggi non consente di assegnare la medesima ad una non meglio precisata attività lavorativa in modalità agile”, richiedendo la norma invocata unicamente la compatibilità del lavoro agile con le caratteristiche della prestazione che, trattandosi nel caso di specie di prestazione di natura intellettuale, che non richiede la necessaria presenza fisica in azienda (nulla al riguardo è stato dedotto e provato dalla resistente), ben può essere resa nella modalità del lavoro agile. Sussiste pertanto il fumus boni iuris. Nel caso di specie sussiste, altresì, anche il periculum in mora, ulteriore requisito imprescindibile della tutela cautelare. Invero, il mancato accoglimento dell’istanza cautelare comporterebbe un pericolo concreto di danno grave ed irreparabile con riferimento alla salute ed all’integrità fisica della ricorrente e della madre disabile con lei convivente; al contrario, il collocamento in lavoro agile permetterebbe alla ricorrente di rendere la prestazione lavorativa da casa evitando qualsiasi rischio di contagio da Covid-19 collegato sia allo spostamento con mezzi pubblici, che peraltro non potrebbe prendere per le documentate patologie dalle quali è affetta (omissis), sia alla fruizione di spazi comuni sul luogo di lavoro, riducendo altresì il rischio di contagio ai danni della madre, ultraottantenne disabile ex art. 3 comma 3 L. 104/92, e consentirebbe verosimilmente alla lavoratrice di evitare di avere delle ricadute negative sul suo stato di salute che comporterebbero, in caso di ulteriore periodo di malattia, un concreto rischio di superare il periodo di comporto. Per le considerazioni che precedono, in accoglimento del ricorso, deve essere dichiarato il diritto della ricorrente a svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità “agile” ai sensi dell’art. 39 comma 1 del D.L.18/2020 sino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, attualmente previsto sino al 30.4.2021, e per l’effetto ordina alla società resistente di consentire ricorrente lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo in calce. PQM 1) dichiara il diritto di S.D.F. a svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità “agile” ai sensi
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dell’art. 39 comma 1 del D.L. 18/2020 sino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, attualmente previsto sino al 30.4.2021, e per l’effetto ordina alla società resistente di consentire ricorrente lo svol-
gimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile; (Omissis)
Quando l’assegnazione al lavoro agile è un diritto Sommario :
1. I fatti di causa e la decisione. – 2. Il “diritto” al lavoro agile fra normativa ordinaria e normativa emergenziale. – 3. Alcune considerazioni prospettiche.
Sinossi. Nel commentare l’ordinanza del Tribunale di Roma, che torna – apparentemente senza grandi novità – sulla questione del diritto al lavoro agile durante il periodo pandemico, l’A. si interroga sui riflessi che la disciplina eccezionale potrà avere sull’istituto quando l’emergenza sarà finita, con particolare riguardo alla possibilità che esso assurga a strumento organizzativo. Abstract. The order of the Court of Rome gives the A. the opportunity to reflect on the following issues: if a right to be assigned to the smart working mode will exist also when the emergency will be over; if the smart working could be consider an organizational tool.
1. I fatti di causa e la decisione1. L’ordinanza in epigrafe si inserisce nel solco tracciato dalla recente giurisprudenza di merito, che per il tempo dell’emergenza sanitaria ha riconosciuto ai lavoratori che versano in particolari condizioni di salute o che sono gravati da oneri di assistenza a figli o familiari, anche disabili, il diritto ad essere assegnati al lavoro agile (v. infra par. 2). Essa, tuttavia, suggerisce una riflessione sul futuro di questo istituto, dal momento che l’esigenza di cura alla base della richiesta avanzata dalla lavoratrice nel caso di specie era preesistente rispetto all’avvento della pandemia in corso (v. infra par. 3).
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Per semplificare la lettura del testo si assume la convenzione semantica in base alla quale l’utilizzo del termine maschile include il riferimento al femminile. Ne consegue che l’eventuale impiego di termini al femminile identifica questo solo genere.
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È utile, pertanto, ricapitolare brevemente come si è svolta la causa, a partire dalla decisione assunta dal giudice di accogliere il ricorso presentato dall’istante, ex art. 700 c.p.c., condannando il datore di lavoro a «consentire alla ricorrente lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile» fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica. Le ragioni poste a fondamento della richiesta avanzata dalla lavoratrice sulla base dell’art. 39 d.l. n. 18/2020 riguardano lo stato di salute proprio e quello della madre, portatrice di handicap in situazione di gravità ai sensi della l. n. 104/92 e da lei assistita in quanto unica familiare. Si tratta, peraltro, delle medesime ragioni che negli anni precedenti avevano sorretto svariate istanze rivolte dalla lavoratrice al proprio datore di lavoro di essere trasferita per avvicinarsi dapprima al luogo di residenza della madre e poi al proprio domicilio, una volta accertata una sindrome ansioso depressiva e una accentuata agora-fobia che le impediva di utilizzare mezzi di trasporto pubblici e privati per recarsi al lavoro, richieste soddisfatte solo in parte e solo all’esito di un primo intervento giudiziale. La decisione in epigrafe, dunque, nel riconoscere il diritto della lavoratrice all’assegnazione al lavoro agile in applicazione della normativa emergenziale, di fatto risponde a esigenze pregresse riconducibili ad un impedimento perdurante nel tempo, perciò sollevando l’interrogativo se, una volta cessata l’emergenza pandemica, il ricorso a tale modalità di esecuzione della prestazione potrà assurgere a soluzione organizzativa che il datore è tenuto a mettere in pratica per rimediare a una sopravvenuta parziale inidoneità alla prestazione del lavoratore.
2. Il “diritto” al lavoro agile fra normativa ordinaria e normativa emergenziale.
La legislazione ordinaria non contempla un diritto del prestatore ad ottenere l’assegnazione al lavoro agile (diritto che, peraltro, potrebbe essere previsto dalla contrattazione collettiva). Ciò si ricava, ad avviso chi scrive, dai caratteri dell’istituto, sì come tratteggiati dalla legge che lo regola. In prima battuta, infatti, l’art. 18 l. n. 81/2017 pone a fondamento dell’assegnazione al lavoro agile l’accordo fra le parti. Tale previsione, inoltre, assegna espressamente a questo istituto una duplice precipua funzione, quella di «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Infine, è condizione per l’assegnazione al lavoro agile che l’attività cui il lavoratore è adibito possa essere eseguita con tale modalità, vale a dire «senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro», «anche (ma non necessariamente n.d.a.) con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi», «con il possibile (ma non essenziale n.d.a.) utilizzo di strumenti tecnologici», «in parte all’interno e in parte all’esterno senza una postazione fissa».
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Che si tratti di una condizione per l’assegnazione al lavoro agile si ricava dall’utilizzo della preposizione “di” accompagnata dall’articolo determinativo per riferirsi all’attività lavorativa oggetto dell’accordo («per lo svolgimento dell’attività lavorativa», il corsivo è mio), sottintendendo che l’attività alla quale si fa riferimento è quella che costituisce l’oggetto del contratto di lavoro, rectius dell’obbligazione che sorge in capo al prestatore. Dunque, per poter essere assegnati al lavoro agile occorre un accordo fra le parti e che la mansione assegnata al lavoratore sia eseguibile in modalità agile. Un diritto perfetto al lavoro agile neppure è previsto nell’ipotesi disciplinata al co. 3 bis, introdottodalla legge di bilancio 2019 (l. n. 145/2018), che dispone una priorità nell’assegnazione al lavoro agile in favore delle lavoratrici che ne facciano richiesta entro tre anni dal rientro dal congedo di maternità di cui all’art. 16 d.lgs. n. 151/2001 e per i lavoratori genitori di figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’art. 3 co. 3 l. n. 104/92. Seguendo la lettera della legge, infatti, il lavoratore o la lavoratrice acquisiscono un diritto all’assegnazione al lavoro agile in via prioritaria solo quando il datore di lavoro già stipuli accordi di lavoro agile, sempre che l’attività svolta dalla lavoratrice o dal lavoratore possa essere compiuta in modalità agile, dal momento che si fa di nuovo riferimento alla «esecuzione del rapporto di lavoro»2. Tuttavia, con riguardo al caso dei genitori di figli portatori di grave disabilità, si potrebbe ricavare un obbligo per il datore di lavoro di modificare le mansioni, in modo da agevolare il ricorso alla modalità agile di lavoro, da quanto previsto dall’art. 3 co. 3 bis, d.lgs. n. 216/2003 che siano disposti quegli “accomodamenti ragionevoli” tali da garantire la piena eguaglianza alle persone con disabilità, ma – dopo la sentenza Coleman – anche ai familiari che si prendono cura di persone con disabilità3. Si consideri, infatti, a titolo di esempio, che con la sentenza HK Danmark, la Corte ha ravvisato nella riduzione dell’orario di lavoro una «soluzione ragionevole» per mantenere in essere il rapporto di lavoro in un caso di assenza prolungata per malattia connessa alla disabilità4. Il parametro per misurare la latitudine del suddetto obbligo datoriale sarebbe quello della «ragionevolezza» dell’intervento richiesto per rimuovere l’ostacolo alla piena integra-
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Più ragioni fanno ritenere a chi scrive che il lavoro agile, così delineato, non sia un efficace strumento di conciliazione vita-lavoro. Esso, infatti: non assurge a diritto perfetto; il datore di lavoro in linea di principio non è tenuto a modificare l’organizzazione del lavoro per soddisfare un’eventuale richiesta, né a modificare le mansioni dell’istante che svolga un’attività non eseguibile in modalità agile; manca, infine, un incentivo che incoraggi il datore di lavoro ad assegnare il lavoro agile. 3 Secondo C. giust., 17 luglio 2008, Coleman, C-303/06, infatti, «il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a)». Ribadisce la rilevanza della discriminazione per associazione, estendendola alla discriminazione indiretta, C. giust., 17 luglio 2015, Chez, C-83/14. In tema v. da ultimo Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, in Barbera, Guariso, La tutela antidiscriminatoria, Giappichelli, 2019, 57 ss.; Militello, Strazzari, I fattori di discriminazione, Ibidem, 150 ss. Per un caso di discriminazione per associazione cfr. anche Cass., 10 settembre 2015, n. 22421. 4 C. giust., 11 aprile 2013, C-335/17 e 337/17.
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zione al lavoro, ragionevolezza da valutarsi con riguardo alla adeguatezza della misura e alla proporzionalità rispetto alle risorse a disposizione del datore di lavoro5. Un diritto all’assegnazione al lavoro agile si ricava, invece, dalla normativa emergenziale, come confermato ormai a più riprese dalla giurisprudenza di merito nel solco della quale si pone la sentenza in esame. Tralasciando di approfondire il tema più ampio del ricorso che è stato fatto al lavoro agile durante il periodo di emergenza pandemica, tanto nel settore privato (ove ne è stato solo raccomandato il massimo utilizzo) quanto nel settore pubblico (ove, invece, è assurto a modalità ordinaria di esecuzione della prestazione, ad eccezione delle attività da svolgersi indifferibilmente in presenza), e sul quale si è sviluppata un’ampia riflessione della dottrina cui si rinvia6, preme in questa sede soffermarci sulla latitudine del diritto al lavoro agile ricavabile dai molteplici interventi normativi, così come interpretati dalle decisioni assunte in merito dai giudici. La normativa emergenziale individua tre categorie di soggetti ai quali riconosce, a determinate condizioni, il diritto al lavoro agile: i lavoratori fragili, i lavoratori che assistono familiari in condizione di grave disabilità, i genitori lavoratori. Secondo quanto disposto dall’art. 39, d.l. n. 18/2020 (Decreto Cura Italia), conv. in l. n. 27/2020, possono essere ricondotti alla categoria dei lavoratori fragili i dipendenti del settore privato e pubblico che versino nelle condizioni di disabilità previste dall’art. 3, co. 3, l. n. 104/1992 (co. 1), i lavoratori del solo settore privato che, pur non versando in detta condizione, siano comunque affetti da “gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa” (co. 2) o siano immunodepressi (co. 2 bis). L’art. 90, co. 1, secondo periodo, d.l. n. 34/2020 (Decreto Rilancio), inserito dalla legge di conversione n. 77/2020 (e da coordinare con quanto previsto poi dalla l. n. 126/2020), ha aggiunto a queste categorie i lavoratori che, sulla base delle valutazioni dei medici competenti, risultino maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di
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V. ancora Militello, Strazzari, I fattori di discriminazione, cit., 153. Ipotizzano questa lettura con riferimento alla normativa emergenziale Peruzzi, Pignatelli, Diritto al lavoro agile e compatibilità con la prestazione al tempo dell’emergenza covid-19, in RIDL, II, 2020, 717. Sul tema generale degli “accomodamenti ragionevoli”, anche per ulteriori riferimenti, v. da ultimo Chiaromonte, L’inclusione sociale dei lavoratori disabili fra diritto dell’Unione europea e orientamenti della Corte di giustizia, in VL, 2020, 897. 6 Cfr. Alessi, Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, 131; Bini, Lo smart working al tempo del coronavirus. Brevi osservazioni, in stato di emergenza, in GC.com, 2020, spec. n. 1, 67; Brollo M., Smart o emergency work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in LG, 2020, 553; Brollo, Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia, in Mazzotta (a cura di), Diritto del lavoro ed emergenza pandemica, Pacini Giuridica, 2021, 87; Burchi, Smart working d’emergenza, in QG, www.questionegiustizia.it, 22 marzo 2020; Di Carluccio, Emergenza epidemiologica e lavoro agile, in RIDL, III, 3; Leone, Lavoro agile al tempo del coronavirus: ovvero dell’eterogenesi dei fini, in QG, www.questionegiustizia.it, 21 marzo 2020; i contributi raccolti in Martone (a cura di), Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, in Quaderni di ADL, LaTribuna, 2020; Romei, Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia, in Mazzotta (a cura di), Diritto del lavoro ed emergenza pandemica, Pacini Giuridica, 2021, 71; Russo, Emergenza lavoro agile nella P.A., in GC.com, 2020, spec. n. 1, 55; Senatori, Attivazione del lavoro agile e poteri datoriali nella decretazione emergenziale, in GC.com, 2020, spec. n. 1, 169; Spinelli, Le potenzialità del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni: da modalità ordinaria di gestione dell’emergenza a volano per l’innovazione, in LPA, 2020, 21; L. Zoppoli – Monda, Innovazioni tecnologiche e lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in DRI, 2020; L. Zoppoli, “Dopo la digi-demia: quale smart working per le pubbliche amministrazioni italiane?”, in WP D’Antona, It., n 421/ 2020.
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terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata nell’ambito della sorveglianza sanitaria eccezionale di cui all’art. 83 dello stesso decreto legge. Il più recente art. 15 d.l. n. 41/2021 ha confermato la nozione di “lavoratore fragile”, che ricomprende coloro che (anche nel settore pubblico) sono in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di disabilità grave, di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita. Mentre ai lavoratori affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa l’art. 39 riconosce solo una priorità nell’accoglimento della richiesta di assegnazione al lavoro agile, agli altri lavoratori sopra indicati le relative disposizioni attribuiscono il diritto ad essere assegnati al lavoro agile. Le suddette previsioni ponevano come condizione per l’assegnazione al lavoro agile che la mansione cui il lavoratore è addetto fosse eseguibile da remoto, condizione in parte superata dal d.l. n. 104/2020 (Decreto Agosto) conv. con l. n. 126/2020, che, invece, ha previsto che ai dipendenti pubblici e privati in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ivi inclusi i lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità siano assegnati al lavoro agile anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti. Un diritto all’assegnazione al lavoro da remoto è assegnato, ai sensi dell’art. 39 d.l. n. 18/2020 e dell’art. 21 ter d.l. n. 104/2020, anche ai lavoratori che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona affetta da disabilità grave. Se il familiare assistito è un figlio, il diritto al lavoro agile spetta al genitore unicamente quando l’altro genitore non possa svolgere la propria attività in modalità agile, e comunque spetta solo a uno dei due. Anche in queste ipotesi condizione per l’assegnazione al lavoro agile è che l’attività possa essere svolta da remoto. Infine, il diritto al lavoro agile è riconosciuto alternativamente a uno dei genitori di figli di età inferiore a sedici anni che siano posti in quarantena per contatto con soggetto positivo o durante il periodo di sospensione dei servizi didattici, e sempre a condizione che l’attività sia eseguibile da remoto. Il diritto è riconosciuto cumulativamente ad entrambi i genitori e a prescindere dall’età in caso di figli disabili, con DSA o BES, che siano in didattica a distanza, in quarantena, affetti da Covid o in caso di chiusura dei centri assistenziali diurno (art. 2, co. 1, d.l. n. 30/2021). Diverse sono le conseguenze dell’impossibilità di assegnare il genitore lavoratore al lavoro agile, a seconda che si tratti di lavoratore impiegato nel settore privato o nel settore pubblico. Solo alle Pubbliche Amministrazioni, infatti, è richiesto di assegnare il lavoratore a una diversa mansione lavorabile da remoto, o allo svolgimento di attività formativa (art. 3 co. 1 lett. b d.m. Pubblica amministrazione 19 ottobre 2020), prima di poterlo sospendere dal lavoro per la fruizione del congedo straordinario (art. 13 d.l. 149/2020 e poi art. 2 d.l. 30/2021).
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Su queste previsioni si è formato il filone giurisprudenziale, nel quale si inserisce l’ordinanza in epigrafe e su cui si è già cimentata la dottrina7. Le prime due decisioni rispettivamente del Tribunale di Bologna e del Tribunale di Grosseto, entrambe del 23 aprile 20208, poggiano sull’originaria versione dell’art. 39 d.l. n. 18/2020 e riconoscono il diritto delle ricorrenti all’assegnazione al lavoro agile. Nel primo caso l’ordinanza si regge tanto sul primo quanto sul secondo comma della suddetta previsione, posto che la ricorrente è madre di figlia portatrice di grave disabilità (co. 1) ed è affetta essa stessa da grave e comprovata patologia con ridotta capacità lavorativa (co. 2). Quest’ultima è la condizione in cui versa anche l’altra ricorrente, alla quale pertanto la norma riconosce (solo) una priorità al lavoro agile, rispetto alla quale, tuttavia, il giudice stabilisce che il datore di lavoro non può agire in modo irragionevole e immotivatamente discriminatorio, penalizzando il singolo lavoratore o negandogli diritti garantiti ex lege, dovendo piuttosto «mettere il lavoratore in condizione di operare da remoto». In queste due decisioni è solo sfiorato il tema della pregnanza della condizione prevista dalla normativa emergenziale per l’assegnazione al lavoro agile, vale a dire la compatibilità delle mansioni assegnate all’istante con tale modalità di esecuzione della prestazione, argomento che invece è maggiormente approfondito in alcune decisioni successive, nelle quali i giudici oscillano riguardo al fatto che la valutazione di compatibilità debba essere condotta in concreto o in astratto, perciò aprendo allo scrutinio delle scelte organizzative datoriali in funzione della soddisfazione delle esigenze dei propri dipendenti. La questione è affrontata dal Tribunale di Mantova nell’ordinanza del 26 giugno 2020, che la risolve effettuando una valutazione delle mansioni affidate al lavoratore nella loro concretezza. Tale esame conduce al rigetto del ricorso in considerazione della circostanza che le mansioni svolte dall’istante presupponevano necessariamente la sua presenza fisica in sede (gestione di parcheggi variamente dislocati, anche attraverso trasferte per sopralluoghi finalizzati alla valorizzazione e salvaguardia dei beni aziendali). Lo stesso approccio è assunto dal Tribunale di Roma sia nella decisione del 20 giugno 2020, che accoglie il ricorso con una valutazione in concreto della eseguibilità delle mansioni in modalità agile (relazioni con l’utenza mediante contatti telefonici, nel contesto di un gruppo di lavoro che poteva operare da remoto)9, sia nelle successive decisioni del 5 ottobre 2020 (elaborazione e stesura di progetti funzionali all’attività dell’orarista, nonché analisi del trasporto per apportare migliorie, con impiego di software utilizzabili da remo-
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Alvino, E’ configurabile un diritto del lavoro al lavoro agile nell’emergenza Codiv-19?, in GC.com, 8 aprile 2020; D’Ascola, Il lavoro a distanza come diritto? Sui 700 dell’emergenza (e sulla normalizzazione de lavoro agile), in QG, www.questionegiustizia.it, 29 giugno 2020; D’Ascola, Il lavoro a distanza nell’emergenza: osservazioni a margine dei provvedimenti giudiziari, in Mazzotta (a cura di), Diritto del lavoro ed emergenza pandemica, Pacini Giuridica, 2021, 97; Lazzari, Ancora sui lavoratori fragili e smart working, in GC.com, 5 febbraio 2021; Tufo, Il lavoro agile (dell’emergenza) esordisce in giurisprudenza: come bilanciare gli interessi in gioco nell’era della pandemia?, in LDE, n. 2/2020; Valente, Emergenza COVID-19 e diritto soggettivo allo smart working, in LG, 2020, 1193. 8 In LG, 2020, 1193, con nota di Valente, cui si rinvia per le puntuali osservazioni critiche in ordine, in particolare, al contenuto dell’ordinanza del Tribunale di Grosseto che condanna il datore di lavoro anche al risarcimento dell’eventuale futuro danno da ritardo nell’esecuzione della decisione. 9 Trib. Mantova, 26 giugno 2020 e Trib. Roma, 20 giugno 2020 entrambe in RIDL, II, 2020, 704 con nota di Peruzzi e Pignatelli.
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to) e del 26 ottobre 2020 (addetto al servizio di assistenza alla clientela)10. Queste due ultime pronunce differiscono, peraltro, per la diversa considerazione della piena integrabilità della mansione eseguita in modalità agile rispetto al contesto produttivo e organizzativo. Solo nel primo caso, infatti, la compatibilità della mansione con l’esecuzione in modalità agile è rapportata al mantenimento dell’utilità funzionale della stessa nel contesto organizzativo e produttivo, mentre nel secondo caso l’esame prescinde del tutto dalla considerazione delle esigenze aziendali. Ancora più decisa da questo punto di vista è la pronuncia in epigrafe, che ammette una verifica solo in astratto della compatibilità delle mansioni, al fine di riconoscere il diritto all’assegnazione al lavoro agile. Superando, infatti, le obiezioni datoriali circa l’impossibilità di assegnare alla ricorrente una specifica funzione e attività da svolgere in modalità agile, in ragione della difficoltà di individuare il contenuto stesso della prestazione lavorativa a causa del perdurare dell’assenza dal lavoro della ricorrente da più di un anno, e facendo leva sull’art. 39 che richiede unicamente «la compatibilità del lavoro agile con le caratteristiche della prestazione», il giudice dà ragione alla ricorrente assegnando rilevanza alla qualifica e all’inquadramento della lavoratrice e alle corrispondenti mansioni individuate dal contratto collettivo applicato, giudicate in astratto compatibili con la modalità agile di esecuzione in quanto «di natura intellettuale».
3. Alcune considerazioni prospettiche. La decisione in epigrafe, così inserita nel quadro composto dalle pronunce che hanno affrontato la questione del ricorrere di un diritto al lavoro agile durante la pandemia, sollecita alcune riflessioni sul futuro dell’istituto. Una prima riflessione riguarda l’interpretazione da offrire all’art. 18 l. n. 81/2017, in ordine al criterio da impiegare per valutare la compatibilità della mansione svolta con la modalità agile di esecuzione della prestazione. Come si è detto, il ricorso all’articolo determinativo per riferirsi alla prestazione da svolgere in modalità agile porterebbe a ritenere che condizione per l’assegnazione al lavoro agile sia l’eseguibilità in tale forma proprio della specifica attività cui il prestatore è assegnato, dunque della mansione da ultimo svolta (v. retro § 1). Questa lettura, apparentemente confermata dalla gran parte delle decisioni formatesi sulla normativa emergenziale, è stata messa in discussione proprio dalla decisione in epigrafe, che – si è visto – ha aperto un varco a un’interpretazione più lasca di questa condizione, riferibile alla qualifica e all’inquadramento contrattuale del prestatore anziché alle modalità effettive di svolgimento del lavoro. Se tale interpretazione è con evidenza finalizzata a valorizzare massimamente la funzione di dispositivo di protezione individuale e di distanziamento sociale assegnata al lavoro
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Trib. Roma, 20 giugno 2020 e Trib. Roma, 26 ottobre 2020 entrambe in GC.com, 5 febbraio 2021 con nota di Lazzari.
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agile nel contesto pandemico, non è da escludere che ad essa si potrà far ricorso anche una volta tornati alla normalità, per valorizzare la funzione di strumento di conciliazione vita-lavoro espressamente assegnata al lavoro agile dalla l. n. 81/201711. Su questa considerazione si innesta la seconda riflessione, che attiene alla esigibilità da parte del lavoratore o della lavoratrice dell’assegnazione al lavoro agile a fronte del ricorrere di esigenze di conciliazione, anche ulteriori rispetto a quelle individuate dall’art. 18 co. 3 bis. La questione si collega a quella più generale, concernente la sussistenza o meno di un diritto alla conciliazione vita-lavoro. Il riconoscimento di tale istanza si deve alla spinta impressa dal diritto unionale, che ne ha progressivamente chiarito il contenuto, in funzione della determinazione delle misure idonee ad attuarlo. Nell’impossibilità di ricordare in questa sede le tappe del percorso di affermazione del diritto alla conciliazione12, che ha trovato spazio nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art. 33, si segnala tuttavia la recente Direttiva 2019/1158/UE, intitolata proprio «all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza», volta a conseguire una più equilibrata distribuzione delle responsabilità parentali in funzione della realizzazione di pari opportunità di lavoro per uomini e donne. Sono ritenuti funzionali al raggiungimento di questi obiettivi non solo i congedi capaci di coinvolgere gli uomini nella cura di figli e/o familiari, ma anche la possibilità per uomini e donne di accedere a modalità flessibili di lavoro. Per quanto d’interesse in questa sede, ivi si prevede che i genitori di figli di età inferiore a un limite stabilito a livello interno, ma non inferiore a otto anni, abbiano diritto entro un limite di ragionevolezza di godere in modo temporaneo e reversibile (anche in alternativa ai congedi) di orari e modalità di lavoro flessibili (art. 9). A garanzia dell’effettività di questo diritto la Direttiva prevede la sindacabilità della scelta del datore di lavoro di rifiutare l’assegnazione a modalità flessibili, scelta che deve essere motivata, per iscritto ed entro un tempo ragionevole, alla luce sia delle proprie esigenze sia di quelle del lavoratore o della lavoratrice (art. 9.2). La legge di delegazione europea approvata in via definitiva al Senato il 20 aprile 2021, al termine di un iter durato più di un anno, riguarda anche questa Direttiva, ragion per cui la questione di come dare attuazione alle previsioni appena ricordate si proporrà presto al legislatore delegato. In attesa della recezione della Direttiva, il presidio del diritto alla conciliazione fra vita e lavoro per lavoratori e lavoratrici onerati di responsabilità di cura resta affidato al diritto
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Sulle funzioni del lavoro agile v. per tutti Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP D’Antona, It., n 419/ 2020. Sul rischio che una moltiplicazione degli strumenti di conciliazione, scevra del potenziamento di misure che impongano agli uomini la condivisione delle responsabilità di cura, si trasformi in una trappola per le lavoratrici, che facendovi ricorso in via prevalente se non esclusiva finiscono per rafforzare un modello patriarcale di società che riserva solo ad esse il ruolo di caregivers, sia consentito un rinvio a Vallauri, Genitorialità e lavoro. Interessi protetti e tecniche di tutela, Giappichelli, 2020, spec. 45 e già Tonarelli, Vallauri, Povertà femminile e diritto al lavoro delle donne, in LD, 2019, 177. 12 V. in tema, di recente, Militello, Conciliare vita e lavoro. Strategie e tecniche di regolazione, Giappichelli, 2020, e – se vuoi – Vallauri, Genitorialità e lavoro, cit., 37 ss.
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antidiscriminatorio, con la conseguenza che un rifiuto di assegnazione al lavoro agile non sorretto da una ragionevole giustificazione potrebbe qualificarsi come discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore-caregiver, come, peraltro, già affermato dal Tribunale di Firenze in un caso di diniego di assegnazione ad un regime di flessibilità oraria di un genitore lavoratore13. Infine, richiamando quanto già evidenziato a proposito della possibilità di inquadrare il lavoro agile fra gli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro è tenuto ad allestire per garantire la piena eguaglianza del lavoratore disabile, ci si interroga se, a fronte di una sopravvenuta inidoneità alla prestazione di un lavoratore normodotato, rientrerà fra gli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore anche quello di vagliare la possibilità di assegnare utilmente il prestatore alla modalità agile di lavoro onde evitare il suo eventuale licenziamento. Maria Luisa Vallauri
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Trib. Firenze, 22 ottobre 2019, in Giustiziacivile.com, con nota di Marasco e in DRI, 2020, 519 con nota di De Luca.
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