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il contratto di avvalimento
from TEME 1-2/2023
by edicomsrl
di avvalimento la certificazione di qualità7. Secondo un primo orientamento, minoritario, la certificazione di qualità non può essere oggetto di avvalimento, poiché riguarda i caratteri strettamente soggettivi dell’impresa terza che, pertanto, non possono essere messe a disposizione dell’ausiliato. A sostegno di tale tesi si evidenzia che se il legislatore avesse voluto consentirne l’avvalimento lo avrebbe espressamente previsto. Un secondo indirizzo giurisprudenziale ritiene, invece, che l’avvalimento può essere escluso solo per i requisiti aventi natura generale (art. 80 d.lgs. n.50/2016), in quanto il requisito della moralità posseduta da un operatore economico risulta non condivisibile. Al contrario la certificazione non appartiene al genus dei requisiti a carattere generale perchè consiste in una attestazione con cui si cer- tifica che l’operatore economico dispone di una struttura organizzativa idonea a garantire l’esecuzione della prestazione secondo determinati standard di qualità. E proprio il riferimento ad una struttura organizzativa idonea induce a ricondurre la certificazione in questione alla categoria dei requisiti di natura tecnico-organizzativa.
Al riguardo l’ANAC, inizialmente, ha ritenuto la non applicabilità dell’istituto dell’avvalimento avente ad oggetto le certificazioni di qualità, in quanto «essendo intimamente correlata alla capacità di un operatore economico di organizzare i propri processi produttivi e le proprie risorse conformemente a standard riconosciuti ottimali, non è cedibile ad altre organizzazioni se disgiunta dall’intero complesso aziendale in capo al quale è stato riconosciuto il sistema di qualità».
7 Agostino Meale, Manuale breve di diritto dei contratti pubblici, pag. 150, Pacini Giuridica, 2019;
Successivamente, a seguito delle pronunce giurisprudenziali intervenute, l’Autorità, considerando la certificazione un requisito non più connotato da un’implicita soggettività, l’ha ritenuta ammissibile purché l’avvalso metta a disposizione dell’avvalente l’intero complesso organizzativo aziendale (i fattori della produzione, i materiali necessari e le risorse personali) che le ha consentito di ottenere la certificazione, indispensabile a rendere effettivo il prestito a favore dell’impresa ausiliata8
Da quanto premesso emerge la ratio della disposizione che intende evitare un utilizzo cartolare del contratto di avvalimento e richiedendo la specificazione dettagliata delle risorse mette in condizione l’amministrazione aggiudicatrice (rectius: il seggio di gara) di accertare l’effettiva idoneità dei mezzi a garantire la corretta esecuzione della prestazione contrattuale.
Quindi per evitare che il contratto sia “una scatola vuota” e per dimostrare, invece, l’esistenza di una sinergia tra le ditte, i mezzi e le risorse oggetto dell’avvalimento devono essere indicati in modo puntuale, pena la nullità del contratto, ex art. 1346 c.c. e art. 1418, co. 2, c.c., per impossibilità di riconoscere l’obbligazione assunta dall’ausiliario su un oggetto specifico potenzialmente coercibile per l’aggiudicatario, ex art. 89, co. 5, d.lgs. n. 50 del 2016. Il mero e generico riferimento nel contratto di avvalimento alle risorse necessarie di cui è carente il concorrente, senza un’indicazione analitica delle capacità e dei mezzi messi a disposizione, secondo parte della giurisprudenza legittima il seggio di gara ad escludere l’operatore economico dalla gara di appalto a causa della nullità del contratto per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto (art. 1418 c.c.).
Un secondo orientamento maggioritario, invece, distingue l’avvalimento c.d. operativo da quello di garanzia, a seconda dei requisiti oggetto dell’avvalimento. Nella prima ipotesi l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata risorse materiali o oggettive riguardanti l’assetto organizzativo dell’impresa (i.e. mezzi e le attrezzature tecniche; il personale tecnico e specializzato nonché ogni altro elemento aziendale che possa essere posseduto da un’impresa). Nella seconda ipotesi mette a disposizione dell’avvalente i soli requisiti economico-finanziari (i.e. fatturato globale d’impresa; il capitale sociale minimo…), cioè la “sua solidità economica e finanziaria” a servizio dell’aggiudicataria ausiliata, garantendo la corretta esecuzione dell’appalto. In tale caso viene in rilievo l’obbligo dell’ausiliaria di condividere il suo patrimonio esperienziale senza l’indicazione analitica delle relative risorse e dei mezzi.
Un terzo orientamento ritiene irrilevante la distinzione tra avvalimento c.d. operativo e di garanzia essendo le parti
8 Linee guida Anac sull’Istituto dell’avvalimento, anno 2018; contraenti tenute in ogni caso ad indicare in modo dettagliato e puntuale le risorse ed i mezzi prestati, sia per assicurare la validità del contratto altrimenti nullo, sia per escludere l’elusione dei requisiti di partecipazione.
Considerazioni conclusive
Dalle riflessioni effettuate appare evidente l’importanza del ruolo del seggio di gara nella verifica della necessaria analiticità e specificità dell’oggetto del contratto di avvalimento, cioè delle risorse e dei mezzi da mettere a disposizione, pena la nullità, art. 89, co.1, cit. in quanto l’oggetto del contratto deve essere determinato e non semplicemente determinabile.
Tale previsione, tutelando l’avvalente stazione appaltante da eventuali asimmetrie informative che potrebbero sorgere in sede di conclusione del contratto e di successiva esecuzione, la mette nelle condizioni di valutare il grado di serietà ed effettività dell’impegno assunto dall’impresa ausiliaria, a garanzia di un corretto soddisfacimento degli interessi pubblici.
Concludendo l’istituto del contratto di avvalimento dimostra, innanzitutto, che il diritto civile e quello amministrativo non sono da considerare settori indipendenti e non comunicanti, anzi non vi è alcun istituto del diritto amministrativo che possa ritenersi impermeabile ai principi del diritto civile, alle sue elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali.
E, in aggiunta, ha messo in rilievo l’intenzione del legislatore, in particolare quello comunitario, di propendere per la lenta spersonalizzazione della figura dell’operatore economico, consentendo in questo modo a potenziali appaltatori di stare sul mercato dimostrando una generica capacità di organizzare mezzi e risorse prescindendo dal legame di quest’ultimi con il predetto operatore. Ne deriva che anche quel sistema di elenchi, albi o sistemi di qualificazione variamente denominati ideato dal legislatore italiano, rischia di diventare privo di significato nel momento in cui i requisiti tecnici e finanziari possono essere verificati dal seggio di gara in modo semplicemente dinamico.
Quindi l’istituto dell’avvalimento se, da un lato, ha garantito un elevato grado di libertà agli imprenditori in linea con il libero mercato che caratterizza la società aperta europea, dall’altro ha anche minato quel tradizionale rapporto autorità-libertà sbilanciandolo forse troppo a favore della libertà di mercato, lasciando alla stazione appaltante, e, per suo conto, al seggio di gara, il ruolo di controllore della qualificazione proveniente da un soggetto “terzo” coinvolto nel procedimento ad evidenza pubblica con il potenziale rischio di inquinamento dell’interesse pubblico.
Sono un migliaio i ricorsi presentati al TAR del Lazio contro l’attuazione del payback sui dispositivi medici, il sistema di tassazione che obbliga le imprese a un esborso di oltre 2 miliardi per il periodo 2015-2018 per ripianare lo sforamento dei tetti di spesa da parte delle Regioni. “Se il Governo non cancella il payback – ha dichiarato il Presidente di Confindustria Dispositivi Medici, Massimiliano Boggetti – deve avere il coraggio di dire chiaramente ai cittadini che non è in grado di erogare salute pubblica. Se non viene fatta una seria programmazione sanitaria e si continuano a bandire gare la cui somma dei valori aggiudicati supera il fondo sanitario regionale a disposizione, le Regioni proseguiranno a sforare i tetti di spesa tutti gli anni. Il payback con i tetti di spesa imposti non è altro che un modo per spostare sulle aziende fornitrici una parte dei costi sanitari che il Servizio sanitario dovrebbe erogare per curare i cittadini, ma che lo Stato non vuole pagare. Le imprese dei dispositivi medici non possono risanare i debiti delle Regioni e gli sforamenti di spesa, anche dovuti al Covid. È inaccettabile che il Governo non capisca l’impatto di un tale sistema sull’industria della salute e non comprenda le dinamiche e le conseguenze di questo provvedimento. Siamo un comparto strategico per il Paese che ha la responsabilità legale di produrre e fornire salute attraverso le gare pubbliche di acquisto e che rischia di fermarsi e chiudere”. I ricorsi delle aziende riguardano in particolare l’artico- lo 18 del Decreto Legge Aiuti bis e il decreto del Ministero della Salute che detta linee guida di attuazione del payback. Il provvedimento presenta una serie di elementi che lo rendono inapplicabile, incostituzionale e ingiusto. La misura del payback sui dispositivi medici è simile a quella del payback sulla spesa farmaceutica, che esiste nel nostro ordinamento dal 2008 e che ha creato e continua a creare nel tempo enormi contenziosi. Ai fornitori di dispositivi medici viene sostanzialmente chiesto di rimborsare il 50 per cento del superamento degli scostamenti dal tetto di spesa regionale stabilito a inizio anno, oggi stabilito nella misura del 4,4% del Fondo Sanitario Nazionale. Nel 2015 – epoca di emergenza finanziaria causata dal pesante disavanzo in cui versavano quasi tutte le regioni, che infatti erano in piano di rientro – furono decisi dei tagli lineari, principalmente alla salute, ma non solo, anche per consentire di presentare in Europa un bilancio in pareggio. La spesa SSN dei dispositivi medici rappresentava all’epoca il 5,2% dell’intera spesa sanitaria e, proprio per tagliare, fu fissato un tetto alla spesa del settore pari al 4,4%. Una delle motivazioni principali che ha portato ad attuare questa misura dopo 8 anni sta nella necessità di ripianare gli aumenti della spesa sanitaria delle Regioni legati alla gestione della pandemia. Si ricorda che la struttura commissariale ha acquistato (voce di spesa a carico del bilancio dello Stato) vaccini, test, dispositivi direttamente connessi con la pandemia, ma altre spese dirette ed indirette prodotte dalla stessa pandemia sono rimaste a carico delle Regioni e rappresentano mediamente il 50-55% delle spese effettivamente sostenute. A conferma di ciò, va ricordato che l’importo del payback a carico delle imprese per il periodo 2015-2018, pari a 2,2 miliardi, viene registrato come entrata regionale nel bilancio 2022. In tal modo, viene evitato che le Regioni (probabilmente tutte o quasi tutte) entrino in piano di rientro, con tutto ciò che ne deriva. “Con i ricorsi al Tar – ha dichiarato il Presidente Boggetti – abbiamo contestato l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per l’incostituzionalità della normativa primaria di legge, la non conformità con il diritto eurounitario e la violazione di norme di legge preesistenti. All’atto pratico, le imprese che forniscono in virtù di una gara vinta, non hanno alcuna evidenza se il tetto regionale verrà sforato, né sono in grado di ipotizzare se e quanto saranno chiamate a restituire. Questa incertezza, al di là dell’evidente ingiustizia del meccanismo, è quanto di più pericoloso possa esistere per un’impresa. Tale sistema inoltre non è compatibile con i principi contabili costituzionali che prevedono che i bilanci dello Stato siano prudenti, veritieri, realistici e fondati sull’attendibilità delle previsioni passate. Infatti, definendo i tetti di spesa regionali in maniera retroattiva non si tiene conto della mancata, ma necessaria, conoscenza da parte delle imprese di quale sia più o meno il budget di spesa a loro disposizione. Senza considerare che su quei bilanci le imprese hanno pagato le tasse, che non verranno mai restituite”. Date le cifre richieste, molte imprese medio-piccole potrebbero fallire, o entrare in crisi. Si mettono a rischio oltre 112mila posti di lavoro perché chiedere alle imprese 2,2 miliardi di euro in tempi record significa farle chiudere con conseguenze drammatiche per l’occupazione, i territori e la qualità della salute del Paese. Il fallimento di molte imprese potrebbe inoltre generare un’interruzione delle forniture agli ospedali. Il rischio è che le strutture sanitarie restino sfornite di dispositivi medici indispensabili, oltre a venire a mancare quel supporto tecnico che permette a molte delle tecnologie installate negli ospedali di funzionare correttamente. Ma non solo, imponendo tetti di spesa così bassi la qualità dei dispositivi medici potrebbe calare, l’innovazione tecnologica potrebbe non entrare più nelle strutture sanitarie e i medici potrebbero trovarsi costretti a lavorare senza avere strumenti all’avanguardia, fondamentali per poter esercitare al meglio la professione. Le conseguenze per i cittadini sarebbero altrettanto gravi: senza risorse destinate alla Sanità e senza imprese che la riforniscono, sempre più persone non avrebbero accesso alle cure con un notevo- le impoverimento dell’offerta e della qualità dei servizi sanitari. La necessità di creare accantonamenti nei bilanci per coprire il rischio di pagamento del payback porterà, inevitabilmente, a un peggioramento del rating bancario di affidabilità delle imprese, con la conseguente impossibilità di accesso al credito. “Ormai l’accesso al credito – ha spiegato il Presidente Boggetti – è diventato complicatissimo per via delle note difficoltà degli istituti bancari a erogare liquidità in questo momento. E con il payback le imprese devono accantonare poste di esercizio, fra l’altro indeducibili, che non fanno altro che abbassare il rating bancario e l’accesso ai crediti bancari, essenziali per l’operatività aziendale. Questo non è altro che un modo per portare le aziende al fallimento per mancanza di cassa”. Secondo Boggetti perseverare nel mantenimento dei tetti di spesa e di meccanismi quali il payback e le gare al ribasso significa anche contribuire a rendere l’Italia un Paese sempre meno appetibile per investimenti nazionali ed esteri, quando invece abbiamo bisogno di far tornare in Italia produzione e ricerca. Realizzare un reshoring, soprattutto nel caso dei dispositivi medici, significa investire su un settore in grado non solo di tutelare il Paese di fronte ad altre eventuali emergenze sanitarie, ma anche capace di far crescere il tessuto industriale in un comparto che è considerato oggi uno dei più promettenti, in grado di generare PIL e occupazione. Con il payback invece le grandi imprese operanti a livello globale potrebbero decidere di considerare l’Italia un paese non più interessante, rendendo indisponibili le innovazioni per il nostro Paese o addirittura scegliendo di uscire del tutto dal mercato italiano o ridurre di molto le quantità di prodotti distribuiti (è già così in alcuni Paesi le cui condizioni di mercato sono fortemente critiche). Di conseguenza è facilmente prevedibile l’arrivo di prodotti di scarsa qualità da parte di imprese poco qualificate. Inoltre, oggi la formazione dei medici e in generale degli operatori sanitari è possibile grazie al supporto economico delle imprese. La chiusura di tante aziende, l’entrata in crisi di altre e l’allontanamento di altre ancora, avrebbe come effetto diretto l’azzeramento di questi investimenti e quindi l’impossibilità per i medici di essere formati e aggiornati, con il conseguente abbassamento della qualità professionale, dunque dell’assistenza. La pandemia ci ha dimostrato che senza salute un paese si impoverisce: demolire il settore dei dispositivi medici vuol dire non avere più le tecnologie necessarie per svolgere qualunque tipo di prestazione sanitaria, oltre ad abbassare la qualità e l’efficacia delle cure e le diagnosi di salute dei cittadini.
Francesca Petulla - Foro Romano