A parere mio di Grazioso Piazza
Mobilità, lavoro e pandemia
Q
uanto vissuto negli ultimi mesi, con l’ingombrante presenza della pandemia generata dal virus SARSCov-2, ha destabilizzato alcune delle nostre convinzioni e abitudini in merito al quando e come ci spostiamo. Il trasporto collettivo, pubblico o meno, un tempo baluardo del nostro futuro di mobilità green, ha mostrato il suo lato debole. Se la condivisione di uno stesso mezzo da parte di molte persone rimane garanzia di riduzione delle emissioni inquinanti imputabili al singolo, si è dovuto per la prima volta considerare come questa scelta, almeno nei modi con cui la conosciamo, rappresenti una criticità in caso di esigenza di contenimento di un virus. La gestione del distanziamento e la riduzione dell’affollamento rappresentano nuovi ostacoli in un ambito in cui il rapporto tra costi e ricavi vede i primi superare abbondantemente i secondi. Altrettanto incisivo è stato ciò che molti hanno toccato con mano, ovvero un nuovo modo di approcciare al lavoro, rappresentato da quello che oggi è divenuto un termine noto: smart
58
working. Un qualcosa di cui in realtà si favoleggiava da lungo tempo, da quando le connessioni digitali hanno permesso di superare limiti in precedenza solo immaginabili. Un approccio al lavoro che tuttavia rimaneva noto, fino a pochi mesi fa, solo a quei pochi che vi si erano già affacciati, per necessità o superando la pigrizia che ostacola ogni cambiamento. Così è accaduto che fosse il Covid-19 e i DPCM che ne sono derivati ad accompagnarci forzatamente verso questa modalità di lavoro da remoto. Un tema su cui la discussione in atto è accesa e affronta il dubbio se lo smart working sia un bene o un male, se le comodità che esso introduce compensino le criticità che inevitabilmente porta con se, prima tra tutte l’ulteriore taglio alle occasioni di rapporto interpersonale non filtrato da schermi e tastiere. Benché rilevante non è su questo che qui si vuole porre l’attenzione. Più interessante è invece osservare come un’organizzazione del lavoro, nata come risposta ad una emergenza, sembri via via rappresentare un assetto che
per molti perdurerà anche alla fine della crisi sanitaria, pur con quei correttivi tali da ridurre le conseguenze dell’isolamento. Ciò che è certo, se così sarà, è che anche le necessità di spostamento cambieranno, come già accaduto negli ultimi mesi. Molti di coloro che prima sedevano in auto per incolonnarsi lungo gli assi principali o le circonvallazioni cittadine, potrebbero continuare a raggiungere la propria postazione di lavoro percorrendo solo quei pochi metri che la separano dal tinello o dalla camera da letto. Gli effetti appaiono piuttosto evidenti sia nella loro negatività, rispetto all’indotto che basava la propria economia sulla concentrazione di persone nei luoghi di lavoro, sia nelle positività, riscontrabili nella riduzione della congestione stradale cittadina, dei rischi e delle conseguenze che essa porta con sè. Uno degli ulteriori aspetti su cui esistono oggi, a seguito delle azioni di contrasto alla pandemia, maggiori elementi di valutazioni investe il tema ambientale delle emissioni inquinanti da traffico. Se da un lato l’immaginario collettivo disegna un quadro per cui la riduzione delle auto comporta sempre un calo delle concentrazioni di inquinanti in atmosfera, le analisi condotte nel periodo di lockdown della primavera scorsa hanno permesso di costruire un base prima non disponibile, in quanto limitata alla sola osservazione di soluzioni attuate in periodi ristretti di tempo, come targhe alterne o similari. Lavori quali quello pubblicato da ARPAV[1], focalizzato in prevalenza su due fattori inquinanti, NO2 e PM10, potendo osservare dati acquisiti in periodi con vario grado di restrizione, in cui gli apporti (emissioni residenziali, industriali, traffico, …) assumevano pesi diversi, hanno fornito una quadro con aspetti sia di conferma che, in alcuni casi,