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Il personaggio: Francesco Moser
Il personaggio
di Emanuele Paccher
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FRANCESCO MOSER
Nostra intervista esclusiva
“Un uomo, una bicicletta”. È così che si intitola il libro dedicato a Francesco Moser. Ma forse si sarebbe potuto intitolare “Un uomo, una leggenda”, perché è difficile trovare un altro nome per il ciclista italiano più vincente di sempre. Il suo libro è stato presentato in numerose località del Trentino (e non solo). In occasione di una di queste serate, abbiamo scambiato qualche parola con Francesco sulla Valsugana e sui suoi ricordi da ciclista.
Hai mai corso qui in Valsugana?
Moser: “Tantissime volte. Sono arrivato anche a Sella Valsugana una volta con il Giro, nel 1974. Ma in questa valle si correva anche per il trofeo Baracchi e per tantissime altre tappe del Giro. Ricordo poi con piacere il trofeo Degasperi, a cui partecipai due volte: la prima con arrivo a Trento, e la seconda con arrivo a Bassano”.
Anni fa dopo una gara dicesti: “L’importante è vincere, il resto non conta niente”. Lo pensi ancora?
Moser: “Se uno fa il mestiere del corridore deve cercare di vincere. Tutti si allenano, fanno le gare e tengono una dieta specifica al fine di trovare la condizione per vincere. È questa la condanna degli sportivi. Chi fa sport lo fa per arrivare primo. C’è chi dice che l’importante è partecipare, ma io dico che è meglio vincere. È molto più facile perdere che vincere comunque: molte volte prepari una corsa e sei convinto di vincere, e poi puoi perderla per un miliardo di ragioni. La corsa in bicicletta è una cosa molto complessa: in altre discipline contano solo la forza e i tempi, mentre qui tra 200 corridori tutti sono avversari, anche i compagni di squadra a volte. Non basta avere solo la velocità, conta molto la tattica: stare a ruota, studiare gli avversari, tenersi le energie e scattare nei momenti decisivi”.
Come ti è nata la passione per la bici?
Moser: “Non è che sia venuta una passione improvvisa di correre. Verso i 18 anni Aldo, mio fratello, tornò a casa dopo il Giro d’Italia e mi disse “Devi provare a correre anche te”. Ma io non avevo mai pensato di correre. Comunque ad un certo punto, nel 1969, presi una bicicletta e cominciai. Da lì non ho più smesso per tanti anni”.
Come è cambiato il ciclista moderno rispetto ai tuoi tempi?
Moser: “Credo che oggi ci sia più specializzazione. Corridori che riescono a vincere in più specialità, ossia su strada, su pista, nelle corse a tappa, in volata, ce ne sono sempre meno. Poi ovviamente di campioni ce ne sono anche oggi, Pogacar e Evenepoel sono degli autentici fenomeni per esempio”.
Ti hanno mai rubato la bicicletta?
Moser: “Sì, capitò nel primo anno da corridore, neo 18enne, mentre ero impegnato a prendere la patente. Per andare a lezione a Trento andavo in bici, e questa di solito la lasciavo fuori dalla scuola guida. Una sera, finita la lezione, tornai fuori e non la trovai più. Io all’inizio pensavo ad uno scherzo, chiesi agli amici dove me l’avessero nascosta. Ma in realtà me l’avevano proprio rubata… Il problema è che quel giorno era un sabato, la domenica avrei dovuto correre e io non avevo una bici di scorta. Per fortuna un conoscente mi avvisò che a Lavis era stato avvistato un ragazzo con una bici che sembrava fosse la mia… corsi là e la ritrovai presto. Fu facile riprenderla: quel ragazzo era un mio vecchio compagno di scuola delle medie, il quale mi disse: “Ma accidenti, avessi saputo che era tua non l’avrei mai presa!”. Il suo soprannome era “Barabba”, ti lascio immaginare il perché”.
Potrà esserci un altro corridore della dinastia Moser?
Moser: “Per adesso direi di no. C’è il figlio di Francesca (figlia di Francesco, ndr) che ha cominciato quest’anno con i giovanissimi, ma è troppo presto. È lunga prima di arrivare in fondo. Io ho cominciato a 18 anni, e da una parte penso che sia stato un bene. Correre, quando hai il numero sulla schiena, meno lo fai meglio è. Io ho fatto in fretta la carriera. Nel 1968 ero andato a vedere l’arrivo del Giro alle tre cime di Lavaredo con Merckx che gareggiava, e nel 1973 mi sono trovato a corrergli contro”.