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I campioni in vetrina: Marco van Basten
I Campioni in vetrina
di Alessandro Caldera
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MARCO VAN BASTEN:
il Cigno di Utrecht dalle caviglie fragili
Rapida. Intensa. Indimenticabile. Questi sono i termini che potremmo utilizzare per descrivere la carriera di un calciatore. Alcune ci hanno permesso di incontrare individui prodigiosi come Messi, altre ci hanno consentito di raccontare le “gesta” di uomini di grande rettitudine come Zanetti o Maldini e svariate, purtroppo, non hanno fatto che parlarci di talenti che hanno deciso di rovinare tutto con deplorevoli azioni extra-calcistiche come Adriano, “l’imperatore” dell’Inter, oppure George Best. Il protagonista della nostra storia può essere descritto come l’antitesi del generale teorizzato da Napoleone: è infatti dannatamente bravo ma, purtroppo, durante la sua carriera vedrà la “Dea bendata” voltargli più volte le spalle, aspetto che lo porterà a ritirarsi precocemente all’età di 30 anni. A Milanello però non potrà mai essere dimenticato per la moltitudine di trofei ottenuti e per le valanghe di gol segnati. Stiamo parlando del “cigno di Utrecht”, o per tutti più semplicemente Marco Van Basten. La storia di Marco si lega, prima dell’approdo nel Belapaese, alla squadra più titolata d’Olanda: l’Ajax. Ufficialmente la prima partita da professionista con i “Lancieri” viene giocata il 3 aprile 1982, annata indimenticabile per il nostro calcio, quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Quel match può essere descritto come la perfetta interpretazione del concetto di “ricambio generazionale”, in questo caso per il movimento calcistico olandese, dal momento che all’ingresso di Marco in cam-
Marco van Basten (da Wikipedia)
I Campioni in vetrina
po, corrisponde l’uscita del giocatore più noto della storia degli “Oranje”: Johan Cruijff. Quest’ultimo, cruciale successivamente come allenatore per la crescita di van Basten, si trovava oramai agli sgoccioli della propria carriera, alla seconda esperienza con l’Ajax, dopo il magico periodo tra la metà degli anni ‘60 e i primi anni ‘70, al quale seguì poi il clamoroso passaggio al Barcellona. Tra i due si instaurò un rapporto speciale culminato con la conquista della “Coppa delle Coppe” del 1987, traguardo raggiunto proprio grazie ad una marcatura di van Basten nella finale contro la Lokomotiv Lipsia. Dopo quel successo Cruijff si rassegnò all’idea di perdere il suo gioiello e, anzi, fu proprio lui a consigliare all’attaccante di lasciare l’Ajax, per consacrarsi definitivamente, conscio della superiorità degli altri campionati. Nella partita di addio, giocata ovviamente al De Meer e terminata 5-2 per i Lancieri, nonostante le sostituzioni esaurite Johan, decise di far uscire dal terreno di gioco Marco, in modo tale che la sua gente potesse tributargli l’ultimo doveroso applauso. Arriviamo quindi al luglio del 1987 quando il bomber di Utrecht passò al Milan; l’esperienza milanese iniziò però nel peggiore dei modi, visto che la caviglia, da sempre punto debole di van Basten, fece crack. Rientrò sul finire della stagione, in tempo per segnare qualche gol, tra cui quello fondamentale contro il Napoli, e per vedere i rossoneri campioni d’Italia. Al termine della stagione non ci fu però tempo per riposarsi perché ebbe inizio l’Europeo, disputatosi in Germania, nel quale l’Olanda di Michels esordì in realtà in malo modo. Servirono infatti prestazioni sublimi di Marco, contro Inghilterra e Germania Ovest, per far sì che gli Oranje raggiungessero la finale. Il match conclusivo del torneo si disputò contro l’Unione Sovietica, formazione ricca di talenti ma dalle prestazioni altalenanti, che si dimostrò un osso duro nel corso della manifestazione, eliminandoci nostro malgrado in semifinale. Quel giorno non è però ricordato solamente per il 2-0 in favore degli olandesi, che riscattarono in parte la cocente sconfitta del mondiale ’74, ma per la splendida volè che Marco realizzò al sessantesimo minuto trafiggendo Dasaev, ritenuto ai tempi uno dei migliori portieri al mondo. Van Basten al termine del 1988 verrà insignito del Pallone d’oro, riconoscimento che ottenne anche l’anno successivo e nel 1993. Per quanto concerne invece le prestazioni con il Milan in realtà c’è poco da dire: quello che il mister, Arrigo Sacchi, riuscì a realizzare fu una vera e propria corazzata, capace di incantare ed annichilire l’intera Europa con titoli e record che si susseguirono con un ritmo frenetico. Purtroppo però, come detto in apertura, la fortuna non fu mai dalla parte di van Basten che più volte si sottopose ad interventi per rimediare a quelle maledette caviglie. A partire dal 3 giugno 1993 iniziò un reale calvario dal quale non uscì mai, al punto di annunciare il 17 agosto 1995 il definitivo ritiro, con profondo dolore per i tifosi rossoneri e per il calcio mondiale. Così descrisse quel giorno in un’intervista: “C’era tristezza ovunque. Quella del pubblico, e la mia. Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo, battevo le mani alla gente. E intanto pensavo che non c’ero già più, mi sembrava di essere ospite del mio funerale”.
Marco van Basten (55anni) (da il Giornale di Sicilia - Ph. Walter Bieri - Ringraziamenti EPA)
Ieri avvenne
di Emanuele Paccher
BATTAGLIONE 101:
un uomo comune può diventare uno spietato assassino?
Èl’alba del 13 luglio 1942. Cinquecento uomini vengono caricati su dei camion: si tratta del battaglione 101 formato da operai, artigiani, commercianti, padri di famiglia arruolati da poco nella polizia tedesca, più per dovere che per piacere. Sul camion ricevono delle casse di munizioni, molte di più del consueto, ma non viene detto loro cosa gli spetterà. Arrivati a Jozefow, piccolo paese della Polonia, scendono dalle vetture e si radunano a semicerchio attorno al loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp. Dalle dichiarazioni dei poliziotti emerge il ritratto di un maggiore pallido e nervoso, indisposto pure nel parlare. Ma gli ordini sono ordini. Comincia quindi il suo discorso, dichiarando che quanto detto era volere delle alte sfere e ricordando che gli ebrei erano in combutta con i partigiani, i quali boicottavano la Germania a favore degli americani. Finito il preambolo, Trapp dice che quel giorno i suoi uomini avevano il compito di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli altri, ossia donne, bambini, vecchi, malati, dovevano essere fucilati sul posto. Il maggiore finisce il suo discorso con una proposta davvero inusuale: se qualcuno fra i poliziotti non si fosse sentito all’altezza del compito, avrebbe potuto fare un passo avanti. Chissà cosa è passato per la testa agli uomini del battaglione in quel preciso istante. Come detto, non erano fanatici ed è probabile che aderissero passivamente al regime nazista, non condividendone tutti gli ideali. Ma fare un passo avanti significava schierarsi contro l’autorità e mostrarsi debole agli occhi dei compagni. Il risultato fu che solo dodici poliziotti fecero quel passo. Ci si potrebbe aspettare che le conseguenze furono atroci verso i “disertori”, ma in realtà non ci fu alcuna conseguenza. Questi uomini furono semplicemente adibiti a mansioni differenti. In quel tragico 13 luglio a Jozefow si verificò un massacro: 1800 ebrei furono rastrellati, poche centinaia finirono in qualche campo, gli altri vennero immediatamente ammazzati. Il modus operandi era il medesimo dei plotoni di esecuzione: ogni poliziotto prendeva un uomo, un suo simile, che il destino aveva fatto nascere ebreo, lo faceva stendere per terra e gli sparava un colpo sotto la nuca. Jozefow fu l’inizio di una tragedia che si protrasse per oltre un anno. In questo periodo il battaglione 101 uccise altre 38000 persone, collaborò alla deportazione a Treblinka e allo sterminio di oltre 45000 ebrei. Cosa può portare un uomo ad uccidere un suo simile? Uno degli aspetti più tragici di questa vicenda è che quei poliziotti erano uomini come noi. Il conformismo, il rispetto dell’autorità, la paura e chissà quali altri fattori fecero sì che si trasformarono in mostri. In poche parole: uomini comuni, tremendi assassini. Dobbiamo credere che la storia possa insegnarci qualcosa. Queste vicende non devono più ripetersi. Occorre quindi prestare attenzione al presente, specialmente in un momento storico in cui la guerra è a pochi passi, e dove un ragazzino di 15 anni esulta per la vittoria di una gara di kart con un saluto romano, ignorando ciò che è stato il fascismo. Se non condannassimo anche i piccoli gesti rischieremmo di tollerarli, facendoli diventare normali. Non si può correre questo rischio: ricordiamoci che certi orrori potrebbero succedere di nuovo. L’unico antidoto al ritorno della malattia autoritaria è il ricordo. Parafrasando Dostoevskij: è la cultura che salverà il mondo. O almeno si spera.